QUANDO MUSSOLINI “RIVOLEVA” LA CORSICA

LA RIVENDICAZIONE FASCISTA DELLA CORSICA (1938-1943)

Marco Cuzzi

di Marco CUZZI

Nel corso di una lezione tenuta nel marzo 1942 agli studenti di un liceo scientifico bolognese, il professore Umberto Brauzzi riassunse in alcune roboanti frasi l’intera azione politica italiana sulla Corsica e soprattutto le concrete motivazioni poste alla base della rivendicazione fascista dell’isola tirrenica :

«L’antemurale Sardo-Corso, con la Corsica in mano agli estranei, vorrebbe significare la più pericolosa breccia nel nostro dispositivo di difesa, la paralisi di ogni movimento, dall’arco ligure sino al campano. Vincitori senza la Corsica non ci potremmo dire mai ; ché, per apportare al mondo, serenamente, il contributo dell’indiscussa nostra civiltà e all’ordinamento della nuova Europa, è assolutamente necessario che non siano menate le basi del nostro movimento commerciale più ricco : ci occorre cioè il pieno possesso dell’isola”.

E ancora, più avanti:

“La nostra piattaforma di lancio, la penisola, è profondamente vulnerabile, per l’intrusione, nel bel mezzo di una terra nostra, della Francia che sorveglia e preclude le libere vie del mare e dell’aria”.

Al di là delle dichiarazioni di continuità geografica (la Corsica veniva paragonata alla Dalmazia, con la speculare funzione di limite estremo di un «gran golfo» italiano: là l’Adriatico, qui il Tirreno) e di comunità nazionale (i corsi erano definiti come una naturale
«filiazione» della «razza italica»), ciò che emergeva dal ragionamento di Brauzzi era la dimensione squisitamente strategica dell’intero impianto rivendicazionista: l’isola tirrenica doveva passare sotto il controllo di Roma per perfezionare la «fortezza Italia», chiudendo in modo particolare l’area della capitale in una sorta di «lago italiano» e permettendo un raddoppio della portaerei naturale sarda nel pieno centro del Mediterraneo.

Di certo la rivendicazione trovava anche una remota motivazione in rancori mai sopiti, anzi semmai amplificati con il vicino d’Oltralpe. Emblematica appariva un’altra affermazione del Brauzzi: «Noi dobbiamo arguire della dura battaglia che l’Italia deve ancora sostenere per aggregarsi l’isola più italiana d’Italia». Frase emblematica ma anche di articolare peso politico, se si tiene conto del periodo in cui venne enunciata, con una Francia per metà occupata e per metà in bilico tra una neutralità collaborativa e un collaborazionismo totale e convinto nei confronti dell’Asse.

Nuovamente, come nel caso delle altre vertenze con la Francia (principalmente Tunisi, Gibuti e il Nizzardo), si assisteva a una complicata e a tratti penosa relazione schizofrenica con Vichy, realtà statale a parole inglobata nel Nuovo Ordine ma nei fatti – e la sopravvivenza di una Corsica francese contro tutte le affermazioni del Brauzzi ne era la testimonianza – ad esso nemico, almeno secondo le considerazioni degli analisti italiani.

La rivendicazione fascista dell’isola tirrenica risaliva agli albori del Regime, e superava per anzianità le vertenze transalpine sulla Provenza e la Savoia. Nel 1924 venne istituito su ordine di Mussolini un «Comitato per la Corsica» avente lo scopo, come si legge in una relazione commissionata dal Ministero degli Esteri nel 1939, di «mantenere tra i regnicoli e i Corsi viva la questione dell’italianità dell’isola». La presidenza dell’associazione fu data a Francesco Guerri, un docente universitario d’origine corsa, affiancato da un incaricato del Ministero degli Esteri e dall’onorevole Quirino Figlioli. Il Ministero dispose sul fondo del gabinetto un «congruo stanziamento» per sostenere le iniziative del Comitato.

Nello stesso periodo il dicastero si preoccupò di riorganizzare la rappresentanza diplomatica italiana sull’isola. L’obiettivo era di rendere l’iniziativa irredentista più efficace possibile, dando ad essa un retroterra solido e organizzato composto dalla rete consolare ufficiale:

«Benché per ovvie ragioni tali nostri Rappresentanti consolari abbiano sempre avuto in linea di massima istruzioni di « ignorare » l’azione irredentistica, svolta principalmente tramite elementi fiduciari, essi hanno sempre attivamente contribuito a facilitare questa attività riservata, sia collaborando in specifici casi alla messa in atto di alcuni progetti, sia e soprattutto fornendo a Roma precisi elementi di giudizio tratti da un diuturno controllo della situazione corsa».

L’intera operazione, consolare e legata alle iniziative del Comitato di Guerri, sarebbe stata coordinata dal dicastero degli Esteri nella persona del funzionario del gabinetto marchese Blasco Lanza D’Ajeta. La duplice azione aveva scopi da un lato di «mantenere vive le aspirazioni nazionali italiane» e dall’altro di salvaguardare l’“identità italiana» dell’isola, «favorendo al tempo stesso dopo un secolo e mezzo di dominazione francese, la rinascita di un movimento a carattere irredentistico».

Ancora più chiari erano gli ordini dati al «Comitato per la Corsica», il deus ex machina di tutta la futura azione per l’isola e sull’isola: «salvaguardare nei suoi molteplici aspetti e con tutti i possibili mezzi l’originaria italianità della popolazione ; favorire tra i corsi un sentimento di reazione al dominio francese (autonomismo-irredentismofilofascismo) “.

In quest’ottica fu giocoforza per un verso incentivare in patria ogni azione atta a propagandare l’italianità dell’isola. D’altro canto si cercò di coinvolgere il movimento autonomista autoctono, o meglio la galassia indipendentista corsa, individuando in essa l’interlocutore più prossimo, animato da un separatismo a senso unico e filo italiano. Dopo un lungo periodo preparatorio, l’iniziativa rivendicazionista ebbe la sua prima stagione operativa all’indomani della crisi etiope, ma soprattutto esplose in tutta la sua virulenza con la celebre manifestazione del 30 novembre 1938 alla Camera, durante la quale i deputati – sapientemente pilotati – gridarono le rivendicazioni dei territori francesi: Tunisi, Nizza, Gibuti e Corsica, originando come ricorda De Felice il definitivo naufragio dei tentati ravvicinamenti italo-francesi.

