I “SEGRETI” DEL FASCISMO – 30

a cura di Cornelio Galas

  • documenti raccolti da Enzo Antonio Cicchino

25 luglio 1943

Gli ordini del giorno

trascrizione dai testi originali

ORDINE DEL GIORNO GRANDI

Dino Grandi

Il Gran Consiglio, riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzitutto il suo pensiero agli eroici combattenti di ogni armata che, a fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia, di cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnova le nobili tradizioni di strenuo valore e di indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze Armate.

Esaminata la situazione interna ed internazionale, e la condotta politica e militare della guerra,

Proclama il dovere per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano;

Afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Patria;

Dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali;

Invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la nazione, affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere, con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo cinque dello statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono e che sono sempre state, in tutta la nostra storia nazionale, il retaggio della nostra augusta dinastia Savoia.

ORDINE DEL GIORNO FARINACCI

Roberto Farinacci

Il Gran Consiglio del fascismo, udita la situazione interna ed internazionale e la condotta politico-militare della guerra sui fronti dell’Asse, rivolge il suo fiero e riconoscente saluto alle eroiche Forze Armate italiane e a quelle alleate, unite nello sforzo e nel sacrificio per la difesa della civiltà europea, alle genti della Sicilia invasa, oggi più che mai vicina al cuore delle altre genti, alle masse lavoratrici dell’industria e dell’agricoltura che potenziano col lavoro la Patria in armi, alle camice nere ed ai fascisti di tutta Italia che si serrano nei ranghi con immutata fedeltà al regime;

afferma il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere fino all’estremo il sacro suolo della Patria, rimanendo fermi nell’osservanza delle alleanze concluse;

dichiara che a tale scopo è necessario e urgente il ripristino integrale di tutte le funzioni statali, attribuendo al re, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, al Partito, alle corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dal nostro statuto e dalla nostra legislazione;

invita il capo del Governo a chiedere alla Maestà del re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la nazione, perché voglia assumere l’effettivo comando di tutte le Forze Armate e dimostrare così al mondo intero che tutto il popolo combatte serrato ai suoi ordini, per la salvezza e la dignità dell’Italia.

ORDINE DEL GIORNO SCORZA

Carlo Scorza

Il Gran Consiglio del fascismo, convocato mentre il nemico, imbaldanzito dai successi e reso tracotante dalle sue ricchezze, calpesta la terra di Sicilia e dal cielo e dal mare minaccia la penisola,

afferma solennemente la vitale e incontrovertibile necessità della resistenza ad ogni costo.
Certo che tutti gli istituti ed i cittadini, nella piena e consapevole responsabilità dell’ora, sapranno compiere il loro dovere sino all’estremo sacrificio, chiama a raccolta tutte le forze spirituali e materiali della nazione per la difesa dell’unità, dell’indipendenza e della libertà della Patria.

Il Gran Consiglio del fascismo, in piedi:

saluta le città straziate dalla furia nemica e le loro popolazioni che in Roma, madre del cattolicesimo, culla e depositaria delle più alte civiltà, trovano l’espressione più nobile della loro fermezza e della loro disciplina.

rivolge il pensiero con fiera commozione alla memoria dei caduti e alle loro famiglie che trasformano il dolore in volontà di resistenza e di combattimento;
saluta nella Maestà del Re e nella dinastia sabauda il simbolo e la forza della continuità della nazione e l’espressione della virtù di tutte le Forze Armate, che, insieme con i valorosi soldati germanici, difendono la Patria in terra, in mare, in cielo;

si unisce reverente al cordoglio del Pontefice per la distruzione di tanti insigni monumenti dedicati da secoli al culto della religione e dell’arte.
Il Gran Consiglio del fascismo è convinto che la nuova situazione creata dagli eventi bellici debba essere affrontata con metodi e mezzi nuovi.

Proclama pertanto urgente la necessità di attuare quelle riforme ed innovazioni nel Governo, nel Comando supremo, nella vita interna del paese, le quali, nella piena funzionalità degli organi costituzionali del regime, possono rendere vittorioso lo sforzo unitario del popolo italiano.

