NON ERA FACILE DIVENTARE ARCENSI

CITTADINANZA DI ARCO, DIRITTI E DOVERI

DAL CINQUECENTO

ALLA FINE DEL SETTECENTO

ar2

a cura di Cornelio Galas

Non era facile, una volta – parliamo di alcuni secoli fa, intendiamoci – diventare “cittadino di Arco”. Lo si scopre analizzando i documenti presenti nell’archivio storico della città trentina e soprattutto lo studio – notevole per rigore e bibliografia  – del dott. Marcello Orlandi  (Anno Accademico 2008-2009 Università degli Studi di  Trento Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Triennale in Scienze Storiche). La tesi di laurea del dott. Orlandi (“La cittadinanza ad Arco. Evoluzione della condizione del cittadino nel corso dell’età moderna”) offre peraltro, crediamo, anche interessanti spunti per capire … atavici campanilismi, tra Arco e Riva del Garda.

LE “CARTE” DEL CONSIGLIO

Vi sono alcuni articoli specifici contenuti negli statuti, nelle convenzioni, nelle ordinanze e nelle delibere degli organi amministrativi comunali, inerenti i diritti e i doveri dei cittadini arcensi. Lacunosa risulta essere invece la documentazione riguardante chi avesse accesso a questi diritti e in base a quale criterio potessero godere della cittadinanza. Indicativamente erano annoverati nel numero dei vicini tutti gli abitanti maschi originari del borgo detentori di un fuoco, cioè i capifamiglia. Nel tentativo di definire più precisamente quali fossero le caratteristiche che la condizione di cives incorporava, si nota come i testi legislativi contengano soprattutto divieti e in misura minore doveri. I divieti riguardano in maggioranza argomenti come la preservazione delle risorse. La conservazione dei pascoli, dei boschi, delle campagne, della fauna sono alcune delle maggiori preoccupazioni dei rappresentanti della comunità. La carta di regola duecentesca è in gran parte composta di norme a tutela del territorio, e così anche i Cento capitoli, ai quali si aggiungono tutta una serie di proibizioni sulla vendita delle carni. Solo per fare un esempio, il primo articolo degli Statuti datisi dagli uomini d’Arco riguarda il divieto per chiunque di fare legna nella zona del Linfano, il secondo proibisce di pascolare e falciare erba in un prato della comunità; lo statuto prosegue con questo tenore per tutta la durata dei suoi 42 capitoli.

1

Discorso differente per i doveri che i cittadini di Arco avevano nei confronti della comunità. Uno dei più importanti era ovviamente l’obbligo della prestazione di opere pubbliche su ordine del consiglio. I cittadini dovevano sempre essere disponibili per eseguire servizi per la comunità, pena una multa pecuniaria. Stesso discorso nel momento dell’assegnazione delle cariche: non era possibile rifiutare un ufficio una volta assegnato dai consoli, a meno che non si fosse ricoperta la carica di massaro o console nei dieci anni precedenti. Più di una volta ci furono casi in cui la comunità non esitò a privare della cittadinanza chi rifiutava di assumere un ufficio al quale era stato designato, come vedremo più avanti. Certo è che ricoprire una carica, oltre ad un compenso, dava anche dei diritti che i semplici cittadini non avevano, cioè l’esenzione dalla prestazione delle opere per la comunità sopra citate, ma comportava spesso una serie di rischi economici non indifferenti. Questo elemento dovrebbe darci un dato importante sulla condizione dei cittadini che ricoprivano il ruolo di funzionari comunali, di certo sufficientemente agiati per permettersi di coprire alcune spese, che, a seconda dei casi, venivano o meno rimborsate dal comune.

 Questa ipotesi è avvalorata dal fatto che i nominativi dei consoli e dei consiglieri che sottofirmavano le delibere e le ordinanze comunali erano spesso preceduti da titoli nobiliari o professionali che presupponevano l’appartenenza ad un ceto sociale medio-alto, almeno per quanto riguarda la seconda metà del Settecento. Sempre in campo di doveri civici, vi era l’obbligo di partecipare alle riunioni del consiglio generale del borgo di Arco, per prendere parte alle decisioni della comunità, e di recarsi sul confine tra Arco e Riva il 23 Aprile, giorno di San Giorgio, per “potare le siepi e gli arbusti”. La linea di separazione tra le due cittadine andava dal Monte Brione alla chiesetta di San Tomaso, collocata nelle campagne tra Arco e Riva, sull’attuale strada statale 45bis, e ogni anno in quella data tutti i rappresentanti comunali e i cittadini dovevano lì recarsi per la cerimonia di preservazione del loro territorio e riconferma del limen esistente. La radice dell’usanza risaliva alle vicende storiche che avevano interessato Arco e Riva fino ai primi anni del XVI secolo. Riva infatti stava vivendo il suo periodo di occupazione veneziana; di conseguenza Arco poteva considerarsi a pieno titolo l’ultimo avamposto meridionale dell’Impero. Nelle sue campagne si svolsero scontri più o meno di rilievo tra truppe veneziane e imperiali. Fu probabilmente per questo che si decise di inserire tre articoli riguardanti questo argomento nello statuto dei Cento Capitoli, redatti nel 1480, anno in cui la repubblica di Venezia era ancora in possesso della sponda settentrionale del lago di Garda.

12a5693e79231235_27b6d330b9151464

Dopo il 1509 e il ritorno delle forze vescovili in Riva la norma continuò ad essere osservata, tant’è che nel redigere l’inventario del notaio Carlo Tamburini che, svolse a più riprese la funzione di cancelliere per la comunità nella seconda metà del Settecento, ci s’imbatte nel documento che testimoniava questo atto ripetuto annualmente. La revisione dei termini rimase sempre un compito molto importante dei rappresentanti comunali, poiché spesso questo argomento era motivo di lite, causa la mancanza di mezzi per eseguire delle rilevazioni topografiche precise. Se gli statuti cittadini non forniscono molti elementi sui diritti che i cittadini arcensi potevano rivendicare, possiamo desumerli, oltre che da alcuni decreti dei consigli, dagli strumenti di aggregazione a cittadinanza. Nell’atto di incorporare un nuovo cittadino nel numero dei cittadini originari, oltre ai doveri gli venivano elencati a grandi linee i diritti che questa nuova condizione gli dava. Al neo-aggregato veniva concesso un nuovo status giuridico e l’accesso alle risorse comunitarie: avrebbe potuto “… servirsi di tutte le prerogative immunità, esenzioni, onori, cariche utili, emolumenti, e libertà che godono e si servono possono godere, e servirsi gli altri Cittadini tutti originari d’essa Comunità, e di andare a monti, piani, boschi, selve, pascoli, ed ogni altro luogo della medesima Comunità; far legne, fratare, tagliare, segare, e conseguire tutto quello, che li Cittadini originari possono godere e servirsi …”.

Queste prerogative erano legate al mantenimento della residenza in Arco. Infatti a partire da metà ‘600 iniziano ad apparire una serie di delibere che vietavano ai possessori della cittadinanza, ma ormai non più domiciliati in Arco, di godere dei diritti dei cittadini abitanti, equiparandoli di fatto alla condizione dei forestieri abitanti nel borgo. Nel 1672 il consiglio stabiliva inequivocabilmente che “quelli delli Comunità d’Arco non habbitino né habbiteranno nella Conteà d’Arco non possino godere le prerogative che godono quelli che habbitino nella suddetta terra d’Arco”, specificando la proibizione di far pascolare pecore nei territori della giurisdizione arcense.

