PINOCCHIO FASCISTA

Rielaborazioni di testi famosi in chiave filo-tedesca, favole contro i partigiani. puzzles psicologici destinati ai bimbi nel ’43. Per dirla in breve: persino Pinocchio fu mobilitato a Salò. L’apparato propagandistico fu grande: manifesti, cartoline, locandine, volantini, libretti, opuscoli, fogli volanti di ogni genere. Che nel corso di seicento giorni della Repubblica di Salò furono concepiti, preparati, stampati e distribuiti in vario modo.

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a cura di Cornelio Galas

Questo materiale di oltre cinquemila pezzi è stato raccolto in vent’anni di pazienti ricerche da Sergio Coradeschi. Gli organi preposti a questa propaganda erano essenzialmente due: il Nucleo Propaganda Fascista e la Propaganda Staffel. Quest’ultima dal 14 ottobre 1943 fu incaricata del controllo dei mezzi di comunicazione nelle regione dell’Italia settentrionale nonché della produzione in proprio di materiale propagandistico in lingua italiana.

Il settore particolarissimo che Coradeschi analizza è quello della propaganda rivolta ai fanciulli, che si tradusse in una produzione di giochi e di libri di fiabe. Per quanto riguarda i giochi per i più piccini, il Nucleo Propaganda stampò, in data 15 febbraio 1944, un pieghevole in cartoncino con le varie parti (fustellate parzialmente in modo che non ci fosse bisogno delle forbici per staccare i pezzi) di un pupazzo raffigurante il maresciallo Badoglio vestito per metà con la divisa e per metà con la divisa inglese.

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Anche la scritta di copertina “Il pupazzo qui presente ricomponi immantinente”, è significativa in quanto ripropone l’andamento linguistico tipico delle filastrocche dei giornalini per bambini, come quelle del Corrierino dei Piccoli. Sempre per i più piccoli la Propaganda Staffel nazista distribuì un cavallo di cartoncino leggero che aveva due facce con il volto di due odiati nemici: Churchill e Roosevelt. Se il bimbo poteva giocare con il cavallino, i “grandi” potevano  leggere (e meditare) le scritte propagandistiche che i grafici avevano inserito sulla gualdrappa. Una di esse diceva, senza mezzi termini: “Il cavallo di Troia dei liberatori”.

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Pensando poi ai più grandicelli, che quindi avevano più dimestichezza con le forbici e, bisogna ricordarlo, con i poveri giochi di quei tempi – allora non esisteva la televisione, non c’erano la plastica, le matite biro, la colla che attacca all’istante, i registratori, le cassette musicali e tante altre cose che fanno parte da tempo della nostra vita quotidiana – vennero preparati un teatrino da ritagliare e montare. Nonché (questa volta l’impronta tedesca è chiara) il modellino (da costruirsi) in cartoncino del più famoso aeroplano tedesco: lo Junkers-87, apparecchio per l’attacco in picchiata chiamato in sigla Stuka. I personaggi del teatrino sono di due tipi: i “cattivi” e i “buoni”, come in ogni gioco scenico che si rispetti. I “cattivi” hanno il volto di Stalin Churchill, Roosevelt, dell’ebreo senza nome e di Eleonora Roosevelt, moglie del presidente degli Stati Uniti, nella parte della strega. I “buoni” sono l’italiano (scuro di capelli) e il tedesco (ovviamente biondissimo).

Sul finire del conflitto, nel febbraio 1945, la Propaganda Staffel preparò un singolare gioco dell’oca, intitolato “Gioco delle tre oche”, con riferimento ai tre nemici tradizionali, i russi, gli americani e gli inglese. L’opera di propaganda si svolge nelle caselle in cui vanno spostate le pedine durante la partita. In queste caselle c’è praticamente la “summa” dei temi ideologici nazifascisti: da “radio Londra” (che incitava a resistere a Hiler e Mussolini) ai “bombardamenti” angloamericani, dai vari corpi combattenti ai “traditori badogliani”, fino alla casella finale nella quale si perviene all’Ordine Nuovo” che il Fuher intendeva realizzare in Europa una sterminati tutti i suoi nemici.