ECCO COME ANDO’ A FINIRE …

***

Il memoriale Cavallero

relativo ai fatti del 25 luglio 1943

di Enzo Antonio Cicchino

Interrogato dal generale Carbone, mentre era nel carcere militare del Forte Boccea, il Maresciallo Ugo Cavallero stese di proprio pugno questo memoriale, col quale ha voluto dimostrare che anche lui aveva preparato un colpo di Stato contro Mussolini e che anche lui aveva pensato proprio a Badoglio come capo del Governo.

Siccome poi tutti sapevano della sua intima amicizia con Farinacci, fascista estremista, volle giustificarsi anche di questo, cercando di far vedere come anche il ras di Cremona fosse contrario al Duce.  Forse scrisse questo memoriale in siffatto modo allo scopo di farsi liberare dal carcere appunto da Badoglio.

Ugo Cavallero

Probabilmente nel farlo dovette essere piuttosto ingenuo.  Avrebbe dovuto sapere Badoglio non era suo amico tant’è che appena successe a Mussolini dopo la notte del 25 luglio 43 lo fece arrestare così in fretta che Cavallero non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi che il Governo era passato di mano e riteneva che il « fermo » fosse stato ordinato da Mussolini.

Badoglio non solo non lo tirò fuorì dal carcere, ma andandosene da Roma, DIMENTICÒ il memoriale, ben in vista sulla sua scrivania della Presidenza.

Questo forse il motivo del suicidio del Maresciallo Cavallero: il Maresciallo Kesselring ed il colonnello Dolmann, nei colloqui avuti con lui a Frascati subito dopo la sua liberazione dal forte Boccea, gli parlarono certamente del memoriale, ed egli preferì uccidersi piuttosto di partire per la Germania, dove non sapeva cosa avrebbe potuto attenderlo.

Cavallero e Kesserling

Qualcuno addirittura presume che data la particolare mentalità dei Tedeschi, fossero stati proprio loro a convincerlo della opportunità del suicidio.

 

Forte Boccea, 27 agosto 1943

Nel novembre u. s., allorché Mussolini fu gravemente ammalato, si dovette considerare l’ipotesi peggiore.  Me ne preoccupai e, quale Capo di S. M. Generale, impartii disposizioni per tale ipotesi al gen. Maghi, al Capo di S. M. dell’Esercito gen. Ambrosio, al Sottosegretario alla Guerra gen. Scuero.

Le riunioni a tale scopo furono due; dissi chiaramente che dovevamo essere pronti ad assicurare al Paese e prima di tutto a Roma una situazione ordinata, per consegnarla al Sovrano che avrebbe deciso a chi affidare governo e comando.

Mussolini e Cavallero

Previdi che la persona sarebbe stata il Maresciallo Badoglio ai cui ordini, dissi ai miei subordinati, ci saremmo messi tutti quanti. Un inaspettato intervento della Milizia nella faccenda guastò un poco le cose; però la situazione fu superata dal miglioramento del malato.

La questione non riapparve più nei mesi di dicembre e gennaio perché tutta l’attenzione era assorbita dalla guerra in Africa. A fine gennaio lasciai il comando; però il problema dell’allontanamento di Mussolini almeno dalla grave responsabilità della condotta della guerra ha continuato ad occuparmi.

Ugo Cavallero

Era mio avviso che, ove fosse caduta la Tunisia, quello sarebbe stato il momento propizio per Risolvere la crisi.  Ricordo di avere parlato di ciò con varie persone, anche con insistenza.  Ne parlai anche col tenente colonnello Roberto di Sanmarzano, ripetutamente: debbo aggiungere che, a questo ufficiale, fratello del mio compianto ufficiale addetto, e vecchio amico di casa, avevo detto in precedenza quanto pensavo, e già da novembre quanto stavo preparando.

Questi miei rapporti col tenente colonnello di Sanmarzano erano (determinati dal fatto che egli si trovava presso S.A.R. il Principe di Piemonte.

Talì rapporti continuarono fino alla sera del 25 luglio.  Del problema si parlò molto altresì col marchese Giovanni Visconti Venosta, vecchio amico del tempo di guerra e si concluse insieme che convenisse far giungere il nostro pensiero in alto loco. Visconti Venosta mi assicurò di avere provveduto per parte sua.

marchese Giovanni Visconti Venosta

Venne poi l’attacco alla Sicilia. La situazione diveniva sempre più pressante, il mio pensiero prese forma più concreta.  Si pensava con l’amico Visconti Venosta, e oggi riconosco che si aveva torto, che fosse utile far pervenire questo pensiero in alto; esso pensiero si concretava come segue:

S. M. il Re, che aveva delegato il comando a Mussolini, poteva revocare la delega. Con ciò e col dichiarare tutto il territorio in stato di guerra, si potevano passare alle autorità militari tutti i poteri; il resto sarebbe venuto da sé.