1602_300_1081

Ancora nel 1722 e nel 1749 i cittadini non abitanti vengono accomunati ai forestieri abitanti nei divieto di pascolo e di fare legna sui monti comunali. Si sarebbero visti sospendere i diritti dati dalla cittadinanza fintanto che avrebbero abitato fuori dalla contea. L’ultimo episodio simile si concretizzò in un lungo processo tra una famiglia nobile di Riva del Garda, i Formenti, e la comunità di Arco, suscitata dal diritto di caccia nei territori comunali, tra il 1762 e il 1770. La famiglia rivana era in possesso della cittadinanza di Arco ma risultava domiciliata a Riva. Per questo le fu intimato a più riprese da parte dei rappresentanti comunali di non cacciare nelle terre appartenenti ad Arco. La vertenza si chiuse inizialmente con la rinuncia della comunità a procedere, sicura di essersi avventurata in una causa persa in partenza. Ma nel 1770, il consiglio del 38 prese coraggio e fece analizzare i documenti inerenti alla controversia ad un giusperito. Lo stesso anno una sorta di petizione di numerosi cittadini sottoposta dal dottor Gianantonio Bornico al conte governatore portò quest’ultimo ad ordinare il divieto di caccia a qualunque cittadino non abitante. Ci sono altri casi in cui i diritti di un cittadino vennero limitati: ad esempio nel 1655 venne stabilito di non affidare cariche comunali a cittadini che erano al servizio dei conti, in modo da non generale un conflitto di interessi, e ciò per attestazione dei conti stessi. In altre circostanze la cittadinanza poteva essere tolta: a quei cittadini che tradivano la comunità in tempo di guerra, come i fratelli Franzini, che durante l’occupazione francese del 1703 si erano schierati apertamente dalla parte dell’invasore. Successivamente vennero processati e nel 1707 vennero banditi dalla contea.

A volte bastava molto meno per perdere lo status di cittadino: nel 1633 per decreto del consiglio generale quei cittadini che avviavano una causa legale contro la comunità, rifiutavano di svolgere uffici ed offendevano “ in fatti come in parole” gli ufficiali comunali, dovevano essere privati dei diritti. Questo avvenne puntualmente per ben tre volte nel corso del Settecento. Nel 1756 venne tolta la cittadinanza al nobile Giuseppe Bornico, che aveva rifiutato l’ufficio di edile, l’anno seguente a Gasparo Carmelini, per essersi rifiutato di assumere la carica di saltaro delle feste,e ancora nel 1775 ne venne privato Giambattista Andreotti, che non volle svolgere il ruolo di massaro per quell’anno. Queste disposizioni, confermate da atti notarili di privazione di cittadinanza, spesso venivano ritirate dietro il pagamento di una sanzione, come avvenne per Bornico e Andreotti l’anno successivo alla perdita dei diritti civici.

ar6

CHI ERA IL “FORESTIERO”?

Andiamo ora ad analizzare quali erano le conseguenze della mancanza della cittadinanza, cioè le caratteristiche che contraddistinguevano la condizione di forestiero. Già negli Statuti datisi dagli uomini d’Arco del XIII secolo, cioè il testo legislativo più antico arrivato a noi, si fa menzione in alcuni articoli dei forenses, persone di condizione giuridica inferiore poiché non cittadini originari arcensi. La comunità, così impegnata a proteggere le risorse che la valle del Sarca aveva da offrire, specificò in più occasioni in questo testo come chi non godesse dello status di cittadino non potesse avere accesso ai beni comuni. Ugualmente negli statuti e convenzioni successive troviamo un distinguo molto preciso nello specificare a quali risorse i “foresti” non potessero legalmente attingere. Vi era fatto divieto per i forestieri di poter pescare nel fiume Sarca, di poter pascolare, fare legna e cacciare sui monti del comune; queste disposizioni vennero poi confermate a più riprese da proclami dei conti d’Arco, nel 1512 e nel 1551.

Alla violazione di queste disposizione corrispondevano delle condanne verso i trasgressori che si traducevano in multe o addirittura espulsioni. Per decreto del consiglio generale , nel 1630, per il diritto di pascolo, i forestieri vennero condannati a pagare 4 troni per ogni “bestia grossa” e 1 trono per ogni “bestia minuta”; nel 1656 si parla di 27 troni per ogni paio di buoi, 8 troni per ogni bestia grossa e uno per ogni bestia minuta. Anche per quanto riguarda il pagamento della saltaria, cioè la tassa per la sorveglianza delle campagne, i forestieri risultavano penalizzati rispetto ai cittadini. I cento capitoli stabilivano che i saltari, vale a dire i guardiani delle campagne, non dovessero risarcire i danni che fossero stati provocati a beni appartenenti a persone che non facessero parte del comune. Probabilmente questa specificazione venne inserita nel capitolo perché spesso i forestieri, possessori di beni nel contado, si sottraevano al pagamento della tassa, a giudicare dai due proclami, che intimavano loro di soddisfare le richieste degli ufficiali comunali, prima nel 1727 e poi ancora nel 1745. Spesso si cercò, con l’adozione di provvedimenti decisi, di impedire che nuove persone si stabilissero in Arco, o per lo meno di limitare la loro presenza. Altre volte si decretò semplicemente la loro “cacciata” dai territori del contado.

arcade-499459_960_720

Nel 1510 la comunità vietò ai cittadini di affittare case ai forestieri sotto pena pecuniaria di 10 lire, nel 1588 si rinnovò questo divieto, con un’importante specificazione: se un cittadino avesse affittato un bene stabile ad un forestiero, quest’ultimo non avrebbe potuto usufruire dei beni comuni, ad eccezione del caso in cui esso non fosse il conduttore di un maso, cioè fosse esso un manente. Solo in questa circostanza avrebbe potuto attingere alle risorse riservate alla comunità, al posto però del locatore del bene. Insomma si tentava di non allargare numericamente il diritto di usufrutto dei beni comunitari. Ancora nel 1604 si limitava il numero di manenti forestieri ad uno per ogni cittadino. Nel 1649 il consiglio generale intimava nuovamente ai cittadini il divieto di affittare case o campi ai forestieri e lo stesso anno ribadiva il concetto nel tentativo di scacciare i “forestieri inutili”. Nei casi in cui il contado versasse in condizioni di grave difficoltà, dovute a carestie, guerre o calamità naturali, la comunità non esitava ad allontanare forzosamente i forestieri. Nel 1633, a soli due anni dall’epidemia di peste che colpì il contado di Arco, il conte autorizzava la comunità a “cacciar via i forestieri inutili”96. Ancora nel 1703, durante l’occupazione francese, la regola generale stabilì “che tutti li Forestieri che abitano in Arco e suo regolare, che non hanno beni per mantenersi, debbano absentarsi da questa patria e ritirarsi alla propria loro Patria sino ad altra deliberatione e tempo più propitio”. Il passaggio dell’esercito francese segnò profondamente la città, tanto che il Settecento arcense si contraddistinse per l’arresto dell’economia e i problemi finanziari della comunità, che portarono ad una chiusura verso l’esterno, anche nelle norme riguardanti i forestieri o il diritto di cittadinanza.

