ROM, SINTI E CAMINANTI IN ITALIA – 1

a cura di Cornelio Galas

FONTE:

XVI Legislatura
SENATO DELLA REPUBBLICA
Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani
Rapporto conclusivo dell’indagine – 2011
sulla condizione di Rom, Sinti e Caminanti in Italia

 

CONCLUSIONI A GUISA DI INTRODUZIONE

La conclusione dell‟indagine della Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato permette di formulare alcune considerazioni e di avanzare alcune proposte e ipotesi di lavoro da sottoporre al dibattito politico e istituzionale. Come è stato più volte ripetuto l’obbiettivo del lavoro non era e non è quello di sciogliere le diverse posizioni politiche presenti su questo difficile argomento ma piuttosto di offrire alla discussione parlamentare una base di conoscenza condivisa che renda possibile un confronto più costruttivo.

Naturalmente la scelta di conoscere, in questo caso più che in altri, è di per sé una scelta politica. E non solo perché si tratta di rompere un circolo vizioso, una spirale nella quale ignoranza e pregiudizio si alimentano reciprocamente, ma perché la conoscenza porta alla luce degli spaccati sociali e delle condizioni di vita così drammatiche che possono essere tollerate solo se si decide di non guardarle, se si gira la testa dall‟altra parte quando si incontra un bambino mendicante o si passa davanti a uno dei campi che costeggiano le periferie di tante nostre città.

Decidere di rompere questo velo di ignoranza, decidere di conoscere e di sapere è il punto di partenza senza il quale nessuna politica può essere costruita. È necessario un progetto nazionale che parta dai numerosi punti di osservazione presenti nel territorio, renda omogenei i metodi di ricerca e di raccolta di dati e di informazioni, proceda alla loro sistematica elaborazione, li integri con indagini quantitative e con ricerche qualitative appropriate e costruisca per questa via una banca dati nazionale attendibile. Questo progetto non è possibile senza il dialogo, il coinvolgimento, la diretta partecipazione dei diretti interessati. Come vedremo più avanti questa partecipazione non è disponibile spontaneamente ma richiede lavoro e formazione. Questa è la prima proposta.

La seconda riguarda il Piano Nazionale sulla questione di Rom e Sinti la cui mancanza è stata criticata da ultimo dai molti organismi internazionali che hanno osservato negli anni e nei mesi scorsi il nostro Paese. La mancanza di una strategia nazionale limita o impedisce l‟utilizzazione di quelle stesse risorse europee che sono a disposizione di politiche di integrazione.

Ma l’espressione Piano Nazionale non può portare con sé la nociva illusione che siano su una questione come questa possibili soluzioni univoche e omogenee: solo risposte pragmatiche, differenziate, concrete possono portare nella direzione giusta e queste comportano articolazione e decentramento e la responsabilità diretta delle istituzioni locali. Quindi l’unico piano nazionale possibile è una strategia fondata su una ricca articolazione capace di rispondere alle diverse domande e alle diverse esigenze. Ma questa articolazione non può significare che ciascuno viene lasciato solo davanti ai problemi e che le risorse disponibili restano in larga misura inutilizzate.

Il passo nella direzione giusta può essere rappresentato dalla costituzione di una task force nazionale al servizio delle istituzioni locali, delle organizzazioni non governative, delle rappresentanze dei Rom esistenti che aiuti a passare dalle idee e dalla volontà al progetto, alla sua formulazione tecnica e amministrativa e alla sua implementazione. In questa direzione si sono mossi e si muovono molti paesi europei.

La terza proposta riguarda la questione della regolarizzazione: nel rapporto il tema è analizzato con cura ed esaminando le diverse situazioni. In particolare va evidenziata la questione del riconoscimento della cittadinanza per i minori, nati e cresciuti in Italia per i quali una soluzione si impone allo stesso modo – e forse ancora di più – che per le altre centinaia di migliaia di bambini e adolescenti nella stessa condizione nella vasta realtà della nostra immigrazione.

La quarta proposta riguarda le politiche. Ci sono due punti di grande valore culturale e soprattutto simbolico che richiederebbero un intervento legislativo specifico. Abbiamo il dovere di compiere un atto di riparazione inserendo il genocidio dei Rom tra quelli che vengono ricordati ogni anno il 27 gennaio nel Giorno della Memoria.

E si deve riaprire il capitolo della legge 482 del 1999 che riconosce le minoranze linguistiche italiane per includervi la minoranza Rom e la sua lingua, il romanès. È paradossale, come è stato fatto notare di recente, che il riconoscimento dell‟esistenza della minoranza Rom esista ma solo in negativo, in particolare attraverso gli atti del Ministero degli Interni che per le sue funzioni si occupa in primo luogo di questioni di sicurezza. Si tratta di aspetti simbolici ma nessuno può sottovalutare l‟importanza straordinaria che i simboli assumono.

Il primo punto pratico è invece quello dei campi. Si tratta di una realtà che, con pochissime eccezioni, non esiste in altri paesi europei. E si tratta di una realtà caratterizzata, per usare il linguaggio delle convenzioni internazionali, da condizioni inumane e degradanti. Si tratta di realtà incompatibili con qualsiasi progetto di inclusione e integrazione dove si riproducono quelle condizioni di crudele emarginazione i cui effetti si riversano poi nella vita delle città. È lì che generazione dopo generazione si perde il popolo delle discariche, un popolo fatto per più del quaranta per cento da bambini fino ai quattordici anni.

È necessario un programma graduale di chiusura dei campi, a partire da quelli più degradati, e di offerta di soluzioni abitative diverse, accettabili e accettate, cioè discusse e confrontate. Gli esempi di tante e diverse buone pratiche alle quali riferirsi per fortuna non mancano.

Il secondo punto pratico è quello dei bambini e della scuola. Tra le tante esperienze emerge quella della Comunità di Sant’Egidio ispirata a una incentivazione dell‟assolvimento degli obblighi scolastici attraverso una politica di borse di studio gestita sulla base di regole precise e del loro rigoroso rispetto. Anche in questo caso il coinvolgimento delle famiglie appare determinante e in particolare – soprattutto per quanto riguarda la fase prescolare che è così importante per anticipare i processi di socializzazione e prevenire la formazione e il consolidamento di handicap culturali – andrebbe esaminato con cura la possibilità di coinvolgere direttamente le madri (spesso, occorre ricordarlo, giovanissime madri) nei percorsi educativi.

Il terzo punto pratico riguarda il lavoro. Essere riconosciuti come Rom è un ostacolo a trovare lavoro, anche per chi aveva iniziato percorsi di formazione lavoro che apparivano promettenti. Si possono pensare azioni positive, cioè incentivi o disincentivi che attenuino questa discriminazione?

Ed è dall’altro lato possibile fare emergere e offrire un quadro più regolare e al tempo stesso più dignitoso ad attività che già oggi contribuiscono al reddito e alla sopravvivenza delle famiglie, come quella che abbiamo visto nel campo di Napoli Capodichino della raccolta e della vendita del ferro a 13 centesimi al chilo e 130 euro alla tonnellata o alle attività di recupero e riciclo di materiali nel quadro della raccolta differenziata? E una nuova legge sullo spettacolo viaggiante oltre che rispondere ai problemi dei Sinti giostrai che ancora svolgono la loro attività non potrebbe cercare di riconoscere e regolare in un modo utile per i diretti interessati e per l’insieme dei cittadini il lavoro degli artisti di strada?

L‟ultimo problema che vogliamo sottolineare è quello della partecipazione. Non spenderò parole per dire come sia una questione essenziale, una conditio sine qua non. E nello stesso tempo è uno dei problemi più difficili. La realtà associativa appare oggi estremamente frammentata e attraversata da conflitti di gruppo e settari. E tuttavia rimane un punto di partenza e un interlocutore necessario.

