LE ATROCITÀ DELLA “BANDA CARITÀ” – 6

a cura di Cornelio Galas

Palazzo Giusti, in via San Francesco a Padova diventa, come abbiamo visto nelle precedenti puntate, “Villa Triste”. E questa, fra la fine di ottobre e i primi di novembre 1944 sarà la “tana” della banda del maggiore Mario Carità.

Il salone di Palazzo Giusti

Il salone di Palazzo Giusti

“L’alcol e la cocaina – scrive Aldo Comello – elevano a potenza la ferocia dei torturatori, alimentata anche dalla consapevolezza che si avvicina l’ora della resa dei conti. Ma da quale inferno sbuca questa accozzaglia di informatori, spie, assassini, addetti ai rastrellamenti e alle spedizioni punitive?

Un anno dopo la Liberazione i prigionieri della banda Carità si ritrovano nel giardino di Palazzo Giusti

Un anno dopo la Liberazione i prigionieri della banda Carità si ritrovano nel giardino di Palazzo Giusti

Carità e i suoi vengono da Firenze. La banda si è finanziata con una rapina in banca da 55 milioni di lire e con i beni strappati agli ebrei. Da Firenze il gruppo, al diretto comando dei nazisti, sorta di Spectre italica, passa a Bergantino e poi a Padova su richiesta del questore Menna.

Mario Carità (al centro)

Mario Carità (al centro)

Finiscono nella rete operai, professori universitari, madri di famiglia, artigiani: ognuno è portatore di una memoria in cui spicca la sospensione di ogni diritto umano.

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Tra le vittime delle torture, lo abbiamo scritto nella precedente puntata, il professor Egidio Meneghetti, Antonio Zamboni docente al Tito Livio, l’avvocato Sebastiano Giacomelli, il professor Giovanni Apolloni, insegnante al Barbarigo, molto vicino a don Giovanni Nervo, lo scultore Amleto Sartori.

don Giovanni Nervo

don Giovanni Nervo

A palazzo Giusti viene portato agonizzante, tra le risate di scherno degli aguzzini, il partigiano Otello Pighin (Renato). Il capo, Mario Carità, faccia pesante, occhi spiritati, un ciuffo di capelli bianchi – scrive ancora Comello –  è uno splendido campione della galleria lombrosiana.

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I mezzi di persuasione nel salone del palazzo e nei cosiddetti uffici (camere di contenzione) sono calci, pugni, scariche elettriche, unghie strappate. Un altro soggetto meritevole di identikit è Antonio Corradeschi, un bel tenebroso, un gagà, nerovestito sempre intento ad insidiare le prigioniere, cercando di strappare loro qualche confidenza.

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Corradeschi avrebbe irretito anche una signora della buona borghesia padovana che fu però il principale testimone a carico del suo processo. A lei il bel Tonino avrebbe indirizzato una lettera, nei giorni del suo arresto, piena di amarezza e di risentimento.

Corradeschi, con Chiarotto e Falugiani, costituisce il gruppo di fuoco, un trio di assassini. Una delazione permette loro di tendere un agguato mortale, vicino a palazzo Esedra, a Francesco Sabatucci, comandante della Brigata Padova, eroe del Ponte della Priula.

Cercano di prenderlo ma Francesco si mette a correre veloce; Corradeschi gli spara con la pistola, gli altri due esplodono raffiche di mitra: Sabatucci si abbatte raggiunto da una trentina di proiettili.

Francesco Sabatucci

Francesco Sabatucci

Vicino al Santo, vittima di tradimento, viene ucciso Corrado Lubian che ha appena sostituito nel comando Otello Pighin. La storia della banda Carità è un po’ come l’Iliade di Omero, non c’è una documentazione scritta. «Carità e i suoi uomini – scrive Taìna Dogo – hanno distrutto ogni prova dei loro misfatti. Difficile anche rintracciare gli atti del processo del settembre 1945».