Tuttavia è attestata la presenza di persone che pur abitando nel borgo non erano accorpate nel numero dei cittadini: questi erano i forestieri abitanti. La loro presenza andò regolandosi nel tempo con l’inserimento di norme statutarie o mediante le delibere degli organi comunali, che distingueva la loro particolare condizione da quella dei semplici forestieri. Ci si preoccupava molto del comportamento delle persone estranee al corpo dei cittadini; spesso vengono citate nelle ordinanze come danneggiatori dei beni comuni98 e visti con sospetto. Per questo per ottenere il permesso di stabilire il proprio domicilio all’interno del contado veniva richiesta una cauzione, la cui entità variò nel tempo, in modo da coprire eventuali spese causate dai loro comportamenti. Questa era una clausola imprescindibile che permetteva l’accesso alla condizione di forestiero abitante.

ed1250

Il trentasettesimo punto dei Cento capitoli intitolato “De forensibus non debentibus venire habitatum in communi Archi”, a dispetto del titolo conteneva le indicazioni necessarie perché un forestiero potesse stabilirsi in Arco. Il signore di Arco e il comune (indicazione vaga, poiché non viene specificato a quale organo competesse la funzione, ma presumibilmente si tratta del consiglio generale) dovevano dare il loro consenso, ma soprattutto il richiedente doveva pagare “cinquanta libbre di denari entro un anno o due”  e anticipare una cauzione, a seconda della decisione dei rappresentarti comunali. Questa condizione avrebbe dovuto evitare l’affollarsi in città di mendicanti, nullatenenti e vagabondi. Tuttavia la concessione di un periodo di tempo di due anni per pagare la cifra richiesta sembra abbia causato non pochi problemi alla comunità, che periodicamente deliberava contro coloro che si ostinavano a non versare la cauzione.

 Nel 1659 un decreto del consiglio maggiore intimò ai consoli di far pagare ai forestieri la cauzione, altrimenti sarebbero stati costretti a coprire loro stessi le spese. Lo stesso testo ci fornisce importanti informazioni sulle differenze che correvano tra lo status di forestiero residente o meno. La comunità, attraverso il versamento della somma, concedeva al nuovo abitante nel borgo, oltre al diritto di residenza, la licenza di pescare, di fare legna e di pascolare, distinguendolo nettamente dai comuni stranieri, ma allo stesso tempo gli chiedeva di contribuire alle spese collettive che erano da affrontare di volta in volta. Per questo gli organi comunitari a più riprese rivolsero la loro attenzione alla riscossione della sigurtà dovuta dai forenses e alla richiesta di denaro per le collette o per le steore, cioè le tasse. Gli esempi sono numerosi: il consiglio generale prima nel 1644 e poi nel 1676 pretese il loro contributo alle spese comunitarie.

Mappa Lago di Garda

Nel 1663 il consiglio generale di tutte le comunità rinnovò l’istanza di pagamento della cauzione e nel 1695 pubblicò nuovamente l’ordine perentorio, chiarendo che sarebbe toccato ai rappresentanti della villa in cui il forestiero risiedeva il compito di fissare l’entità della somma e di incassarla. Inoltre vietava ai cittadini di affittare case o campi ai foresti residenti, ma ancora morosi. Se avesse contravvenuto alla norma, il locatore avrebbe dovuto pagare i danni eventualmente causati dall’affittuario. Gli anni a metà del Settecento sono densi di episodi legislativi che miravano ad una regolarizzazione della condizione dei forestieri già insediati nel borgo. Nel 1740, venne intimato ai forestieri residenti da meno di dieci anni nel contado di andarsene se ancora non avessero pagato la cauzione, che venne fissata in 200 fiorini, da versare questa volta al comune. La già citata quarta convenzione del 1743, all’articolo nono intitolato appunto “per li foresti”, cambiava leggermente le regole: “… volendo venir ad abbitare in questo contado qualche forestiero debba quello nel termine di giorni tre presentarsi alli consoli, o sindici nel regolare de quali intenderà fissare il suo domicilio, e dare a medesimi sincera, e distinta informacione del di lui nome, cognome, patria, ed esercizio, affine tutto ciò Consiglio esaminato possa risolvere sopra la lui accetacione, e venendo admesso ad abbitare debba fra altri tre giorni presentarsi all’eccellenza sua Governatore, e successori per la graziosissima approvacione, e poscia avanti l’offizio criminale presentare idonea sigurtà almeno di ragnesi 200, da troni 4 e 50 l’uno, de bene vivendo, da cui possa essere dalla suddetta eccellenza Governatore, e successori abbilitato secondo la qualità della persona, e lui esercicio, ne adempiendo tal forestiero le soprascritte condicioni, che doverano essere a publica notizia dall’officio criminale proclamate, possa da detto officio essere punito ad arbitrio secondo la qualità del trasgressore, ed a questa ordinazione s’intendano obligati tuti quelli, che sono venuti ad abbitare in questo contado d’anni cinqua in là”. Questa volta la norma investiva i residenti da meno di cinque anni, ma chiariva anche come l’idonea sigurtà fosse da pagare all’ufficio criminale e non più al comune. Nuovamente nel 1745 un ordine proveniente da Innsbruck, e nel 1751 un proclama dei conti su istanza della comunità, ribadirono ai forestieri la richiesta di pagare la cauzione o di andarsene.

ar7

Ancora nel 1758, vennero “condannati con sentenza comunale a pena fiscalizia ed a partire dal contado per non aver ubbidito alle formalità necessarie per l’abilitazione e domicilio, in ordine alle convenzioni”. Infine nel 1775 venne precisato dal conte governatore che “ i forestieri i quali hanno dieci anni di domicilio non possano cacciarsi via; gli altri poi, se sono realmente poveri o vagabondi, che siano scacciati, mentre però non si guadagnino benché stentatamente il pane con qualche conveniente lavoro; sebbene questi con ciò non acquistinsi il diritto del domicilio…”. Si era molto attenti a chi si stabiliva in città. Si cercava di evitare che trovassero dimora ad Arco persone che non potevano contribuire alle spese della comunità, e al contrario si favoriva chi godeva di una condizione economica sicura e accertata.  In un economia maggiormente rurale come quella che caratterizzava Arco secentesca e settecentesca , lo status di forestiero comportava delle limitazioni e dei rischi non indifferenti. Proprio per questo motivo molti chiesero di poter entrare a far parte del numero dei cittadini originari, sborsando cifre anche piuttosto elevate pur di acquisire una volta per tutte quei diritti elementari necessari per poter vivere dignitosamente nel borgo di Arco.

NUOVI CITTADINI, COME?

Passaggi di competenze ed evoluzione normativa. La legislazione riguardante l’accorpamento di nuovi cittadini al nucleo dei vicini originari risulta carente rispetto all’abbondanza di norme riguardanti i forestieri. Tuttavia ci è possibile desumere alcune essenziali informazioni direttamente dagli atti di aggregazione a cittadinanza. L’esempio più antico arrivato a noi è datato 1416. Da questo documento ricaviamo che la cittadinanza veniva conferita dalla regola o consiglio generale, al signor Baldessarri, chirurgo. Purtroppo la grafia risulta difficilmente decifrabile, per cui non mi è stato possibile scoprire se il neo aggregato avesse pagato un prezzo o altri interessanti elementi a riguardo. Ci basti per ora sapere che l’organo a cui competeva l’aggregazione di nuovi membri nel 1416 era sicuramente l’assemblea dei vicini. Con l’avvento dell’epoca moderna, lo sviluppo della statutaria cittadina e degli organi comunitari ( nel 1514 nasceva il consiglio del 38), iniziarono a delinearsi alcune norme anche in questo campo. I primi episodi legislativi pervenuti riguardo la possibilità di aggregare nuovi cittadini risalgono agli anni dell’occupazione tirolese tra il 1579 e il 1613. Nel 1590, in assenza dei conti, il consiglio generale diede la possibilità di conferire la cittadinanza al consiglio del 14 e ai sindaci delle comunità esterne di Oltresarca e Romarzollo, rendendo in pratica snello e veloce il processo di aggregazione, dato che i procedimenti della regola generale risultavano a quanto pare lunghi e confusi.