Vittorio Emanuele III con il maresciallo Badoglio

L’amico Visconti Venosta e io eravamo pienamente concordi nel ritenere che il governo non sarebbe dovuto essere affidato ad altri che al Maresciallo Badoglio.  Per far pervenire questo nostro pensiero in alto loco, Visconti Venosta mi chiese se avrei potuto parlarne al Grande Ammiraglio.

Questi ha sempre avuto per me benevolenza e perciò aderii. Ebbi col Grande Ammiraglio alcuni colloqui e lo trovai pienamente nel nostro ordine di idee. Avevo fatto studiare l’aspetto giuridico-costituzionale del problema dal consigliere di cassazione Giovanni Provera, mio compagno di adolescenza.

Il Grande Ammiraglio ebbe la grande cortesia di scrivere sotto mia dettatura, il sunto di quell’esame e capii che si sarebbe senz’altro occupato della cosa.  Tutto ciò avveniva verso Pentecoste (fine di maggio, principio di giugno del 1943).

Luigi Burgo

Frattanto io stavo svolgendo una misurata propaganda nel senso anzidetto.  Per limitare il numero delle persone che cito, ricorderò il senatore Luigi Burgo, mio buon amico, che avevo occasione di vedere nelle mie frequenti gite in Piemonte.

Il Burgo fu da me messo al corrente per almeno tre mesi della evoluzione del mio pensiero e in parte del lavoro che stavo svolgendo.  Egli si entusiasmò del programma e giunse a dirmi che avrebbe messo – ove necessario – a mia disposizione una somma di 100 milioni, ed anche superiore per finanziare un eventuale movimento; naturalmente, nel ringraziare della generosa offerta, risposi che di denaro non vi sarebbe stato bisogno.

Vittorio Ambrosio

Avevo saputo nel frattempo che fermenti andavano nascendo in seno all’Esercito; ne ebbi terrore, perchè ritenevo e ritengo che qualsiasi movimento fuori della legge costituzionale avrebbe condotto ad un disastro.  Non mancai di esprimere il mio pensiero e particolarmente col gen. Ambrosio che trovai perfettamente orientato in tale senso.

Un colloquio sull’argomento generale che qui si tratta ebbe luogo, con Ambrosio, credo verso fine maggio, essendomi recato da lui per conferire, a sua domanda, su una questione di servizio.

Gli apersi l’animo mio, dicendo quanto stavo facendo e gli feci prevedere, perché in ciò avevo fede, che il fatto auspicato sarebbe avvenuto. Egli mi disse che gli sarebbe occorso un preavviso di un giorno; gli feci prevedere che avrebbe avuto un preavviso di un’ora.

Sulle impazienze di cui avevo notizia trovai Ambrosio orientato, e belle deciso a impedirle.  Ambrosio venne a casa mia ai primi di luglio per visitare l’abitazione che dovevo cedergli.  In quell’occasione gli riparlai dell’argomento, dicendogli che il nuovo capo sarebbe stato certamente il Maresciallo Badoglio, e che per intanto io mi mettevo agli ordini di Ambrosio, per ogni evenienza, del che egli si mostrò grato.

Vi sono ancora due persone che giova ricordare quali testimoni continuati del mio travaglio spirituale e al corrente dei miei pensieri. Una vecchia signora, che considero come madre, novantaduenne ma di spirito agile e lucida di mente, donna Rosa Celoria Manzi, vedova del senatore Celoria già astronomo di Brera (Casale Monferrato, via Vittorio Emanuele 12), e un alto prelato, consigliere spirituale della mia famiglia e perciò anche mio; di quest’ultimo dirò il nome se necessario.

Roberto Farinacci

Accenno di sfuggita che i miei rapporti con Farinacci nascono da rapporti familiari di lui adolescente con zii di mia moglie, Zanibelli di Casalmaggiore.  Ciò premesso, preciserò che pochissimo ho veduto Farinacci prima della mia assunzione alla carica di Capo di S. M. Generale e dopo, salvo il periodo di Albania, durante il quale egli era colì distaccato.