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Quando la linea di resistenza tedesca sull’Appennino mostra i segni di profonda usura, Mario Carità si rifugia in un paesino dell’Alpe di Siusi a 30 chilometri da Bolzano. Viene sorpreso da soldati americani mentre fa l’amore in una baita. Prende la pistola, spara, ma viene falciato da raffiche di mitra e la donna che è con lui viene ferita.

Corradeschi è fucilato alla schiena al poligono di tiro di Padova; per Chiarotto e Falugiani, la sentenza è l’ergastolo; viene condannata a 16 anni anche la figlia maggiore di Carità. L’amnistia ridusse a tutti poi la pena detentiva.

Bruno Fanciullacci

Bruno Fanciullacci

A Firenze la banda Carità imperversò fino al giorno della liberazione con arresti arbitrari, ricatti, prepotenze e torture. Fra il 17 e il 23 luglio ‘44, dopo la morte di Bruno Fanciullacci, le SS di Carità uccisero 17 persone.

I loro corpi vennero sepolti alle Cascine. Solo nella primavera del ‘57 i cadaveri di 17 persone furono trovati in una fossa comune sul greto dell’Arno.

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Amleto Sartori

Erano Giuliano Gattai, Giuliano Molendini, Giuseppe Rosetto ed Enrico Emilio Donati, Valdo Betani, Alfredo Rossi, Valente Pancrazi, Renzo Matteucci, Sergio Pasi, i 4 romani Marcello Cicinelli, Aldo Crialese, Giovanni Moledandri, Giuseppe Giusto, il calzolaio Luigi Parentini, don Enrico Monari, Enzo Feliciano ed uno sconosciuto.

Quell’eccidio seguì la strage di piazza Tasso. Il 17 luglio ‘44, il giorno della morte di Fanciullacci, il repubblichino Giuseppe Bernasconi che aveva sostituito Mario Carità nel «Reparto servizi speciali», organizzò un massacro in piazza Tasso.

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Verso le 20 arrivò un camion carico di repubblichini. Quella tragica sera i collaboratori di Bernasconi avevano organizzato una retata per catturare i gappisti Valdo Betani, Alfredo Rosai, Valente Pancrazi e Renzo Matteucci.

Cinque persone rimasero per terra in un lago di sangue. Tra le vittime anche un bambino di 8 anni, Ivo Poli, mentre correva verso la madre. I gappisti catturati in piazza Tasso furono fucilati il 23 luglio alle Cascine.

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L’organico dell’apparato poliziesco a Firenze

L’organico dell’apparato poliziesco a Firenze Personale del comando della Sicherheitspolizei/SD di Firenze e della “Banda Carità”

COGNOME

NOME

D.di NASC

L.di NASC.