6141-00

A distanza di vent’anni però, nel 1608, ancora in presenza del capitanato tirolese, ci risulta un’altra aggregazione da parte del consiglio generale a Giovanni Benabia detto Ruzzenent; dunque il potere di aggregare era ancora nelle mani dell’assemblea dei capifamiglia. Lo stesso anno di nuovo il consiglio generale concedeva la prerogativa di “poter tor a comune” anche al consiglio del 38. La decisione di facilitare l’ingresso di nuovi cittadini era motivata con la necessità per la comunità sia di uomini che di soldi per saldare alcuni debiti. Dunque chi voleva entrare a far parte della comunità e godere dei privilegi legati alla vicinia avrebbe dovuto pagare un prezzo. Ma il documento ci fornisce un altro dato interessante: viene specificato che poteva essere conferita la cittadinanza “a uomeni et persone che parerano et piaceranno ad essi officianti secondo la loro conscienza per utile di essa Comunità intindendo espresissimamente che possino accettare de quelli che habbitano dentro dalle porte della terra di Arco”.

L’enunciato fa intendere come fosse possibile accettare solo persone che già risiedessero all’interno del borgo, dunque note alla comunità. Essere un forestiero abitante era uno degli elementi necessari per essere aggregati ai diritti civici. Verso la metà del Seicento, negli anni successivi alla peste che come abbiamo visto falciò oltre il 60% della popolazione, vi fu un affastellarsi di decreti dei vari organi comunitari a proposito dell’aggregazione. Nel 1649 il consiglio generale vietò agli altri consigli di dare la cittadinanza a chicchessìa, senza specificare alcuna motivazione. Lo stesso decreto decise, come abbiamo già detto sopra, una serrata nei confronti dei forestieri, cacciando quelli di loro che non avevano di che sostentarsi, obbligando a contribuire quelli che possedevano beni nel contado, e vietando a nuovi forestieri di venir ad abitare in Arco. Il medesimo anno poi, un decreto simile proibiva ai cittadini l’affitto a stranieri di case o campi collocati all’interno del territorio arcense. La comunità si trovava probabilmente in gravi difficoltà economiche; a questo probabilmente è dovuta una chiusura verso l’esterno, ma come vedremo, le condizioni in negativo o in positivo cambiavano molto rapidamente, forse a seconda di come andavano i raccolti agricoli nelle annate.

Arco-centro-storico-018 (1)

Solo tre anni dopo, nel 1652, la cittadinanza era conferibile ancora dal consiglio del 38, per un prezzo stabilito di almeno 100 ragnesi, con la delega al consiglio del 14 di aumentare l’entità della somma114. Molto importante la specificazione che venne inserita nell’articolo: i nuovi aggregati “non possino haver beni alcuni del Luffano”, cioè della campagna del Linfano, che costituiva la porzione agricola comunitaria più estesa del contado di Arco. Si trattava della prima norma a tutela di questa parte del territorio arcense, come abbiamo visto molto contesa. La condizione diventerà una regola che sarà inclusa in tutti i documenti di aggregazione successivi, almeno fino alla seconda metà del Settecento, quando si tornerà a parlarne. In questi anni si innescarono delle dinamiche tra i vari organi decisionali della comunità che risultano di difficile comprensione nonostante la presenza di documentazione a riguardo.

Vi furono alcuni passaggi di competenza nelle aggregazioni a cittadinanza tra il consiglio generale e quello del 38, che fanno presupporre, come abbiamo già detto, una sorta di scontro di potere tra questi due organi. Il primo controllava l’operato del secondo, dando o togliendo la facoltà di “tor a comune”, qualora vi fossero abusi nelle aggregazioni. Nel 1655 il consiglio generale ebbe più volte a discutere a proposito dei nuovi aggregati dal consiglio del 38, che sarebbero stati fatti cittadini senza che quest’ultimo consiglio ne avesse l’autorità. In una prima riunione a febbraio la regola decise di accettare i nuovi membri aggregati illegalmente, escludendoli però dall’usufrutto dei terreni del Linfano115. Ad agosto un repentino cambio di vedute del consiglio generale condannava tutti gli aggregati dal consiglio del 38 a essere privati della cittadinanza e ad essere rimborsati del prezzo versato per l’accettazione, chiarisce come, a metà Seicento, la regola generale avesse ancora potere assoluto sulle decisioni del consiglio maggiore, tanto da poter emendare le sue decisioni retroattivamente. La prerogativa di creare nuovi cittadini, a quanto pare, rimase sempre tra i compiti del consiglio generale che, a piacimento, la concedeva in licenza agli altri consigli, riservandosi il diritto di approvare o meno le loro decisioni.

im096b

Nel 1707 , negli anni seguenti all’invasione francese della contea, in un’altra situazione di grande difficoltà, venne decretato “che non si debba più pigliar persone a Commun o Cittadinanza, se prima non sarà passato per more dietro Conseglio Generale”, facendo intendere come la facoltà di aggregare dovesse essere stata delegata ad altri organi negli anni precedenti. Purtroppo risulta mancante la documentazione a riguardo. Solo un atto di aggregazione, datato 1693, ci fornisce qualche elemento in più sulla procedura di accettazione di nuovi cittadini utilizzata a fine Seicento. Il medico fisico Ercole Podestà proveniente da Maderno venne aggregato “… in esequtione del stabilito nel Consiglio di detta Comunità chiamato delli 38 huomini da me notaro rogato sotto li 12 mese marzo prossimo passato, registrato nel libro giornale de Consigli del corrente anno et autorità a loro concessa di puoter acettare perzone a Comune, e Cittadinanza per pagare debiti…”.

Il testo spiega chiaramente come il consiglio avesse ricevuto in quell’anno l’autorità di aggregare nuovi cittadini, con lo scopo di raccogliere denaro per sanare i debiti insoluti della comunità. Data la mancanza di un riferimento specifico negli statuti riguardanti l’accettazione di forestieri, dobbiamo basarci sulla documentazione relativa alle emanazioni degli organi rappresentativi del comune, per desumere dalla pratica delle delibere e degli atti, le norme riguardanti questo argomento. Nel 1770, nelle vicende inerenti al processo tra la comunità e la famiglia Formenti per il diritto di caccia nei territori comunali, venne chiarito un altro punto importante rispetto alle reciproche competenze dei consigli nelle aggregazioni. Il consiglio del 38 poteva sì accettare nuovi cittadini, su delega del consiglio generale, ma non aveva il diritto di concedere licenze particolari ai neo-aggregati, nel caso Formenti il godere dei privilegi della cittadinanza senza risiedere nel borgo di Arco. Attraverso lo spoglio dei documenti dell’archivio di Arco è  possibile ricostruire a grandi linee il ruolo dei conti nell’aggregazione a cittadinanza. Nel contesto della lunga diatriba tra il conte Vinciguerra e la comunità, svoltasi a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, ci è fornita l’occasione per scoprire quali fossero le antiche consuetudini osservate nel contado. Il conte, nel tentativo di risollevare il nome del suo casato, avanzò ventidue capi di pretese nei confronti della comunità. Quest’ultima nel 1709 reagì con una lettera di protesta, contestando punto per punto le vessazioni del governatore.