Ma il punto è come investire per formare dentro le comunità Rom e Sinti una leva di operatori sociali, di mediatori culturali che siano la rete intorno alla quale la partecipazione può essere organizzata con una certa continuità. Questo richiede risorse ma sono risorse destinate a produrre risparmi rilevanti in altri campi da quello dell’assistenza a quello della sicurezza. E nello stesso tempo sono risorse investite sul futuro non solo dei Rom ma della nostra società, dell‟Italia e dell‟Europa.

La ricerca condotta dalla CRI su 4927 Rom e Sinti dei campi di Roma ci offre da un lato il dato drammatico che solo il 2,8% della popolazione è al di sopra dei 60 anni, il che evidenzia una speranza di vita tragicamente al di sotto degli standard del nostro paese. Ma dall‟altro ci parla di oltre un 40% di bambini e di fanciulli al di sotto dei 14 anni e ci dice quante possibilità, quante speranze di miglioramento possano essere costruite. Per una volta siamo soddisfatti del nostro lavoro e speriamo che sia accolto come un contributo a una discussione di merito.

Fuori dalla demagogia e dalle semplificazioni sappiamo che si tratta di una questione difficile che nessuno in Europa ha risolto e che non ha soluzioni facili. È un campo nel quale si può procedere solo per sperimentazione, correggendo via via gli errori e imparando dall‟esperienza. Per questo però c‟è bisogno che la politica si comporti responsabilmente, a maggior ragione perché si tratta di una delle questioni più impopolari con la quale misurarsi.

PREMESSA

La Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, nell’ottobre del 2009, ha iniziato un’indagine conoscitiva sui problemi concernenti la condizione delle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti in Italia. Le questioni che riguardano Rom, Sinti e Caminanti, infatti, non sono mai state oggetto di un’analisi approfondita e sistematica da parte del Parlamento. E troppo spesso, esse sono state affrontate unicamente sotto il profilo del cosiddetto decoro urbano, della sicurezza o dell’ordine pubblico.

Per altro verso tutti gli stati europei considerano un problema i Rom e in generale le popolazioni che a tali gruppi vengono assimilate, il che rende complessa l’attuazione di politiche volte all’integrazione. La comunità internazionale, in particolare gli organismi europei, dà un giudizio fortemente critico sulle politiche seguite da diversi paesi con riferimento a Rom, Sinti e Caminanti. Il giudizio negativo ha colpito volta per volta la Repubblica Ceca, la Francia e altri paesi.

Anche l’Italia si è dovuta confrontare con le critiche su questo o quell’aspetto della propria politica, critiche che non hanno risparmiato certi atteggiamenti della società civile. Il nostro paese, quest’anno, è stato sottoposto alla Universal Periodical Review da parte del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu: tra le 92 raccomandazioni che riguardavano l’Italia, ben 10 si sono concentrate sul trattamento riservato alle minoranze Rom e Sinti.

Il 10 marzo del 2010, l‟Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani, Navi Pillay, è stata ascoltata in audizione dalla Commissione per i diritti umani del Senato ed ha avuto parole di sconcerto e di forte critica rispetto a quanto riscontrato nel corso dei sopralluoghi nei campi Rom dei giorni precedenti.

In Italia, esistono undici leggi regionali su Rom, Sinti e Caminanti e un reticolo di provvedimenti locali e ordinanze municipali, ma manca un piano nazionale che fissi univocamente le linee di intervento che siano allo stesso tempo flessibili (rispetto alle diverse esigenze e al contesto territoriale) e condivise nella loro applicazione, mancanza che, peraltro, è stata sottolineata dall’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni Italiani, nel corso dell’audizione in Senato.

L’indagine promossa dalla Commissione ha l’obiettivo di costruire una base di conoscenza condivisa. Essa non pretende di risolvere i problemi e la diversità di posizioni presenti nel dibattito politico. Semmai, attraverso l’indagine conoscitiva della Commissione, si vuole fornire, ai diversi orientamenti e alle diverse opinioni, un tessuto conoscitivo che superi gli stereotipi e un punto di partenza attraverso cui le opinioni si possano confrontare in modo costruttivo. Una migliore conoscenza dei fenomeni può portare all’individuazione di politiche più efficaci nel garantire sicurezza e integrazione.

L’indagine ha utilizzato principalmente lo strumento delle audizioni. Sono stati ascoltati dalla Commissione studiosi, membri di organismi internazionali, esponenti di enti locali, sindaci, rappresentanti di associazioni italiane e internazionali nonché membri delle comunità italiane di Rom, Sinti e Caminanti. Oltre alle audizioni, la Commissione ha effettuato alcune visite sul campo per verificare in prima persona le condizioni di vita in alcuni insediamenti: sono state visitate alcune realtà abitative dei Rom ed è stata effettuata una missione in Romania.

Infine sono stati presi in considerazione, nella stesura del presente rapporto, i documenti approvati da organismi internazionali, europei, nazionali e locali; le indicazioni e le raccomandazioni della Commissione Europea e del Consiglio d’Europa; il rapporto sulle minoranze redatto dal Governo italiano; i materiali informativi messi a disposizione della Commissione dalle personalità audite.

Nella prima parte del rapporto viene affrontato il contesto della presenza di Rom, Sinti e Caminanti in Italia: consistenza numerica, zone di provenienza e di insediamento, aspetti culturali, status giuridico. Nella seconda vengono analizzati aspetti specifici della loro condizione: le problematiche abitative; l’accesso a servizi come scuola e sanità; la condizione lavorativa; le questioni relative alla sicurezza e alla criminalità; la situazione dei minori. Nella terza parte viene tracciato un confronto con le normative internazionali e di altri stati europei.

Questo lavoro non può rappresentare un punto d’arrivo sulla conoscenza delle questioni che riguardano le popolazioni Rom, Sinti e Caminanti in Italia ma costituisce una base di partenza sia per ulteriori studi e approfondimenti sia per eventuali iniziative di tipo normativo o amministrativo.

ROM, SINTI E CAMINANTI IN ITALIA

IL PROBLEMA DEI DATI

Uno dei principali problemi con cui ci si scontra nell’affrontare le questioni che riguardano le popolazioni Rom è quello dell’assenza di dati certi. Questo gap non è una specificità italiana ma è anzi una difficoltà comune a gran parte dei paesi europei. Non esistono dati certi sul numero della popolazione Rom presente in Italia e in Europa, sul livello di istruzione e di disoccupazione, sull’aspettativa di vita e sulla mortalità infantile, sulla situazione abitativa e sul tasso di disoccupazione, sulla percentuale di stranieri e apolidi e sull’accesso ai servizi sociali, sanitari e di welfare. Non si conosce il reddito medio o il grado di integrazione.

Senza queste informazioni decisive diventa molto difficile mettere a fuoco i problemi e elaborare risposte politiche appropriate e utilizzare al meglio le risorse; senza indicatori in grado di valutare i cambiamenti di queste condizioni nel tempo e nello spazio diventa impossibile valutare gli effetti delle scelte politiche. Senza statistiche disaggregate risulta difficile stabilire obiettivi, determinare gli strumenti in grado di perseguirli e fare valutazioni sull’impatto delle singole decisioni. Una migliore conoscenza sul mondo Rom e Sinti è necessaria per spezzare il circolo vizioso dell’ignoranza e del pregiudizio: l’ignoranza infatti genera pregiudizi, i pregiudizi alimentano l’ignoranza.

Secondo il rapporto «No data – No progress», del giugno 2010, nell’ambito della «Decade of Roma inclusion 2005-2015» sostenuto dalla «Open society foundation» promossa da George Soros, cui partecipano dodici paesi europei (Albania, Bosnia Erezegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Macedonia, Montenegro, Romania, Serbia, Slovacchia e Spagna), «la carenza di dati sulle comunità Rom rimane il maggiore ostacolo» per valutare condizioni di vita e costituisce un limite, per i governi, alla messa in atto di politiche appropriate e alla possibilità di valutarne l’impatto. È infatti ampiamente accertato che i Rom in Europa sono sottostimati (o non contati del tutto) nelle statistiche ufficiali, come i censimenti nazionali.

