L’IMBUTO

Era arrivato a pochi centimetri dallo spioncino della porta di casa. La sua.

Sapeva, prima di piegare la maniglia, cosa avrebbe fatto di lì a pochi secondi. Un colpo di chiave nel senso ormai noto. E quella parete mobile di legno si sarebbe aperta.

Il tempo di guardarsi attorno. Per vedere il niente.

Buttò la giacca sul divano. In casa era tutto intatto. Come l’ aveva lasciato.

Accese la televisione. E attaccò, alle lingue minacciose di un fornello, il fondo di una caffettiera.

I giornali del giorno prima. I bicchieri della sera. Tazzine con fondi secchi e neri. Brandelli di buste. Erano tutti retrocessi.

Si lasciò andare, senza comandi, su una sedia. Aspettava che qualcosa passasse, scivolasse via, sul suo corpo.

Sarebbe arrivata inesorabile un’ ora, con minuti e secondi intermittenti, sul display.

Nello stomaco finirono dei crackers, un ‘arancia sbranata dai denti lungo la linea dell ‘ equatore. Caffè bollente, fumo caldo. Spezzoni di imma- gini reali e immaginate. Tutto strozzato, orribilmente mutilato, asfissiato.

La mattina dopo, il di più, sarebbe stato buttato nel cassonetto dei rifiuti, nello scarico del lavandino, sul marciapiede. O in frasi che trasportano le scorie dell’anima all’esterno. Pensò a questo anche guardandosi allo specchio prima di seppellirsi sotto il sonno. Nessuno lo avrebbe interrogato sulle certezze di quel momento. Poteva anche non ripassare la parte.

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