images

Un capo riguarda proprio l’aggregazione a cittadinanza: “… la pretesa poi che si fa nel sesto articolo è fuori d’ogn’ ordine, che nel passato ab immemorabili s’è osservato havendo sempre mai le Communità pratticato d’aggregare alla loro Cittadinanza persone di buona qualità, voce e fama second che à loro è parso senza di ciò farne alcuna parte al Padrone, ne introdure l’aggregato a ricever da esso il giuramento non essendo mai stato ciò osservato, scientibus e patientibus Dominis Comitibus. Chi non vede dunque di quale, e quanto pregiudizio riuscirebbe una tanta novità, mentre starebbe in petto al Padrone il placidare a chi più gli piacesse, e paresse con altre conseguenze enormi, e lesive che in consequenza di ciò andarebbero seguendo …”. Il testo mostra senza dubbio come, a detta della comunità, “nel passato ab immemorabili”, il signore non avesse mai preso parte alle decisioni sull’aggregazione di nuovi cittadini, e come cercasse invece di renderla una sua prerogativa. Un altro indizio in questo senso ci viene fornito da una delibera del consiglio del 38 del 1762. Il conte con una lettera indirizzata alla comunità, aveva espresso il desiderio che fossero aggregati a cittadinanza due fratelli provenienti dalla campagna di Riva. Il consiglio mise ai voti la decisione: in ventidue votarono contro l’accettazione dei fratelli Morghen e solo in otto si espressero a favore. Questo dimostra come la comunità non si facesse scrupoli a non accogliere le richieste del conte che non le sembravano legittime. Oramai a fine Settecento, al tramonto dell’antico regime, si era delineata una situazione istituzionale nella quale i signori d’Arco era ridotti a semplici ufficiali del potere tirolese. In quegli anni avvenne anche un apertura verso l’esterno rispetto alla tutela dei territori del Linfano, solitamente preclusi non solo ai forestieri, ma come abbiamo visto anche ai cittadini neo-aggregati. Nonostante fosse proibito per i cittadini arcensi, possessori di terre nel Linfano, affittare le loro proprietà ai forestieri, la pratica si diffuse senza controllo. Per questo il consiglio del 38 nel 1767 si riunì per decidere se adattare la norma alla pratica o se far rispettare le leggi vigenti. Si decise di non procedere contro i trasgressori, ed anzi si tentò di regolarizzare il fenomeno

ar8

Fu permesso l’affitto ai forestieri, ma solo previa comunicazione al consiglio, e per un periodo di tempo non superiore ai cinque anni. Anche per i nuovi cittadini nascevano delle agevolazioni per quanto riguardava la fruizione del Linfano. In una aggregazione datata 1782, venne accolta la supplica presentata dal richiedente: un altro episodio in cui la prassi col tempo si tramutò in regola. Domenico Morghen chiese di poter usufuire dei beni del Luffano e di godere dei vantaggi legati al pagamento della saltaria, la tassa dovuta ai sorveglianti delle campagne. La comunità concesse il privilegio e pose delle condizioni, per evitare che successivamente potessero nascere liti. Il neo-aggregato veniva considerato cittadino a tutti gli effetti fintanto che avesse mantenuto il suo domicilio in Arco. Se si fosse trasferito altrove avrebbe perso tutti i diritti acquisiti, salvo non si fosse stabilito nelle due comunità esterne. Solo in questo caso, “…abbia a restar in sospeso ogni diritto di Cittadinanza nel caso e così, che esso Morghen, taluno de’ suoi descendenti cessassero di aver il domicilio entro il distretto e Regolare di questa istessa Comunità, ma per qualsivoglia titolo, o causa abitasse fuori del medesimo, in tale tempo non abbiano ad essere riconosciuti per Cittadini quello, o quelli, che altrove abitassero ed anche nelle sole Comunità esteriori, salvo però, che anche in questo caso possa, e possano godere i vantaggi in quanto al pagamento della mercede dovuta ai Saltari, e così pure di poter godere beni sotto il Fideicomisso del Luffano”. Pur non mantenendo lo status di cittadino, avrebbe potuto godere dei beni del Linfano e del pagamento della saltaria. Più di una volta si verificarono negli anni successivi circostanze simili, tanto che la cittadinanza fu occasionalmente concessa a persone che non risiedevano in Arco, ma desideravano avere accesso alle terre comunitarie tramite questa clausola nell’aggregazione.

Queste persone certamente risiedevano all’interno del contado, in una delle due comunità esterne. Gli abitanti di Oltresarca e Romarzollo infatti, nonostante non godessero dello status di cittadini di Arco, ma fossero dotati della cittadinanza della loro comunità, erano visti con un occhio di riguardo dai rappresentanti comunali arcensi, nonostante fossero giuridicamente accomunati alla condizione di forestieri. La cittadinanza delle comunità esterne non dava il diritto di godere delle risorse riservate agli arcensi, come venne ribadito dal consiglio del 38 nel 1767, pronunciandosi contro una consuetudine che si stava affermando. A detta dei rappresentanti comunali, molti forestieri si dotavano della cittadinanza di Oltresarca, a quanto pare molto più economica e facilmente accessibile di quella arcense, pretendendo poi di esercitare gli stessi diritti dei cittadini di Arco. Un altro caso che esemplifica la netta separazione delle cittadinanze delle tre comunità e gli annessi diritti è quello relativo alla aggregazione di Paolo Miorelli di Bolognano alla vicinia arcense.

ar3

Pur essendo domiciliato in territorio soggetto alla giurisdizione di Arco, egli era dotato solo della cittadinanza di Oltresarca, essendone originario. Il problema sorse quando ricevette in eredità da uno zio, cittadino di Arco, degli appezzamenti di terreno situati nel Linfano, che come abbiamo visto, poteva essere concesso in affitto anche ai forestieri, ma doveva rimanere di proprietà di cittadini arcensi. La comunità, nel momento in cui fu assegnata l’eredità, confiscò i campi, ponendo come condizione per la restituzione che il Miorelli chiedesse la cittadinanza di Arco. Tuttavia egli dovette avanzare la richiesta ben tre volte nell’arco di cinque anni, prima che il consiglio del 38 acconsentisse ad accettarlo e gli restituisse l’eredità dello zio. Dunque essere cittadino delle comunità esterne concedeva dei diritti che esulavano da quelli connessi con la cittadinanza di Arco, e viceversa.

AGGREGAZIONE E INTEGRAZIONE

L’Istrumento di aggregazione a cittadinanza è un documento notarile rogato in presenza dei rappresentanti comunali, con cui veniva ufficializzata l’annessione di un nuovo membro nella Comunità dei cittadini di Arco. I documenti da me ritrovati facendo l’inventario del notaio Carlo Tamburini sono stati redatti nella seconda metà del Settecento, ma non sono di molto differenti dallo strumento di aggregazione di Ercole Podestà, datato 1693. La lettura di questi rogiti, unitamente a quella di alcuni atti comunali, rende possibile individuare chiaramente i meccanismi che portavano all’incorporazione del candidato nel numero dei cittadini. Nella seconda metà del Settecento l’iter per ottenere la cittadinanza prevedeva alcuni passaggi obbligati: il richiedente doveva produrre una supplica da consegnare al consiglio.

Molte volte la richiesta scritta veniva anticipata da una orale. Il richiedente si presentava al consiglio, probabilmente per verificare la disposizione favorevole o meno di quest’ultimo. Esso a sua volta avrebbe deciso a votazione se annettere o meno il candidato, fissando il prezzo richiesto per l’aggregazione o rimandando la decisione al consiglio del 14. Se consiglieri e giurati votavano a favore dell’accettazione, veniva redatto uno atto notarile durante una riunione del consiglio del 14. La quota da versare nelle casse comunali per ottenere la cittadinanza variava molto; in genere il richiedente offriva una cifra che poi il consiglio del 38 alzava, o chiedeva al consiglio del 14 di alzare. Quando il consiglio autorizzava una nuova aggregazione delegando al consiglio del 14 la decisione della cifra richiesta, si raccomandava che fosse “… procurato ogni più possibile vantaggio per la comunità nello stabilire il prezzo da essere pagato …”.