Dopo la cessazione dalla carica, ci incontrammo un paio di volte prima del luglio. I nostri rapporti si erano alquanto raffreddati, ma mi interessò molto, all’atto della nomina di Scorza a Segretario del Partito, la dichiarazione che Scorza era nettamente contrario al Duce.  Pure interessandomi di seguire la cosa, mi astenni dallo stringere maggiori contatti.

Carlo Scorza

Fu solo dopo la tempestosa riunione dei gerarchi presso il Duce avvenuta il 15 luglio che Farinacci desiderò vedermi e mi mise al corrente della situazione.« Era ben chiaro, nel pensiero di Farinacci, che il Duce dovesse cessare dal comando e che questo fosse ripreso dal Sovrano.  Questo era per me il punto essenziale dal quale tutto poteva derivare.

Né potevo io, all’oscuro di quanto altrove si progettava, pensare ad una soluzione più radicale che fu per tutti inaspettata.  Nell’altro campo del Fascismo io non potevo penetrare perché la situazione era tenuta da persone a me ostili (Ciano).

Quando, la sera del 25, potei avere da me il tenente colonnello di Sanmarzano, lo misi al corrente della situazione ed egli prese alcuni appunti, lasciando poi la mia casa cinque minuti prima del mio fermo.  Ritenni che questo mio fermo fosse stato ordinato da Mussolni: solo più tardi appresi la verità.

Galeazzo Ciano

I miei rapporti con Farinacci in quel periodo si sono limitati a constatare e rafforzare in lui il concetto del passaggio del potere militare al Sovrano.

Dopo la mia cessazione dalla carica i miei rapporti sia diretti che indiretti con le autorità germaniche furono nettamente troncati.  Non ho più riveduto, fino ad oggi, né un comandante tedesco, né un loro dipendente.  Così pure, salvo una volta della quale dirò, non ebbi più rapporti né con l’ambasciatore, né con l’ambasciata, se si eccettui un invito del maggio a una serata musicale, tutta di civili, e ad una successiva visita di ringraziamento.

Il solo incontro dì cui sopra è avvenuto presso Farinacci, per desiderio di questo, ed io vi ho, dichiaratamente, soltanto assistito (un paio di giorni avanti il Gran Consiglio).  Contenuto del colloquio: Farinacci ha fatto un violento -attacco contro il Duce; Mackensen si è schernito, Farinacci ha rincarato la dose e Mackensen ha pregato di smettere; poi, però, ha detto che le stesse critiche egli le aveva presentate per suo conto al Fuhrer e che questi ne aveva fatto oggetto di rimarco al Duce a Feltre.

Hans Georg von Mackensen

Poi Farinacci ha chiesto se si potevano attendere rinforzi, specie aerei, dalla Germania, secondo le richieste, a noi note, fatte da Ambrosio a Feltre.  Mackensen fu vago nel rispondere accennando a condizioni, o meglio premesse, che il Fuhrer aveva chiesto fossero realizzate avanti invii di truppe o forze aeree; non precisò queste premesse.

Fu accennato, mi sembra da Mackensen, alla questione di un comando unico, con una velata tendenza a farvi prevalere l’elemento germanico, al che io dissi chiaramente che ciò non poteva assolutamente andare; e che, secondo me, si poteva pensare ad aggregare al comando italiano un comando tedesco in sottordine.  Mackensen mi disse che avrebbe riferito il contenuto del colloquio a Bastianini.

Giuseppe Bastianini

Questo è il solo contatto, come si vede del tutto anodino, avuto con le autorità germaniche dal gennaio ad oggi ».

***

https://www.youtube.com/watch?v=tBDLOWcfMtw

L’arresto di Mussolini

nella relazione

«Arresto – Detenzione – Liberazione di Mussolini»,

redatta dal generale dei Carabinieri

Filippo Caruso

dopo la liberazione di Roma

Filippo Caruso

 

di Enzo Antonio Cicchino

Giovanni Frignani, Raffaele Aversa e Paolo Vigneri: ecco, per la storia, i nomi dei tre ufficiali dell’Arma che affrontarono la tremenda responsabilità di arrestare l’uomo al cui illimitato potere aveva dovuto soggiacere per oltre vent’anni il popolo italiano. E con i tre suddetti ufficiali era la schiera dei loro dipendenti: sottufficiali e carabinieri che, fedeli pedine del rischiosissimo gioco, diedero tutta la loro modesta ma efficace cooperazione.