Gli strumenti di propaganda dall’Italia si risolsero in tre differenti iniziative. Anzitutto, fu attivata un’intesa attività giornalistica, attraverso la stampa di un inserto settimanale del quotidiano livornese “Il Telegrafo”  (Livorno era una delle città italiane con il più alto numero di cittadini d’origine corsa); il settimanale venne posto sotto la direzione dell’onnipresente Francesco Guerri (sotto lo pseudonimo di «Minuto Grosso») e fu finanziato direttamente dall’ufficio di D’Ajeta.

L’inserto, che divenne ben presto il principale organo di propaganda stampata a favore della causa, ebbe collaboratori quasi esclusivamente d’origine corsa (o fuoriusciti o in Italia da generazioni) e si sarebbe occupato negli anni sia di problemi vari legati all’isola tirrenica sia delle più vaste e articolate relazioni con la Francia, sostenendo una durissima campagna contro il complotto «repubblicano, socialdemocratico e massonico» di Parigi e il sostegno del governo d’oltralpe all’antifascismo internazionale e italiano in particolare. Il settimanale sarebbe stato distribuito clandestinamente in Corsica.

All’iniziativa specifica de «Il Telegrafo» si sarebbe affiancata, con il benestare e la supervisione del Ministero della Cultura popolare, un’azione propagandista su alcuni quotidiani nazionali che si sarebbe intensificata, come avrebbe scritto sagacemente D’Ajeta «particolarmente nei momenti di maggior disagio con la Francia».

Il secondo strumento operativo fu rappresentato dalle varie iniziative d’ordine scientifico e culturale. Un rivista trimestrale, «L’Archivio storico di Corsica», sotto la prestigiosa direzione dello storico del regime Gioacchino Volpe, si sarebbe occupata di studi storico-letterari inerenti all’isola, con particolare riferimento alle fasi di maggiore legame con la Penisola (la dominazione della Repubblica del Grifone, ad esempio) a tutti quei personaggi caratterizzati da uno spiccato impegno autonomista o indipendentista (come Pasquale Paoli) o a tutti i corsi che avevano influito sulla vita culturale e politica francese, nel tentativo di dimostrare una superiorità corsa rispetto alla Potenza «colonizzatrice» che sottilmente sottintendeva per sillogismo una superiorità della “razza italica”: campione di queste analisi non poteva che essere, ça va sans dire, il Grande Corso per eccellenza, Napoleone Bonaparte (anzi, Buonaparte, secondo la denominazione originale del cognome, e che veniva ribadita dagli studiosi italiani per sottolinearne l’origine peninsulare).

Anche la rivista di Volpe sarebbe stata distribuita clandestinamente sull’isola tirrenica. L’infaticabile Guerri si sarebbe occupato altresì di dirigere un mensile di divulgazione scientifica («Corsica antica e moderna»), con il fuoriuscito ex dirigente autonomista corso Marco Angeli come caporedattore. Il periodico avrebbe dovuto affiancarsi alla rivista di Volpe, completandone l’opera con studi d’ordine antropologico, etnografico, geografico e finanche geologico, tutti atti a ribadire per l’ennesima volta il legame con la vera e unica «madrepatria».

Il docente dell’Università di Pavia Gino Bottiglioni avrebbe infine coordinato le pubblicazioni dell’«Atlante linguistico della Corsica», finanziato da un consorzio tra i Ministeri degli Esteri, dell’Interno e dell’Educazione nazionale nonché dall’Università di Cagliari, uno degli atenei più attenti all’operazione verso l’isola tirrenica. Lo scopo, intuibile sin dalla denominazione della testata, era quello di individuare tutti i possibili legami glottologici e linguistici tra la Corsica e l’Italia, per giungere alla dimostrazione della tesi secondo la quale «le origini idiomatiche corse sono strettamente legate a quelle toscane, sarde e sicule».

Il terzo strumento di propaganda in Italia fu caratterizzato dai Gruppi di cultura corsi (Gcc) costituiti a Pavia nel 1938 su iniziativa di Pietro (Petru) Giovacchini, detto «il parroco» (u parrucu). Nato nel 1909 in Corsica, a Canale di Verde, e trasferitosi a Pavia nel 1930 dove si era laureato in medicina e chirurgia, Giovacchini, che fu anche camicia nera volontaria in Spagna, sarebbe diventato negli anni seguenti il principale esponente del movimento irredentista filofascista. Scopo dei Gcc di Giovacchini era, in origine, quello di inquadrare sotto un’unica sigla tutti i cittadini italiani d’origine corsa e i corsi fuoriusciti, allo scopo di promuovere l’italianità dell’isola sia dal punto di vista culturale che linguistico.

Nei giorni immediatamente successivi al settembre 1939 l’ufficio di D’Ajeta, attraverso il «Comitato per la Corsica», iniziò un monitoraggio sui dichiarati 15 mila iscritti ai Gcc (concentrati soprattutto in Liguria, Toscana e Sardegna) per comprendere se vi erano le condizioni per trasformare, con corrispondente ed adeguato finanziamento da parte del Ministero, l’iniziativa culturale dei Gruppi nell’attiva propaganda irredentistica collegata con i movimenti clandestini sull’isola. Si trattava tuttavia di un progetto ipotetico che, almeno sino al 1939, non sarebbe stato applicato: le condizioni non sussistevano e i Gcc avrebbero dovuto ricoprire incarichi meno dirompenti.

Questa organizzazione, secondo il diplomatico italiano, poteva diventare un utile «movimento d’opinione», atto a coordinare da un lato la diffusione in madrepatria della battaglia per una Corsica prima indipendente dalla Francia e quindi di nuovo italiana e dall’altro l’inserimento dei cittadini corsi residenti in Italia, o recentemente fuoriusciti dall’isola tirrenica, nel pieno della vita nazionale.