GRADO

FUNZIONE A FIRENZE

ALTRI ASSEGNAMENTI

Alberti Otto 26.11.1908

Berlino SS-Hstf. Dirigente Parma

Braun Alois SS-Oscha. Abt. IV Bologna, Abt. IV

Carità Mario 03.05.1904

Milano Maggiore Sez. speciale italiana, Dirigente Padova

Carlotti Otello 23.11.1910

Firenze Caporalmagg. Sez. speciale italiana Padova

Castaldelli Johann 16.12.1915

Bergantino Tenente Sez. speciale italiana, Aiut. magg. Padova

Castellari Aldo 13.09.1906

Firenze Sergente Sez. speciale italiana Padova

Chiarotto Mario 13.12.1918

Firenze Allievo SS Sez. speciale italiana Padova

Chiarotto Valentino 24.08.1910

Firenze Maresciallo Sez. speciale italiana Padova

Corradeschi Antonio 28.07.1918

Siena Sergente Sez. speciale italiana Padova

Edelbrauk ? SS-Oscha. Autista

Ehrich Fritz SS-Ustf. Abt. III KdS Bolzano, Brunico

Eigenbrod SS-Oscha. Radiotrasmettitore BdS Verona, Abt. II/C-3

Ettl Josef 23.02.1907

Schachau SS-Oscha. Abt. IV b 4, Respons. Uff. “Ebrei” Parma, Reggio Emilia

Fiene Josef 05.07.1904

Monaco SS-Oscha. Abt. IV Kdo. Andorfer, Rovereto, Novara

Gagel Ludwig Max 02.04.1904

Michelau SS-Stscha. ? Parma, Abt. II, IV

Goebel Emil 03.08.1910

Essen SS-Hstf. Dirigente, predec. di Alberti Uff.d.colleg. presso l’Ambasc. Rahn

Gold Hugo 07.10.1894

Mammendorf SS-Hstf. Abt. IV, Dirigente 1943 Genova, 1944/45 Bologna

Grippaldi Matteo 06.03.1919

Gagliano Soldato SS Sez. speciale italiana Padova

Hauck SS-Oscha. Abt. IV

Herrmann Karl SS-Hstf. Abt. III D Parma, Abt. III, Dirigente

Hoffer Max Interprete Abt. II, Interprete

Holzknecht Interprete

Kofler Willi SS-Oscha. Abt. III A 4

Kossek Franz 16.06.1909

SS-Hstf. Abt. III Macerata, Dirigente;

Laubichler Josef 21.11.1898

Hüttau SS-Ostf. Abt. IV Bologna, Forlì; Kdo. Andorfer

Mammey Karl 13.08.1910

Buer-Resse SS-Stscha. Abt. IV Parma, Abt. IV

Manganelli Ferdinando 19.07.1919

Siena Soldato Sez. speciale italiana Padova

Marinek Marie ?

Meister Walter 26.03.1905

Merano SS-Oscha. ?

Möller Ernst 20.12.1912

Bergedorf SS-Ustf. ? Bologna, Abt. VI

Moroder Dominik 23.02.1914

St.Ullrich SS-Oscha. Sez. speciale antipartigiana

Niedermayr Eduard 20.10.1913

Bolzano SS-Uscha. ? Parma

Rabanser Anton/Tony 14.11.1913

Chiusa SS-Oscha. Abt. III Parma

Rainier Heinrich 16.12.1899

Dobbiaco SS-Ustf. ? BdS Verona; Padova,; Bologna

Schmidt Heinrich 05.06.1889

Jeubar SS-Ustf. Abt. III, Dirigente Venezia, Abt. IV

Schmitz Ewald 07.12.1915

Bardenbach SS-Oscha. Autista BdS Verona; Padova, Abt. IV/V

Squilloni Raul 15.11.1904

Firenze Maresciallo Sez. speciale italiana Padova

Usai Umberto 17.04.1915

Livorno Sottotenente Sez. speciale italiana, cdt. plotone Padova

Weissmann Karl SS-Ostf. Abt. IV Roma; Bologna, Abt. IV

Abbreviazioni:

Abt.: Abteilung: sezione

Cdt.: comandante

Kdo.: Kommando

Sez.: sezione

SS-Hstf.: SS-Hauptsturmführer: Capitano SS

SS-Oscha.: SS-Oberscharführer: Maresciallo SS

SS-Ostf. : SS-Obersturmführer: Tenente SS

SS-Uscha.: SS-Unterscharführer: Sergente SS

SS-Ustf. : SS-Untersturmführer: Sottotenente SS

LA TESTIMONIANZA

di Renzo Lorenzoni

La mattina del 3 gennaio 194′ verso le nove, tre agenti del comando di Palazzo Giusti suonarono il campanello della mia abitazione. Uno di essi rimase a far da palo davanti alla porta di casa; gli altri due, accampando un puerile pretesto di dovermi comunicare qualcosa per conto del Conservatorio di Milano, salirono sino al salotto e alla camera da letto.

Dopo aver chiesto e avuto conferma che bisognava seguirli sino al Palazzo di via S. Francesco, mi vestii in fretta e alle 9,30 ero già arrivato a destinazione. A dire il vero non era la prima volta che varcavo quelle soglie in qualità di prigioniero.

