TRENTINI FAMOSI, MA NON TROPPO – 47

DON DANTE CLAUSER

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“Coltivavo nel cuore un desiderio: essere amico di coloro che non hanno amici.”

Lavarone, 7 dicembre 1923 – Trento, 11 febbraio 2013

a cura di Cornelio Galas

Figlio di un geometra dipendente pubblico e di una maestra elementare, fu ordinato sacerdote nel 1947; dopo una breve esperienza come cappellano a Calavino, nel 1948 fu mandato a Levico a dirigere la Piccola Opera Divina Misericordia, orfanotrofio e centro di accoglienza per ragazzi in difficoltà.

Fu poi inviato a Bolzano, dove fondò la Casa del Fanciullo, ai margini dell’ex campo di concentramento di Via Resia. Nominato curato a Vignola-Falesina poi parroco a Vezzano dal 1957, fu assistente nazionale dell’ASCI (Associazione Scouts Cattolici Italiani).

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Nel 1964 divenne parroco della centrale Parrocchia di S. Pietro a Trento; fu tra i protagonisti dello sviluppo neo-conciliare a Trento, nel periodo del Sessantotto; operò per la revisione della devozione a “san” Simonino.

Dopo un’esperienza come “prete di strada” a Torino, nel 1977 fondò il Punto d’incontro, casa di accoglienza con laboratorio nel centro di Trento per italiani e stranieri senza fissa dimora; per la sua opera a fianco dei poveri e degli emarginati era chiamato “il prete degli ultimi”.

Don Dante Clauser festeggiato dal vescovo Bressan al Punto d'Incontro

Don Dante Clauser festeggiato dal vescovo Bressan al Punto d’Incontro

Nel 1982 fu tra i fondatori (con Luigi Ciotti, Vinicio Albanesi, Angelo Cupini, Andrea Gallo, Emmanuel Marie, Franco Munterubbianesi, Mario Vatta) del CNCA – Coordinamento Nazionale delle Comunità d’Accoglienza.

Amava raccontare di essere nato in una camera d’albergo, lo scrisse anche della sua biografia “La mia strada” (edizioni il Margine), a significare che era abituato a spostarsi, a vagabondare, ad andare dove lo portava il cuore. Non in senso melodrammaticamente letterario, ma in senso spirituale.

Don Dante Clauser con don Luigi Ciotti

Don Dante Clauser con don Luigi Ciotti

Don Dante Clauser era nato il 7 dicembre 1923 a Lavarone in una camera di albergo dove la sua famiglia abitava. Il padre Luigi era dipendente provinciale colà comandato a sorvegliare i lavori di costruzione dell’acquedotto.

Diventato sacerdote nel 1947, dopo una breve parentesi come cappellano a Calavino, già nel 1948 fu mandato a Levico a dirigere la neonata Piccola Opera Divina Misericordia. Allora vi si ospitavano non solo bambini senza genitori, ma anche ragazzi più grandi, taluno magari con qualche guaio con la giustizia.

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Fu quell’esperienza una sorta di battesimo per il giovane prete che poté così conoscere concretamente i problemi degli “ultimi”. Due anni dopo era a Bolzano e per casa aveva una cella dell’ex campo di concentramento di via Resia dove erano ancora leggibili sui muri i segni delle atrocità naziste. Non era solo perché come vicini aveva famiglie senza casa che in quelle celle trovavano un riparo.

Ai limiti di quel campo creò la “Casa del Fanciullo” per ragazzini in difficoltà. Successivamente divenne parroco a Vignola, a Vezzano, spostandosi poi verso una parentesi romana come assistente nazionale degli scout. Fu quando tornò a Trento nel marzo 1964 che diede il segno della sua forza.

Diventato parroco della Parrocchia di San Pietro la resse fino al 1977 in anni di povertà nelle aree del centro storico, di revisione della devozione verso il “santo” Simonino, di fervore postconciliare, di movimentismo del 1968 e di grandi manifestazioni sindacali.

Il clima ecclesiale di quegli anni nella parrocchia di don Dante è stato certo irripetibile soprattutto per il ruolo che egli consentì che i laici avessero. Non per nulla proprio a San Pietro nacque nel 1969 il primo Comitato di quartiere della città. Insomma, seppe muovere coscienze, ma anche far sorgere contestazioni.