In questo D’Ajeta suggeriva al Capo di gabinetto del Minculpop, Luciano, di facilitare l’inserimento dei corsi residenti in Italia nella vita del Paese, riconoscendo loro uno status particolare non di cittadini stranieri (e di li a poco «appartenenti a nazione nemica») , ma di «cittadini italiani non regnicoli», secondo una formula adottata anche nei confronti degli italiani di Spalato e dalmati sottoposti all’amministrazione jugoslava. Inoltre, sarebbe stato auspicabile che i corsi fossero ammessi nel Partito nazionale fascista, anche se formalmente non italiani.

Nei disegni di D’Ajeta i Gcc di Giovacchini avrebbero dovuto affiancarsi alle autorità nel sovrintendere e canalizzare l’inserimento della comunità corsa in Italia all’interno della vita nazionale. I rischi di questo compito erano tuttavia ben chiari al diplomatico italiano: si sarebbe mantenuto «[…] uno stretto controllo cui suoi ben noti entusiasmi [di Giovacchini – NdA] che potrebbero alle volte rivelarsi intempestivi», mentre ai Gruppi stessi non sarebbero stati affidati «[…] compiti direttivi » né « […] la possibilità di essere a conoscenza della riservata azione italiana nel suo complesso»: le caratteristiche del temperamento corso, concludeva D’Ajeta non senza ironia, forse involontaria, e cioè un temperamento «facile all’entusiasmo e all’abbattimento, partigiano, fazioso, interessato» sconsigliavano un salto qualitativo dei Gruppi in un’organizzazione esplicitamente eversiva, una sorta di ustaša tirrenici.

“Petru” Giovacchini

In realtà l’esclusione dei Gcc di Giovacchini dall’azione meramente irredentista e il loro sconfinamento ad iniziative propagandiste e d’inquadramento in Italia più che da motivi di inaffidabilità caratteriale era suggerita dalla delicata rete che l’Ufficio di D’Ajeta aveva esteso sull’isola attraverso sia il «Comitato per la Corsica» di Guerri, sia la rete diplomatica rafforzata dalla riforma della metà degli anni venti. Principale strumento dell’iniziativa in loco fu il «Partitu corsu d’azzione» (Pca) di Pietro (Petru) Rocca, un ex combattente, decorato con la Legion d’Onore dallo Stato maggiore francese. Attraverso l’organo ufficiale del partito, il settimanale bilingue francocorso «A Muvra», il movimento di Rocca si era rapidamente spostato da una posizione moderatamente autonomista su una sempre più spiccata istanza indipendentista e nettamente filo italiana.

Radiato dall’albo della Legion d’Onore, Rocca era perennemente controllato dalla polizia francese, rischiando quotidianamente l’arresto mentre il suo giornale aveva subito numerosi sequestri sino alla sospensione d’obbligo delle pubblicazioni subito dopo lo scoppio della guerra con la Germania. Pur senza entrare nei dettagli, per questioni «di particolare riservatezza», D’Ajeta elencava il Partito e il giornale di Rocca come «strumenti» dell’iniziativa italiana sull’isola tirrenica, sottintendendo la natura e il volume degli appoggi che il governo di Roma riservava al movimento autonomista insulare: il principale trait d’union tra il Partito autonomista e il Comitato per la Corsica sarebbe stato l’ex dirigente del partito Marco Angeli, caporedattore di «Corsica antica e moderna» e «decano» del fuoriuscitismo.

In una successiva lettera assai polemica nei confronti del Giovacchini, ritenuto incapace e indegno di guidare i Gcc, Angeli avrebbe riassunto il programma del partito di Rocca come segue: «Il programma […] si riallaccia alla tradizione di Pasquale Paoli, riafferma lo spirito battagliero dei corsi contro la tirannide francese ammantata d’ipocrisia e d’immorali principi e sostiene per la Corsica le ragioni della riscossa».

André François-Poncet

Le attività italiane sull’isola vennero condotte complessivamente con grande abilità e riservatezza, tanto da non suscitare almeno da parte del corpo diplomatico francese in Italia alcun sospetto, anzi. È interessante notare infatti il relativo disinteresse transalpino nei confronti delle articolate attività irredentiste e rivendicazioniste in Italia. A distanza di quasi due mesi dal «salto qualitativo» del movimento irredentista François-Poncet, ambasciatore francese in Italia, scriveva al suo Ministro degli Esteri Georges Bonnet una breve relazione nella quale riassumeva con molte incertezze la rete propagandista di D’Ajeta, Guerri e Giovacchini, facendo trasparire una inspiegabile difficoltà nel raccogliere informazioni più precise, anche attraverso il consolato francese a Livorno, intuita dai diplomatici come la vera centrale operativa della propaganda irredentista.

Interessante il commento di chiusura:

«J’ai cru devoir signaler, à toutes fins utiles, à l’attention du Département ces indications évidemment quelque peu fragmentaires. Elles me paraissent cepoendant de nature à démontrer l’intérêt croissant que pour des raisons au moins tactiques, et peut-être pour obtenir, le cas échéant, d’autres avantages en échange d’un éventuel désistement, le gouvernement italien porte ou affecte de porter désormais à ‘l’île perdue’».

(“Ho ritenuto necessario segnalare, a tutti gli effetti, all’attenzione del Dipartimento queste indicazioni, che sono ovviamente in qualche modo frammentarie. Mi sembra probabile che mostri il crescente interesse che, almeno per motivi tattici, e forse per ottenere, se necessario, altri vantaggi in cambio di un possibile ritiro, il governo italiano indossa o ora porta “l’isola perduta” “).

Questo atteggiamento piuttosto disincantato e di sottovalutazione del problema, da parte della diplomazia francese, sarebbe proseguito anche nei mesi successivi: «On constate qu’aujourd’hui, rien n’est fait ici [in Italia – NdA] pour enflammer à cet egard le moral de la nation» (“Vediamo che oggi non si fa nulla qui [in Italia – NdA] per accendere a questo proposito il morale della nazione”), si legge ad esempio in un nuovo dispaccio di François-Poncet a Parigi in merito alle solite rivendicazioni italiane, tra le quali la Corsica. Un trucco, quindi, un ballon d’essai propagandistico ad uso più interno che esterno : delle operazioni riservate condotte in Corsica dal Comitato di Guerri e dall’ufficio di D’Ajeta, non compare alcuna traccia nelle relazioni dei rappresentanti diplomatici transalpini in Italia.