Castello-di-Zocco-Magione-Lago-Trasimeno.-Autore-e-Copyright-Marco-Ramerini.1-600x330

Non è chiaro se i due consigli avessero entrate separate, ma in una delibera del 1750, il consiglio maggiore, dando l’autorità a quello ordinario di creare nuovi cittadini, pose come condizione che una parte della somma fosse ceduta al consiglio maggiore. Nel momento dell’aggregazione la cifra richiesta veniva imborsata dai consoli, e molte volte usata per pagare i debiti della comunità. C’è una stretta relazione tra l’accettazione di nuovi cittadini e le condizioni economiche del comune nel momento della richiesta. La stessa delibera sopracitata è tristemente chiara nell’esplicare come la povertà delle casse della comunità spingesse i suoi rappresentanti ad aggregare nuove persone, unicamente con lo scopo di ricevere denaro. Il consiglio spiegava come l’erario del comune fosse del tutto esausto, e come esso fosse pressato dai creditori che pretendevano la restituzione dei debiti contratti. Per questo delegava al consiglio del 14 l’autorità di concedere la cittadinanza, nel caso in cui si fosse presentata qualche persona di cui già si conoscevano le buone qualità. In particolare consigliava i nominativi di tre famiglie, che probabilmente si erano già presentate con richieste, magari non scritte, ma ai quali era stata precedentemente rifiutata la cittadinanza.

Più di una volta in questi decenni, nelle delibere del consiglio, si possono ritrovare degli inviti a creare nuovi cittadini come espediente al pagamento delle spese della comunità. La politica consisteva nel concedere la cittadinanza il minor numero di persone possibile, per il maggior prezzo ottenibile. Per questo, se non si riusciva a far pagare al richiedente una somma giudicata bastante per sopperire ai debiti, si bocciava l’aggregazione. E’ ciò che avvenne alla famiglia Benuzzi nel 1740. La comunità, bisognosa di introiti, e a suo dire, a questo scopo disposta ad aggregare nuovi membri, rifiutò di accettare i Benuzzi; probabilmente non era avvenuto un accordo sulla somma da pagare. Negli anni in cui il comune non aveva questo tipo di urgenze le aggregazioni non erano permesse. Nel 1759 e nel 1767, essendosi presentate alcune persone con la richiesta di ottenere la cittadinanza, il consiglio rispose che per il momento non sarebbe stata concessa a nessuno. Se poi venivano offerte somme rilevanti tanto da fare gola alle casse comunali, esso ritornava sui suoi passi ed aggregava senza difficoltà i generosi richiedenti, come avvenne in effetti nel 1767. A qualche mese di distanza tra una richiesta e l’altra, Francescantonio Zorno si vedeva prima rifiutare e poi accettare la domanda di cittadinanza, essendosi presentato la seconda volta con una lauta offerta di 100 fiorini alemani. Spesso le aggregazioni a cittadinanza assunsero i toni di una compravendita di beni. Ad esempio in alcuni casi il consiglio del 38 votava a favore di una nuova aggregazione e delegava al Consiglio del 14 la decisione della quota da versare per il servizio. Nel caso in cui non si abbiano notizie dell’aggregazione avvenuta o non sia pervenuto lo strumento notarile ci si può pensare che il richiedente non abbia accettato di pagare la somma decisa dal consiglio.

arco1

Altre volte il consiglio maggiore dava parere favorevole per l’aggregazione, ma poneva come condizione il pagamento di una cifra stabilita da esso. Addirittura in altre occasioni istruiva il consiglio del 14 sui negoziati da compiere con il richiedente della cittadinanza. Nel 1750 il consiglio del 38, esprimendosi a favore di due nuove aggregazioni, esplicitava chiaramente questo aspetto: “… vien conferita l’auttorità al Consiglio del 14 d’aggregare ed ascrivere in Cittadini li nominati Signori Capolini e Fenici, questo in nome proprio e fraterno, il primo col prezzo de’ 385 e il secondo in 250, procurando in ciò il Spettabile Consiglio tutto il vantaggio possibile, caso poi detti Signori non volessero giungere a dette sume, si lascia libertà al detto consiglio di ricevere il primo per 300 ed il secondo per 200 e non meno e caso queste some non fossero bastanti per supplire al pagamento di tutti li debiti …”.

Passiamo ora ad analizzare uno di questi documenti nel dettaglio: si tratta dell’istrumento di aggregazione relativo a Giovanni Witmajer, redatto nel 1764. Dopo l’intestazione riportante il nome del neo-aggregato, la data e il luogo 140 in cui si stava svolgendo l’aggregazione, si elencano i presenti: i due consoli affiancati dai dodici consiglieri, cioè i membri al completo del consiglio dei 14. Interessante la specificazione che viene posta subito di seguito ai nominativi: “… i quali in virtù dell’auttorità stata concessa dallo spettabile Superior Consiglio chiamato “del Trentotto”…”; non viene lasciato alcun equivoco sulla competenza del consiglio del 38 rispetto alla nuova aggregazione, tanto che il documento in genere conteneva il riferimento alla data in cui il consiglio aveva preso la decisione e al libro del comune che, nello specifico, conteneva il verbale del giorno della decisione (“…del dì 29 corrente mese di Marzo, registrato nel Libro grande de’ Consolati di detta Spt.le Comunità segnato GG rogato da me notaio sottoscritto, in forza del quale è stato stabilito d’accettare a Cittadinanza di questa Spt.le Comunità Giovanni Witmajer …”), a dimostrazione di come fosse stata fatta chiarezza una volta per tutte su una procedura che aveva subito nel corso dei secoli una notevole oscillazione normativa. Gli atti vennero tutti rogati nella casa della comunità, posta nella piazza principale di Arco, oggi piazza III novembre.

arco (1)

Seguono, a volte, una breve descrizione del richiedente, le motivazioni che lo hanno spinto a formulare la richiesta di essere aggregato alla comunità e note particolari o richieste contenute nella sua supplica inviata al comune. Di seguito viene enunciata l’aggregazione del nuovo membro e l’ereditarietà per i suoi discendenti maschi, nati da matrimonio legittimo, oltre ad un breve elenco dei privilegi che accompagnavano la condizione di cittadino: avrebbe avuto libertà di movimento in tutti i luoghi del comune e avrebbe avuto il diritto di usufruire delle risorse della comunità, salvo specificazioni, ad esclusione delle terre del Linfano. Il rogito riporta poi la promessa del neo aggregato, per sé e per i discendenti, di non contravvenire ai decreti comunali, seguito dalla consegna della somma pattuita ai rappresentanti comunali, che dopo aver incassato giurano a loro volta “di mantenere ed adempire tutte le cose nel presente Istromento contenute , e quelle non contravenire, fare, o dire, né levare detti privilegj, prerogative, esenzioni, immunità e preminenze concesse e che godono gli altri Cittadini originarj di questa Spettabile Comunità, o che per l’avvenire potessero acquistare, ma quelle e cadauna d’esse mantenere e difendere da ogni persona comune e collegio che volesse od ardisse quelle viziare, levare, od in altra forma sminuire, sotto pena di rifacimento di ogni danno, spesa, ed interesse, e niente dimeno le cose sovrascritte abbiano forza, vigore, e durino”; La parte finale del documento riporta un’ennesima raccomandazione al nuovo cittadino di non disobbedire ai decreti comunali, pena la perdita della cittadinanza e della somma pagata. A sancire l’avvenuta aggregazione seguiva il giuramento con una mano sulla Bibbia.

