“LAGER” PER EBREI IN ITALIA – 9

a cura di Cornelio Galas

“Hitler chiamava gli ebrei “incendiari del mondo” e dal 1941 questa immagine comparve sempre più spesso nei suoi discorsi. L’incendiario era naturalmente Hitler stesso, ma se non ci fosse stata sterpaglia tanto secca , il fuoco non si sarebbe potuto propagare così velocemente in tutta l’Europa”.

(S. Friedlander, Aggressore e vittima. Per una storia integrata dell’Olocausto, Laterza, Bari 2009)

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Siamo alla penultima puntata. Il tempo abbozzare delle conclusioni, prima di dar spazio alla notevole bibliografia, alle fonti d’archivio,  che supportano questa ricerca di Matteo Stefanori.

I campi di concentramento provinciali per ebrei, come già detto all’inizio del lavoro, rappresentano un aspetto particolarmente specifico della politica antisemita messa in atto dal governo della Repubblica sociale italiana. Attraverso lo studio di questo fenomeno, tuttavia, è possibile individuare le caratteristiche della persecuzione degli ebrei in Italia e mettere in evidenza le dinamiche politiche locali che portarono all’arresto e alla deportazione di centinaia di persone.

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Come osserva infatti Denis Peschanski per il caso francese, i campi per ebrei sono «la pierre angulaire du dispositif de déportation des juifs». L’applicazione, da parte delle autorità periferiche, degli ordini impartiti dai vertici governativi fu condizionata dal contesto storico, segnato anzitutto dalla guerra, cominciata per l’Italia da tre anni, e dalla presenza nel territorio italiano delle truppe di occupazione tedesche.

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Questa considerazione costituisce la premessa essenziale per comprendere ciò che avvenne. La ricerca ha fatto emergere, in particolare, alcuni elementi che forse è possibile estendere oltre il caso specifico qui studiato. Per prima cosa, si è riscontrata una continuità con la politica del Ventennio per quel che riguarda sia i criteri posti alla base della legislazione razziale fascista che le pratiche amministrative applicate nei confronti della popolazione ebraica.

Nella normativa della RSI si ritrovano gli stessi elementi per definire l’appartenenza alla razza ebraica che erano stati stabiliti nel 1938 con le leggi razziali: il contenuto di queste leggi, infatti, venne ripreso dalla autorità di Salò senza che vi fossero modifiche.

L’elemento razziale, quello xenofobo e quello legato alla lotta contro il nemico di un paese in guerra, presenti nella normativa adottata gli ultimi anni del Ventennio si ritrovano nella prima dichiarazione politica in materia della Repubblica sociale: al congresso di Verona di metà  novembre 1943, le persone classificate da un punto di vista razziale come ebree, italiane e non, sono considerate straniere e nemiche dell’Italia in guerra.

Questa dichiarazione costituisce in effetti un “salto di qualità”, perché mette sullo stesso piano l’insieme della popolazione ebraica, senza alcuna distinzione di nazionalità, e non lascia trasparire alcuna possibilità di esclusione dalla persecuzione (per motivi culturali, anagrafici, politici ecc.).

La conseguenza di ciò fu una radicalizzazione delle misure prese dopo il novembre 1943, che colpirono adesso tutti gli ebrei presenti in Italia non soltanto estromettendoli dalla società (come già avvenuto precedentemente), ma riducendo la loro presenza fisica sul territorio allo spazio chiuso di un campo di concentramento.

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Nell’effettiva realizzazione delle misure d’internamento, in ogni modo, il riferimento a pratiche amministrative ed esecutive rodate nel corso dei precedenti anni è evidente e risulta fondamentale.

Innanzitutto, come è noto, gli elenchi degli ebrei censiti dal 1938 in poi, che non vengono distrutti nei 45 giorni di governo Badoglio, costituiscono la base sulla quale si muovono le autorità nazifasciste per ricercare gli individui. In più, da un punto di vista strettamente pratico, lo Stato di Salò non ha bisogno di un nuovo modo di concepire il campo di concentramento, ma prosegue su una strada iniziata con lo scoppio della guerra e già percorsa dalle autorità fasciste (militari e di polizia) sia in Italia che nelle zone occupate dalle truppe.

Questa continuità amministrativa è particolarmente interessante perché conduce al nucleo centrale di questa ricerca. Le autorità locali, come si è detto, al momento di dover applicare nel territorio di loro competenza le misure d’internamento, non sono costrette a inventarsi niente di nuovo, ma mettono in pratica procedure già conosciute.

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Le disposizioni di Salò per aprire i campi provinciali e gestirne l’organizzazione fanno ad esempio riferimento a regolamenti adottati nel giugno e nel settembre del 1940. Nonostante l’eccezionalità del provvedimento, legato alle dinamiche della guerra in corso e a un indirizzo razziale che ha un posto centrale nella politica di Salò, i campi provinciali per ebrei vengono aperti come fossero “ordinaria amministrazione”, seguendo ciò che era stato fatto nei tre anni precedenti.

Questo spiega forse la facilità e la rapidità con le quali capi provincia e questori riescono a trovare locali adatti allo scopo e a disporne l’organizzazione coinvolgendo tutto il territorio circostante (aziende locali, ditte, negozi ecc.): nessun problema di ordine pubblico, inoltre, sopraggiunse.

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In questo frangente, del resto, le autorità italiane sembrano libere di muoversi senza che l’“alleato-occupante” tedesco intervenga più di tanto a modificare le decisioni. Quella che abbiamo qui definito “ordinaria amministrazione” racchiude dunque due aspetti principali della vicenda: da una parte spiega le modalità con le quali i campi furono realizzati dall’amministrazione periferica di Salò; dall’altra rappresenta un ambito dentro il quale gli organi italiani riuscirono a muoversi quasi sempre autonomamente dall’occupante tedesco e a mettere in pratica la politica antisemita decisa ai vertici della RSI.

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L’esperienza dei campi provinciali, inoltre, costituisce un valido esempio di come le autorità di Salò collaborarono con i tedeschi alla soluzione della “questione ebraica”, obiettivo che per molti aspetti fu condiviso da entrambi.

Gli organi italiani, tuttavia, non sembrarono accettare che la presenza e la collaborazione dell’alleato germanico potessero sconfinare in un’ingerenza eccessiva di quest’ultimo su decisioni che spettavano in realtà al governo di Mussolini.

La richiesta tedesca di scavalcare le leggi italiane e, quindi, di non tener conto delle disposizioni decise dal ministro Buffarini e dal capo della polizia, spesso fu causa di incomprensione o addirittura, in certi casi, di opposizione da parte delle autorità di Salò.

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Queste si illusero di poter contrapporre alle richieste delle forze germaniche l’affermazione di un’autonomia legittima dello Stato fascista repubblicano, come avvenuto negli anni precedenti.

Anche qui, molto probabilmente, ebbe un’influenza non secondaria l’esperienza della guerra in corso, durante la quale la “questione ebraica” fu affrontata, in tutti i territori sotto la responsabilità dell’autorità fascista, in maniera autonoma dagli italiani rispetto alla linea voluta dai tedeschi.

Non soltanto in Italia, ma anche in Jugoslavia, in Grecia o in Francia meridionale, ovvero nelle zone occupate dalle truppe regie tra il 1940 e il 1943, il braccio di ferro tra organi italiani e germanici si risolse il più delle volte a favore dei primi, almeno fin quando Mussolini rimase al governo (luglio 1943).

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Di conseguenza, i nazisti tennero conto di ciò che era successo nei territori occupati tra le autorità italiane e quelle tedesche: al momento di dover applicare le misure antiebraiche nella RSI e nell’Italia occupata, i vertici del Reich adottarono una strategia intesa a evitare il ripetersi di simili dinamiche oppure intervennero con la forza.

In questo frangente, i campi di concentramento assumono un ruolo centrale: i contrasti tra tedeschi e italiani riguardarono infatti la tipologia delle persone che dovevano finire in queste strutture e la permanenza o meno degli ebrei nei campi italiani.

Alla fine, l’illusione di una possibile autonomia italiana si scontrò con la realtà dei fatti, ovvero con la superiorità militare di quello che non era tanto un “alleato”, come alcuni uomini politici di Salò forse credevano, quanto piuttosto un vero e proprio occupante.

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Un’ultima considerazione porta sull’atteggiamento della società italiana nei confronti della politica antisemita di Salò: aspetto che meriterebbe, in realtà, un approfondimento ed è quindi qui presentato quale spunto per un’ulteriore ricerca. Anche in questo frangente, il caso dei campi rappresenta un esempio specifico ma allo stesso tempo utile a comprendere in che modo gli italiani si rapportarono alla persecuzione.

Nei 600 giorni di esistenza della RSI e di occupazione tedesca dell’Italia centro-settentrionale le autorità nazifasciste arrestarono e deportarono migliaia di ebrei, pari a un quinto circa della popolazione ebraica presente nel territorio sotto il loro controllo.

La maggior parte degli ebrei, dunque, riuscì a sfuggire alla persecuzione, vivendo in clandestinità o fuggendo verso il sud d’Italia occupato dalle forze angloamericane e la Svizzera.

In molti casi, le speranze di salvezza di chi si nascondeva o scappava agli arresti erano strettamente legate al sostegno ricevuto dall’esterno, da parte di entità politiche come i gruppi della Resistenza o di istituti religiosi, ma anche e soprattutto della popolazione civile italiana.

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Ad esempio, l’opera di salvataggio attuata dall’organizzazione ebraica Delasem ricevette un importante aiuto proprio dalla Resistenza e dalla Chiesa cattolica. Nei confronti della persecuzione antiebraica, come si è visto, la Resistenza italiana sembrò non limitarsi solamente ad atti “umanitari”, ma si impegnò, a volte, in azioni militari intese a liberare gli ebrei dai campi di concentramento o a evitare la loro deportazione nei lager nazisti.

Il discorso sulla Resistenza si ricollega del resto a quello relativo al comportamento di tutta la società italiana. In molti casi l’appoggio della popolazione fu un fattore essenziale per la salvezza degli ebrei che si rifugiarono presso amici, semplici conoscenti o estranei: ovvero individui disposti a rischiare la propria vita per nasconderli nelle loro case.

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“L’ebreo che si rifugiava in città o fuori le mura non poteva sopravvivere senza la complicità, consapevole o inconsapevole, di chi lo ospitava, fosse mosso da semplice commiserazione umana, da impulso di solidarietà o da aspettativa di profitto, perché quale che fosse la forma dell’ospitalità egli rischiava in ogni caso”.

(E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione, vol. I Saggi, Carocci, Roma 2007)

L’ospitalità data agli ebrei dalla popolazione italiana rientra in quella serie di comportamenti definiti dallo storico francese Jacques Semelin sotto il nome di “resistenza civile”, ovvero un’opposizione non armata contro le forze occupanti: dagli scioperi ai boicottaggi, dalla renitenza alla leva al sostegno alle persone ricercate.

É resistenza civile quando si tenta di impedire la distruzione di cose e di beni ritenuti essenziali per il dopo, o ci si sforza di contenere la violenza intercedendo presso i tedeschi, ammonendo i resistenti perché “non bisogna ridursi come loro”; quando si dà assistenza in varie forme a partigiani, militanti in clandestinità, popolazioni, o si agisce per isolare moralmente il nemico; quando si sciopera per la pace o si rallenta la produzione per ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali da parte dell’occupante; quando ci si fa carico del destino di estranei e sconosciuti, sfamando, proteggendo, nascondendo qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra.

Spesso e volentieri, chi agiva in questo modo era consapevole della responsabilità politica che un simile gesto ricopriva. Secondo Claudio Pavone, è proprio questa consapevolezza a distinguere le forme di “resistenza civile” dall’atteggiamento di quella che è invece la “zona grigia”:

la Resistenza disconosce la legittimità del potere, quello degli occupanti come quello dei collaborazionisti, contro il quale si mobilita; la zona grigia accetta invece il potere di diritto o di fatto esistente, sia per la forza che esso è in grado di esercitare, sia per la vischiosità del potere precedentemente sperimentato: fenomeno, quest’ultimo, particolarmente rilevante in un paese come l’Italia, abituato da venti anni a servire il potere fascista.

Analizzando il caso della popolazione civile tedesca della Baviera di fronte alla politica del regime nazista, Ian Kershaw osserva che è possibile individuare una certa varietà di comportamenti: da una parte, una minoranza ampiamente antisemita desiderosa di risolvere in maniera radicale il “problema” ebraico; al suo opposto, un’altra minoranza imbevuta di un senso morale cristiano, liberale o semplicemente umanitario e che quindi opponeva un sistema di valori alle soluzioni naziste; in mezzo, infine, la grande maggioranza della popolazione, più o meno influenzata dalla propaganda nazista o impregnata di pregiudizi culturali latenti, che accettava le misure “legali” che colpivano gli ebrei, ma rigettava le forme più violente e brutali dei fanatici.

Anche la maggior parte degli italiani, molto probabilmente, fece parte di una “zona grigia” che non aderì con entusiasmo ai provvedimenti antisemiti della RSI, ma allo stesso tempo non vi si oppose apertamente per molteplici motivi. Questa “zona grigia”, infatti, era composta soprattutto da individui che nel difficile contesto bellico (caratterizzato dalla fame, dalle ristrettezze economiche, dai bombardamenti, dalla paura degli occupanti ecc.) sembrarono più attenti alle loro questioni “private” che alla sorte di chi veniva perseguitato.

Spesso l’attenzione agli interessi personali era una scelta quasi obbligata di fronte a eventi imprevisti e la cui portata era inimmaginabile: prima di allora, del resto, Auschwitz non c’era mai stato. L’atteggiamento più diffuso fra gli italiani è forse quello rappresentato nel film Tutti a casa di Luigi Comencini, in una scena che vede protagonisti Alberto Innocenzi e il geniere Ceccarelli, i due militari dell’esercito italiano in fuga dopo l’8 settembre ed espressione dell’italiano medio dell’epoca (in particolare il primo, interpretato da Alberto Sordi).

Durante il travagliato viaggio di ritorno verso casa, questa coppia di soldati sbandati si imbatte in un convoglio di deportati: nascosti dietro un cespuglio, nel timore che fosse un treno di militari tedeschi che li avrebbero sicuramente arrestati e portati in Germania, i due assistono muti al passaggio dei vagoni, mentre le persone chiuse al loro interno chiedono aiuto e lanciano biglietti di carta dalle feritoie – poi raccolti da una bambina nella sequenza finale della scena.

Se è dunque vero che, come scrive Kershaw, «la route d’Auschwitz fut pavée d’indifférence», va aggiunto che questo diffuso “disinteresse” per la sorte altrui fu determinato anche da un senso di impotenza di fronte a problemi economici e pratici non certo facili da affrontare in quegli anni.

Per riprendere le considerazioni di Pavone, la cosiddetta “zona grigia” ha al suo interno tre elementi caratteristici: non è un ambito chiuso e fisso, dalla zona grigia, infatti, si può uscire e rientrare, ad esempio aiutando profughi, ebrei o partigiani; può essere attraversata da forme di “doppio gioco”, cioè vi possono fare parte persone (come gli ex fascisti) che cambiarono fronte nel momento in cui la sconfitta dell’Asse era chiara; infine, è caratterizzata da forti bisogni pratici di sopravvivenza, da comportamenti di autodifesa nel contesto bellico e da un’insofferenza per il conflitto in corso e per l’occupazione prolungata del territorio (in generale, cioè, da una stanchezza per la guerra).

L’atteggiamento della popolazione italiana di fronte alla persecuzione degli  ebrei è dunque caratterizzato da una varietà di comportamenti tra loro differenti, non riconducibili certo a una sola tendenza. Finora si è parlato dell’opposizione o della mancata reazione degli italiani alla politica antisemita di Salò. Se si cambia il punto di osservazione, nel caso dei campi provinciali al centro della presente ricerca si riscontra invece uno stretto legame tra questi e la società circostante.

I campi vennero allestiti in edifici privati (ville, castelli, istituti religiosi) o locali pubblici (ospedali, istituti scolastici). Nel primo caso, le pratiche di requisizione coinvolsero le prefetture, le questure e i cittadini proprietari degli immobili: questi ultimi, dunque, sapevano fin da subito a quale scopo le strutture in loro possesso venivano utilizzate.

Particolarmente interessante è il caso di quegli edifici requisiti alle autorità ecclesiastiche, anche perché coinvolge un soggetto, la Chiesa, riguardo al quale molto si è scritto a proposito dell’attitudine tenuta in quei mesi. Durante la guerra, infatti, il Papa non formulò mai una denuncia ufficiale nei confronti della persecuzione antiebraica nazista.

Dopo l’8 settembre, in Italia, non risulta vi fosse alcuna direttiva proveniente dall’alto che sollecitasse chiese, conventi e monasteri ad accogliere i perseguitati. A seguito della retata del 16 ottobre a Roma, il silenzio del Papa fu forse interpretato a livello locale come un segnale che autorizzava ad “aprire le porte” agli ebrei in fuga.

In occasione della pubblicazione dell’ordinanza n. 5, come si è visto, l’«Osservatore Romano» criticò il contenuto delle disposizioni ministeriali e pochi giorni dopo, in un articolo di prima pagina, affermò in maniera esplicita che «in casa di un prete romano cattolico, può andare chiunque (anche contrario alle sue idee) può trovarvi un letto e un pane».

Molti istituti religiosi accolsero del resto numerosi fuggiaschi, tra i quali anche ebrei. A Roma, il seminario Lombardo, la Basilica di San Paolo e il pontificio Istituto Orientale nascondevano uomini politici, militari, antifascisti ed ebrei ricercati: proprio per questo motivo, le autorità tedesche e alcune bande nazifasciste (come la banda Koch) vi fecero irruzione con lo scopo di catturare le persone lì rifugiate.

Dopo queste operazioni in aperta violazione dell’extraterritorialità del Vaticano, le autorità ecclesiastiche ordinarono una maggiore prudenza. Tuttavia, se questo indirizzo interessò i principali istituti religiosi romani, altrove, nei monasteri, nei conventi e nelle chiese locali, continuò l’opera di salvataggio per iniziativa di singoli individui (parroci, frati ecc.).

A favore degli internati nei campi, in particolare, Pio XII volle creare un Ufficio Informazioni del Vaticano (istituito nel 1939 e rimasto in funzione fino al 1947), che raccogliesse informazioni riguardanti militari e civili internati o deportati durante la guerra: un lavoro, insomma, simile a quello che faceva anche la Croce Rossa Internazionale.

Questo ufficio riceveva le lettere dei familiari delle persone arrestate e deportate, ivi compresi gli ebrei presenti in Italia e finiti nelle retate nazifasciste. Tornando al discorso sui campi provinciali, ad Asti e a Grosseto queste strutture furono ricavate all’interno di seminari vescovili, mentre a Padova la villa dove furono rinchiusi gli ebrei ospitava originariamente una congregazione di suore (che vi rimasero durante tutto il periodo in cui il campo fu in funzione).

Il contratto di affitto del seminario vescovile di Roccatederighi, ad esempio, fu stipulato tra il vescovo di Grosseto e il maresciallo di PS di quella città il 26 novembre del 1943, ovvero 4 giorni prima che il ministero dell’Interno emanasse i provvedimenti di arresto e d’internamento degli ebrei. E nel testo del contratto, la motivazione è espressa chiaramente:

L’eccellenza Monsignor Paolo Galeazzi dietro invito motivato dalle emergenze di guerra – nonostante la necessità di riaprire il Seminario nella sede estiva presso Roccatederighi e in prova di speciale omaggio verso il nuovo Governo – cede al cav. Gaetano Rizziello per il campo di concentramento ebraico la sede estiva del seminario vescovile di Grosseto.

Il fatto che le istituzioni ecclesiastiche lasciassero alle autorità repubblicane l’utilizzo di loro locali per rinchiudervi degli ebrei rappresentò sicuramente per molti, vittime dei provvedimenti e non, la certezza di un iter legale delle pratiche di internamento e soprattutto la garanzia che gli internati non sarebbero stati colpiti dalla violenza nazista e dalla deportazione.

Come abbiamo visto all’interno dei capitoli, in alcuni casi il campo di concentramento era considerato dagli stessi internati un luogo dove poter stare in assenza di un posto all’esterno nel quale andare a vivere. E questa tendenza riguardò non soltanto gli anni tra il 1940 e il 1943, ma anche i mesi successivi all’occupazione tedesca, alla nascita della RSI e alla promulgazione delle misure di fine novembre.

Sembra che molti si fidassero, dunque, del carattere legale delle disposizioni decise dal governo. La firma di contratti d’affitto è solo uno degli aspetti che testimoniano il legame tra popolazione civile e campi per ebrei. L’“ordinaria amministrazione” prevedeva che i campi provinciali fossero allestiti e fatti funzionare appoggiandosi alle attività commerciali della zona in cui sorgevano.

I lavori da fare all’interno delle strutture erano affidati a ditte del luogo: per le riparazioni di finestre o per piccole opere di muratura (bagni, creare una parete ecc.) l’autorità provinciale si rivolgeva a muratori o fabbri locali; nel caso vi fosse bisogno di letti, tavoli o altro materiale in legno, era il falegname del posto ad esserne incaricato.

Sempre le attività commerciali vicine al campo avevano il compito di provvedere alla legna da ardere per il riscaldamento invernale, alla pulizia delle camerate (là dove questa operazione non veniva effettuata dagli internati stessi) e soprattutto al rifornimento del cibo. Intorno a queste strutture, insomma, si creò un “universo concentrazionario” che coinvolse in larga parte la popolazione civile che viveva nelle province dove sorsero i campi.

Si riprende la celebre definizione di David Rousset, ma non con lo stesso significato che questi sottintende nel suo omonimo libro di testimonianza sui lager nazisti. Con questa espressione, infatti, Rousset mette in evidenza il sistema presente soprattutto all’interno dei campi di lavoro e di sterminio del Terzo Reich: un universo chiuso, caratterizzato da una rigida organizzazione interna, quasi fosse una città amministrata a diversi livelli e separata dall’esterno.

Il rapporto con il mondo circostante c’è e si realizza mediante lo scambio illegale di cibo o oggetti con i civili della zona, o è determinato dall’interesse economico delle grandi industrie della zona, desiderose di sfruttare gli internati come manodopera gratuita. Ma è soprattutto l’organizzazione interna che costituisce il fulcro di questo “universo concentrazionario”.

Nel caso italiano, invece, i campi provinciali e la società esterna formano insieme un unico “universo”, in quanto queste strutture funzionano proprio grazie al coinvolgimento di ditte e aziende locali. I campi non sembrano costituire un mondo chiuso, ma un sistema partecipato da tutta la società e la popolazione che vive in quella provincia.

La società civile esterna fu quindi complice “inconsapevole” di un meccanismo che avrebbe portato alla deportazione di più di 7.000 ebrei. Fu inconsapevole perché difficilmente avrebbe immaginato una simile conclusione; probabilmente partecipò al meccanismo anche perché lo ordinava lo Stato.

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Quello dell’internamento nei campi era del resto una pratica ormai consolidata negli anni di guerra e non era mai sfociata in deportazioni e uccisioni di massa. Se, come abbiamo visto, nonostante la presenza dei tedeschi in Italia, persino alcuni internati non percepirono il campo di concentramento come l’anticamera di Auschwitz, si può immaginare che questa sensazione fu condivisa da gran parte della popolazione che viveva intorno alle strutture provinciali aperte dalla RSI.

Una simile considerazione è del resto necessaria per distinguere le responsabilità nella vicenda. Dire che la società italiana ha partecipato attivamente alla realizzazione di un meccanismo sfociato nello sterminio degli ebrei, non significa però mettere tutti gli attori sullo stesso piano.

Al di là di giudizi morali, ci si trova di fronte a diversi livelli di responsabilità. Al primo di questi vi sono le autorità italiane, centrali e locali, ovvero coloro che presero le decisioni e le misero in pratica, eseguendo gli arresti, internando gli ebrei e giungendo ad accordi con le forze di polizia tedesche per consegnare i fermati nelle loro mani (senza dimenticare i delatori e gli individui che denunciarono gli ebrei alla polizia, in cerca di qualche tornaconto personale).

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Anche qui, tuttavia, andrebbe approfondita meglio la vicenda: non sono pochi, infatti, i casi in cui funzionari locali di PS e, a volte, anche gli stessi capi provincia e questori, tennero un atteggiamento non indirizzato a una persecuzione violenta e radicale delle persone. Si pensi, ad esempio, alle testimonianze degli ex internati a Vò Vecchio e degli abitanti della zona, i quali conservano un ricordo positivo del secondo direttore della struttura e degli agenti di guardia.

Oppure, seppur siano da prendere con i dovuti accorgimenti, si leggano le testimonianze raccolte dal capo provincia di Perugia, Armando Rocchi, in occasione del suo processo svoltosi nel dopoguerra: in esse viene messa in evidenza la sua opposizione alla richiesta di consegna degli ebrei da parte delle autorità germaniche di zona, grazie alla quale gli internati in quella provincia riuscirono a salvarsi.

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Tra l’altro, tale merito fu riconosciuto anche dalla stessa Corte d’Assise incaricata di giudicare l’operato del Rocchi durante il periodo di occupazione.

In ogni modo, le autorità di Salò si resero responsabili dell’attuazione in loco dei provvedimenti: indipendentemente dall’interpretazione più o meno estrema delle misure antisemite, capi provincia e questori della RSI eseguirono comunque gli ordini.

A un diverso livello di responsabilità, invece, ci sono coloro che possiamo definire lo stesso “complici” di questo sistema persecutorio, ma che parteciparono a un meccanismo di cui avrebbero difficilmente immaginato l’esito così tragico: in questo caso, ci si riferisce non tanto alla deportazione e al trasferimento nei campi del Reich, sempre più sotto gli occhi di tutti col passare dei mesi, quanto allo sterminio vero e proprio.

Questi “complici”, dunque, potevano essere persone indifferenti al destino dei perseguitati, perché ripiegate sui propri interessi privati o troppo spaventate per la loro vita; oppure individui (falegnami, negozianti, muratori, fabbri, sarte ecc.) che continuarono a svolgere la loro ordinaria attività commerciale anche per strutture destinate a internare dei civili, inconsapevoli delle conseguenze delle loro azioni.

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In Italia, dunque, la “strada per Auschwitz” fu possibile innanzitutto grazie alla collaborazione delle autorità di Salò nella persecuzione degli ebrei a fianco dei nazisti. Ma oltre a questa “sterpaglia secca”, secondo l’espressione di Saul Friedländer citata all’inizio, l’analisi del sistema concentrazionario della RSI ha dimostrato che anche le azioni più banali e ordinarie resero realizzabile la deportazione di migliaia di ebrei dall’Italia verso i campi di sterminio dell’Europa orientale.

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