La sera del 20 dicembre 1944, quindici giorni prima, ero capitato in casa dell’amico Umberto Avossa, puro combattente dell ‘antifascismo, per informarmi della sua salute malferma; e vi ero capitato proprio mentre uno sbirro del maggiore Carità vi si trovava allo scopo di arrestarlo.

Non parve vero al poliziotto di cogliere due piccioni con una fava. Dopo aver esaminato i miei documenti personali, mi ficcò dentro una automobile che sostava in quei pressi e in pochi istanti mi portò alla base. Quella sera le cose andarono molto liscie.

Verso le nove e mezzo fui introdotto nell’ufficio del tenente Trentanove che mi sottopose a interrogatorio: si riesaminarono le mie carte, e, dopo qualche investigazione circa le mie relazioni personali con l’Avossa, gli inquirenti, tra i quali era attentissimo lo sbirro che mi aveva arrestato, si convinsero del «caso fortuito », e senza manco stendere un verbale dell’interrogatorio mi rilasciarono in libertà, dopo che ebbi firmato la regolare diffida di nulla rivelare di quanto avevo veduto ed udito nell’interno del Palazzo.

Questa facile risoluzione dell’incidente indusse erroneamente me, familiari ed amici a ritenere che niun altro pericolo mi incombesse almeno per il momento: ma non doveva pensarla cosi il maggiore Carità che provvide, in modo più efficace pochi giorni dopo, alla mia sistemazione.

Il 3 gennaio erano giunti con me (tra i molti di cui non ricordo più il nome) ed erano stati riuniti nella stanza dei tenenti Baldini e Trentanove, il colonnello Marziano col figliolo, il maggiore Marangalo e la dottoressa Baricolo. Le prime operazioni furono, naturalmente, la perquisizione e il sequestro di quanto avevamo con noi.

La signorina incaricata, che seppi poi rispondere al nome di Renata Chicco (una biondina allampanata liquescente con due occhietti cisposi di sinistra civetta) stese a lapis un rapido inventario su di un quaderno: corrispondenza, oggetti personali, portafogli, portamonete, tutto fu accatastato in una grossa busta di carta e rinchiuso in un armadio a saracinesca.

Vuotate le tasche e alleggeriti i rispettivi proprietari dei contenuti delle medesime, ci si rimandò nell’anticamera ad … aspettare. Aspettare che cosa? Mah! Probabilmente l’interrogatorio. Ci cullavamo tutti nella fiducia di un sollecito interrogatorio.

Ma era un’illusione. Quella prima giornata passò, come le successive, lenta e funerea, rotta solo da un macabro episodio che doveva essere il primo di una tristissima serie. Poco dopo le tre del pomeriggio, dalla camera attigua a quella dove avevamo subito la perquisizione, si udirono dei singulti repressi, dei lamenti ripetuti, interrotti da qualche grido di dolore.

Verso le cinque si apri improvvisamente la porta, ne uscirono, passando in mezzo a noi e diretti al piano superiore ove si trovava un’insufficiente infermeria, prima un battistrada, poi uno dei carcerieri che reggeva sulle spalle lo sventurato uscito fresco fresco dalle torture.

Era in stato evidente di pieno collasso fisico e aveva il capo riverso sulla spalla di colui che lo sosteneva: non riuscii perciò a vederlo in volto, ma, dai capelli che aveva foltissimi e da qualche altro particolare somatico, dedussi che dovesse essere giovane. Come finale di coda veniva poi il capitano medico che non si stancava di ripetere a coloro che lo precedevano: “Presto, presto: una branda, un materasso e una iniezione prima che succeda il peggio ».

Assistemmo muti e sconvolti al passaggio del triste corteo: i presagi di sventura che vagavano nell’aria sembravano confermati dal tetro spettacolo offertoci. Un’altra conferma, teorica questa ma non meno impressionante, ci venne alla sera stessa, allorché intruppati e raccolti nella sala dove aveva avuto luogo la tortura diurna e dove passammo la notte, uno dei sorveglianti (alto nella persona, con un pellicciotto sino alle ginocchia e l’immancabile mitra a tracolla) uscì a dire tra una parolina e l’altra: “Questo luogo è l’inferno per i colpevoli».