BISOGNAVA PAGARE …

Non esiste un criterio per inquadrare socialmente coloro che richiedevano la cittadinanza, poiché non appartenevano alla medesima classe sociale. Ogni caso evidenzia una situazione particolare che tuttavia permette di comprendere quali erano i motivi che spingessero a presentare una supplica al comune per accedere alla condizione di cives. Purtroppo solo pochissimi documenti di questo tipo, rispetto al numero dei richiedenti, è giunto fino a noi. Ci è possibile risalire all’impiego o alla condizione economica per più della metà dei casi tra coloro che si presentarono al consiglio, tramite gli strumenti di aggregazione, le delibere comunali, e alcune volte grazie ad un inventario dei beni posseduti da forestieri siti all’interno del distretto di Arco, redatto nella seconda metà del Settecento. E’ ancora una volta Lo stato delle anime dell’arciprete Francesco Santoni la fonte che ci fornisce maggiori elementi riguardo i richiedenti. Su un campione di una trentina di richieste di aggregazione, comprese tra gli anni ’40 e gli anni ’90 del Settecento, sappiamo per certo che più di una decina vennero effettuate da persone impiegate nell’artigianato: stampatori, scultori, calzolai, muratori, fabbri, ai quali veniva concessa o veniva richiesto, per ottenere la cittadinanza, il pagamento di cifre che a seconda degli anni e di criteri che non mi è stato possibile cogliere, oscillavano tra i 140 e i 350 troni.

arco050

Nella maggioranza dei casi le somme richieste o pagate si aggiravano tra i 300 e i 350 troni. Importi più consistenti vengono riscontrati per persone di condizione sociale più elevata o in circostanze speciali: il giudice Zorno paga 400 troni per la sua aggregazione nel 1767, la stessa somma viene chiesta al nobile provinciale Cillà de Cillà, dieci anni dopo. Al nobile rivano Oliari vennero chiesti ben 1000 troni dopo numerose sue suppliche, forse per scoraggiare la sua tenace insistenza, nonostante fosse arrivato ad offrire 500 troni. Non si conoscono i motivi del rifiuto. Gli altri casi in cui si superarono i 350 troni per un’aggregazione si verificarono nel momento in cui la comunità cominciò a concedere ai neo-aggregati l’usufrutto delle terre del Linfano e del pagamento della Saltaria, a partire dagli anni ’80 del Settecento. Domenico Morghen e Paolo Miorelli sborsarono rispettivamente 370 e 400 troni per essere aggregati nel modo da loro richiesto nella supplica, tuttavia ci furono casi posteriori in cui l’aggregazione fu concessa per cifre molto inferiori. Il muratore Giovanni Pizzidaz, proveniente da Marebbe, ma residente al momento dell’annessione da più di 20 anni in Arco, venne aggregato nel 1789 per un prezzo di 140 troni.

Solo sette anni prima aveva presentato una prima supplica, per altro accolta, ma la quota stabilita per l’accettazione era stata fissata in 300 troni, un importo probabilmente al di sopra delle possibilità del richiedente. Non si conosce il motivo del dimezzamento della cifra, ma sarebbe interessante capire se giocò a favore del Pizzedaz il fatto di essere alle dipendenze del conte. Un’altra ipotesi plausibile potrebbe essere la prestazione di manodopera in cambio dell’aggregazione, o almeno la concessione di uno sconto. Un caso simile si era verificato nel 1769, quando Giammaria Bressanin, di professione fabbro, nella supplica propose di costruire un ponticello di ferro alla balconata del campanile della chiesa collegiata di Arco, chiedendo di venire retribuito con la concessione della cittadinanza. Il comune rifiutò la proposta, ed anzi fissò il prezzo dell’aggregazione a 500 troni. Anche il Bressanin era al servizio del conte, gestendo la fucina di proprietà del dinasta sita alla località alla moletta. Questo ulteriore dato ci spinge a concludere che non ci fosse nessun tipo di agevolazione per i dipendenti del conte per quanto riguarda le richieste di aggregazione. Tuttavia non costituiva una novità la proposta di scambiare la propria manodopera con la concessione della cittadinanza. Nel 1716 le famigliari del defunto Giovanni Battista Gregori presentarono al comune una supplica, scritta da esso prima della morte. Egli chiedeva ai consiglieri di essere aggregato a cittadinanza, in virtù del prezioso lavoro da lui svolto durante l’occupazione francese del 1703. Fu merito suo, infatti, se l’archivio e le scritture del comune si salvarono dalla distruzione. Il consiglio del 38 concesse l’aggregazione alla moglie e alle figlie del Gregori per la modica cifra di 20 troni.

arco05

Nel corso del Settecento è riscontrato che in due occasioni non fu chiesto nessun prezzo per l’accettazione, ma almeno un caso dei due si verificò in una situazione veramente eccezionale. Nel 1703, sempre nell’ambito della guerra di successione spagnola, fu concessa la cittadinanza onoraria al muratore e architetto milanese Girolamo Pernice. Suo il merito di aver salvato il contado dall’incendio e dalla devastazione, grazie al pagamento di una lauta somma al capitano francese di stanza ad Arco. La comunità non possedeva risorse sufficienti per riscattare la contea, ed il Pernice non esitò a prestare il denaro necessario, allontanandosi a sue spese da Arco per recuperare la somma. Un valido motivo per donargli la cittadinanza e appellarlo come conservatore di questa patria.

L’altro simile episodio si verificò nel 1767, quando fu conferita gratuitamente la cittadinanza a Don Francescantonio Zucchelli, maestro pubblico, dati “li suoi benemeriti acquistati nell’ammaestrare la Gioventù del nostro Paese con tanto Zelo e carità e sulla ferma fiducia, che egli continuerà in questo si laudabile esercizio e per altri giusti motivi moventi gli animi de’ predetti Signori Pubblici Rappresentanti”. Rimane invece oscuro il motivo per cui la comunità si oppose con ben tre rifiuti, prima di accettare i fratelli Bresciani alla cittadinanza nel 1792. Essi non risiedevano in Arco, ma bensì nella villa di Chiarano. Rientravano in quella categoria di richiedenti che desiderava godere dei beni del Luffano e del pagamento della saltaria, senza usufruire degli altri diritti civici riservati ai cittadini residenti. Non mancarono di specificare nelle loro ripetute suppliche questo aspetto, chiarendo come anche i loro manenti fossero sottoposti a questa clausola. Questo dato, congiuntamente alle altissime offerte che fecero per essere aggregati, tradiscono la loro condizione economica. Essi precisarono addirittura che nessuno nella storia della città aveva avanzato delle somme tanto alte per ottenere la cittadinanza, e di come la comunità necessitasse di quel denaro. Tuttavia essa si oppose caparbia alle richieste dei Bresciani, alzando di volta in volta le loro offerte tutt’altro che modeste.

Nel 1788 essi offrirono 460 troni ma non furono sufficienti ad accontentare i rappresentanti comunali. La richiesta assunse i toni di una vera e propria contrattazione e si concluse quattro anni dopo con l’accordo delle due parti sul prezzo di 690 troni. Probabilmente la doppia aggregazione fu la causa di un pagamento così elevato, anche se i due fratelli costituivano un solo fuoco, ed uno dei due era un religioso, destinato a non avere eredi a cui tramandare i suoi privilegi. L’ereditarietà del titolo di cittadino ai figli maschi in genere non era messa in discussione, ma la composizione famigliare del richiedente giocava un ruolo nella decisione di una nuova aggregazione o nello stabilirne il prezzo. Il caso di Gianbattista Tommasi è esemplare. Egli nel 1775 richiese di essere ammesso offrendo 115 troni, cifra che, come in molti altri casi, la comunità non esitò ad alzare fino a 400 troni, ma aggiunse anche che nel caso in cui il Tommasi avesse avuto figli, avrebbe dovuto versare nuovamente lo stesso importo. Non potè ovviamente accettare una richiesta così gravosa.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Tuttavia la comunità qualche mese dopo, trovandosi in difficoltà economica, riconsiderò la supplica del Tommasi, con il proposito di aggregarlo per una cifra inferiore rispetto a quella chiesta in precedenza, adducendo a spiegazione della decisione il fatto che il richiedente era privo di eredi e non possedeva bestiame, per cui una volta fatto cittadino non avrebbe usufruito dei pascoli comunali. Egli ottenne uno sconto di 100 troni, ma la comunità mantenne la clausola che se avesse avuto figli avrebbe dovuto pagare altri 400 troni. Ancora una volta non si giunse ad un accordo, poiché l’anno successivo il Tommasi presentò un’ulteriore supplica, offrendo solamente 170 troni, e ottenendo dal consiglio del 38 l’autorizzazione ad essere aggregato, senza specificazioni su pagamenti supplementari da effettuare alla nascita di eredi. Tuttavia lo strumento notarile attesta un pagamento di 350 troni per l’aggregazione, una cifra doppia rispetto a quella avanzata dal Tommasi 159. Con ogni probabilità la discussione sulla maggiorazione del prezzo all’estendersi della famiglia del richiedente si era spostata all’interno del consiglio del 14, l’organo delegato a redigere l’atto ufficiale di aggregazione. Purtroppo le delibere riguardanti il 1776 sono mancanti, ma la duplicazione del prezzo facilmente fu decisa in vista dell’arrivo di prole da parte del neo-aggregato. Lo stato delle anime del Santoni non registra figli per la famiglia Tommasi nel 1787.