Perché è così difficile avere dati precisi sulle popolazioni Rom? Intanto perché, come ha spiegato Lenaordo Piasere nel corso dell’audizione presso la Commissione per i diritti umani del Senato del 20 aprile 2010, molti degli appartenenti a questi gruppi mettono in atto strategie mimetiche allo scopo, laddove è possibile, di essere assimilati al resto della popolazione: non è un mistero infatti che dichiararsi Rom o Sinti, da un punto di vista delle strategie individuali, non sia conveniente, visti i pregiudizi e gli stereotipi che accompagnano, nell’opinione comune, queste popolazioni:

«Gli antropologi studiano da cinquant’anni il tema dell’identità culturale ed etnica ed è noto che si tratta di un concetto chewing gum. È certo che si dà priorità all’autoidentificazione, all’autodenominazione ed all’autoascrizione ad una comunità. Per i Rom e i Sinti, invece, si pone il problema della doppia figura: poiché essere etichettati come zingari è assolutamente stigmatizzante e siccome è noto che i gagé [i non zingari in lingua romanì, Ndr] sanno che molti di loro non si autodenominano Rom o Sinti, questi ultimi di fronte agli stessi gagé non si definiscono nemmeno in questo modo. È invece importante verificare come si definiscono all’interno delle proprie comunità e quali sono le reti attive nel loro gruppo, tra le famiglie. Ad esempio, molti giostrai sono Sinti e quando si presentano ai gagé è ovvio che negano di esserlo; non gli conviene ammetterlo perché altrimenti si alzerebbe subito un muro».

Rispetto ad altre popolazioni, l’unico strumento possibile per attribuire l’identità Rom a una data persona è poi proprio l’autoascrizione: un francese, un marocchino, un kazako hanno un’entità statale di riferimento, un documento che prova l’appartenenza a un dato paese, una lingua comune di riferimento; oppure, è il caso degli appartenenti alla religione ebraica, esiste una fede comune alla quale fare riferimento e che in un certo senso fa da collante rispetto all’identificazione di una persona in quanto appartenente a un gruppo.

Per i Rom, minoranza priva di territorio, tutto ciò non è possibile: se si prendono in esame i documenti di identità di Rom o Sinti si trovano cittadini italiani o provenienti da paesi comunitari; o ancora apolidi; la lingua, il Romanes, non è parlata da tutte le persone che si identificano in Rom e Sinti; non esiste uno Stato di riferimento; non esiste una religione comune; le stesse tradizioni culturali sono diverse a seconda delle diverse traiettorie migratorie vissute dai singoli gruppi famigliari.

Il nomadismo, ad esempio, che viene comunemente ritenuto un tratto distintivo delle popolazioni Rom e Sinti, a ben vedere non lo è: le trasformazioni sociali e economiche dell’ultimo secolo hanno determinato la scomparsa o il drastico ridimensionamento di molte delle attività che erano alla base del nomadismo. Quanti sono effettivamente nomadi? Secondo le informazioni raccolte da associazioni e enti pubblici, questa percentuale si aggira intorno al 3% (ma sui numeri c’è grande incertezza). Si tratterebbe quindi di una piccola minoranza. Ma anche in questo caso mancano dati affidabili, come mancano informazioni precise sulla percentuale e il numero complessivo di persone che vivono in campi autorizzati e insediamenti abusivi.

Quali strade percorrere per reperire dati certi? Una delle proposte che, a livello europeo, è presa in considerazione, tra timori e discussioni, è quella di un censimento su base etnica, non solo per i Rom, ma per tutti i gruppi di minoranza. I dati etnici possono infatti essere raccolti in modo da proteggere la privacy individuale e, allo stesso tempo, rendere disponibili quelle informazioni disaggregate per le singole comunità che sono decisive a sostenere lo sforzo delle istituzioni pubbliche nel contrasto a razzismo e discriminazione.

Uno strumento del genere, si dice, se maneggiato con grande cautela, potrebbe fornire informazioni decisive per valutare le condizioni di vita di gruppi e minoranze di cui si sa ancora poco e di cui è difficile valutare il reale grado di integrazione nella società. Ma questa opzione si scontra sia con obiezioni di principio – in un certo senso decisive – sia con difficoltà di carattere pratico e organizzativo.

Censimento etnico (ethnic informations): pro e contro. Alcune perplessità avanzate in linea di principio sul metodo del censimento etnico possono essere superate prendendo in esame le normative dell’Unione europea e di diversi Stati membri riguardo la tutela dei dati personali. L’Unione europea, a questo riguardo, non proibisce espressamente la raccolta di dati etnici ma delega agli Stati membri la scelta. L’Unione europea ritiene che dati su base etnica possano essere raccolti ad alcune condizioni: primo, che sia rispettata la privacy dei singoli individui; secondo, che questi dati siano utilizzati a livello aggregato; terzo, che servano per contrastare diseguaglianze e discriminazioni. Di fatto, però, quasi tutti gli Stati, fatta eccezione per la Gran Bretagna, sono molto restii nell’utilizzare questo tipo di strumento.

In particolare, le raccolte di dati sono regolate fondamentalmente da due tipi di leggi: quelle sulla protezione dei dati personali e quelle che governano la conduzione di indagini statistiche. La stessa Commissione europea (2000/43/EC) ha osservato, riguardo alla mancanza di dati disaggregati sulle minoranze:

«La scarsità di dati etnici nella maggior parte degli Stati membri intralcia un appropriato monitoraggio dell’applicazione della legislazione comunitaria. Ci sono state obiezioni alla raccolta di questo tipo di dati basate sul fatto che questo avrebbe violato le disposizioni della direttiva europea sulla protezione dei dati. Questo non riflette la realtà. […]. Sono gli Stati membri a decidere se i dati etnici devono essere raccolti per produrre statistiche per contrastare la discriminazione, provvedendo al rispetto della direttiva sulla protezione dei dati personali».

Una manifestazione nazionale di rom e sinti a Bologna, nel 2015
(LaPresse – Stefano De Grandis)

Ma oltre alle obiezioni di principio esistono dubbi sull’efficacia di un censimento effettuato su base etnica. Molti sostengono che un censimento etnico, in particolare per quanto riguarda le comunità Rom e Sinti, difficilmente possa produrre dati e informazioni utili e precise. Esso si scontrerebbe con la scarsa propensione all’autoascrizione “ufficiale” a tali comunità da parte dei suoi membri, vista la generale opinione negativa che connota, nella popolazione maggioritaria, gli appartenenti a tali popolazioni; e con la difficoltà materiale di “contattare” tutti gli appartenenti a tali gruppi, quando una buona parte vive in insediamenti precari o abusivi.

Gran Bretagna e Romania. Già dai primi anni ’90 la Gran Bretagna ha introdotto alcuni cambiamenti ai propri sistemi per il censimento e la raccolta dati. Il Governo aveva rilevato che “sono necessarie statistiche altamente dettagliate per implementare azioni politiche positive”. La raccolta di informazioni sull’etnia o la religione è basata su leggi che regolano la produzione di dati sensibili, in particolare la Law on statistcs, il Data protection act e il Race relation (amendment) act del 2000: quest’ultimo consente di derogare al divieto di acquisire dati etnici.

Tutto il processo è poi supervisionato da autorità per la protezione dei dati, dall’istituto di statistica e dalle agenzie per la protezione dei minori. Informazioni etniche vengono raccolte anche sui luoghi di lavoro, nelle scuole e in altre istituzioni, sempre allo scopo di migliorare la conoscenza dei gruppi di minoranza e facilitare processi di inclusione e di superamento delle discriminazioni. Nel settore educativo, ad esempio, il dipartimento per i bambini, la scuola e la famiglia (Dcsf), raccoglie dati sull’etnia degli alunni nelle scuole pubbliche, attraverso il Pupil level annual school census (Plasc).