Inaugurate alla fine del 1938, le operazioni irredentiste avrebbero subito un rallentamento nel settembre 1939. Lo scoppio delle ostilità aveva ridotto la portata delle iniziative sull’isola. Quelli che il diplomatico italiano definiva «contatti con personalità corse», senza specificarne nomi e qualifiche, apparivano impossibili sin dai primi giorni del settembre. Anche le sovvenzioni che erano state erogate negli anni precedenti a favore della stampa isolana più filo italiana sembravano «molto difficili», anche se d’Ajeta confidava in un non meglio precisato miglioramento futuro delle condizioni per riaprire un canale con alcuni quotidiani corsi.

Assai precaria risultava la distribuzione clandestina della pubblicistica italiana (dall’inserto de «Il Telegrafo» alle riviste culturali e scientifiche). Apparentemente in condizioni migliori appariva un altro strumento, probabilmente ancora più importante e radicato del Partito di Rocca: «Fedeli alla nostra causa, alla quale hanno reso e rendono preziosi servizi, si sono dimostrati alcuni Ordini religiosi con i quali il «Comitato» intrattiene riservati e opportuni contatti».

Ma, in generale, l’iniziativa in loco apparve sin dal primo mese di guerra alquanto limitata, e ben poco serviva la non belligeranza italiana : i fiduciari italiani legati al «Comitato per la Corsica» e incaricati dai diplomatici di mantenere la rete quadrangolare (autonomisti-personalità locali-giornali-clero) correvano «rischi notevolissimi», mentre, essendo la Corsica stata dichiarata «zona operativa» dallo Stato maggiore francese, avrebbe presto subito lo stesso destino dell’Alsazia dove, come ricordava D’Ajeta, i locali capi autonomisti del movimento pronazista erano stati da poco condannati alla fucilazione per alto tradimento:

«Noi abbiamo qualcuno dei nostri ‘amici’ nelle prigioni militari francesi». Inoltre: «La popolazione è antitaliana e certamente antifascista : gli autonomisti – un esiguo numero – non dimostrano certamente velleità di martirio. I più coraggiosi sono indubbiamente ora in Italia, avendo «disertato» l’esercito francese». Dinanzi a un siffatto quadro, il Ministro della Cultura popolare, Alessandro Pavolini concordò con il Ministero degli Esteri sull’opportunità di sospendere le attività in Corsica, mantenendo i contatti ma evitando di aggravare la già precaria situazione della rete del «Comitato» con iniziative concrete : si doveva attendere la maturazione delle condizioni politiche e militari.

Nel clima d’attesa e d’incertezza caratterizzante la non belligeranza, la decisione presa dal Governo di sospendere l’iniziativa sull’isola si allargò anche nei confronti dell’attività propagandista in Italia. Del fatto si accorse anche François-Poncet, che segnalò a Parigi la riduzione dell’attività propagandista sui giornali nazionali, motivandola con i tentativi della diplomazia italiana di giungere a una mediazione nel corso della crisi d’agosto 1939.

Il Comitato ordinò a Giovacchini di sospendere ogni azione. Si tenga presente che lo scoppio della guerra con la Germania aveva avuto un’ulteriore risvolto anche in Italia: più di metà dei principali esponenti dei Gcc, talvolta per un riscoperto sentimento patriottico e il più delle volte per timore di rappresaglie del governo di Parigi, era rientrata sull’isola tirrenica.

Disciplinato, contro tutti i sospetti di D’Ajeta che come si è detto lo giudicava impulsivo e irrequieto, il leader irredentista inviò a tutti i Gruppi distribuiti nella Penisola una circolare che, pur comandando il silenzio, lasciava presagire una futura offensiva addirittura più militare che di propaganda:

«Periodo di attesa e di preparazione silenziosa. Astenersi da qualsiasi manifestazione pubblica o di massa ; non intralciare il lavoro della nostra diplomazia. Non scoprire le nostre batterie, ma non per questo abbandonarle. Io farò sapere quando sarà venuto il momento di agitarsi” .

L’attività dei Gruppi di Giovacchini e più generalmente del Comitato per la Corsica si ridussero sino al maggio 1940 e l’impegno dei principali dirigenti della comunità corsa in Italia appare assai più prosaico e meno ideale del periodo precedente, concentrato soprattutto su una serie di favori personali richiesti a Mussolini attraverso sia gli Esteri che il Minculpop.

Il 22 maggio 1940 Giovacchini si incontrò con Pavolini : la data è fatidica, almeno per la breve storia della rivendicazione fascista della Corsica, e segna l’avvicendamento tra il capo dei Gcc e il «Comitato per la Corsica» di Guerri, ormai definitivamente anestetizzato, alla guida dell’iniziativa propagandista. Giovacchini illustrò al Ministro della Cultura popolare lo stato della sua organizzazione, probabilmente forzando sui numeri e amplificandone le effettive possibilità. I Gruppi di cultura corsi ammontavano a 170 sezioni, sia in Italia che all’estero, per un totale di 22 mila iscritti. I quadri attivi erano circa 250, anche se solo una parte potevano essere effettivamente impiegati in eventuali e non precisate «azioni».

Pavolini

Pavolini concordò con il presidente dei Gcc – ribattezzatosi forse in vista di un salto qualitativo in campo bellico « presidente generale » – di intensificare la propaganda e di dare il via alla «costituzione e addestramento di un nucleo d’azione, da tenere pronto per essere inviato in Corsica a un momento dato». Si trattava di un’esplicita risposta a una dichiarazione da Giovacchini al ministro soltanto alcuni giorni prima («I Corsi irredenti riuniti a Roma sono decisi a passare all’azione»). Il ministro stanziò 30 mila lire per le spese di propaganda, alle quali si aggiunsero cinque mila lire per l’acquisto da parte del Minculopop di un opuscolo sulla Corsica a cura dei Gruppi stessi.

