“LAGER” PER EBREI IN ITALIA – 5

a cura di Cornelio Galas

Quindici giorni dopo il congresso di Verona, nel corso del quale il partito aveva espresso le linee programmatiche che avrebbero dovuto guidare lo Stato, il governo repubblicano attuò i primi provvedimenti amministrativi ai danni degli ebrei. In soli due mesi, tra dicembre e gennaio, le autorità di Salò disposero le misure necessarie per compiere il “salto di qualità” nella persecuzione rispetto agli anni passati.

a1943u

In linea con quanto deciso a Verona, le disposizioni governative adesso attaccavano non solo i diritti delle persone, escludendo gli ebrei dalla vita del paese, ma ne ordinavano anche l’arresto in massa.

Come osserva Guido Fubini, oltre alla revoca della cittadinanza, che sottoponeva la popolazione ebraica a una condizione peggiore di quella di cittadini di paesi in guerra con l’Italia, protetti sempre dal diritto internazionale, i provvedimenti della Repubblica sociale italiana toglievano anche «la tutela giuridica del diritto alla vita».

buffarini

Guido Buffarini Guidi

Il primo passo del governo fu di natura amministrativa. Firmata dal ministro dell’Interno, Guido Buffarini Guidi, l’ordinanza di polizia n. 5 fu inviata il 30 novembre 1943 a tutti i capi delle province della RSI, nuova formula per denominare i prefetti, divenuti adesso depositari allo stesso tempo dell’autorità amministrativa locale, di prefetto appunto, e di quella politica, quali capi delle federazione provinciali di partito. Il dispaccio telegrafico ministeriale comunicava:

A tutti i capi provincia,

Comunicasi, per la immediata esecuzione, la seguente ordinanza di polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta provincia:

1 – Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengono e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili e immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica sociale italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.

2 – Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, devono essere sottoposti a speciale vigilanza degli organi di polizia.

Siano intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.

Due erano gli obiettivi che si volevano conseguire. Il primo era riconducibile a motivi politici e ideologici: colpiva con l’internamento in campi di concentramento tutti coloro che, sulla base della legislazione razziale italiana, erano considerati appartenenti alla razza ebraica.

sequestro-azienda-di-cassin-michele

Il secondo si proponeva scopi d’ordine economico attraverso il sequestro dei beni di proprietà ebraica, da riutilizzare a favore di quegli individui duramente provati dalla guerra.

Il fatto che queste direttive ministeriali fossero prese tramite misura di polizia mette in risalto il carattere contingente della disposizione, adottata in una determinata situazione, con precisi obiettivi da parte del governo: in questo caso, la sicurezza interna del paese e le difficoltà economiche della Repubblica sociale.

A conferma della natura “straordinaria” della misura, è significativo notare che molto probabilmente l’ordinanza fu inviata dagli uffici di pubblica sicurezza ai capi provincia senza prima aver consultato la Demorazza, la sezione responsabile delle questioni razziali.

L’8 dicembre, infatti, a distanza di una settimana, questa direzione generale trasmise un appunto alla divisione Affari generali e riservati dell’Interno nel quale chiedeva di essere «tempestivamente informata delle disposizioni e dei provvedimenti relativi agli ebrei».

a1943zc

Per quanto riguarda il primo obiettivo, ovvero la persecuzione fisica delle persone,  l’ordinanza si spingeva dunque oltre i provvedimenti fino ad allora adottati dal governo fascista in guerra, allargando adesso le pratiche di controllo sociale e di internamento a una  più ampia fascia di individui.

Dopo che il 10 settembre, in base alle clausole dell’armistizio, il capo della polizia Senise aveva deciso la liberazione di tutti gli internati dal regime fascista, il 1° novembre il governo di Salò reintrodusse i provvedimenti abrogati. In realtà, eseguendo gli ordini dell’esercito tedesco, le autorità italiane locali si erano già trovate a gestire queste persone sottoposte a regime di internamento.