Il censimento degli alunni utilizza una classificazione su base etnica: bianchi, asiatici, neri, meticci, e altre categoria, con tre o cinque sottocategorie per ogni risposta principale. Le autorità educative locali possono anche scegliere se adottare un lista più ampia di opzioni etniche, con informazioni che riguardano il paese o la regione di nascita o di provenienza, per calibrare in modo ancora più preciso la pianificazione scolastica. Questo processo consente poi la ricostruzione, a livello nazionale, di dati etnici sugli studenti. Un risultato pratico è che si possono destinare risorse specifiche per quei gruppi che in determinate aree del paese sono a rischio di ritardo scolastico e, nel tempo, di valutarne gli effetti.

Una forma di censimento etnico è stata utilizzata anche dalla Romania, proprio per quanto concerne la raccolta di informazioni sulla popolazione Rom. E il caso della Romania è emblematico di quali siano i limiti, forse invalicabili, di questo strumento. Il dato illuminante riguarda la popolazione: secondo le stime ufficiali, in Romania vi sarebbero 535.000 Rom. Le stime raccolte da diversi enti e associazioni e comunemente assunte come più realistiche, come si vedrà nella parte di questo rapporto dedicata alla Romania, parlano di una cifra che oscilla tra 1,5 e 2 milioni di persone, addirittura 3 milioni se si tengono in considerazione i matrimoni misti.

Ecco allora che calibrare le scelte politiche, il tipo di interventi e il loro eventuale grado di efficacia, su stime che, seppur ufficiali, fotografano in maniera assolutamente fuorviante la realtà diventa, oltre che inutile, controproducente.

Quali dati raccogliere sui Rom? E tuttavia, avere dati certi è una condizione essenziale non solo per conoscere le condizioni di vita di una popolazione ma anche per agire correttamente. Il rapporto «No data – No progress» suggerisce sei indicatori assolutamente necessari sia per valutare le condizioni di vita dei gruppi Rom all’interno di un paese sia per mettere in pratica e monitorare politiche per favorire l’integrazione.

Popolazione totale. Conoscere il numero totale di una minoranza è importante e di estrema utilità quando si tratta di adottare decisioni e allocare risorse. Nei paesi partecipanti al progetto le stime ufficiali riguardo alla popolazione Rom sono drammaticamente inferiori a quelle acquisite dalle diverse organizzazioni indipendenti, il che chiama in causa la qualità delle procedure messe a punto dai governi per rilevare le espressioni di appartenenza etnica in un modo appropriato a riflettere l’identità individuale.

Nella maggior parte dei paesi i censimenti sono eseguiti ogni 10 anni, e sono l’unica opportunità per raccogliere dati etnici disaggregati. È interessante notare che i dati ufficiali sottostimano la presenza di Rom in un range tra il 55% e il 90% rispetto ai dati raccolti da associazioni non governative e onlus.

Educazione: completamento dell’istruzione primaria. Il parametro scelto per valutare l’educazione è quello del completamento del ciclo di istruzione primaria. La frequenza scolastica, l’iscrizione alle scuole del pre-obbligo o il grado di istruzione secondaria sono strumenti utili per stimare il successo scolastico, mentre il parametro scelto a riferimento valuta anche la capacità del sistema scolastico di portare alla piena educazione i suoi alunni. Nella maggior parte dei paesi del «Decade project» questi dati mancano completamente.

Lavoro: disoccupazione. Questi elementi sono considerati fondamentali per capire l’impatto delle politiche per l’occupazione tra i Rom, uno degli aspetti più importanti delle politiche di integrazione.

Salute: mortalità infantile. Questo indicatore è stato scelto come esempio per valutare il grado di accesso ai servizi sanitari e la qualità delle condizioni di vita. Il tasso di mortalità infantile è infatti influenzato dalle cure materne prenatali e dalle condizioni di vita del neonato; questo indicatore è anche significativo in quanto il tasso di natalità tra i Rom è tendenzialmente più alto rispetto al resto della popolazione.

Abitazione: istituzione di campi o insediamenti con basse condizioni di vita. Nei dodici paesi in esame, la segregazione abitativa dei Rom è di vaste proporzioni. Molti vivono in insediamenti rurali o in quartieri urbani ad alta densità di Rom, contraddistinti da alta povertà, bassa qualità delle abitazioni e da un limitato accesso ai servizi pubblici. La segregazione abitativa è poi direttamente correlata con l’accesso al lavoro, all’educazione, ai servizi sanitari e sociali. Anche in questo caso mancano dati ufficiali.

Discriminazione: numero di casi presentati dai Rom agli organismi di parità. La discriminazione verso i Rom è un tema che attraversa tutte la aree di politiche di intervento. Il numero dei reclami sollevati verso gli organismi per la promozione della parità di trattamento, previsti dalla direttiva 2000/43 del Consiglio d’Europa, può essere un indicatore per capire quanto siano state implementate le misure per combattere la discriminazione.

Poiché questi organismi sono di istituzione relativamente recente e poco conosciuti l’incremento numerico dei casi sollevati dalle popolazioni Rom potrebbe suggerire che è maggiormente diffusa la conoscenza di questi organismi come sedi alle quali rivolgersi nei casi di discriminazione. Una volta radicate le attività di questi organismi, il numero di ricorsi diverrebbe indicatore affidabile rispetto alle politiche di integrazione.

Come uscire da questa impasse? La necessità di ottenere informazioni precise e dettagliate sulla condizione dei Rom in modo da favorire processi di inclusione e integrazione, si scontra con la difficoltà di ottenerle, anche attraverso strumenti collaudati come i censimenti. In realtà molte informazioni sono già reperibili, soprattutto a livello locale.

Le strutture degli enti locali, i dipartimenti che nei vari Comuni si occupano di Rom, i servizi sociali, le associazioni e le onlus che portano avanti progetti di cooperazione nei vari territori, conoscono spesso in modo approfondito e preciso la situazione di Rom e Sinti nei diversi contesti. In quali campi essi vivono, quali sono le condizioni igieniche e sanitarie, quali i problemi e le opportunità di lavoro, quale la frequenza scolastica dei minori.

Si tratta di un patrimonio immenso di dati che per loro natura sono però frammentari, raccolti in modo spontaneo e con metodologie diverse, basati più sull’esperienza diretta che non su una corretta elaborazione statistica, riferiti a realtà molto specifiche e quindi non facilmente generalizzabili. È da questi dati che si potrebbe partire per costruire una conoscenza più precisa e diffusa: dalla raccolta, dall’elaborazione, dalla sistematizzazione di questa considerevole quantità di informazione proveniente “dal basso”.

È necessario però che queste fonti di conoscenza vengano attivate attraverso un progetto nazionale che preveda un investimento volto a garantire l’uniformità dei metodi di ricerca e di raccolta dei dati e il loro trattamento; che alimenti suvey quantitative e indagini qualitative mirate alla conoscenza dei diversi aspetti che riguardano la presenza dei Rom sul territorio. E che sappia superare il problema di come coinvolgere queste popolazioni nella costruzione di questi elementi di conoscenza; è un caso questo nel quale può tornare attuale ed efficace la metodologia sociologica della con-ricerca.

CONSISTENZA NUMERICA

In mancanza di un censimento ufficiale, la stima della consistenza numerica delle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti nel nostro Paese è particolarmente difficile da effettuare: mancano infatti criteri precisi per classificare una persona o un gruppo come appartenente alle minoranze Rom, Sinti o Caminanti. In ogni caso, esistono diverse stime sulle presenze di Rom, Sinti e Caminanti in Italia.