Tuttavia, la tanto agognata «azione» non venne neppure dopo il 10 giugno. I Gcc non si mossero e la propaganda continuò ad essere sospesa. L’unico significativo atto corrispondente al nuovo stato di guerra fu la trasformazione dei Gruppi di cultura in «Gruppi d’azione irredentista corsa» (Gaic). In un impeto di entusiasmo, esemplificativo peraltro di una certa confusione organizzativa e organigrammatica, Giovacchini ribattezzò poco dopo i Gaic prima in «Movimento irredentista corso» e quindi in «Movimento d’azione irredentista corso» (Maic) : il tentativo era quello di gettare le basi per una vera e propria organizzazione insurrezionale che affiancasse le truppe italiane nella «liberazione» dell’isola.

Gioacchino Volpe

Ulteriore segnale della volontà degli irredentisti di Giovacchini di darsi una struttura più militante fu lo scorporo dal movimento di tutta l’iniziativa scientifico-culturale, attraverso la costituzione dell’«Istituto nazionale di studi corsi» a Pavia, il quale organizzò lezioni universitarie, una mostra a Venezia sull’italianità dell’isola, iniziative e mobilitazioni per l’intitolazione di piazze e vie alla Corsica e a Pasquale Paoli. Libero dall’impegno culturale, Giovacchini poteva lanciarsi finalmente nell’impresa politica e forse militare.

Ma la partita era tutta diplomatica e comprendeva da un lato i rapporti tra Italia e Germania e dall’altro la complicata questione armistiziale con la Francia. All’indomani del crollo francese il governo italiano aveva inserito la Corsica tra le prioritarie richieste territoriali: «L’unione all’Italia» si leggeva nel cahier de doléances del Ministero degli esteri alla vigilia del vertice italo tedesco del giugno 1940  “è la condizione prima e fondamentale per il suo sviluppo e la sua prosperità. [La Corsica – NdA] è italiana geograficamente, storicamente ed etnicamente».

Nei progetti iniziali della Commissione italiana per l’armistizio con la Francia (Ciaf), la Corsica sarebbe stata inserita tra le aspirazioni apparentemente irrinunciabili. Tuttavia, le lunghe trattative di Villa Incisa e poi l’infinita vertenza della Ciaf avrebbero visto la rivendicazione corsa in una posizione sempre più sfumata. Una delegazione della Ciaf giunse in Corsica nel luglio 1940 e apparentemente il tema trattato con le locali autorità vichysois sembrò più orientato verso la smilitarizzazione dell’isola, secondo le clausole di Villa Incisa.

I delegati italiani apparvero quindi molto rispettosi dell’autorità francese, prendendo le distanze dall’estremismo dei seguaci di Giovacchini o di Guerri. Tuttavia, come ricorda Rainero «Non si creda che la rinuncia all’annessione immediata della Corsica sia passata tra le decisioni più facili del regime ; la rivendicazione rimase quasi « a futura memoria », in attesa di un regolamento della pace […]».

D’altronde non a caso il maresciallo Badoglio, soltanto due mesi dopo la visita della delegazione della Ciaf sull’isola, sottopose a Mussolini un progetto per l’invasione della Corsica mediante due divisioni, provenienti rispettivamente da Livorno e dalla Sardegna. Il piano si sarebbe sviluppato nei mesi successivi. Nell’incontro tra i capi di stato maggiore
della marina italiana e tedesca, tenutosi a Merano il 13 e 14 febbraio 1941, l’ammiraglio Riccardi disse chiaramente al suo collega germanico Raeder che lo stato maggiore della marina aveva predisposto un piano per l’occupazione dell’isola, suscitando peraltro disapprovazione da parte tedesca : l’occupazione della Corsica non solo era considerata dal
Terzo Reich inutile, ma anzi dannosa nella strategia globale del conflitto, e avrebbe spinto definitivamente Vichy (e senz’altro l’intero Nordafrica francese, ancora tentennante) tra le
braccia dei britannici.

Irritati delle opinioni dell’alleato, ma impossibilitati a prescindere da queste visti i rapporti di forza all’interno dell’Asse, i comandi italiani proseguirono nel perfezionamento solo teorico del piano, in attesa di tempi più favorevoli, e lo trasformarono in un progetto interforze tra marina ed esercito. Il nuovo piano, redatto dall’ammiraglio Vannutelli (che avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di comandante dell’eventuale contingente d’occupazione), escludeva significativamente l’impiego dei separatisti di Rocca e tanto meno degli irredentisti di Giovacchini, entrambi considerati infidi e pasticcioni.

Pur prevedendo ampie tutele all’«etnia corsa» (riconoscimento dei diritti acquisiti degli impiegati corsi, uso del dialetto corso nei processi eccetera), l’isola sarebbe stata governata da un viceré (come l’Albania) o da un alto commissario (come la Slovenia) con pieni poteri esecutivi e due sotto-governatorati ad Ajaccio e a Bastia, corrispondenti alle due zone (le «Bande») in cui veniva tradizionalmente suddivisa l’isola tirrenica. La stessa Ciaf aveva previsto nel 1942 un piano d’occupazione della Francia che prevedeva sia nella versione di massima che in quella di minima un saldo insediamento delle autorità militari e civili italiane in tutti i gangli amministrativi e politici dell’isola.

Nei primi mesi di guerra i seguaci di Giovacchini si annullarono nella snervante attesa della tanto auspicata « azione », disperdendosi nella solita richiesta di prebende personali o per la causa. Le cose sarebbero però cambiate con l’acuirsi della tensione nei rapporti tra l’Italia vittoriosa e la Francia di Vichy, tutt’altro che disposta a cedere alle richieste degli «accoltellatori alle spalle» del giugno 1940. Non a caso il presidente della Ciaf Vacca Maggiolini inseriva l’eventualità di un’«azione» sulla Corsica nel caso in cui non si fossero chiarite le relazioni tra Vichy e l’Asse e la collaborazione del governo della Révolution Nationale con Italia e Germania.