Come Dio volle la notte passò, e alle prime luci dell’alba fummo avviati al «salone”, dove io rimasi sino al momento della scarcerazione. La seconda giornata, il 4 gennaio, fu contrassegnata da un avvenimento di tutt’altra natura. Verso il tocco si udì il sibilo delle sirene di allarme aereo e di li a pochi istanti gli apparecchi anglo-americani ci rombavano sulla testa. Entrò allora nel salone il tenente Trentanove, seguito da due o tre dei suoi scherani.

Sghignazzando e schernendoci, gridava con quanto fiato aveva in corpo: «Sarete contenti, sono qui i vostri amici, i vostri fratelli… ». Ma le sue parole furono repentinamente sepolte da una formidabile esplosione che mandava in frantumi i vetri del palazzo, comprese tre finestre del salone che ci ospitava.

Per rimettere un po’ d’ordine nello scompiglio che ne seguì, ci venne ordinato di scendere in giardino e di appostarci in una piccola trincea scavata di fresco. La trincea non aveva alcun riparo. Era stata prescelta per questo? Forse. Nulla essendo accaduto di grave, la conseguenza dell’esplosione fu che la temperatura del salone, già rigida, scese ancora e le notti divennero sempre più dure.

Di quel torno di tempo, la giornata memorabile coincise indubbiamente col 7 gennaio, una domenica. Di buon mattino, in seguito ad un forte attacco artritico, chiesi di essere visitato dal medico, il quale riconobbe l’esistenza del morbo, ma alla mia richiesta di avere un letto su cui riposare durante la notte obiettò che l’accoglimento dell’istanza dipendeva dal comandante.

Non me lo feci ripetere due volte e me ne ritornai rassegnato nel salone, dove fervevano già i preparativi per l’imminente rapporto che si teneva nell’attigua sala dell’amministrazione.

Al rito presieduto dal comandante, tutti indistintamente, ufficiali e sguatteri che fossero, dovevano  convenire, e alla fine della cerimonia intonavano coralmente un refrain di cui non riuscii, per quanto aguzzassi le orecchie, a cogliere le parole, ad eccezione di tre: farabutti e maggiore Carità. I farabutti, si capisce, erano i prigionieri passati, presenti e futuri, e l’idoleggiato era il maggiore Carità.

Nel tardo pomeriggio del medesimo giorno si poté notare che un avvenimento sensazionale stava allietando le inquiete anime dei carcerieri di Palazzo Giusti. Uno sbatacchiar confuso di porte, un andirivieni inconsueto di sbirri, un tramestio generale erano i segni infallibili che la cacciagione doveva essere stata eccellente e aver riportato qualche cospicua preda.

Il rimbombo del portone di strada si faceva sempre più frequente: macchine entravano ed uscivano di continuo. E nella sbirraglia un mal celato senso di soddisfazione trapelava da ogni gesto. Il colpo era stato grosso per davvero. Era la cattura di Egidio Meneghetti, insigne farmacologo dell’Università, l’animatore del movimento padovano di resistenza.

Ricercato da mesi era riuscito a sfuggire fino a quel fatale 7 gennaio, quando nella rete stesa attorno alla casa di cura Palmieri cadde anche lui. Ce lo trovammo così ospite del salone in pigiama e in pantofole e, siccome era un cliente di riguardo, ammanettato.

La notte che segui (notte di tregenda, la definì il mio vicino di prigionia, il caro Luigi Faccio, ultimo sindaco di Vicenza libera prima dell’avventura fascista) fu movimentata tanto quanto lo era stata la sera. Il salone rigurgitava di facce nuove. Gli interrogatori si succedettero ininterrottamente agli interrogatori e la tortura funzionò implacabilmente sino al mattino, quando il tenente Baldini entrò ballonzolando in salone e gridò: “Li becco tutti, ormai li ho tutti nelle mani ».