Secondo un rapporto del ministero dell’Interno, dell’aprile 2006, dal titolo Pubblicazione sulle minoranze senza territorio (http://www.interno.it/mininterno/ export/sites/default/it/assets/files) «i risultati, pur non potendo essere considerati dal punto di vista statistico un censimento dettagliato, offrono comunque una stima numerica di circa 140.000 presenze totali di Rom, Sinti e Caminanti».

Tale stima è confermata sia dalla Comunità di Sant’Egidio, che stima una presenta di 130.000 persone, sia dall’Anci che in un documento destinato all’audizione presso la Commissione (5 maggio 2010), parla di «130/150.000 Rom e Sinti». Anche l’Anci mette in guardia però rispetto alla reale consistenza delle popolazioni: «Si tratta di dati molto incerti. La difficoltà nel censire queste persone rimanda a un problema di carattere più generale, che è quello delle condizioni abitative e di vita, in generale, in cui si trovano molte famiglie».

Secondo l’Unirsi (Unione Nazionale e Internazionale dei Rom e dei Sinti in Italia) e l’Opera Nomadi è più realistico un dato intorno alle 170.000 presenze, una stima che terrebbe conto di quanti preferiscono non esplicitare la propria appartenenza a gruppi Rom, Sinti e Caminanti. In ogni caso gli individui appartenenti alle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti, rappresentano in Italia una percentuale sulla popolazione intorno allo 0,2%, una delle più basse d’Europa. In Romania sono circa 1.800.000 e rappresentano l’8% della popolazione, in Bulgaria sono circa 700.000 pari all8,4%, in Repubblica Ceca 250.000 pari al 2,4%, in Grecia 200.000 pari al 2%, in Spagna tra 650 e 800.000 pari all’1,6%, in Francia 280.000 pari allo 0,5%. Leonardo Piasere, nel libro I Rom d’Europa.

Una storia moderna (Laterza, 2009), individua poi un gruppo di paesi Balcanici (Romania, Bulgaria, Ungheria, Slovacchia, Serbia e Macedonia) in cui vive il 61,5% della popolazione “zingara” d’Europa, con percentuali sulla popolazione che oscillano tra l’11% e il 3,8%. E conclude: «Nella nuova Unione a venticinque Stati i Rom costituiscono la minoranza più numerosa e, formalmente, la meno riconosciuta».

Il Consiglio d’Europa, che dal 1995 ha istituito una Commissione di esperti incaricata di studiare la situazione dei Rom nei Paesi membri, ha fornito altri dati. Il Consiglio d’Europa stima la presenza complessiva in Europa di 11.155.000 Rom (nei documenti internazionali, perlatro, l’espressione “Roma” include tutti i gruppi che in senso lato possono essere ascritti a questa realtà); sempre secondo i dati raccolti dal Consiglio d’Europa, in Italia vivrebbero circa 170-180 mila Rom.

PROVENIENZA

Secondo l’Opera Nomadi, circa la metà dei Rom e Sinti residenti in Italia hanno la cittadinanza italiana mentre l’altra metà è proveniente principalmente dai Balcani e dalla Romania; probabilmente, nel corso degli ultimi anni, l’equilibrio si è spostato in questa seconda direzione con l’arrivo di numerosi gruppi provenienti soprattutto dalla Romania.

Anche la già citata pubblicazione del Ministero dell’interno offre un quadro: «Dei Rom, l‟assoluta maggioranza, proviene dai paesi della ex Jugoslavia, dall‟Albania e dalla Romania. L‟afflusso continuo e massiccio di profughi dalla Bosnia e di nuovi gruppi Rom dall‟ex Jugoslavia, Romania, Albania, Polonia fa sì che questo dato si possa considerare ulteriormente cresciuto. Irrilevante, ma non inesistente, la presenza di Rom e Sinti cittadini di paesi comunitari». (Romania e Bulgaria il 1° gennaio 2007 sono entrate a far parte dell’Unione Europea).

Nel rapporto redatto dall’Anci per la Commissione (sopraccitato), rispetto alla provenienza di Rom e Sinti in Italia, si legge:

«Le popolazioni Rom e Sinti in Italia sono presenti sin dal 1400. […] In Italia Rom e Sinti sono presenti in tutte le Regioni: dai Sinti Piemontesi e Lombardi, ai Rom abruzzesi, cilentani, pugliesi, campani, ai Caminanti siciliani, ai Rom kalderasa, arrivati in Italia sin dalla fine della seconda guerra mondiale […]. La gran parte di queste famiglie risiede in abitazioni, siano esse case popolari o appartamenti di proprietà».

Nello specifico, a partire dagli Anni ’60 sono giunte in Italia le prime comunità Rom appartenenti ai paesi dell’ex Jugoslavia e tale flusso migratorio si è ulteriormente intensificato all’inizio degli Anni ’90 con lo scoppio della guerra civile. Come spiega la dottoressa Mirella Karpati nel saggio Gruppi zingari in Italia contenuto nella volume Rom, Sinti, Kalé … zingari e viaggianti in Europa di Jean Pierre Liégeois (Edizioni Lacio Drom, Roma, 1995) e citato dalla pubblicazione del Ministero dell’interno «le difficoltà economiche nei paesi dell‟Europa orientale e soprattutto la guerra nell‟ex Jugoslavia hanno portato un flusso sempre crescente di nuovi gruppi zingari in Italia».

Dalla ex Jugoslavia sono quindi arrivate famiglie appartenenti a differenti gruppi e religioni: dalle regioni meridionali e centrali provengono i khorahané di religione islamica, dalla Serbia i dasikané, cristiano-ortodossi, dalla Bosnia i zergarja, ancora musulmani, dal Montenegro i rundasha. Altri gruppi e famiglie sono poi arrivati dal Kosovo e dall’Albania.

Tale flusso migratorio, prosegue l’Anci, «si è ormai interrotto da anni e si può parlare di una stabilizzazione delle famiglie appartenenti a questi gruppi. Parliamo quindi, anche in questo caso, di persone da tempo non più nomadi». Le ultime ondate migratorie, iniziate verso la metà degli Anni ’90 con la caduta dei regimi comunisti nei paesi dell’est europeo, sono quelle dei Rom romeni e bulgari: il flusso da tali paesi, anche per effetto dell’ingresso nell’Unione Europea, è ancora attivo.

Dal censimento effettuato dalla Croce Rossa Italiana, nel 2008, in tutti gli insediamenti Rom conosciuti sul territorio di Roma, e che ha coinvolto 4.927 persone, emergono alcune informazioni interessanti. Circa il 67% è cittadino di paesi della ex Jugoslavia (i due terzi di essi provengono dalla Bosnia); il 23% è costituito da Romeni e i cittadini italiani sono solo il 4,5%. Ma se si confrontano i dati relativi alla cittadinanza con quelli del paese di nascita si vedrà che mentre i Romeni sono nella quasi totalità nati in Romania, solo un terzo dei Rom provenienti dalla ex Jugoslavia sono nati in quei paesi: circa due terzi di dei Rom originari della ex Jugoslavia sono invece nati in Italia e rappresentano oltre la metà di tutti i Rom nati in Italia (contro il 4,5% di cittadini italiani).

Questo ci conferma che mentre l’arrivo dalla Romania è relativamente recente, per quanto riguarda la ex Jugoslavia il flusso è iniziato negli anni Sessanta e ha conosciuto una seconda fase in occasione del conflitto che sconvolto quei paesi tra il 1991 e il 1995. Parliamo quindi di una popolazione che in parte consistente risiede nel nostro paese da circa mezzo secolo e, se si tiene conto della loro età media, di persone che sono nate qui e qui hanno vissuto l’intera loro vita. Se quindi da un lato molti dei Rom cittadini italiani sono comunemente considerati immigrati, dall’altro molti Rom stranieri sono nati in Italia senza essere riconosciuti come cittadini italiani.

