“LAGER” PER EBREI IN ITALIA – 8

a cura di Cornelio Galas

La partecipazione di persone di origine ebraica all’interno della Resistenza italiana è un fenomeno ormai noto. Meno approfondito da parte della storiografia è, invece, il discorso riguardante l’attività dei partigiani nei confronti della persecuzione degli ebrei a Salò e nella parte d’Italia occupata dai tedeschi.

Sebbene le notizie di ciò che avveniva nell’Europa orientale a opera dei nazisti si stessero diffondendo ormai da qualche anno in molti ambienti, persino tra alcuni ebrei che si impegnarono nella lotta resistenziale non vi era una precisa coscienza delle conseguenze che potevano derivare dall’occupazione tedesca della penisola e dai provvedimenti antiebraici presi dalla RSI.

A Luciana Nissim non aveva fatto alcun effetto la scritta “Auschwitz” presente sui vagoni del convoglio che la stava portando verso quel campo di sterminio. Primo Levi, catturato durante un rastrellamento nazifascista sui monti della Val d’Aosta, preferì dichiararsi “ebreo” alle autorità, per paura delle conseguenze che sarebbero derivate dall’essere scoperto “ribelle”.

Nei suoi diari, Emanuele Artom scriveva a proposito della differenza che intercorreva tra l’atteggiamento delle autorità italiane e di quelle tedesche:

«La caccia agli ebrei riesce male […] Credo che Mussolini abbia apposta fatto pubblicare sui giornali la minaccia di provvedimenti antisemiti perché avessimo tempo di prepararci a nasconderci».

Questa affermazione ci induce a pensare che in qualche modo venisse sottovalutata la volontà persecutrice di Salò e, di conseguenza, le misure prese dal governo sull’internamento degli ebrei.

Osserva a questo proposito Liliana Picciotto Fargion che le prime azioni tedesche nel nord d’Italia non avevano destato particolari allarmi nelle vittime della persecuzione, venute a conoscenza solo di poche notizie e, per di più, contraddittorie.

Sicuramente erano circolate informazioni sulle pratiche naziste in Polonia e in Russia, ma queste vicende erano spesso considerate un’esperienza lontana e irripetibile nel territorio italiano, vista quella che era stata fino a quel momento la politica antiebraica del regime fascista.

Allo stesso tempo, però, la consapevolezza che l’arrivo dei tedeschi in Italia potesse radicalizzare la persecuzione fu presente fin da subito tra gli ambienti antifascisti.

Questa considerazione, in realtà, prendeva le mosse da un punto di vista più generale: la repressione nazifascista ora avrebbe colpito con violenza tutti coloro che erano stati schedati dalle questure fasciste, oppositori politici, antifascisti e, quindi, anche ebrei.

Già i primi giorni di ottobre del 1943, ad esempio, un gruppo di antifascisti milanesi indirizzò un volantino ai funzionari e agli agenti di Pubblica sicurezza del capoluogo lombardo invitandoli a distruggere proprio questi elenchi:

Voi dovete impedire che le liste degli antifascisti, degli israeliti, archiviate nella questura cadano nelle mani degli hitleriani o dei fascisti. Voi dovete avvisare tempestivamente, in modo intelligente, gli italiani minacciati di arresto, aiutandoli a mettersi in salvo.

01-00074537000043 - 25 APRILE 1945 LA LIBERAZIONE - SECONDA GUERRA MONDIALE - PARTIGIANI IN MONTAGNA .

Alcune formazione partigiane denunciarono i provvedimenti antisemiti di Salò sulle pagine di giornali clandestini, quali l’«Unità», «l’Avanti» e l’«Italia libera». A partire dal dicembre 1943, altre bande partigiane, invece, si resero protagoniste di azioni che portarono alla liberazione di ebrei arrestati o internati.

Il più delle volte, tuttavia, le incursioni nei campi di concentramento o nelle carceri cittadine non avevano come obiettivo specifico soltanto le persone di origine ebraica fermate dalla RSI, bensì anche altre vittime di rastrellamenti nazifascisti, come prigionieri politici, stranieri e antifascisti.

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Poche insomma sono le azioni indirizzate esclusivamente a liberare gli ebrei internati nei campi provinciali. Una prima incursione di “ribelli” è segnalata dalla Guardia Nazionale Repubblicana nella provincia di Vercelli, il 30 dicembre 1943: questa portò alla fuga di 10 ebrei internati in località Romagnano Sesia.

Alcune regioni della RSI, in particolar modo quelle di confine, erano teatro di un’attività partigiana molto intensa, denunciata dalle autorità locali. In Liguria si contano numerosi attacchi di partigiani alle prigioni e ai campi di concentramento sorti in quel territorio.

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Nel gennaio 1944, il presidio locale della GNR comunicava al suo comando che l’11 di quel mese era stata lanciata una bomba verso il campo provinciale di Spotorno, in provincia di Savona: quella struttura ospitava da qualche settimana gli ebrei rastrellati nella zona e i familiari dei renitenti alla leva.

Nell’estate del 1944 gli attacchi partigiani a queste strutture si intensificarono, ma gli ebrei non erano più presenti al loro interno. A Calvari di Chiavari, vicino Genova, gli ebrei rinchiusi nel campo provinciale erano stati trasferiti al carcere milanese di San Vittore già il 21 gennaio e poi aggiunti al convoglio che partì da Milano verso Auschwitz il 30.

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Il campo fu riadattato successivamente solo per internare prigionieri politici italiani e stranieri: un’azione partigiana a metà giugno del 1944 convinse le autorità a inviare gli internati a Fossoli (poi deportati nel Reich) e a chiudere questa struttura.

Per motivi analoghi, negli stessi mesi furono evacuati e chiusi i campi provinciali di Celle Ligure e di Vallecrosia, rispettivamente in provincia di Savona e Imperia: nel dicembre 1943 erano stati approntati come luoghi di raccolta degli ebrei arrestati dopo l’ordinanza n. 5, i quali però vennero trasferiti a Fossoli ben prima dell’estate del 1944 e poi deportati nell’Europa Orientale.

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Nella provincia di Parma, il campo provinciale di Scipione Salsomaggiore ospitava numerosi ebrei, insieme a cittadini stranieri, soprattutto di origine jugoslava, e a prigionieri politici. Qui le incursioni partigiane cominciarono dal marzo del 1944, quando ancora erano presenti in quella struttura moltissime persone di origine ebraica:

«l’8 corrente in località campestre di Salsomaggiore circa 80 banditi catturarono due carabinieri che traducevano un internato politico al campo di concentramento di Castello Scipione. I due militari furono costretti a seguire i ribelli e l’11 corrente furono rilasciati incolumi».

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Tuttavia un vero e proprio attacco al campo fu sferrato soltanto nel settembre del 1944, quando ormai la maggior parte degli ebrei era stata portata a Fossoli e gli internati rimasti erano per lo più stranieri e politici: «il 3 corrente, alle ore 22, in Scipione di Salsomaggiore un gruppo di fuori legge fatta irruzione in un campo di concentramento disarmava gli agenti di PS di servizio e liberava gli internati».

A Scipione era presente, infatti, a quella data un solo ebreo. Marco Minardi narra inoltre la vicenda dell’internato ebreo turco Menache Haim, arrestato e rinchiuso al campo in provincia di Parma il 20 novembre 1943, successivamente liberato il 19 ottobre 1944 grazie a uno scambio di prigionieri: le autorità tedesche lo consegnarono ai partigiani in cambio della liberazione di alcuni militari germanici.

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Il più delle volte, dunque, i gruppi partigiani attaccarono luoghi dove non erano presenti solo ebrei: spesso cioè queste azioni avevano come obiettivo quello di liberare detenuti politici arrestati e rinchiusi nelle carceri o nei campi.

In alcuni casi, però, vi furono tentativi volti esclusivamente a evitare la deportazione di persone di origine ebraica, destinate a finire a Fossoli e nei convogli verso l’Europa orientale. Ma questi non ebbero sempre un esito positivo.

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A Grosseto ad esempio, secondo una testimonianza raccolta, l’autista del pullman che trasferì al campo modenese gli ebrei internati a Roccatederighi, fece informare i partigiani operanti nelle zone dell’Amiata che si sarebbe fermato in un punto adatto, simulando un guasto dell’autobus con cui venivano trasportati i prigionieri.

Con grande coraggio si fermò nel punto da lui indicato, stette per un paio d’ore fermo ma nessuno venne a salvare gli ebrei ed il viaggio verso la morte proseguì.

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Sempre in Toscana, Giorgio Nissim, nelle sue memorie, cita un tentativo di irruzione nel campo provinciale di Bagni di Lucca: l’azione era stata programmata il 23 gennaio 1944 per evitare la deportazione degli ebrei lì rinchiusi, ma fallì perché lo stesso giorno le autorità tedesche prelevarono gli internati:

Venimmo dunque a sapere che le autorità locali avevano concentrato tutti gli ebrei, giovani, vecchi e bambini a Bagni di Lucca. Venimmo anche a sapere che per il momento erano sorvegliati da fascisti. Pensammo ad un colpo audace: volevamo, vestiti da tedeschi e armati di tutto punto, recarci con un camion al campo e togliere dalle grinfie dei fascisti tutti i profughi là concentrati.

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Il colpo fu studiato in ogni particolare, sarei dovuto andare io stesso con un abile autista e un giovane che bene conosceva il tedesco. Il piano era facile, sapevamo ormai per triste pratica come ogni giorno i tedeschi arrivavano all’improvviso e senza far partecipi i fascisti delle loro azioni, con schiamazzi e calci di fucile nel sedere facevano salire nei loro camion tutti i prigionieri provvisoriamente consegnati alla sorveglianza fascista.

Col pieno del triste carico, partivano per “destinazione ignota”, quella dei campi di concentramento e di sterminio. Il progetto per il nostro colpo era già ben avviato: avevamo la persona disposta a fingere di fare agli ebrei sotto gli occhi dei fascisti quello che i tedeschi in realtà facevano davvero.

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Avevamo trovato il camion che tenevamo nascosto e non avevamo nemmeno bisogno di truccarlo perché molto spesso i tedeschi si servivano di camion italiani che dicevano di requisire ma che in effetti rubavano ai proprietari; avevamo anche a disposizione una divisa tedesca e la promessa di averne altre due per l’indomani.

Purtroppo il piano andò in fumo perché l’indomani, proprio quando noi avremmo dovuto agire, successe ciò che non ci aspettavamo: di buon’ora giunse un vero camion di tedeschi che prelevarono tutti i concentrati con gli esatti metodi da noi previsti e sopra descritti.

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Senza dare nessuna soddisfazione alle autorità locali e ai sorveglianti fecero il loro triste carico e partirono prima per Carpi dove era in funzione un grande campo di concentramento italiano. Da là avviarono i prigionieri con vagoni piombati verso la Germania.

L’azione più conosciuta della Resistenza italiana interessò nel maggio 1944 il campo di concentramento di Servigliano, in provincia di Ascoli Piceno. L’ex campo n. 59 per prigionieri di guerra era stato utilizzato dalle autorità italiane e tedesche per rinchiudervi numerosi rastrellati nelle regioni vicine al fronte: ebrei dunque, ma anche detenuti politici e antifascisti, civili stranieri e italiani sfollati.

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Ancor prima di questa data, in realtà, il campo era stato già attaccato dai partigiani della zona:

giunge ora notizia che il 4 [marzo 1944] corrente alle ore 23,30 proveniente da Amandola giunse a Servigliano un treno requisito dai ribelli trasportante circa 100 elementi armati che discesero nell’abitato recandosi alla caserma della GNR per chiedere l’immediata scarcerazione dell’insegnante Willi Ventola, arrestato per ordine della questura.

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I ribelli desistettero dal loro proposito in seguito al netto rifiuto opposto dai militi. Successivamente i ribelli si posero alla ricerca del commissario del fascio Silvio Fonzi e non avendolo rintracciato fermarono il fratello Umberto Fonzi e altri due fascisti che condussero con loro.

Fra gli internati del campo di concentramento si sparse la voce che i ribelli li avrebbero liberati generando un trambusto del quale approfittarono per fuggire gli ebrei Guglielmo Breit e Ruth Kastellan. Il treno con i ribelli ripartì per Amandola verso le ore 1,30.

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Il 5 corrente alle ore 22,15 i ribelli ritornarono nel paese sempre con il treno a loro disposizione dove abbatterono la porta d’ingresso della caserma della GNR disarmando il sottoufficiale e due militi e asportando materiali di casermaggio, un apparecchio radio e un telefono.

Il comandante del distaccamento, aiutante Mandelli, venne catturato come ostaggio. Presentatisi quindi al campo di concentramento attaccarono con fuoco di armi automatiche e lancio di bombe a mano i 9 militari di servizio riducendoli all’impotenza e invitarono gli internati a darsi alla fuga ma costoro rifiutarono non sapendo dove rifugiarsi. 

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Compiuta l’aggressione i ribelli rilasciarono l’aiutante Mandelli e ripartirono con lo stesso treno verso il luogo di provenienza. A Servigliano il commissario del Fascio Repubblicano è da più giorni irreperibile.

L’attacco al campo di Servigliano effettuato nella primavera del 1944, invece, portò alla liberazione degli ebrei internati pochi giorni prima della loro deportazione nel nord Italia.

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Questa operazione fu possibile anche grazie ai contatti tra i gruppi della Resistenza italiana operanti in zona e le formazioni militari alleate, che agevolarono il compito dei partigiani bombardando preventivamente il campo.

Una descrizione minuziosa dell’incursione di maggio si trova all’interno della testimonianza di Haim Vito Volterra, ebreo, fondatore e comandante del presidio del gruppo autonomo partigiano di Monte San Martino, sopra Ascoli Piceno:

[…] Nei primi giorni del maggio 1944, venne osservato un intensificato movimento del nemico nel fondo-valle, in conseguenza dell’offensiva alleata sul Sangro.

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Negli stessi giorni il presidio di Monte San Martino venne a sapere, per mezzo dei propri informatori, che il comando nazista della provincia di Ascoli Piceno si apprestava a trasferire, nei campi di sterminio in Europa Centrale, tutti gli ebrei internati a Servigliano.

È necessario ricordare che la custodia del campo era affidata ai carabinieri, cioè a un corpo arma di polizia che era poco contaminato dall’ideologia nazifascista. Si deve ai carabinieri se il trattamento degli internati non era cattivo.

Ricevuta la notizia che gli internati sarebbero stati deportati, si provvide a informare immediatamente il comando di settore. Con altrettanta rapidità la notizia venne radiotrasmessa ai comandi alleati nell’Italia meridionale.

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Per conseguenza la sera precedente alla data fissata per la deportazione nei campi di sterminio, alcuni aeroplani alleati spezzonarono in picchiata il muro di cinta del campo di Servigliano, aprendovi una breccia.

Una formazione di partigiani si recò immediatamente sul luogo dello spezzonamento, rimosse i rottami dei reticolati e delle murature, allargò la breccia e organizzò febbrilmente la liberazione degli Ebrei internati. Alcuni carabinieri collaborarono con i partigiani […].

Ma si temeva che altri carabinieri del campo avrebbero tenuto un atteggiamento ostile ed avrebbero ostacolato l’operazione, intervenendo direttamente o chiamando rinforzi. Perciò un altro reparto di partigiani, dopo aver provveduto a tagliare i cavi telefonici e telegrafici, assaltò il corpo di guardia del campo.

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La liberazione degli internati fu condotta a termine rapidamente. Rimasero nel campo di Servigliano solo pochi, che non vollero credere alla deportazione nei campi di sterminio e temettero di non trovare di che vivere fuori delle mura del campo. Gli ebrei liberati vennero presi in cura dai comitati provinciali di liberazione delle due province, Ascoli Piceno e Macerata.

A Servigliano, dunque, i partigiani riuscirono a liberare gli internati nel campo, tra i quali numerosi ebrei. Anzi, secondo la descrizione di Volterra, fu proprio per evitare loro la deportazione che la struttura fu attaccata.

La vicenda di Servigliano è particolarmente interessante perché vide la partecipazione non solo dei gruppi “ribelli” della zona, ma anche e soprattutto la collaborazione delle forze militari alleate. Anche altrove l’arrivo degli angloamericani fu sfruttato per agevolare la fuga degli internati nelle carceri.

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A Pisa, a seguito del bombardamento alleato del 20 giugno 1944, alcuni detenuti comuni costrinsero le guardie ad aprire le porte del carcere e facilitarono quindi la fuga, tra gli altri, di una trentina di ebrei livornesi e pisani.

Un episodio, meno noto ma particolarmente interessante, è quello che riguardò la provincia di Perugia. Qui gli ebrei riuscirono a non finire nelle mani dei tedeschi per vari motivi e coincidenze: da una parte le autorità locali, in primis capo provincia, questore e direttore del campo, nei mesi che vanno da dicembre 1943 all’estate del 1944 non diedero seguito alle richieste di consegna degli internati inoltrata dal comando della polizia germanica di zona.

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Dall’altra, i partigiani seppero intervenire con prontezza nei giorni in cui era prossimo l’arrivo degli anglo-americani e precedettero la violenta irruzione tedesca nel campo, portando così in salvo gli ebrei rinchiusi. Come già descritto nel precedente paragrafo, il capo provincia di Perugia aveva aperto un campo provinciale prima in quella città, presso una scuola magistrale, e aveva poi trasferito gli ebrei in una villa sull’Isola Maggiore del Trasimeno.

Il capo della polizia e il comando tedesco disposero nell’aprile del 1944 l’invio degli internati a Fossoli di Carpi, ordine che però la prefettura non eseguì immediatamente.

Nei memoriali scritti in occasione del suo processo, il capo di quella provincia Armando Rocchi racconta di aver ricevuto la notizia di un accordo segreto tra tedeschi e anglo-americani, in base al quale questi ultimi avrebbero liberato 5 prigionieri tedeschi se fosse stato consegnato loro un ebreo.

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In realtà, sempre secondo il Rocchi, questo accordo sarebbe stato solo uno stratagemma per indurre le autorità italiane a consegnare gli ebrei alla polizia germanica. Scoperta la trappola, alla fine, gli ebrei non furono consegnati e non furono chieste nemmeno nuove istruzioni al governo centrale.

L’operazione partigiana del 12 giugno 1944 rese possibile il salvataggio dei detenuti sull’Isola Trasimeno. Dopo la liberazione di Roma, infatti, le autorità di Salò della zona erano allo sbando: i militi e il personale si misero in fuga già l’11 giugno e lo stesso capo provincia riparò nel nord Italia.

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Gli anglo-americani avevano intanto conquistato una buona parte delle sponde del lago Trasimeno. Il 12 giugno, i partigiani vennero a conoscenza dell’imminente ordine di trasferimento degli internati a Fossoli, grazie anche alla presenza di alcuni funzionari a guardia del campo vicini ai gruppi della Resistenza locale.

La cattura degli ebrei rientrava probabilmente nelle operazioni di sgombero del territorio, iniziate dai tedeschi in previsione dell’arrivo delle truppe alleate, anche se, come detto, una richiesta di trasferimento, cui non fu dato seguito, era stata avanzata anche dalle autorità italiane un mese prima.

Nove partigiani, allora, arrivarono di notte sull’isola con due navi, partendo dalla sponda del lago già in mano agli anglo-americani. Gli ebrei furono fatti uscire dal campo e si nascosero nei paesi limitrofi. In tutto furono liberate 14 persone, molte delle quali rimasero nei villaggi vicini mescolandosi alla popolazione.

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Due giorni dopo questa azione, il 14 giugno, giunse sull’Isola Trasimeno un reparto di 45 militari tedeschi, i quali perlustrarono la zona in cerca dei fuggitivi. Alcuni pescatori, vista la presenza dei tedeschi, decisero di lasciare l’isola e caricarono sulle barche gli ex internati nel campo.

Il 20 giugno tutta la regione fu liberata dagli anglo-americani. In questo caso, giocò a favore del successo dell’operazione la tempestività dei partigiani, che seppero sfruttare la confusione determinata dall’arrivo delle truppe alleate, e la collaborazione della gente del posto, ovvero gli abitanti dei paesi che ospitarono le persone liberate dal campo e i pescatori che utilizzarono le loro barche per trasportare al sicuro non soltanto sé stessi ma anche gli ebrei ricercati dalle autorità tedesche.

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Le azioni appena citate si concentrano per lo più tra il mese di marzo e l’estate del 1944, ma non sembrano avere un carattere unitario: sono cioè iniziative prese, molto probabilmente, a livello locale dai singoli comandi partigiani.

Del resto, in questi mesi, tutto il movimento della Resistenza italiana era caratterizzato soprattutto da azioni spontanee, senza che vi fosse una consapevole direzione militare e politica: una maggiore organizzazione iniziò ad esserci, infatti, solo dalla primavera-estate del 1944.

Questa prima fase, la fase ribellistica, dura assai a lungo e abbraccia per la maggior parte dell’Italia del Nord tutto l’inverno ’43. In altre regioni non viene mai superata del tutto e si conserva o si confonde a fianco della fase più matura della Resistenza.

Si possono distinguere in essa tre diversi periodi cronologici: il primo che fino al dicembre ’43 di assestamento e chiarificazione; il secondo dal dicembre al gennaio, caratterizzato dai primi grandi rastrellamenti nazifascisti; il terzo dal gennaio al marzo, di passaggio dalle forme ancora primitive della resistenza invernale allo sviluppo ben diversamente energico e vigoroso, al corso rapidamente ascendente del movimento partigiano nella primavera del ’44.

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Tra i documenti concernenti la questione ebraica in Italia raccolti dal Centre de documentation juive contemporaine di Parigi è presente un rapporto “confidenziale” sull’attività dei partigiani italiani nei confronti dei campi di concentramento per ebrei dopo l’8 settembre, con data 23 febbraio 1945 e firmato da tal generale Bianchi. Questi riporta di aver ricevuto la visita, nel luglio 1944, di Vittorio Valobra, responsabile della Delasem in Svizzera, e di Salvatore Donati, delegato della stessa associazione, nonché di un rappresentante del Congrès juif Mondial di Ginevra.

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Ferruccio Valobra

Queste personalità avevano richiesto di far inserire tra gli obiettivi della Resistenza italiana anche la liberazione degli ebrei dai campi di concentramento. Il generale Bianchi, interessando il Comando supremo italiano per avere istruzioni a proposito, comunicava di aver risposto:

«ho precisato che, ad ogni modo, le possibilità pratiche di aiuto come quelle richieste possono essere valutate solo dalle formazioni della resistenza responsabili in posto […]».

L’importanza quindi delle iniziative locali era qui ribadita in pieno. Il rapporto di Bianchi continua con la citazione di una serie di messaggi scambiati con varie “formazioni patriottiche” dell’Italia del nord sulla possibilità di condurre azioni che portassero alla liberazione degli ebrei dai campi.

Le risposte che pervennero dalle varie regioni sono molto diverse l’una dall’altra e soprattutto rendono bene l’idea di come tutto dipendesse dalle possibilità pratiche legate all’andamento della guerra in ciascuna zona.

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Dal Veneto, ad esempio, fu riferito che il campo di Vò Vecchio era stato chiuso e che era impossibile, per i partigiani, attaccare un grande campo di concentramento creato in località Villafranca, viste anche le difficoltà legate all’eventuale sistemazione degli internati che sarebbero evasi.

In Piemonte, secondo quanto ricevuto da Bianchi nell’autunno ’44, non esistevano campi. Interessante è la situazione che riguardava la Lombardia: anche qui non erano presenti campi (ottobre 1944), ma il «comando interessato informava di aver agevolato fino a quell’epoca in tutti i modi (ricovero, accompagnamento alla frontiera, passaggio di frontiera) a varie diecine [sic] di ebrei passati in Svizzera».

In Emilia Romagna, infine, le formazioni partigiane non avevano potuto attaccare il grande campo di Fossoli di Carpi, in quanto le bande erano tutte dislocate in montagna o in zone lontane.

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A fine settembre, intanto, il Comando Supremo rispondeva al Bianchi che era già in atto la collaborazione tra le formazioni della Resistenza e gli ebrei del Nord e che comunque «verranno emanate disposizioni alle formazioni in questione per la liberazione di elementi ebraici dai campi di concentramento da effettuare subordinatamente alle esigenze delle varie zone ed alle situazioni particolari».

Tra l’estate e l’autunno del 1944 prendeva forma, intanto, con più continuità, l’attività legislativa del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia. Il 14 settembre, il CLNAI promulgò un decreto che abolì ufficialmente nel nord Italia la legislazione razziale, creando così i presupposti per un risarcimento economico alle vittime delle confische perpetrate dal governo della RSI:

Il Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia in virtù dei poteri ad esso delegati dal Governo italiano decreta[…]:

1°- Tutta la legislazione di carattere razziale è abolita.

2°- I beni sequestrati agli ebrei devono essere loro immediatamente consegnati e i danni derivati verranno risarciti.

A questa data, tuttavia, la gran parte delle operazioni antiebraiche erano già state effettuate nella RSI e, con i convogli formati a Milano, Fossoli e Verona, erano stati ormai trasferiti più di duemila ebrei in pochi mesi verso i campi di sterminio nazisti.

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Queste le conclusioni che trae lo stesso generale Bianchi:

In complesso, in apparenza almeno, i risultati non sono stati così importanti come sarebbe stato desiderabile: la cosa non può essere assolutamente addebitata a cattiva volontà o disinteressamento da parte dei vari enti della resistenza ma a difficoltà di esistenza e di lavoro di esse, a difficoltà di collegamenti rapidi etc..

In qualche caso è avvenuto che al momento buono in cui si sarebbe potuti arrivare ad una conclusione effettiva, un rastrellamento ha disperso e disorganizzato comandi e formazioni annullando tutto quanto si era previsto senza possibilità, per molte settimane e talvolta definitivamente, di riprendere le fila.

Ho detto “in apparenza” che i risultati sono stati modesti: infatti ho ottime ragioni di ritenere che in sostanza l’aiuto è stato di una certa importanza: aiuto soprattutto dovuto all’opera di elementi minori e da singoli individui appartenenti alla resistenza, opera in molti casi non venuta a conoscenza o venuta solo in ritardo dei comandi più alti.

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Questo mi viene anche indirettamente confermato da informazioni date in vari casi da elementi che hanno usufruito dell’appoggio […] Comunque posso assicurare in maniera esplicita che la questione non è né dimenticata né sottovalutata sia da me che dagli enti in Italia e che tutto quanto potrà essere fatto lo sarà con tutta buona volontà.

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