I capitani Aversa e Vigneri, rispettivamente comandanti delle compagnie della Capitale: la Tribunale l’Aversa e l’Interna il Vigneri, vengono telefonicamente convocati, verso le ore 14 del 25 luglio, nell’ufficio del tenente colonnello Frignani, comandante del gruppo da cui dipendevano.

Raffaele Aversa

Malgrado l’odore di crisi acuta che tutti fiutavano nell’aria dopo quanto era trapelato dalla drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo della notte innanzi, essi si affrettarono verso il luogo del convegno senza nulla presagire di quello che si voleva da loro. Già le chiamate del genere si facevano sempre piú frequenti in quel periodo cosí gravido ed inquietante sia per il rapido progredire dell’invasione del territorio nazionale da parte delle armate alleate sbarcate in Sicilia e sia per il bombardamento aereo di appena pochi giorni prima, del quartiere S. Lorenzo che tanto aveva terrorizzato la popolazione della Capitale.

Lo confermano i rapporti agli ufficiali ed al personale in genere, che erano diventati sempre piú frequenti, per non dire quasi quotidiani. Dal Comando Generale frattanto era stato diramato l’ordine di tenere consegnati, dalle ore 16 in poi, tutti i militari dell’Arma, in attesa d’una autorevolissima visita nelle rispettive caserme dell’Urbe.

Giovanni Frignani

Alla sede del Comando di Gruppo in viale Liegi, dove giunsero separatamente sia il tenente colonnello Frignani che i due capitani, si trovavano già il comandante generale dell’Arma Angelo Cerica ed il commissario di P.S. Carmelo Marzano – sottotenente di complemento dei Carabinieri – direttore dell’autodrappello del Ministero dell’Interno.

Il generale Cerica, calmo pur nel pallore del viso che tradiva la sua intima commozione, fissa negli occhi i suoi dipendenti e dice all’incirca:

«Vi affido un compito di estrema gravità per il quale so di non fare invano appello al vostro alto senso del dovere. Oggi, fra qualche ora anzi, voi dovete arrestare Mussolini che, messo questa notte in minoranza nella seduta del Gran Consiglio del fascismo, si recherà dal sovrano e sarà sostituito nelle sue funzioni di capo del governo…»

Carmelo Marzano

Nessuna consegna forse apparve piú ardua di questa ai bravi ufficiali che tuttavia senza batter ciglio rispondono, quasi ad una sola voce ed in tono fierissimi, con due parole: «Sta bene…»

Si appartano poi in un’altra stanza dell’ufficio del Gruppo ed il tenente colonnello Frignani espone, illustra e commenta nei piú minuti particolari ai due capitani, le modalità esecutive dell’ordine ricevuto.

Poco dopo giungono in viale Liegi il questore Morazzini, addetto alla Casa Reale, in autoambulanza con a bordo, oltre al conducente, tre agenti di P.S. in abito civile, armati di mitra ed un automezzo destinato al trasporto dei militari dell’Arma.

In attinenza alle precise istruzioni concretate, i capitani Aversa e Vigneri con i due automezzi si portano al Gruppo squadroni nella vicina caserma Pastrengo e fanno approntare un plotone di 50 carabinieri che asseritamente debbono rimanere agli ordini dell’Aversa per ricercare, affrontare e catturare nuclei di paracadutisti alleati lanciati nei dintorni di Roma.

Il pretesto, giacché di pretesto si tratta, al fine di evitare ogni possibile indiscrezione che avrebbe potuto nuocere alla massima segretezza delle missioni predisposte, è facilmente accreditato dalle circostanze del recente bombardamento aereo della capitale. Nessuno pensa minimamente a vicende diverse. Soltanto si chiedono maggiori particolari d’impiego e questi vengono dati con pronta disinvoltura lavorando una volta tanto d’impostazione e di fantasia.

Il capitano Vigneri, al quale il superiore ha commesso in termini drastici la consegna di «catturarlo vivo o morto» sceglie, personalmente, tra i militari del Gruppo squadroni tre sottufficiali di particolare prestanza fisica e di pronta intelligenza che dovranno prestargli man forte, in caso di necessità, prima di ricorrere «ultima ratio» alle armi; precisamente i vicebrigadieri: Bertuzzi Domenico; Gianfriglia Romeo e Zenon Sante.