Attualmente, secondo il Rapporto del ministero, le comunità “sprovviste di territorio” sono sostanzialmente presenti in tutto il territorio nazionale ed in particolare nelle grandi e medie città nelle quali possono distribuirsi meglio. I Rom stranieri sono presenti al nord, sud e nelle isole mentre i Sinti sono presenti in gran parte al nord e al centro. Una scheda fornita da Opera Nomadi reca nel dettaglio quali gruppi Rom e Sinti sono presenti in Italia, in quali regioni si trovano, e quali sono le caratteristiche principali dei diversi gruppi.

STATUS CIVILE

Scrive Gianni Loy, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Cagliari, nel saggio Violino tzigano. La condizione dei Rom in Italia tra stereotipi e diritti negati (presente nel volume Rom e Sinti in Italia, Ediesse 2009): «Le comunità che sinteticamente identifichiamo con l’appellativo di Rom si compongono di almeno tre categorie di soggetti dotati di un differente patrimonio di diritti: cittadini italiani, cittadini di altri Stati membri (dell’Unione Europea, Ndr), extracomunitari. A questi se si vuole potrebbero aggiungersi gli apolidi e i rifugiati».

Ecco in sintesi le specifiche del rapporto. Sinti giostrai. Si tratta dei primi Rom e Sinti giunti via terra in Italia all’inizio del 1400. Sono tutt’ora diffusi in tutte le regioni del centro-nord e in estate si spostano al sud e nelle isole. L’occupazione tradizionale che caratterizza questi gruppi è quella di giostraio anche se lentamente questo mestiere va scomparendo. Molti ora lavorano come rottamatori o venditori di bonsai artificiali. In migliaia poi hanno acquistato microaree agricole per ricrearvi un habitat in grado di ospitare la famiglia estesa.

Si contano almeno 10 gruppi di Sinti, a seconda della zona di provenienza e del dialetto regionale parlato, che ha ormai soppiantato la lingua romanì: Sinti piemontesi (presidenti in tutto il Piemonte);Sinti lombardi (Lombardia, in Emilia e in Sardegna); Sinti mucini (cioè “mocciosi; sono i più poveri); Sinti emiliani (Emilia Romagna centrale); Sinti veneti (presenti nel Veneto); Sinti marchigiani (Marche, nell’Umbria e nel Lazio); Sinti gàckane (localizzato in tutta l‟Italia centro-settentrionale); Sinti estrekhària (Trentino-Alto Adige Austria); Sinti kranària (nella zona della Carnia); Sinti krasària ( zona del Carso). I Sinti, complessivamente, contano circa 30.000 unità.

Rom abruzzesi e molisani (presenti, oltre che in Abruzzo e Molise, anche in Campania, Puglia, Lazio, Umbria, Toscana, Emilia, Veneto, Trentino Alto Adige e Lombardia). Rom napoletani (detti Napulengre) Rom cilentani (stanziati da secoli nella zona sud del salernitano in diversi centri; Rom lucani; Rom pugliesi; Rom calabresi (presenti in tutte le province della Calabria. Sono i Rom più poveri presenti nel nostro paese); Caminanti siciliani; Rom harvati (Rom immigrati in Italia dal nord della Jugoslavia); Rom kalderasha (presenti in Italia dal XIX secolo, sono l’ultimo gruppo di autentica tradizione seminomade) Rom lovara (Rom di cittadinanza spagnola o francese) transitano per lunghi periodi in Italia per motivi economici o per i raduni della chiesa evangelica; Rom jugoslavi.

Secondo Opera Nomadi i Rom jugoslavi presenti in Italia sono circa 40.000 e sono situati in tutte le regioni, tranne la Basilicata e il Molise. Si suddividono in due gruppi principali: i Rom khorahanè, musulmani (i quali a loro volta comprendono i seguenti sottogruppi: i cergarija vlasenicaqi, originari della città bosniaca di Vlasenica, giunti nel 1967 a Milano e che vivono prevalentemente nei campi del centro-nord; i cergarija crna gora, provenienti da Bosnia, Croazia e Erzegovina; i shiftarjia e mangiuppi, originari del Kosovo, che sono il gruppo più numeroso; i kaloperija, provenienti da famiglie miste e legati ai cergarija vlasenicaqi).

Il secondo grande gruppo di Rom jugoslavi è rappresentato dai Rom dasikhané, di religione cristiano-ortodossa (sono sottogruppi di questo secondo gruppo i kanjarija e affini, originari della Serbia e presenti nel centro-nord d’Italia, nonché nella zona di Napoli e in Sicilia; i rudari, serbi di origine romena). Rom rumeni. Dopo i primi arrivi dalle città di Craiowa e Timisoara, dalla Romania si registra un esodo continuo verso l’Italia e il resto d’Europa. Le comunità più grandi sono stanziate a Roma, Milano, Napoli, Bologna, Bari e Genova.

Come è stato ricordato all’inizio della presente relazione i Rom e Sinti aventi cittadinanza italiana sarebbero circa la metà dei presenti sul territorio, con un’altra metà di stranieri di cui il 50% proveniente dalla ex Jugoslavia e il restante dalla Romania, con presenze minori da Bulgaria e Polonia. Per quanto riguarda le popolazioni provenienti da Romania, Bulgaria e Polonia si tratta – oggi – quindi di cittadini di Stati membri dell’Unione e quindi di immigrati regolari.

Per quanti invece provengono dai paesi della ex Jugoslavia la situazione è molto più complicata, essendo “extracomunitari”: una quota di essi è presente sul territorio nazionale con regolare permesso di soggiorno; una quota è rappresentata dai “richiedenti asilo”; una parte è invece “irregolare”, cioè senza permesso di soggiorno. Tra i richiedenti asilo e gli irregolari è rilevante la quota di “apolidi”: si tratta di Rom provenienti dalla ex Jugoslavia i quali, come ha sottolineato nella sua audizione in Commissione Sergio Chiamparino, presidente dell’Anci e Sindaco di Torino, «sono cittadini di uno Stato non più esistente e quindi hanno un’oggettiva difficoltà ad acquisire documenti validi di identità, e questo va anche al di là della presenza irregolare nel nostro paese».

Esiste però un paradosso: «L’idea diffusa nei Gagé dello zingaro come straniero, nel senso di estraneo, ma anche di non cittadino, negli anni ha contagiato negli anni anche le istituzioni. Tutto ciò riguarda e colpisce maggiormente chi abita nei “campi”. Non è raro che le pubbliche amministrazioni concepiscano uffici comuni per stranieri e nomadi: spesso può accadere che un Rom o un Sinto italiano debbano rivolgersi per far valere i propri diritti a questi uffici, che non dovrebbero avere competenza alcuna su italiani e sedentari. Allo stesso modo molte direttive ministeriali – ad esempio nel campo dell‟istruzione – danno indicazioni per gli immigrati e i nomadi (intendendo l‟insieme dei Rom e Sinti), considerandoli un insieme da dividere. Non è solo un problema terminologico. È un errore di conoscenza e valutazione, che ha ricadute sulle condizioni concrete di vita quotidiana dei Rom e Sinti di cittadinanza italiana. , con l‟unica differenza costituita dalla non “espellibilità”».

Un’altra situazione particolare riguarda i minori, figli (e sempre più spesso nipoti) di Rom provenienti da quella che fu la Jugoslavia: si può stimare si tratti di circa 15.000 giovani. Nati e cresciuti nel nostro paese, non ne hanno ottenuto la cittadinanza e si trovano in uno status giuridico molto particolare. Il problema principale è legato alla cittadinanza e di conseguenza è relativo al documento di identità.

È la situazione dei Rom giunti in Italia negli anni ‟60 e ‟70 dalla Jugoslavia e di quelli giunti dopo il 1990, “profughi” negli anni delle guerre balcaniche. Molti (ma non tutti) possedevano documenti di identità rilasciati dalla Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia-RSFJ (passaporto rosso per i maggiorenni, bianco per i minorenni, carte di identità). Il problema è che i nuovi Stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia non sempre hanno riconosciuto i Rom come loro cittadini, per diverse ragioni che si potrebbero così riassumere:

  • • talvolta i Rom sono nati o hanno risieduto in zone che hanno cambiato maggioranza etnica dopo la guerra (es. mussulmani nell‟attuale Repubblica Serba di Bosnia o serbi nell‟attuale Bosnia croato-mussulmana);
  • • la distruzione di molti uffici anagrafici ha comportato la richiesta di “prove” che spesso i Rom residenti all‟estero non posseggono;
  • • a chi era nato nel territorio del nuovo Stato è richiesta la residenza (che chi viveva all‟estero, non ha);
  • • alcuni sono nati sul territorio di uno stato e hanno risieduto su quello di un altro (es. nato in Serbia, vissuto in Bosnia): nessuno lo riconosce cittadino;
  • • altri sono nati in uno Stato da genitori di un altro Stato (es. nato in Croazia da genitori bosniaci);
  • • a chi è nato all‟estero è richiesta la registrazione nel comune di residenza dei genitori (che talvolta ha cambiato maggioranza etnica e non accetta nuove iscrizioni);
  • • c’è il problema dei maggiorenni che non hanno fatto il militare;
  • • generalmente si rimprovera ai Rom il fatto di non aver combattuto per la nascita del nuovo Stato.

Questa situazione ha fatto sì che molte persone si siano ritrovate in Italia senza passaporto e prive di un qualsiasi documento di identità valido. Per semplificare si potrebbero evidenziare alcune tipologie:

  • Persone giunte in Italia senza documenti di identità (hanno vissuto molti anni qui, ma sempre senza documenti). Anche se spesso sono “noti” alle autorità italiane (magari con nomi diversi) – poiché sottoposti a rilievi fotodattiloscopici – non posseggono una cittadinanza e quindi sono inespellibili (ma anche “insanabili”).
  • Bambini nati in Italia da persone di cui al punto 1: spesso riconosciuti all‟anagrafe da genitori con nomi alquanto “fantasiosi”, sono cresciuti in Italia, ma non hanno né documenti di identità, né cittadinanza. Spesso posseggono “prove” del loro soggiorno continuativo (vaccinazioni, scolarizzazione, ecc.), ma questo non li aiuta a risolvere il loro status. Questa condizione, con l‟adolescenza, è un fattore che spinge verso l’illegalità.
  • Persone giunte in Italia con documenti jugoslavi “regolari”, ma che non hanno ottenuto documenti dai nuovi stati: scivolati nell‟irregolarità, vivono da anni qui, ma non avendo documenti di identità non possono “sanarsi” e non avendo cittadinanza sono inespellibili.
  • Figli nati in Italia da genitori di cui al punto 3 o figli di genitori regolari che non hanno ottenuto per diverse ragioni la cittadinanza (e quindi il passaporto) del paese dei genitori: nati e cresciuti qui, talvolta presenti nel permesso di soggiorno dei genitori, “scompaiono” a 14 o 18 anni e diventano “invisibili”.
  • Situazioni particolari: genitori, “sposi” o conviventi di cittadini italiani che non riescono a regolarizzare la propria posizione poiché privi di documento di identità.
  • Ci sono poi alcuni casi (rari) di non iscrizione all’anagrafe o di iscrizioni con nomi falsi dei genitori; persone che non riescono pertanto a rintracciare neanche i propri certificati di nascita: anche se veramente nati in Italia, non c’è traccia delle loro generalità (si tratta talvolta di orfani o di figli di persone con gravi disagi).

Le situazioni esposte dimostrano come una parte dei Rom provenienti dalla ex Jugoslavia siano da considerare apolidi de facto. Con estrema difficoltà possono però divenirlo de jure, essendo necessario esibire, al momento della presentazione in via amministrativa della domanda di riconoscimento dello status di apolide, certificato di residenza e permesso di soggiorno.

In sostanza, moltissimi dei Rom ex-jugoslavi sono generalmente inespellibili (perché regolari, perché privi di cittadinanza, perché “socialmente inseriti”, perché genitori di minori privi della cittadinanza, perché coniugati con persone regolari, ecc.). In questo senso anche la decisione della Corte Europea dei Diritti Umani che ha autorizzato il reingresso in Italia di alcune famiglie di Rom espulsi in Bosnia dalle autorità italiane, dimostra quanto il tema sia delicato.

Andrebbe quindi trovato uno strumento di “emersione” per chi – per diverse ragioni – è inespellibile, ma perennemente “irregolare”: questo favorirebbe anche un possibile inserimento o reinserimento sociale ed eviterebbe la permanenza in uno stato di limbo dal quale è quasi scontato scivolare nell‟illegalità. Potrebbe forse essere questa una delle funzioni positive dei neo Commissari di recente istituzione .

Peraltro, nonostante molti dei “regolari” siano “lungo-residenti”, pochissimi hanno ottenuto la Carta di Soggiorno: è evidente che il perenne stato di “precarietà giuridica” per persone che ormai vivono stabilmente in Italia, comporta un‟instabilità che lede all‟inserimento nel tessuto sociale e spinge ai margini della nostra società». Ammonisce infine Loy: «A fronte di una diversità di posizione giuridica ascrivibile allo status corrispondente alla cittadinanza, le comunità Rom e Sinti vivono in comunità dove l’omogeneità è rappresentata prevalentemente dall’appartenenza etnica e non dalla cittadinanza. Ne consegue che, latu sensu, tutti finiscono per essere destinatari di un medesimo trattamento indipendentemente dalla diversità dei diritti astrattamente posseduti».

È questa la situazione che si presenta in molti “campi” ed è questa la situazione creatasi, secondo Loy, in conseguenza del decreto del Presidente del Consiglio del 21 maggio 2008 (G.U. n. 122 del 26-5-2008) con il quale viene dichiarato lo stato di emergenza in Campania, Lombardia e Lazio: «Poiché lo status degli abitanti dei campi, sotto il profilo della cittadinanza, è composito, comprendendo cittadini dell’Unione Europea, cittadini extracomunitari e cittadini italiani» le misure previste da tale decreto finiscono per coinvolgere Rom e Sinti in quanto tali, indipendentemente dal loro status giuridico.

Alcuni Rom espulsi nel 2000 da Roma verso la Bosnia presentarono un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell‟Uomo e “vinsero” ottenendo di tornare in Italia a spese dello Stato e di ricevere permessi di soggiorno e indennizzi. Sull‟episodio del 2000 cfr. Cinzia Gubini, “Cacciati da Roma, cacciati da Vlasenica”, il Manifesto 7 marzo 2000, e soprattutto il testo dell’accordo” con l‟Italia successivo alla decisione della Corte: Affaire Sulejmanovic et autres er Sulejmanovic et Sejdovic c. Italia (Requêtes nos 57574/00 et 57575/00).

MONDO DI MONDI

Le diverse provenienze geografiche e i differenti tempi d’insediamento di Rom, Sinti e Caminanti in Italia danno esaustivamente conto della difficoltà di considerare queste persone come appartenenti a un unico gruppo o popolazione. Monsignor Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana, nell’audizione del 20 ottobre 2009, ha spiegato:

«Sappiamo che il mondo romanì è irriducibile ad un unico insieme di tradizioni e tratti culturali, come troppo spesso immagini stereotipate ed informazioni distorte ci portano a pensare.

Si tratta piuttosto di un “mondo di mondi”, poiché è costituito da popolazioni estremamente eterogenee, portatrici di innumerevoli influenze storico-culturali, suddivise in gruppi e sottogruppi distinti e spesso in conflitto fra loro. Riconoscere l‟esistenza delle diverse anime della cultura Rom, mettendo da parte le generalizzazioni, è il presupposto essenziale per affrontare il tema Rom e Sinti».