Oltre alla volontà di non estendere il numero dei cittadini, con lo scopo di preservare le risorse della città, uno dei criteri che il comune adottava nella decisione delle somme da sborsare per l’aggregazione era la condizione economica del richiedente. Ovviamente l’accesso alla cittadinanza non era contemplabile per una persona di condizione bassa o medio-bassa, magari impiegata nell’agricoltura, poiché la spesa risultava troppo gravosa. Tutti i neo-aggregati che non facessero parte del ceto artigianale possedevano appezzamenti di terreno, alcuni anche di una certa entità, confermando la teoria che fosse necessario garantire una certa ricchezza per tentare l’ingresso nella cittadinanza arcense.

CITTADINO DI ARCO OGGI

Oggi queste limitazioni censuali ovviamente non esistono più, e l’iter per diventare cittadini di Arco è sicuramente molto più semplice che in epoca moderna. Con il tramonto del sistema di antico regime la figura del cittadino ha perso il significato di membro di una comunità di città, riducendosi a quello di residente. Il cittadino gode dei diritti connessi alla cittadinanza dello stato, rimanendo tuttavia sottoposto a livello fiscale ad alcune imposte circoscritte alla città. La pratica di immigrazione può iniziare per volere del neoresidente, ma più frequentemente viene avviata d’ufficio, una volta verificato dalla polizia municipale l’effettivo domicilio. Il parallelo da fare semmai risulta essere quello tra il forestiero di epoca moderna e l’immigrato dei giorni nostri. Ora il requisito per essere “aggregato” nella “comunità Italia”, con annessi diritti e doveri, sono la residenza da almeno quattro anni nella repubblica italiana, se il richiedente proviene da uno stato aderente all’unione europea, ma di almeno dieci anni se extracomunitario, oppure il matrimonio con un cittadino italiano.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Per ottenere invece l’autorizzazione alla libera circolazione sul territorio italiano, cioè il permesso di soggiorno, per una persona proveniente da uno stato al di fuori dell’unione europea, è necessario possedere un contratto di lavoro prima dell’ingresso in Italia. Una norma evidentemente tesa a rendere difficoltoso l’ingresso di nuovi membri nel tessuto sociale italiano. In mancanza del permesso di soggiorno, la permanenza sul suolo italiano diventa illegale e perseguibile per legge con una multa dai 5.000 ai 10.000 euro. La paura dello straniero e del diverso rimane ancora oggi uno spauracchio, sul quale i governanti tentano di riversare i problemi sociali e le frustrazioni della popolazione. Se in epoca moderna, oltre a questo non irrilevante aspetto, si mirava a tutelare le ridotte risorse alle quali una piccola comunità poteva attingere, oggi il lavoro degli immigrati risulta insostituibile, coprendo molti settori che oramai sono lasciati scoperti dagli italiani, ma la loro integrazione diventa più difficoltosa, provenendo da regioni dalle caratteristiche sociali e culturali profondamente differenti rispetto all’Italia.

FONTI D’ARCHIVIO:

Archivio storico di Arco (ACAR), Francesco Santoni, Archivio di Stato di Trento, Atti dei notai, Carlo Tamburini (1743-1793), Archivio Parrcocchiale di Arco.

BIBLIOGRAFIA:

BALDESSARI A., Spigolature della storia di Arco, Arco, Tipografia Emanuelli, 1927. BELLABARBA, M. , Il principato vescovile di Trento dagli inizi del XVI secolo alla guerra dei Trent’anni, in M. BELLABARBA, – G. OLMI (eds), Storia del Trentino, IV, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 50-59. BERENGER, J., Storia del’impero asburgico, Bologna, Il Mulino, 2003. CAPRONI, F., Il Sommolago: note storiche riguardanti in particolare l’Oltresarca, Brescia, Giroldi, 1959. CAZZANIGA, V., Itinerari turistici della Busa, Trento, Artigianelli, 1972. DI SECLI’, A., I Forenses nelle comunità di villaggio trentine dal XIII al XVIII secolo, in “Il Sommolago”, VI, 1989, pp. 55-66. DONATI, C., Il principato vescovile di Trento dalla guerra dei Trent’anni alle riforme settecentesche, in M. BELLABARBA,– G. OLMI, (eds), Storia del Trentino, IV, L’età moderna, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 71-126. GARBELLOTTI, M., I privilegi della residenza, in C. NUBOLA Suppliche e gravamina, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 227-260. GIACOMONI, F. – STENICO, M., Vicini et forenses. La figura del forestiero nelle comunità rurali trentine di antico regime, in “Studi Trentini di Scienze Storiche”, LXXXIV, 2005, pp. 3-76. GIACOMONI, F.(ed) , Carte di regola e statuti delle comunità rurali trentine, Milano, Jaca Book, 1991, 3 voll. GIACOMONI, F.(ed) , Carte di regola e statuti delle comunità rurali trentine, v. 1. Dal Duecento alla metà del Cinquecento, Milano, Jaca Book,1991. GRAZIOLI, M. (ed), Cronaca di Arco 1771-1879. , in “Il Sommolago”, I, 1991. GRAZIOLI, M., La comunità di Dro: storia di una comunità rurale dalle origini al XV secolo, Dro, Comune di Dro, 1989. MERIGGI, M., Assolutismo asburgico e resistenze locali. Il principato vescovile di Trento dal 1776 alla secolarizzazione, in BELLABARBA, M. – OLMI, G. (eds), Storia del Trentino, IV, L’età moderna, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 127-156. A. WURGLER, MIORELLI, G.L., Arco e la sua terra: notizie storiche della signoria e della contea di Arco fino all’anno 1482, Calliano, Manfrini, 1977. NEQUIRITO, M., Le carte di regola delle comunità trentine, Mantova, Gianluigi Arcari Editore, 1988. NUBOLA, C., Comunità rurali del Principato vescovile di Trento, in “Archivio Storico Ticinese”, XXXIX, 2002, pp. 221-237. RAVELLI, E., La Comunità di Arco nel Cinquecento, Tesi di laurea, Università degli studi di Bologna, aa. 1989-1990 , relatore Ivo Mattozzi. RICCADONNA, G., Statuti della città di Arco, Grafica 5, Arco 1990. RILL, G., Storia dei Conti d’Arco 1487-1614, Il Veltro, Roma 1982. TURRINI, M., A ferro e fuoco, in “Il Sommolago”, XX, 2003, TURRINI, R. (ed), Lo stato delle anime dell’arciprete Francesco Santoni, in “Il Sommolago”, 1995. WALDSTEIN-WARTENBERG, B., Storia dei Conti d’Arco nel medioevo, Roma, Il Veltro, 1979.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento