QUELLO CHE NON SO DI ME

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Fa paura. Terrorizza. Come quando, da bambini, ci si trova al buio. Senza riferimenti per la vista. E allora, com’è luogo comune, si … brancola. Ci si affida al tatto. All’olfatto. Ai sensi che il buio lascia lavorare. E’ una ricerca affannosa. Sotto naja lo chiamavano il “passo del gattino”. Ovvero: arti superiori e inferiori che girano, scandagliano il vuoto. Per trovare eventuali ostacoli. E poterli superare senza danni.

In questa vita –  dato e non concesso sic et simpliciter che ce ne sia, fede o meno, un’altra “dopo” – nonostante la tecnologia moderna e i progressi della scienza, della fisica pur anche di altri “scandagli” di cui l’uomo di è dotato, stiamo, comunque, affidando ad un ignoto pilota automatico la nostra rotta. E’ lui, nella nostra cabina, nel nostro “di dentro” – Coscienza? Somma di files cerebrali interagenti e in cache, in memoria, da quando siamo nati? – a dettare tempi e modi dell’azione?

Quando dici: “Non lo conosco”, prova a riflettere su te stesso questa negazione. Gnozi te autòn, conosci te stesso, dicevano gli antichi. Freud ci ha messo su un lettino e ha indagato anche i nostri sogni. Va molto di moda, anche in Tv, la “macchina della verità”, quella che registra l’elettricità durante un’intervista intima. E presuppone di smascherare le menzogne.  Le “auto-bugie”. Ma è pur sempre un uomo, uno scienziato che tira le conclusioni. Nella sua limitatezza. Quello che non conosciamo di noi stessi? E’ essenziale. La prova del nove. Sappiamo tutto dalla a alla “v”. Sappiamo che la “z” coincide con l’omega, con la fine. Non sappiamo se ci sarà una seconda, nostra, puntata. Ed è in questa nostra limitata conoscenza che, forse, cerchiamo nell’egoismo, nell’egocentrismo, nel “dopo di me il nulla”, l’alternativa a quel “boh” che ci uscirebbe naturalmente dalla bocca.

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