Lo stesso termine Rom, nell’uso corrente, non indica tanto un’appartenenza etnica quanto un legame di affinità. I Rom non sono infatti un gruppo omogeneo né per provenienza né per condizione sociale: sono Rom anche gli imprenditori che girano con i circhi per l’Europa o i grandi calciatori; all’interno dei gruppi Rom c’è una borghesia, un ceto medio, una classe popolare che lavora in mille differenti settori. Anche sotto l’aspetto delle fedi religiose, il mondo Rom è notevolmente variegato: esistono Rom e Sinti cristiano ortodossi (in particolare Dasikhané provenienti dalla Serbia), musulmani (i cosiddetti Khorakhané, anche loro originari della ex Jugoslavia), nonché molti appartenenti alle chiese evangeliche.

Giovanna Zincone, presidente Fieri (Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione) nonché professore ordinario a Torino, in un documento inviato alla Commissione nell’aprile di quest’anno, ha suggerito l’ipotesi, pur con tutte le cautele del caso, che la cultura Rom viva in generale in una sorta di sfasamento temporale rispetto a quelle delle società occidentali:

«Mi è sembrato di cogliere, nella comunità Rom, i tratti di una cultura premoderna dolorosamente inserita nella modernità. Mi sono sembrate premoderne le relazioni di genere, quelle tra genitori e figli, tra suocere e nuore, il carattere esteso delle famiglie, la propensione all’endogamia. Così pure la prevalente cultura orale e la conseguente trasmissione dei saperi. Tale può apparire la riluttanza a utilizzare strumenti come la registrazione dei matrimoni, delle nascite, così come il ricorso a giurì d’onore interni alla comunità piuttosto che ai tribunali ordinari. Premoderni si possono considerare l’uso dello spazio (volere vivere all’aria aperta e senza troppe costrizioni nei movimenti) e l’uso del tempo (la difficoltà ad accettare scansioni troppo rigide)».

«I lavori di arrotino, di calderaio, di giostraio, come quelli circensi – prosegue Giovanna Zincone – non trovano grandi opportunità nelle economie e nelle attività ludiche contemporanee. Così come premoderno mi è sembrato il valutare lo status all’interno della comunità in base alla capacità di mostrare opulenza, del non badare a spese, persino lo sprecare alla grande se si tratta di festeggiare e celebrare, ma anche la propensione a riutilizzare, a recuperare, a non sprecare nella quotidianità.

Ho avuto l’impressione che noi gagè fossimo considerati ingenui schiavi del lavoro e dei suoi ritmi oppressivi, accumulatori di beni superflui, perché, per assenza di tempo libero, non siamo in grado di goderne. Secondo quest’ottica, la perdita di un po’ di surplus inutilizzato non dovrebbe arrecare troppo danno. Purtroppo, tale discrepanza di fondo tra valori e regole interne alla comunità, e valori e regole esterne, può indurre in alcune frange una sorta di indifferenza alle regole, di abbandono anche del vecchio codice d’onore con il risultato di innalzare l’asticella della devianza verso reati più gravi».

Questa discrepanza tra culture, di cui parla Giovanna Zincone, è una delle cause profonde delle difficoltà che tutti i paesi europei, e i diversi schieramenti che nel tempo li hanno governati, hanno incontrato e incontrano nell‟affrontare il problema dei Rom. Come si fa a negare che il principio di reciprocità per il quale ai diritti corrispondono i doveri e l‟inclusione ha come condizione l‟accettazione e il rispetto delle regole, valga anche per i Rom? E tuttavia come questo principio può essere messo in pratica considerando che i cambiamenti culturali, le trasformazioni delle mentalità hanno tempi diversi da quelli della politica?

E’ un dovere delle istituzioni promuovere la cultura delle regole, chiederne il rispetto e contrastarne la violazione. Ma proprio perché ci si muove su un terreno così carico di contraddizioni è essenziale mantenere una rigorosa distinzione tra comportamenti e responsabilità individuali e collettivi: quella distinzione che permette di perseguire senza alcuna concessione tutte le violazioni della legge compiuta da membri della comunità e di rifiutare al tempo stesso che questo si trasformi in uno stigma che colpisce la comunità nel suo insieme, ne aggrava le condizioni, ne impedisce l‟evoluzione.

Questa poliedricità culturale rende altresì problematica la costruzione di strumenti di accoglienza e integrazione nazionali, validi per tutti: «[…] In Italia – spiega l’Anci – sono presenti gruppi Rom profondamente differenti tra loro quanto a provenienze, caratteristiche culturali e tradizioni. L’eterogeneità dei gruppi Rom e Sinti richiede alle amministrazioni locali di doversi misurare con una complessità non generalizzabile, che richiede di diversificare gli interventi in relazione ai bisogni e alle reti e risorse disponibili sui vari territori. Non esistono soluzioni univoche o semplificate».

Ne è convinto anche Alessandro Simoni, docente in sistemi giuridici comparati presso l‟Università di Firenze, che ha partecipato a un’audizione presso la Commissione il 15 luglio 2010. Nel corso dell’audizione ha illustrato un testo, elaborato in forma di disegno di legge, al termine del convegno internazionale «The legal status of Roma and Sinti in Italy» tenutosi a Milano dal 16 al 18 giugno 2010:

« La mia personale percezione del problema mi porta a ritenere che la forza dell‟immagine – o, se vogliamo, dello stereotipo – dello zingaro, Rom, sinto, o «nomade» sia così forte da creare talvolta una sorta di inceppamento del funzionamento dello Stato di diritto. Intendo dire che in un mondo in cui l‟identità Rom non creasse certi effetti reattivi nel tessuto sociale e nelle strutture politiche non vi sarebbe bisogno di norme ad hoc, che in ogni caso non attribuiscono nuovi diritti ma aiutano nell‟esercizio concreto di diritti che per tutta una serie di interazioni fra cultura, società ed istituzioni diventano difficili da esercitare quando si è percepiti come appartenenti ad un certo gruppo».

Ad esempio, rispetto alla questione del nomadismo, Simoni spiega: « Noi (nel progetto di legge, Ndr), non abbiamo omesso il fatto – e mi scuso per la circospezione con cui affronto questo tema – che alcuni gruppi Rom pratichino certe forme di mobilità territoriale (peraltro, meno di quanto si creda e spesso in forme che non sono quelle immaginate), ma non abbiamo voluto inserire un diritto astratto al nomadismo.

Abbiamo cercato di individuare, nel complesso articolarsi delle regole amministrative – che sono quelle di tutti i giorni e che vanno conosciute in tutte le sfumature tecniche – strumenti che permettessero la pratica di certe forme di mobilità territoriale, tentando di rendere difficile un potere di blocco basato su opzioni politiche derivanti dalla ricerca nell‟ambito del diritto amministrativo di ostacoli minuti in virtù dei quali, senza l‟assunzione di responsabilità dirette, rifiutare, ad esempio, certe autorizzazioni solo perché le persone che le richiedono appartengono ad un certo gruppo».

Nel corso della XVI Legislatura, sono stati presentati diversi disegni di legge che riguardano Rom, Sinti e Caminanti: AS 2227, «Disposizioni per l’integrazione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti nel territorio italiano» (d’iniziativa dei senatori Di Giovan Paolo, Amati, Baio e altri); AS 1668, «Modifiche alla legge 15 dicembre 1999, numero 482, per l’estensione delle disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche alle minoranze dei Rom e dei Sinti (d’iniziativa dei senatori Perduca e Poretti); AS …, «Norme per la tutela e le pari opportunità della minoranza dei Rom e dei Sinti» (d’iniziativa dei senatori Perduca e Poretti).

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