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Basti ricordare che don Dante consegnava settimanalmente all’arcivescovo Gottardi il testo della sua predica domenicale perché poi il presule potesse confrontarlo con le proteste che gli pervenivano. Era anche la stagione delle manifestazioni più dure soprattutto dopo i fatti del 30 luglio 1970 all’Ignis.

Don Dante nella sua autobiografia racconta che “più volte, assieme a padre Angelico Kessler, fuggimmo per i vicoli per evitare le manganellate dei poliziotti che pestavano senza guardar in faccia nessuno”.

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Dopo tanti anni di impegno, nel maggio 1977 arrivò il momento della scelta dell’addio alla parrocchia, accompagnato da tante dicerie, tra cui quella del “siluramento” voluto dall’arcivescovo.

Fu il professor Paolo Prodi, rettore dell’Università e fedele partecipante alla messa domenicale a San Pietro, a cercare di fare chiarezza. Scrisse sui giornali che la scelta di don Dante non andava immiserita in polemiche, ma andava interpretata come “un passo avanti di un sacerdote e della comunità in cui è inserito”.

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Il suo passo avanti fu lungo perché dalla “pastorale del dialogo” passò alla “pastorale della condivisione”. Il 19 febbraio 1979 fondò con otto amici la cooperativa “Punto di incontro”, il luogo dove negli ultimi decenni don Dante Clauser ha nuovamente testimoniato la sua vicinanza agli ultimi.

Alla neonata cooperativa il Comune concesse in comodato gratuito la casa di Via Travai 1: era in condizioni precarie, ma venne ristrutturata e in quei locali, con vecchi mobili regalati e senza finanziamenti, fu aperta una comunità formata da barboni senza dimora, e più tardi da minorenni affidati dal Tribunale.

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Nel 1983 tale comunità fu sciolta perché le forze a disposizione non erano in grado di reggerla. Si modificò il tipo di accoglienza proprio in un momento in cui la “vita sulla strada” cambiava. Sono infatti di quegli anni i primi arrivi degli immigrati che non sapevano dove rivolgersi per avere un pasto.

Il “Punto di incontro” seppe, talvolta con fatica, reggere la pressione non più dei barboni di Trento, ma della crescente quantità di persone immigrate e quasi sempre sbandate.

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Don Dante fu il garante della crescita di questa oasi di solidarietà e, negli ultimi anni, quando il percorso del vivere gli era sempre più in salita, ne è rimasto sempre il “patriarca”. La città gli è stata quasi sempre vicina, soprattutto negli anni dell’esperienza di “Punto di incontro” e fu così che nel 1990 venne nominato “Trentino dell’anno” attraverso l’iniziativa della rivista “Uomo, città, territorio”. Quella fu l’occasione del pieno riconoscimento della pienezza della sua vita di sacerdote.

Pagine brevi, intense, fulminanti quelle della sua autobiografia. Da cui sprigiona una felicità esistenziale che diventa anche felicità narrativa. Lontano dalla fama e dai pulpiti clamorosi, parroco in “un paesino di circa 200 abitanti sparsi sulla montagna”, don Dante si presenta così ai suoi fedeli nella prima predica: “Sono il vostro prete. Vi voglio bene. La mia canonica è la vostra casa. La chiave la getto via. Entrate senza bussare e se c’è qualcosa che vi serve prendetevela senza domandare”.

Eccolo girare di maso in maso, in questo povero e umanissimo angolo di Trentino. “Quando tornavo a casa trovavo sul tavolo la polenta, i crauti, il pranzo, senza sapere chi l’aveva preparato. Quando cadde la prima neve il capofrazione andò a Pergine e mi comprò un bel paio di scarponi”.

Don Dante Clauser parroco a Vignola: “Il mio papà mi regalò una motocicletta, con la quale andavo a Pergine a fare le commissioni per i parrocchiani. Commissioni di ogni genere, comprese le bottigliette di orina che portavo al medico condotto per le analisi”. E “quando ritornavo in bicicletta da Pergine i parrocchiani mi sentivano perché cantavo a squarciagola”.