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Con questo gioco la propaganda tedesca tendeva, quindi, ad allargare il suo raggio d’azione, pensando di coinvolgervi non soltanto i ragazzi, ma anche i grandi, ipotizzando che lo si adoperasse in famiglia, nelle lunghe serate di coprifuoco, senza pensare che quelle vignette incitanti alla collaborazione con nazisti e fascisti rappresentavano, invece, quanto la stragrande maggioranza degli italiani, in quel momento, aborriva.

Nel settore delle favole vennero prodotti quattro libri: “Il viaggio di Pinocchio” e la “Storia del bene e del male” editi nel 1944, “La principessa Amor” e “Sette favole vecchie e nuove” stampati nel 1945- “Il viaggio di Pinocchio”, scritto da “Ciapo” (una sigla sotto cui non si sa chi si nascondeva) e illustrato da Fulvio Bianconi, venne preparato dalle Edizioni “erre” di Venezia in due formati: uno di lusso, con illustrazioni a colori, del costo di 50 lire, e uno più piccolo e più popolare, che costava 5 lire.

L’utilizzazione del più noto personaggio della favolistica italiana viene condotta parafrasando soltanto quegli avvenimenti che possono far gioco agli intenti propagandistici. Infatti il racconto prende le messe allorché Pinocchio incontra una turba di ragazzi che celebrano la festa della libertà, intesa come il 25 luglio 1943. In quel frangente un fascista viene ucciso e Pinocchio, che dissente dai manifestanti, finisce in prigione: ne uscirà l’8 settembre 1943.

Durante la Repubblica di Salò – a parte i nazisti che avevano una propria Propaganda Staffel e una sezione psicologica alle dipendenze dell’SS Standarte “Kurt Eggers” – il complesso meccanismo della propaganda fascista dipendeva dal ministero della Cultura Popolare, diretto da Fernando Mezzasoma. Da Roma, il ministero e tutti i suoi uffici si erano trasferiti per tempo al Nord (pur lasciando nella capitale una “succursale” fino al giugno 1944) distribuendosi in varie città: a Salò il ministro e la sua segretaria, a Venezia (Palazzo Volpi) le direzioni Affari Generali, Personale e Scambi Culturali, a Milano (Palazzo Clerici) il servizio di propaganda radiofonica per l’estero e la direzione della stampa italiana.

FERNANDO MEZZASOMA

FERNANDO MEZZASOMA

Una Compagnia Operativa Propaganda (diretta dal tenente colonnello D’Aloia) aveva sede a Verona, mentre il cervello dell’attività editoriale era a Venezia. Qui si erano trasferiti anche i servizi e le strutture dell’Istituto Luce (cinegiornali) e di quelli di Cinecittà, che, alla guida di Luigi Freddi, aveva trovato una sistemazione negli stabilimenti del Lido.

La radio (allora EIAR) continuava a mantenere la direzione a Torino, l’Istituto Geografico Militare (tenente colonnello Palazzolo) si era trasferito a Dobbiaco, la Zecca adoperava per la stampa delle banconote l’Istituto Geografico De Agostini di Novara e l’Istituto Arti Grafiche di Bergamo.

La carta era un problema molto grave: l’assegnavano i tedeschi, e nell’assegnarla tenevano conto meticolosamente dell’uso che se ne faceva. Svicolando tra questi scogli, la sezione psicologica della Repubblica Sociale si diede da fare con molto impegno, pagando lautamente giornalisti, disegnatori, grafici, attori, compagnie teatrali e musicali e gli scrittori.