I problemi erano in effetti parecchi e alcuni di essi riguardavano proprio l’isola tirrenica. Il governo di Vichy scatenò sull’isola una durissima campagna anti italiana e pro francese attraverso le iniziative del «Service d’Ordre Légionnaire» (Sol), il braccio operativo della «Légion des Combattents» di Joseph Darnard, organizzazione militante radicata nelle Alpi marittime e nel nizzardo ma diffusa anche in Corsica. Dinanzi a una siffatta offensiva, il direttore generale per i servizi di propaganda del Minculpop, Koch, chiese uno stanziamento straordinario per rispondere agli attacchi del Sol con una energica campagna filo italiana da lanciare sull’isola tirrenica.

L’iniziativa irredentista si sviluppò su due distinti binari. Da un lato, attraverso la rete diplomatica sull’isola si tentò di ravvivare il movimento autonomista, con scarsi risultati. La seconda carta giocata fu il rafforzamento del Maic e la minaccia di trasformare uno strumento di propaganda in un’organizzazione esplicitamente eversiva se non addirittura combattente. In quest’ottica si inserirono le iniziative del «presidente generale» del movimento nel 1941.

Sempre convinto della possibilità di un impegno bellico del movimento irredentista, Giovacchini si recò nel marzo 1941 in Germania, nei campi di raccolta dei prigionieri francesi di Offenburg e di Wursach, per propagandare la causa e reclutare i corsi disponibili. Nel corso della visita, tuttavia, il presidente del Maic dovette scontrarsi con l’ispettore Scappini, un funzionario corso del governo di Vichy, il quale stava compiendo un analogo tour alla ricerca di sostenitori isolani della causa di Pétain con risultati assai più soddisfacenti di quelli di Giovacchini, avendo ottenuto il rimpatrio di ben mille prigionieri.

Il commento del presidente del Maic in una lettera a Mussolini sottintendeva non soltanto un attrito con il governo collaborazionista d’oltralpe ma finanche l’ennesima vertenza con l’ingombrante e arrogante alleato germanico, probabile burattinaio dell’operazione Scappini. Per Giovacchini bisognava «Neutralizzare l’azione di un giornaletto (Le Trait d’Union) stampato a Berlino e diffuso anche tra i prigionieri corsi, il quale, pure essendo intonato agli interessi dell’Asse e non offendendo direttamente quelli dell’Italia, danneggia la nostra causa presso i corsi, per il fatto solo che è scritto in francese ed accetta la collaborazione dei prigionieri che si esprimono in questa lingua […]».

Quindi, si doveva condurre una dura campagna di reazione contro tutti i maneggi vichysois che puntavano su un legame franco-corso con tacito ma evidente benestare tedesco e ribadire il legame tra l’isola e l’Italia: «Duce», concludeva l’accorato Giovacchini, «la Corsica deve essere conquistata spiritualmente, affinché la Figlia traviata non accolga la Madre come una matrigna».

La questione corsa si inseriva pertanto nella vasta vertenza con il governo di Vichy, ricca già di annose questioni provenzali e nordafricane. Non a caso, dalla fine del 1941, in coincidenza con la crisi delle relazioni italo-francesi, si assistette a un salto qualitativo del movimento irredentista. La sede del Maic fu trasferita a Roma, mentre il Minculpop innalzò il finanziamento all’organizzazione sino complessivamente a un milione di lire, cifra indiscutibilmente colossale.

Gli iscritti al movimento salirono sino a un massimo storico, nel febbraio 1942, di 72 mila; Giovacchini fu premiato con la nomina a consigliere nazionale del Partito. Ma il dato più emblematico del rilancio del movimento irredentista fu nel febbraio 1942, mentre i rapporti tra Roma e Vichy si aggravavano, la costituzione in Sardegna di un battaglione corso inquadrato nella divisione «Sassari» della 73^ Legione Camicie Nere. Il mese successivo, a suggello della felice stagione, il presidente del Maic venne ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia, suscitando gelosie e proteste da parte degli altri esponenti del
fuoriuscitismo isolano.

Dopo l’incontro con Giovacchini, il Duce nel ribadire senza mezzi termini le antiche rivendicazioni (« Se la Francia vuole collaborare con noi, si decida a fare all’Italia proposte concrete, che tengano conto realistico della situazione»), non dimenticò l’isola tirrenica: «Della Corsica è inutile discutere, perché non c’è trattato di geografia che non ne riconosca l’italianità».

Il «battaglione corso» delle camicie nere sarebbe tuttavia restato sulla carta, e servì più come deterrente che come effettivo strumento di lotta. La questione corsa non si doveva né poteva risolvere da un punto di vista militare ma politico, come aveva potuto osservare anche il segretario della Ciaf, generale Gelich in un incontro tra marzo e aprile 1942 a Parigi con la Commissione tedesca di armistizio con la Francia: l’occupazione della Corsica (insieme alla Tunisia, Dakar e Francia metropolitana) avrebbe richiesto un numero troppo elevato di divisioni che non potevano essere disimpegnate dagli altri fronti.

L’opzione doveva essere politica, ma lo strumento non potevano essere gli esagitati seguaci del Maic, destinati a restare in Italia nonostante le speranze di Giovacchini di vedere la sua
organizzazione trasformata in un élite insurrezionale da scatenare sull’isola. Ha scritto lo storico (e testimone dei sistemi d’occupazione italiani in Francia) Alfonso Ferrari:

«Erano centro di propaganda, il cui compito era di familiarizzare la pubblica opinione italiana, al riguardo assai poco ricettiva, con l’esistenza di un problema della Corsica […] il cui regolamento era oramai affidato alla sorte delle armi. E fin qui passi. Bisognava pur tener vivo con qualche obiettivo ad apparente portata di mano […] l’interesse del Paese ad una guerra appena agli inzi e già fonte di tante amarezze. Dove invece il giuoco diventava infantile e controproducente era quando si cercava di suscitare in loco delle adesioni alla eventualità di una annessione della Corsica […]. L’insensibilità dei corsi […] a sollecitazioni intese a renderli partecipi degli schiamazzi che si andavano nuovamente inscenando in Italia fu subito evidente e venne così a privare il preteso irredentismo della solidarietà dei pretesi irredenti».

Esclusa la soluzione militare, mantenuti in sospensione i gruppi di Giovacchini, fu pertanto favorito un terzo mezzo di scontro con Vichy attraverso l’impiego del cosiddetto «reparto corso» dell’Eiar, sotto la guida del funzionario corso del Minculpop (e dirigente della Confederazione fascista degli industriali) Anton Francesco Filippini. La radio di regime iniziò sin dall’autunno 1941 a mandare in onda trasmissioni settimanali rivolte specificamente all’isola tirrenica, in lingua italiana, francese e corsa: commenti politici, informazioni ma soprattutto azione di propaganda con lo scopo di «[…] screditare indirettamente la stampa isolana più ostile all’Italia, col ricordare le passate millanterie. Ma ciò”, concludeva astutamente nella relazione di presentazione l’ispettorato per la radiodiffusione «senza particolare veleno».

Ufficialmente le radiotrasmissioni del «reparto corso» avrebbero dovuto rivolgersi principalmente contro gli agenti gollisti e britannici operanti sull’isola; in realtà, si trattava di una risposta, che gli irredentisti volevano energica e astiosa, alle iniziative del Sol e più in generale del governo di Vichy. Ma significativa appariva la richiesta del console d’Italia in Corsica, Ugo Turcato, da tempo dichiaratamente ostile ai «pasticci» dei gruppi irredentisti in Italia. Per il diplomatico italiano, bisognava «evitare di attaccare direttamente la Francia, le sue istituzioni e principalmente l’esercito. Molti corsi sono attaccati alla Francia, fanno parte delle istituzioni francesi ed hanno servito nell’esercito francese, quindi ogni offesa portata a questi organismi può essere dannosa anziché benefica».

Il commento di Turcato era esplicativo di una situazione ben diversa da quella sostenuta dal Maic: non soltanto non era semplice far coincidere irredentismo con istanze filo italiane, ma esisteva una Corsica che si sentiva parte integrante della Francia e, a giudicare dal commento del console italiano, questa non sembrava essere troppo minoritaria. Gli spazi per gli irredentisti di Giovacchini apparivano dunque sempre più ristretti e pronti ad essere sacrificati alla ragion di Stato. Parallelamente all’attenuazione del braccio militante di Giovacchini, anche le azioni culturali dell’Istituto di studi modificarono la loro natura, riducendo la portata politica della rivendicazione territoriale ed evocando progetti di sviluppo economici che, pur sottintendendo una futura annessione, non la dichiaravano esplicitamente:

«Il rivendicazionismo, come si vede, mutava lievemente natura e da politico puro si tingeva di programma di sviluppo economico e sociale allo scopo anche di attirare attorno a sé quei consensi presso i corsi che, fino ad allora, non aveva di certo ottenuto ».

Le attività del reparto corso, comunque, proseguirono senza grandi entusiasmi e sotto un occhiuto controllo del Ministero sino al novembre 1942. Con l’occupazione dell’isola da parte del VII Corpo d’armata italiano, l’obiettivo di Guerri, Giovacchini e Filippini sembrò raggiunto e il sogno compiuto. La realtà fu ben altra: l’isola era una mera zona d’occupazione militare con il ben preciso scopo di contrastare il possibile sbarco in Provenza delle armate alleate provenienti dal Nordafrica, come avrebbe scritto nelle sue memorie il generale Magli.

Per un territorio popolato da circa 300 mila abitanti furono impiegate due divisioni binarie (la «Friuli» e la «Cremona») altre due divisioni costiere, numerose unità alle dirette dipendenze del Comando di corpo d’armata, otto battaglioni della Milizia, una brigata motorizzata tedesca e diverse unità di polizia e dei carabinieri per un totale di circa 85 mila uomini : in pratica quasi un militare ogni tre abitanti, in un clima di profonda ostilità sia da parte della popolazione civile che delle locali autorità di Vichy.

Nel gennaio 1943 una nota del Minculpop in merito a un progetto di Giovacchini di pubblicare un bollettino d’informazione da distribuire, non più clandestinamente, sull’isola, chiariva definitivamente la posizione del governo sul progetto del Maic e del suo “presidente generale”: «Il progettato bollettino non dovrebbe avere alcun apparente carattere politico o nazionalista, e tanto meno polemico ed irredentistico».

Ancora più esplicita risultava la considerazione dell’Ufficio I del comando del VII Corpo d’armata, secondo il quale «i corsi, benché italiani di sangue, sono stati conquistati da molti anni di governo francese e, per ora sarebbe vano sperare che essi possano essere indotti a simpatizzare per noi»: affermazione che metteva la parola fine all’intero impianto imbastito dai Guerri, dai Giovacchini e dai Filippini sull’ipotesi di un collegamento tra l’irredentismo in Italia e le istanze indipendentiste isolane.

L’ultima possibilità per il Maic parve riapparire nella tarda primavera 1943; le continue tensioni con le autorità francesi sull’isola, e la quasi assoluta certezza del doppio gioco di queste ultime a favore del movimento gollista spinsero il console Turcato, ormai trasformato de facto in un alto commissario civile del regime d’occupazione, a modificare drasticamente la sua iniziale posizione ostile agli irredentisti e a richiedere da un lato la sostituzione di tutto il personale francese sull’isola con esponenti del Maic e del partito di Petru Rocca (o meglio di quei pochi suoi seguaci ormai votati al collaborazionismo), e dall’altro il passaggio dei poteri al Comando del Corpo d’armata italiano in attesa di un’auspicata e definitiva annessione della Corsica al Regno d’Italia.

Come ricorda Rodogno, «le autorità militari si opposero fermamente a questa politica e rifiutarono di assumere i poteri civili nell’isola. Giudicavano il progetto velleitario e non realista; nessun funzionario francese avrebbe mai accettato di lavorare per gli italiani e nessun irredentista sarebbe diventato funzionario francese ».