Essi si dimostrarono subito animati da ferma volontà ed assai lusingati dal favore della scelta. I militari salgono sull’autocarro che viene chiuso accuratamente col tendone, mentre i due capitani, i tre vicebrigadieri e i tre agenti di P. S. prendono posto nell’autoambulanza che viene anch’essa chiusa ed ha gli sportelli coi vetri smerigliati.

I due automezzi, senza che nessuno, ad eccezione dei due capitani, conoscesse la destinazione, si dirigevano alla volta di Villa Savoia preceduti dalla vettura del questore Morazzini, che, data la minuta conoscenza dei luoghi, si era assunto il compito di far entrare il convoglio nell’interno della residenza reale. Dopo una brevissima sosta al cancello di via Salaria vengono ancora percorsi un centinaio di metri e gli automezzi si arrestano.

Il questore Morazzini, come d’intesa, picchia ai vetri dell’ambulanza per avvertire i due capitani che si è giunti nel luogo stabilito. Essi discendono ed altrettanto fanno i loro dipendenti che si raggruppano silenziosi, ma visibilmente commossi di trovarsi nel parco di una Villa.

Il questore Morazzini dà alcune sommarie indicazioni sulla topografia della località, che bastano ad orientare i due ufficiali in rapporto ai loro compiti. Il punto dove ora essi si trovano è nel lato settentrionale della villa reale, cioè nella parte opposta all’ingresso principale, dove fra breve dovrà entrare Mussolini.

È qui che si deve aspettare il momento di agire. Il questore stringe calorosamente la mano agli ufficiali con atteggiamento di favorevole auspicio e si allontana da quella parte che costituirà la scena del dramma imminente.

Lo spettacolo inusitato apparso cosí all’improvviso, non sfugge a chi sta nell’interno della villa. Qualche viso s’intravede dietro le finestre del primo piano, protette da fitte reticelle metalliche, ma per un solo attimo; poi l’ombra scompare. Un famiglio sbucato tra gli alberi del parco si arresta all’improvviso e sta quasi per tornare indietro, incerto e fors’anche un po’ smarrito.

Sotto il sole infuocato e nel silenzio inusato del meriggio gli ufficiali riuniscono il personale in un piccolo cerchio ed il capitano Vigneri rivela loro, a bassa voce, e finalmente, la grande consegna. S’impartiscono rapidamente le istruzioni di dettaglio. Poi torna il silenzio, rotto solo da un sordo acciottolio proveniente dalle non lontane cucine reali.

I carabinieri, che in un primo tempo nella caserma Pastrengo avevano accolto con qualche perplessità l’annuncio fittizio del rastrellamento dei paracadutisti lanciati dagli aerei nemici, ora intuiscono di essere i modesti protagonisti d’un grande evento, si rianimano commossi, bisbigliano tra loro qualche commento, ma si mostrano seriamente decisi, pronti e risoluti.

L’attesa è tuttavia snervante. I due capitani, compagni d’accademia e vecchi amici, si scambiano qualche impressione e, reciprocamente, si ripetono i dettagli dell’impresa imminente. Giunge finalmente – com’era atteso – il ten. colonnello Frignani, che veste l’abito civile. Avverte i due ufficiali che Mussolini, il quale aveva avuto in precedenza fissata l’udienza dal Sovrano, arriverà in ritardo sull’ora prevista.

Entra poi nella villa dall’ingresso secondario – a levante – per prendere gli ultimi accordi con i funzionari della Real Casa e, dopo qualche minuto, ritorna presso i suoi uomini. Si dimostra però turbato e contrariato, perché vi sarebbero delle riluttanze per l’arresto del Duce sulla soglia della villa reale. Tuttavia si ricompone subito, deciso e risoluto, esclama: «noi in ogni caso lo arrestiamo ugualmente».

Il ten. colonnello Frignani ha nelle vene sangue generoso, che piú tardi bagnerà il luogo sacro del martirio ardeatino. Egli sente indubbiamente la passione dell’ora che volge: egli intuisce la necessità di non dare tempo al capo del governo spodestato di riaversi dal duro colpo e di scatenare o di tentare di scatenare un movimento di reazione, le cui conseguenze potrebbero riuscire fatali per il nostro Paese.