Questo don Dante in moto che torna cantando in paese è forse l’immagine più bella di tutto il libro. Ma anche il don Dante appassionato di caccia, che cede a un certo punto il fucile a don Vittorio Cristelli, altro grande artefice della Chiesa post-conciliare, è altrettanto viva e vera e poco adatta a rientrare nella parte.

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Ecco il don Dante suonare la campana di Vignola per avvisare che stanno arrivando i finanzieri e che bisogna nascondere in chiesa la grappa distillata di contrabbando.

Ma la campana avvisa anche i lavoratori della miniera che lui, con le sue proteste, era riuscito ad ottenere dal padrone le paghe che i minatori non vedevano da mesi: “… mi gettò sul tavolo i soldi e la nota delle spettanze ai singoli minatori. Era furibondo. Mi gridò: prenda, distribuisca e faccia firmare, tribuno della plebe! Suonai le campane e feci quanto dovevo, felice ma con l’amaro nel cuore pensando che quei soldi erano fatica, sudore e morte”.

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Qualche anno dopo verrà la stagione di S.Pietro, a Trento, della rivoluzione del Concilio, di quella del ’68 e di Sociologia. Metà del libro è dedicata a questa stagione che ha segnato come un cataclisma il piccolo Trentino contadino.

Don Dante cambia, insieme al mondo che gli sta intorno, ma resta anche sempre lo stesso. Vive la nuova stagione come aveva vissuto la precedente, con la stessa pienezza, senza rinnegare, senza rimpiangere, felice di vivere fino in fondo (anche drammaticamente, perché i dolori non gli sono mancati) il tempo che gli era dato, con tutte le sue promesse, senza schivare mai le scelte che imponeva.

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Guardando avanti, senza bisogno di considerare il passato una fase preparatoria del presente o di un qualche futuro. E così, con la stessa pienezza, vive la fase successiva, quella della scelta degli ultimi, dei barboni.

Il Dio di Dante Clauser non è un Godot sempre atteso. C’è, è qui, è la vita, è dentro la vita. Il prete don Dante Clauser si rivela proprio in questo un cristiano che crede davvero nel mistero dell’Incarnazione, del Dio che è entrato pienamente, oggi come duemila anni fa, nella storia degli uomini. A Vignola, come in S. Pietro, come al Punto d’Incontro.

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Proprio la sua autobiografia è il suo più grande atto di fede. Quell’atto di fede che i clericalismi o le religioni civili che stanno tornando in auge, coi loro apparati, i loro appelli elettorali, i funerali di Stato, gli articoli di legge, le cosiddette difese dei valori non riescono a pronunciare senza arrossire e senza farci intendere che proprio non ci credono.

Ha scritto di lui Corona Perer: “Rimpiangeva la vita da barbone e ultimamente temeva di essersi imborghesito. “Nella baracca che ho portato avanti per trent’anni (il Punto di Incontro di Trento n.d.r.) ho tutto, persino uno stipendio e un letto grande così se cado non mi faccio male”.

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Aspettava la morte. “Non vedo l’ora” diceva e la descriveva pure. “Un mattino mi troveranno secco. Sento i paroloni al funerale e vedo il vescovo che è stato un mio chierichetto: da morti siamo tutti buoni e io sono invece un peccatore. Ma, vedete, nessuno è totalmente giusto o totalmente canaglia”.

Quando parlava ai giovani li ammutoliva perché un prete che diventa barbone e scende clandestinamente nel loro mondo non è comune. Un prete che dichiarava di essere stato battuto in bontà da una prostituta, che diceva di esser vecchio ma come un ragazzo si divertiva a disubbidire ancora.

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Era uomo decisamente controcorrente. I ragazzi ne percepivano la forza, gli utenti del suo centro l’autorevolezza. Con oltre 60 anni di sacerdozio, si poneva una sola meta. “Voglio solo andare nella mia patria futura”.

Da tempo assistito da un bastone, su gambe malferme che da quasi 90 anni erano in cammino con lui, si scusava se doveva stare seduto. “Le zampe di dietro funzionano peggio di quelle davanti” diceva, spiegando  che l’umorismo è il sale della vita. “Ci sono troppi preti in giro che non sanno ridere” .