I “tutti» erano i componenti il CLN. Evidentemente sorretta e foraggiata dai tedeschi (ogni sera due o tre ufficiali superiori tedeschi passavano dal salone ed erano introdotti nella stanza del Comandante con sonori «Heil Hitler», l’organizzazione poliziesca di Palazzo Giusti presentava, anche all’occhio di un superficiale osservatore, aspetti enigmatici. Uno di questi era l’impalcatura disciplinare sulla quale doveva reggere la struttura dell’organismo.

A star a sentire qualche basso gregario (c’era ad esempio un piantone lucchese, tale Rustici, che quando si sentiva sicuro di non essere sorpreso dal comandante si lasciava trascinare dalla nativa loquacità a interessanti confessioni) doveva trattarsi di una iperdisciplina, nel senso più spietatamente militaristico. Episodi di brutalità non mancavano, a dire il vero.

Di uno fu protagonista proprio il Rustici, il quale in un momento di debolezza accese con la propria sigaretta il mozzicone di un prigioniero. Proprio in quell’istante il Carità spalancò la porta e colse il Rustici nell’atto.

Avvicinatosi, come una belva infuriata, al disgraziato piantone, gli urlò sul viso: «Quando mai imparerete a far i soldati? » e gli assestò due potenti ceffoni che lo fecero ruzzolare per parecchi metri.

Per converso, non era difficile notare come i ragazzi diciottenni, i più umili nella scala gerarchica, stessero spesso a braccetto dei graduati e degli ufficiali in atteggiamenti di confidente dimestichezza.

E gli interrogatori? Si svolgevano sempre “coram populo”, in un perenne viavai di gente che entrava ed usciva, talvolta sedeva accanto all’interrogato, ne ascoltava la deposizione, interferiva o se ne andava a seconda dei casi.

In nome di quale autorità, codesti galantuomini, che certamente a casa loro avevano non pochi conti da regolare con la giustizia e che perciò l’avanzata degli alleati aveva sospinto dalla Maremma e dalla Garfagnana sulle rive del tranquillo Bacchiglione, si erano insediati a Palazzo Giusti per costituirvi una superiorità politica, che non doveva render conto a nessuno del proprio operato? E’ Impossibile saperlo. Qualcuno potrebbe semplicemente commentare: «Cose della sepolta Repubblica Sociale» e con ciò probabilmente sarebbe detto tutto.

Il fatto è che, una volta pescati e portati li dentro, una volta chiuso alle spalle il pesante portone che echeggiava sinistro come una pietra tombale, i poveri prigionieri sapevano solamente questo: che le alternative a loro disposizione erano o la fucilazione o tre campi di concentramento in Germania diversamente graduati a seconda della gravità dell’imputazione, o – ipotesi ultima ma quasi sempre da escludere – la scarcerazione.

Garanzie di procedura? Norme di legge? Nessuna. Diritto di difesa? Nessuno. Tutto era abbandonato all’arbitrio dei facinorosi, governati da un turpe, ossesso, a cui, per antitesi ironica, il destino aveva imposto il più cristiano dei nomi: C.arità.

Discepolo prediletto del famigerato seviziatore Koch, di età e statura media, pallido e glabro nel volto, con occhi torvi e feroci, sempre in abito borghese, il maggiore Carità camminava col passo agitato del cane che sta braccando la preda.

Aveva seco due figlie giovanissime, attive operanti e partecipanti della sua triste bisogna. Accanto a loro, parecchie altre femmine lavoravano o ai servigi più umili o negli uffici investigativi e di amministrazione in qualità di stenografe e dattilografe.

Il gennaio del 1945, particolarmente rigido, non favoriva il soggiorno nel salone centrale del Palazzo, ove i prigionieri dovevano sostare in attesa di essere interrogati e poi rinviati alle celle, per le quali erano stati sistemati il piano terra e il piano superiore. Il piano nobile era riservato agli uffici e alle stanze di abitazione del comandante e dei suoi diretti collaboratori quali il tenente Baldini e il tenente Trentanove.