Ma, da vero soldato, si rende conto che è indispensabile saper frenare i generosi impulsi del cuore ed agire con tempestiva ponderatezza. Rientra di nuovo nella villa e ne esce poco dopo con la notizia che Mussolini si trova ancora a colloquio col sovrano e che l’arresto si farà. Ma non c’è tempo da perdere ormai. Il questore Marazzini intanto, col pretesto di una urgente chiamata telefonica, ha attirato in un punto lontano dalla villa l’autista del Duce, che cosí è stato immobilizzato.

I cinquanta carabinieri vengono lasciati sul lato settentrionale dell’edificio, pronti ad accorrere al primo cenno, mentre i due capitani, i tre vicebrigadieri ed i tre agenti di P. S. armati di mitra si portano sul lato orientale. Si fa avanzare l’autoambulanza fino a pochi metri dall’ingresso dal quale uscirà Mussolini, ma in modo da non essere notata.
Proprio nell’angolo sta fermo un famiglio fidato con la consegna di allontanarsi allorché il capo del governo comparirà in cima alle scale. È questo il segnale convenuto per agire. Sullo stesso lato, a ridosso della siepe, è in sosta, priva dell’autista, la macchina di Mussolini.

A pochi metri di distanza il capitano Vigneri dispone i tre agenti di P. S. con le armi pronte e con l’ordine d’intervenire soltanto in caso di necessità e sempre al primo cenno. Poi, insieme al collega Aversa, si colloca di fronte, presso il muro della villa, con a tergo i tre sottufficiali.

Una ventina di metri piú indietro, sostano il ten. colonnello Frignani ed il questore Morazzini, i quali si avvicineranno solo quando Mussolini sarà salito sull’autoambulanza.
Ad un certo momento il famiglio si allontana. È l’ora. Il piccolo gruppo, formato dai due capitani e dai tre vicebrigadieri, avanza e – quasi contemporaneamente – si scorge il duce – mentre discende gli ultimi gradini della scalinata insieme al suo segretario particolare De Cesare. Vestono entrambi l’abito scuro: Mussolini con un completo blu ed un cappello floscio. Egli deve aver notato all’ultimo istante l’insolito apparato, tanto che trasalisce visibilmente.

Il capitano Vigneri gli va incontro e, stando sull’attenti, dice: «Duce in nome di S.M. il Re vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze da parte della folla». Mussolini allarga le mani nervosamente serrate su una piccola agenda e con un tono stanco, quasi implorante, risponde: «Ma non ce n’è bisogno!» Il suo aspetto è quello d’un uomo moralmente finito, quasi distrutto: ha il colorito del malato e sembra persino piú piccolo di statura.

«Duce, – riprende il capitano Vigneri, – io ho un ordine da eseguire».
«Allora seguitemi», risponde Mussolini e fa per dirigersi verso la sua macchina.
Ma l’ufficiale gli si para dinnanzi:
«No, Duce, – gli dice, – bisogna venire con la mia macchina».

L’ex capo del governo non ribatte altro e si avvia verso l’autoambulanza, col capitano Vigneri alla sua sinistra; segue De Cesare, con a fianco il capitano Aversa. Dinnanzi all’autoambulanza Mussolini ha un attimo di esitazione, ma Vigneri lo prende per il gomito sinistro e lo aiuta a salire. Siede sul sedile di destra.

Angelo Cerica

Sono esattamente le ore 17.20. Dopo, sale De Cesare e si mette a sedere di fronte al suo capo. Quando anche i sottufficiali e gli agenti si accingono a montare, il Duce protesta: «Anche gli agenti?! No!!» Vigneri allarga le braccia come per fargli capire che non c’è nulla da fare e, rivolgendosi deciso ai suoi uomini, ordina: «Su ragazzi, presto!!»

Anche i due capitani salgono. Nell’autoambulanza ora si è in dieci e si sta stretti. Il questore Morazzini si avvicina e, prima di chiudere la porta dall’esterno, avverte che si uscirà da un ingresso secondario e che un famiglio accompagnerà l’automezzo sino all’uscita.

L’autoambulanza con la quale venne arrestato il Duce

La macchina si muove, mentre l’autocarro con il plotone dei cinquanta carabinieri rimane fermo. Ormai non c’è piú bisogno di loro. Anche la missione del ten. colonnello Frignani e dei capitani Vigneri e Aversa è finita. L’uomo, già potente e temuto, va incontro al suo fatale destino anche se ritardato da illusori eventi. Ma anche due dei tre bravi soldati sono predestinati al martirio, vittime purissime del dovere.

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