A conclusione dell’intera vicenda dell’irredentismo corso, risulta emblematica una nota del Minculpop del giugno 1943. In merito a un supposto miglioramento dei rapporti tra i militari italiani e la popolazione corsa, si legge:

«Su tale miglioramento […] non può nell’attuale situazione farsi eccessivo affidamento, e ciò fra l’altro per la ragione che esso viene continuamente neutralizzato ed ostacolato dalla attivissima propaganda nemica, svolta specialmente attraverso la radio. Contro questa propaganda il R. Consolato Generale a Bastia si è costantemente sforzato di reagire nel modo più efficace, promuovendo e sviluppando svariate iniziative. Tale sua azione ha peraltro dovuto essere contenuta nei ristretti limiti consentiti dalla direttiva di massima, adottata fin dallo scorso novembre dai competenti Comandi militari, di evitare in quell’isola ogni propaganda attiva al fine di prevenire reazioni suscettibili di ostacolare il consolidamento della nostra occupazione».

Non solo non era più possibile sferzare il governo di Vichy : la stessa propaganda anti alleata rischiava di apparire controproducente. La Corsica era terra d’occupazione, non irredenta. Un’occupazione che non nascondeva un’altra, lugubre faccia della medaglia. Scriveva il generale comandante del VI Corpo d’armata Carboni ai comandi divisionali alla vigilia di Natale del 1942:

«[…] Ogni qualvolta si verifichi un evento a danno delle persone e delle cose militari, saranno catturati ostaggi tra la popolazione civile corsa nella seguente misura : – tre ostaggi nel caso in cui l’attentato portato a compimento non abbia avuto effetti dannosi alle cose o alle persone militari ; – cinque ostaggi nel caso abbia avuto effetti dannosi alle cose militari ; – dieci ostaggi per ogni nostro militare ferito ; – venti ostaggi per ogni nostro militare rimasto vittima dell’attentato. Numero doppio trattandosi di un ufficiale».

I corsi non erano quindi stati liberati da alcun giogo, anzi ; con l’invasione del novembre 1942 erano finiti sotto il tallone di una dura occupazione militare. Gli spazi di movimento del Maic e degli irredentisti da ristretti che erano vennero di conseguenza annullati in modo definitivo Il crollo del regime e l’armistizio spazzarono via ogni traccia di irredentismo. In Corsica il comandante italiano, generale Magli, scatenò una energica e coraggiosa resistenza antitedesca, nella quale convissero tanto l’anima francofila quanto quella autonomista e finanche indipendentista, sino alla liberazione dell’isola.

Nel lugubre crepuscolo repubblicano-sociale del fascismo riapparve un sussulto irredentista ad opera dell’irriducibile Giovacchini, che nel frattempo era stato tra i primissimi, nell’ottobre 1943, ad iscriversi al Fascio repubblicano dell’Urbe. Nel dicembre dello stesso anno l’ex «presidente generale» del Maic iniziò una lunga relazione epistolare con il segretario particolare di Mussolini, Giovanni Dolfin. In una ispirata lettera Giovacchini esortava la Repubblica sociale ad occuparsi nuovamente dell’isola tirrenica: «con il cuore spezzato, ma senza l’ombra della disperazione, noi rivolgiamo ancora e sempre al Duce, con il grido della vigilia : ‘Italiani non dimenticate la Corsica ! La Corsica muore !».

L’insistenza dell’irriducibile irredentista giunse a buon fine. Nel febbraio 1944 rinacquero i vecchi «Gruppi di cultura corsi», in una sconcertante operazione anacronistica evidentemente orientata più a irritare l’insopportabile alleato germanico che a reimpostare
un’effettiva istanza rivendicazioniosta per l’isola. I nuovi Gcc repubblicano-sociali trovarono la loro antica sede a Pavia, mentre il loro leader si trasferì a Oleggio Grande, presso Novara, dove, oltre alla professione di medico diresse sino alla termine della parabola neofascista la locale sezione del Pfr. In una lettera a Dolfin il capo dei Gcc, forse ironizzando sul suo antico soprannome («il parroco»), riassumeva così la sua nuova posizione di militante: «la zona è eminentemente operaia e quindi i pericoli sono tanti… Come vedi non si può parlare di carrierismo politico […] poiché sono andato da […] vescovo in prete !».

Ma il vecchio sogno continuava ad occupare gran parte del suo impegno, in uno slancio onirico che lo avvicinava all’intera vicenda gardesana fatta di rimpianti e di progetti ormai definitivamente irrealizzabili: «Non perdo le file del mio vecchio movimento per la redenzione della Corsica, poiché al momento opportuno, salteremo fuori. Aspettiamo soltanto un cenno ! […]».

I Gruppi limitarono di fatto la loro azione a ricercare quei corsi internati nei campi di prigionia in Toscana che erano fuggiti dopo l’8 settembre : sia per convincerli ad aderire all’impotente movimento irredentista sia, in caso di rifiuto, per consegnarli con solerzia alle autorità nazifasciste. L’ultimo cenno proveniente dal «recluso di Gargnano» a sostegno dell’iniziativa di Giovacchini fu, nel maggio 1944, lo stanziamento di 25 mila lire, che il capo dei Gcc incassò promettendo addirittura l’immediata costituzione di nuclei irredentisti da inviare sull’isola tirrenica, già liberata da tempo.

Mancava un mese alla liberazione della Francia e alla condanna del 22 giugno 1944 da parte del governo democratico di Ivanoe Bonomi di tutte le rivendicazioni territoriali fasciste. Mancava sopratutto meno di un anno al completamento della liberazione d’Italia. Il sogno della Corsica italiana seguì la sorte di tutti i sogni del regime. Ma forse, come ha scritto Ferrari, riferendosi più in generale a tutto il rivendicazionismo fascista contro la Francia, «non era lo svanire di un sogno, ma la liquidazione di una stoltezza». Giovacchini continuò nel dopoguerra e per tutta la vita ad esercitare a Roma la professione di medico chirurgo. Non avrebbe più visto la Corsica.

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