La sosta nel salone poteva durare anche qualche settimana, come è capitato a chi scrive, e le nottate che bisognava trascorrere seduti sui canapè, accanto alle camere di tortura ove si svolgevano gli interrogatori degli arrestati, erano orrendamente lugubri.

Gli urli e i singulti degli sventurati pazienti, che talvolta non ebbero tregua dalla mezzanotte al mattino, rappresentavano la “berceuse» dei prigionieri raccolti nel salone e pareva ammonissero: “Ora ci siamo noi, ma domani toccherà a voi».

Di tanto in tanto, si spalancava la porta d’accesso sullo scalone, i servi si facevano innanzi con vassoi ricolmi di bottiglie, bicchieri e panini imbottiti.

Tra una tortura e l’altra i seviziatori e le seviziatrici si ristoravano con spumante, per riprendere con rinnovato vigore il loro lavoro, onde Franca Carità alla vista di una povera vittima s6gurata nel volto e nel corpo dalle percosse e dai supplizi operati con dispositivi elettrici, poteva esclamare: “Toh! guarda com’è buffo ! ».

Ma i tormenti fisici, a cui erano fatti segno i prigionieri più importanti, quelli cioè che avevano gravi rivelazioni da fare, si mescolavano con perversa abilità del comandante e dei suoi assistenti ai tormenti morali. Un sacerdote delIa diocesi di Treviso mi raccontava come alla fine del terzo interrogatorio fosse stato trattenuto al solo scopo di fargli ascoltare una sequela di barzellette oscene.

Il degno sacerdote supplicava con gli occhi di essere rimandato nel salone, ma invano. Sadismo e ferocia: ferocia e sadismo si alternavano regolarmente a ispirare la condotta dei carcerieri di Palazzo Giusti.

Uomini e donne, allorché entravano in mezzo ai prigionieri, non lo facevano se non fischiando, cantando, slittando sull’l’impiantito, in segno di perenne giubilo, che, nelle prime giornate di gennaio, s’era tramutato in baldanzosa fiducia nella vittoria della croce uncinata, auspice la controffensiva del maresciallo von Rundstedt nelle Ardenne. « Torniamo a Parigi» urlava una mattina il tenente Baldini. Infatti, s’è visto.

Oggi il maggiore Carità ha chiuso la sua brava esistenza, ucciso da soldati americani sulle Dolomiti di Siusi I suoi collaboratori vagheranno raminghi e sperduti in cerca di quella pace che non scenderà sui loro spiriti esacerbati, né al di qua, né al di là del limite.

Sull’imbrunire del 15 gennaio potei lasciare Palazzo Giusti. Mentre stavo raccogliendo le mie cose dalle mani della signorina Chicco, mi si piantò improvvisamente dinanzi il maggiore Carità chiedendo se la mia istruttoria fosse completa.

Mi affibbiò poi una patente di ex affiliato alla massoneria, diffidandomi dal frequentare i cattivi amici e gli ancor peggio ambienti che, a detta sua, frequentavo. Ma mi lasciò andare. Seppi poi che si era pentito di questo gesto magnanimo e che avrebbe voluto ripigliarmi, se altre cure più gravi ed assillanti non si fosse ro addensate sul suo capo.

Al primo contatto coll’aria libera il passo vacillava. Guardai in alto. Le finestre erano illuminate. Si lavorava lassù. Continuava l’orrenda fatica. La gola era stretta, il cervello opaco. Cercavo, senza riuscirvi, di rimettere un po’ d’ordine nella somma di esperienze morali, anzi umane, che m’era venuta da quel pur breve soggiorno. Sentivo che la somma era grande e l’ammaestramento decisivo. Quei pochi giorni valevano bene più che tutta una vita. Mi incamminai, affrettando il passo. Mi sospingeva un puerile desiderio: rientrare a casa prima che annottasse del tutto.

Dal «Gazzettino” del settembre 1947.

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