Vennero usati tutti gli impianti tipografici rimasti intatti, persino la tipografia dei Salesiani a Venezia. Fu in questo quadro che venne ideato e scritto un nuovo testo che sfruttasse Pinocchio e lo facesse operare al fianco dei nazifascisti. Il libretto comparve nel 1944, anno XXII dell’Era fascista, e comprendeva vari capitoli (La “festa della libertà” il 25 luglio del 1943 e il tripudio per l’armistizio dell’8 settembre – Alcuni mesi di carcere e l’incontro con la Volpe che s’è arricchita trafficando nei ministeri e con il gatto massone che fuma il sigaro come un banchiere ebreo – La fuga “dall’altra parte” in motoscafo e il naufragio – Una pattuglia tedesca li salva e li rifocilla – Lucignolo ha aderito all’appello di Graziani e sfila in un battaglione di giovani – Pinocchio, entusiasta, chiede a un ufficiale tedesco: “Voglio arruolarmi anch’io: datemi un vestito e un fucile !” – Ma è un burattino e viene deriso – La Fata turchina gli manda un colombo e lui vola al Nord, verso la Patria fascista che lo aspetta) distribuiti in 56 pagine. Oggi la sua lettura per chi non è vissuto in quel periodo non dice molto e va guidata, perché tutta allusiva. Fatto sta che c’è questa incredibile trasformazione del burattino di Collodi che nel 1944 diventa repubblichino.

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“Mentre camminava svelto per la strada maestra – inizia il testo – Pinocchio rimandava il pensiero alle peripezie di quei giorni. Ne aveva passate di avventure dopo che la Volpe e il Gatto l’avevano così bellamente raggirato per portargli via quelle cinque monete d’oro che il burattinaio Mangiafoco gli aveva dato perché le portasse a suo padre!”. Il burattino di sirige verso la casa della Fatina dai capelli turchini per chiedere perdono a lei e al babbo Geppetto, ma incontra uno sciame di ragazzi che gridano e cantano. Lucignolo fa parte di quella banda, un manifestante alza un cartello con la scritta “W la libertà” (E’ il 25 luglio 1943, la gente esulta perché il fascismo è finito).

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“La libertà? Ecco una santa che non avevo mai sentito nominare”. “Non c’è sul calendario – dice Lucignolo – è una ricorrenza che capita molto di rado e quando capita bisogna approfittarne”. Ci sono bandiere alle finestre, i ragazzi hanno fame. Un oste offre “minestra asciutta, pane senza tessera (eludendo il razionamento) e certe cotolette con patate da leccarsi i baffi. Un camion li viene a prendere per portarli in città, ma, attraversando un ponte, Pinocchio scorge giù, nella scarpata, il corpo di un giovane disteso sotto il sole; aveva la camicia nera, era pallido e smorto in viso e i suoi occhi guardavano il cielo” (un fascista ammazzato dalla folla che tripudia per la caduta di Mussolini).

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In città c’è folla e gazzarra. Tutti gridano “Evviva!”, il burattino, invece, “Abbasso!”. Lo abbrancano, lo legano come un salame e lo gettano in cella: ha la sola colpa d’esser stato dissenziente (comincia a pensare come uno che poi aderirà alla RSI). “Se questa è la libertà – dice – non so che farmene”. “Già – continua un giovanotto in cella con lui – ammazzano tanta gente, grattano le insegne dalle case (i fasci littori tolti dalle facciate), dai monumenti, cancellano gli emblemi, come se, con questo, si potesse cancellare la storia”. E il Grillo Parlante gli sussurra: “Non credere agli uomini che metton da parte l’onore, che pensano soltanto alla propria pancia … “.

Dopo un lungo sonno, Pinocchio vien messo fuori. Perché? “Perché la guerra è finita (Badoglio ha firmato l8 settembre 1943 l’Armistizio con gli Alleati)e non sappiamo che farcene dei mangiapane come te”.

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Altra gente per le strade che grida, un’altra “festa della libertà”. Un soldato butta in aria il berretto e urla: “Viva la pace!”. Qualcuno legge le clausole dell’armistizio: resa senza condizioni, consegna della flotta, collaborazione col nemico … Pinocchio grida dalla contentezza e gli altri (chi è fedele ai tedeschi e a Mussolini)si voltano. “Si vede proprio che sei un burattino”. Il burattino non capisce più nulla: la guerra è stata persa e la città è in festa (emerge il ragionamento che guiderà tutta la propaganda psicologica di Salò).

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S’incammina per il Corso e “trova la Volpe che non zoppica più e il Gatto con un catenone d’oro al colle, da cui pende a ciondolo un triangolo (il simbolo della massoneria) con un sigaro in bocca come un banchiere ebreo o americano. Ti offro da mangiare – dice la Volpe – sono ricco, ho rubato al governo più che ho potuto. Non era lecito adoperare cartone invece di cuoio nelle scarpe destinate ai soldati?” (uno scandalo del tempo di guerra). Il gatto spiega che si è dedicato alla borsa nera: è semplice, “ciò che costa dieci lo si rivende a cento, e ciò che costa cento a duemila … Avevamo molte aderenze ai ministeri … “. “Ma la guerra è perduta!”, dice Pinocchio. “Era nel programma – dice la Volpe – ora diventeremo amici dei nostri nemici di ieri e nemici dei nostri amici … “. (amici degli angloamericani e nemici dei tedeschi).

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Pinocchio, dopo aver mangiato e bevuto, si rimette in cammino. “Ogni tanto vede gruppi di giovani, mal vestiti e laceri, qualche volta con un berretto militare in testa, che se ne vanno” (i militari del Regio Esercito che tornano a casa, allora erano chiamati dai fascisti “gli sbandati”). “Chi sono?”, domanda a uno spaccapietre. “Soldati che scappano”. Mentre cammina lo raggiunge un’automobile con la Volpe e il Gatto. “Monta su”, gli dicono. “Andiamo al mare” (sono re Vittorio Emanuele III e Badoglio che fuggono verso un cacciatorpediniere che li aspetta a Pescara per trasportarli a Brindisi, in territorio già in mano agli angloamericani).

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“C’è un motoscafo in pressione che ci attende”. “Dove si va?” “Dall’altra parte, dai nemici ora amici … Ci ricopriranno d’oro, non di carta, dollari e sterline”. “Ma perché questi signori sono così buoni?” Il motoscafo è una barcaccia guidata da un pescatore. Naviga tutta la notte, ma all’alba urta contro uno scogolio e fa acqua. Pinocchio si mette a nuotare e viene salvato, assieme al Gatto e alla Volpe, da soldati a bordo di un motoscafo (sono tedeschi che pattugliano quella zona dell’Adriatico: il motoscafo ha mitragliatrici e proiettili di artiglieria). Il Gatto (il maresciallo Badoglio) dice: “Siamo fritti … sono i nemici”. I soldati li portano a terra, li rifocillano e li mettono in una stanza. Si addormentano.

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Quando Pinocchio si sveglia la Volpe e il Gatto non ci sono più e lui viene portato dal Comandante (dall’illustrazione si vede che è un ufficiale con l’aquila nazista e un grosso binocolo). “Signor Comandante – dice Pinocchio, facendo il saluto militare – io voglio arruolarmi con voi. Datemi, vi prego, un vestito e un fucile”. Il Comandante gli ride in faccia.

Sconfortato, Pinocchio si avvia verso la spiaggia, ma sente “passi cadenzati e un canto. Corre, e vede sfilare in perfetto ordine un battaglione di giovani, di ragazzi con il fucile e lo zaino in spalla (il nuovo esercito della RSI). Si sente chiamare. E’ Lucignolo che grida: “Andiamo a combattere!” (contro gli angloamericani). “Voglio combattere anch’io”, grida, ma è vestito solo di una camicia di carta fiorata. Tutti ridono. Corre alla spiaggia e, piangendo, invoca un miracolo della Fata dai capelli turchini.

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“Proprio in quel momento un grosso colombo si fa strada fra le nuvole e, roteando, viene a posarsi accanto a lui. “Non c’è tempo da perdere”, dice il colombo. Il burattino gli salta in groppa e grida entusiasta: “Portami dove si combatte!” Il colombo distende le ali e parte “come una freccia, puntando verso il cielo della Patria (cioè al Nord, nella zona occupata dai nazisti). Il volumetto finisce con queste parole: “Pinocchio sarebbe diventato uomo, stavolta. Non sarebbe stato più un burattino”. Le allusioni sono più che evidenti.

La “Storia del bene e del male” con il sottotitolo “Fiaba per grandi e piccini”, venne edita, sempre dalle Edizioni “erre” di Milano e Venezia, in un album elegante e curato che costava 20 lire. Ed era opera sia per quanto riguarda il testo che le illustrazioni, di Dante Coscia, altrimenti noto in quel periodo per una serie di manifesti rurali, cartoline postali e volantini di indubbia efficacia grafica.

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L’album, stampato in caratteri tipografici grandi per facilitarne la lettura ai bambini, si può considerare il più valido come invenzione propagandistica poiché non si rifà, come con Pinocchio, ad esempi o impostazioni favolistiche già conosciute.

Il personaggio centrale è un bambino, ovviamente il fascismo alle sue origini, il quale è alle prese con un masso rappresentante simbolicamente le sinistre più accese, vale a dire anarchici e comunisti, e con un serpente che la testa di Vittorio Emanuele III. Le vicende del bambino prendono le mosse dal 1919.

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Vi compaiono numerosi animali simbolici: tre asini (liberali, socialisti, democratici), l’aquila chiaramente asburgica, il leone ovviamente inglese. Quest’ultimo ha un posto importante nella storia, sia quando vuole l’Africa (con chiaro riferimento alla guerra d’Etiopia del 1935), sia quando, assieme alla pantera, che simbolizza gli Stati Uniti d’America, entra nel giardino italiano perché il serpente-Vittorio Emanuele III ne ha aperto il cancello.

A questo punto ecco, deus ex machina, arrivare un altro bimbo, biondo e con l’elmetto, chiaramente il nazista, che libera il piccolo (fascista) dalle spire del serpente, il quale fugge zigzagando, ma viene schiacciato dal masso comunista, fra il tripudio dei tre asini. Il finale è alquanto sconcertante sul piano propagandistico in quanto non dà affidamenti certi di vittoria nazifascista (ma è ben vero che anche nel Pinocchio non si sapeva come sarebbe andata a finire).

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Anzi, quasi  presago di ciò che sarebbe successo nei mesi successivi alla pubblicazione, prevede la fine della monarchia e il trionfo di quelle forze democratiche che aveva tanto deprecato. Alla fin fine, dunque, si rivela un’arma a doppio taglio per la propaganda fascista.

Forse questa è la ragione per la quale l’album, oggi rarissimo, venne sostituito con un altro uscito nel gennaio 1945, sempre per conto delle Edizioni “erre”. Lo scrisse Dina Valeri e lo illustrò un disegnatore che si celava sotto lo pseudonimo di Gheb: veniva venduto a 25 lire. Il titolo è significativo: “La principessa Amor”. Amor è l’anagramma di Roma, la capitale già da tempo liberata dagli Alleati.

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Il personaggio femminile, la principessa Amor appunto, simboleggia sia Roma sia l’Italia, ed è tutta pervasa d’un alto senso di religiosità, offrendo nello stesso tempo sdolcinature di derivazione disneyana. I cerbiatti nelle illustrazioni si sprecano, tanto che vien da pensare che l’album fosse destinato alle bambine. I personaggi di contorno sono i soliti: il lupo (gli Stati Uniti), l’orso (la Russia) e il serpente (l’Inghilterra) rappresentano i “cattivi”, mentre il salvatore della situazione, l’eroe positivo, è il Principe Gentile, ovviamente biondo e … tedesco.

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Anche la Propaganda Staffel nazista si cimentò in quest’opera di propaganda verso i bambini, ma scelse un’altra strada, meno scoperta e più subdola. L’album si intitola “Sette favole vecchie e nuove”; costava 15 lire, venne edito attorno alla metà di febbraio del 1945. Le illustrazioni, oltre che in grigio, sono bianche, rosse e verdi, nel ricordo del tricolore. Vi sono contenute sette favole, una “morale” e tre slogans. Delle sette favole le prime cinque sono tradizionali, senza alcuna manipolazione: Biancaneve, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola, Tredicino e Cappuccetto Rosso.

Invece le ultime due, Nicola il ribelle e Il cattivo Bastiano, sono antipartigiane. Questo è l’unico caso, in tutta la propaganda di Salò rivolta ai bambini, in cui viene trattato il tema dei ribelli.

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La “morale” fa riferimento alla vita superiore della Patria, alle sue leggi, ai suoi interessi, al suo onore. Gli slogans sul “sangue fraterno versato” e sull’”uomo che si mette fra i lupi”, indicano con grande chiarezza quale e quanta fosse la preoccupazione dei nazisti della Staffel riguardo al movimento di liberazione partigiano in quei mesi sempre più aggressivo, perché cosciente che la guerra stava per concludersi e che il nazifascismo ne sarebbe uscito totalmente sconfitto.

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Nell’opera di coinvolgimento psicologico dei bambini la Repubblica di Salò usò anche l’unico mezzo veramente moderno allora esistente: la radio. L’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, così si chiamava la RAI di quei tempi) con direzione a Torino, lanciò nella sua rubrica settimanale “Radio-famiglie”, che andava in onda ogni venerdì dalle 16 alle 17, un concorso, diretto ai bambini delle scuole elementari.

Gli alunni dovevano inviare alla redazione un tema su uno dei tre seguenti argomenti: “Sentimenti provati nell’apprendere la restituzione del Duce al suo popolo” (cioè alla liberazione da parte dei tedeschi del dittatore confinato in un albergo a Campo Imperatore, nella catena del Gran Sasso), “Impressioni avute dalle gesta dei valorosi camerati tedeschi” e “Sentimenti e speranze sul nuovo Esercito repubblicano”.

Le risposte – temi, disegni e anche composizioni in rima – vennero pubblicate nel 1944 dalle Edizioni “erre” di Venezia in un volumetto intitolato “Parlano i bambini d’Italia” che costava 10 lire. Il libretto, di 144 pagine, contiene ben 71 svolgimenti: di essi appena quattro hanno qualche parvenza d’autenticità. Il resto è ingenua falsificazione, probabilmente opera di qualche giornalista al servizio del Nucleo Propaganda, che non si curò né di cambiare stile, n* di informarsi sul linguaggio dei bambini dai sette agli undici anni, usando quindi i termini più desueti della propaganda fascista.

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Citiamo, ad esempio, dal tema di un bambino di seconda elementare (sette-otto anni !): “ … Speriamo presto che il nostro esercito repubblicano, che nuovamente sta ricostituendosi, assieme ai camerati germanici, possa ricacciare in fondo al mare questi anglo-assassini che hanno mutilato le nostre belle città, seminando lutti e desolazione, e il sangue degli eroi caduti per la Patria non sarà sparso invano, facendo rifiorire una Italia grande e forte”.

E ancora, un bimbo di terza elementare (otto-nove anni) avrebbe scritto: “ … Come si sono permessi questi ultimi di trattare così brutalmente una personalità sì grande, che aveva fatto del bene a tutta l’umanità, in ispecial modo a noi bimbi di modeste condizioni finanziarie?” Non un errore d’ortografia, periodi lunghissimi pieni di incisi e un’esemplare padronanza della sintassi: sono le spie evidenti di questo falso, clamoroso e ingenuo al contempo.

BIBLIOGRAFIA

  • Storia della Repubblica di Salò – F. W. Deakin (Torino, Einaudi, 1963)
  • La censura nel periodo fascista – M. Cesari (Napoli, Liguori, 1979)
  • La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media – P. V. Cannistraro (Bari, Laterza, 1975)
  • Eia, Eia, Alalà. La stampa italiana sotto il fascismo – O. Del Buono (Milano, Feltrinelli, 1971)
  • C’era una volta un pezzo di legno: la simbologia di Pinocchio – AA. VV. (Milano, Emme Edizioni, 1981)
  • La stampa italiana nell’età fascista – N. Tranfaglia (Bari, Laterza, 1980)
  • La scuola italiana durante il fascismo – M. Ostenc (Bari, Laterza, 1981)
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