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Un lampo birichino passava nel suo sguardo, tanto severo e saggio quanto scanzonato. “Il mio psicologo, che è anche un prete e persino psichiatra, il che fa comodo, dice che sono malinconico e romantico. Ha ragione: tutti i clown lo sono. Ma io non smetto di sognare. Il mio motto è mai violenza, no alla guerra, no alla prepotenza”.

Forse anche per questo Don Dante ha trovato il coraggio di disubbidire quando serviva. Non disse a nessuno che sarebbe partito per la stazione di Torino per farsi barbone, scendere nel loro mondo, capirli, aiutarli. Raccontava i segreti imparati subito: nascondere i soldi tra le mutande (“… se li avessero cercati me ne sarei accorto”) e farsi il cuscino con le scarpe (“… qualcuno poteva rubarle“).

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Andava fiero di aver sempre deciso da solo. “Chiedevo, aspettavo la risposta e se non era quella giusta facevo di testa mia”. Come un coraggioso e paziente guerriero, fedele al Capo, ha saputo stare nella chiesa e andarsene fuori “solo” per incontrare l’uomo che soffre.

Ma a Don Dante premeva una cosa più di tutte: il suo no alla guerra e alla violenza che coniugava con l’altro 50% del suo motto. “Dialogo con tutti, amare ed essere amati. Questo è il vero messaggio cristiano” diceva il prete di strada orgoglioso di aver disubbidito ai suoi vescovi salvo entrare dappertutto (persino in Vaticano) travestito da vescovo utilizzando uno zucchetto rosso che gli era costato 1500 lire al mercato.

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“Magari tutti i preti disubbidissero ogni tanto” diceva con quella punta di provocazione che viene da una saggezza temprata dalla vita vera. E intensamente vissuta”.

Così don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, ricorda don Dante Clauser:

“Parroco nella Parrocchia di San Pietro a Trento aveva assistito alla contestazione giovanile che proprio alla facoltà di sociologia dell’Università di quella città aveva visto i primi movimenti. Toccato dalla povertà delle persone della sua città, aveva abbandonato la Parrocchia per occuparsi di persone senza alcun sostegno: immigrati, senza dimora, prostitute, malati psichiatrici.

A metà degli anni ’70 crea una mensa, con sostegno di servizi di cibo, abiti, pulizie e un futuro di occupazione e di inserimento. Si appassiona delle storie delle persone: vuole offrire un aiuto prima e un riscatto dopo. Vive all’inizio della generosità della gente. Con la costituzione dell’Associazione ‘Punto di incontro’ collaborerà con le istituzioni perché la città abbia almeno un primo appoggio.

Per quarant’anni continuerà a vivere a contatto con quanti si rivolgeranno alla sua casa. Senza rimpianti, rimanendo, come era, prete all’antica, ma a fianco della povera gente. Ricordiamo i suoi interventi secchi ed espliciti: senza ammodernamento delle parole e senza elaborazioni sociali e professionali”.

Continua don Albanesi nel suo ricordo: “Parteciperà con interesse e costantemente a tutte le vicende che a partire dagli anni ottanta farà sorgere il Coordinamento delle comunità di accoglienza. Severo, ma anche tenero. Imponente nella persona, ma anche vivace e di acuta intelligenza. Non era facile stare accanto a lui: chiedeva l’essenziale. Alle persone e alle istituzioni. E’ stato per molti anni riferimento per la città e per le autorità”.

Inverno: Trento; da dicembre un tetto al Punto d'incontro. Contributo di 15.000 euro da Cooperfidi per adeguare struttura di via Santa Croce. ANSA/FEDERAZIONE TRENTINA DELLA COOPERAZIONE ++NO SALES, EDITORIAL USE ONLY++

Punto d’incontro a Trento

E conclude: “I giornali locali oggi, in prima pagina, riportano le foto del Papa dimissionario e di don Dante scomparso. Non aveva timori, perché era convinto, nel profondo della sua anima, di seguire la via giusta, a difesa della dignità della povera gente.

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Si arrabbiava se qualcuno usava parole di disprezzo per chi stava in povertà e in solitudine. Un ricordo tenero e molto confortevole. Quando si parla di istituzioni ecclesiastiche forse è bene ricordare anche figure che hanno dedicato tutte le energie per il bene delle persone: nel nome di Dio a cui credono”.

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