Come abbiamo accennato in precedenza, i comandi militari germanici disposero l’arresto e l’invio in campi di concentramento di alcuni ebrei rastrellati nelle zone di operazione a ridosso del fronte. L’esempio del territorio comprendente le Marche e l’Abruzzo è indicativo per spiegare la situazione.

I 41 ebrei arrestati dai tedeschi nella provincia di Ascoli Piceno a inizio ottobre furono consegnati alla locale questura, la quale venne incaricata di inviarli nel campo per prigionieri di guerra di Servigliano – non più in funzione dal 20 settembre, ma riattivato a questo scopo – e di arrestarne altri, italiani e stranieri, presenti nella provincia.

7-n-fossoli2

La destinazione era stata quindi decisa dai tedeschi, ma l’applicazione del provvedimento era affidata agli italiani: la questura diede  subito  disposizioni  ai  carabinieri,  specificando  che  il  comando  germanico «annette particolare importanza al servizio, della cui riuscita rende tutti gli organi di polizia responsabili».

I carabinieri di Ascoli Piceno arrestarono così in pochi giorni altri 28 ebrei e li tradussero al campo di Servigliano; i comandi provinciali dei comuni della zona fecero altrettanto. Gli ebrei internati nei campi per stranieri di Urbisaglia, Petriolo e Pollenza (Macerata), che non erano fuggiti una volta autorizzata la loro liberazione, furono prelevati  il 29-30 settembre dai tedeschi e condotti al campo di concentramento di Sforzacosta, un ex campo per prigionieri di guerra inglesi sgomberato a settembre e rioccupato ora dalle forze germaniche.

Poco dopo, il campo di Urbisaglia passò nelle mani dei tedeschi, i quali poterono disporre la deportazione degli internati verso Auschwitz. A Chieti, sempre dietro ordine del comando militare tedesco, il 1° novembre gli agenti di Pubblica sicurezza effettuarono una retata: gli ebrei furono successivamente trasferiti a L’Aquila in una caserma requisita ad hoc dall’esercito tedesco e lì lasciati alla questura locale.

Nella provincia di Teramo, infine, furono rimessi in funzione i campi per stranieri di Nereto e Civitella del Tronto e gli ebrei internati furono destinati dal comando militare germanico a lavori di guerra.

69-firenzebraica

Fino al mese  di novembre, quindi, le autorità italiane si erano mosse di concerto e sotto l’impulso dei comandi tedeschi. In ottobre, del resto, l’Ispettorato speciale di Polizia per la Venezia Giulia, comunicava al ministero che «il locale comando di Polizia Tedesca ha fatto noto che tutti i campi di concentramento siti nei territori italiani, dove si trovano attualmente le truppe tedesche, saranno sciolti e secondo i casi sarà provveduto alla sorte degli internati stessi».

E ancora a fine novembre, il ministero dell’Interno rispose alla richiesta tedesca di informazioni riguardo i campi di concentramento ancora in funzione nel territorio della RSI:

Di 40 campi di concentramento funzionanti in tale [sic] fino a giugno 1943 (ved. Unito elenco) rimangono a tuttoggi [sic] soltanto i campi di Fabriano (Ancona), Civitella del Tronto (Teramo), Corropoli (Teramo), Isola Gran Sasso (Teramo), Nereto (Teramo), Notaresco (Teramo), Tossicia (Teramo), Fraschette di Alatri  (Frosinone), Civitella della Chiana (Arezzo), Montalbano di Rovezzano (Firenze), Bagno a Ripoli (Firenze) e Scipione di Salsomaggiore (Parma).

Tutti gli altri campi sono stati chiusi in seguito allo sviluppo delle  operazioni belliche nell’Italia meridionale o sgombrati dalle autorità militari germaniche dopo gli avvenimenti dell’8 settembre.

Data la sensibilissima diminuzione dei campi di concentramento e la necessità di sgomberare di urgenza, per motivi di carattere militare, il campo di Fraschette di Alatri dove si trovano 2000 internati, per le esigenze  di  polizia  politica  di  questo  ministero  occorrerebbero,  nell’Italia  settentrionale,  quattro  campi  di concentramento per la capienza complessiva di 4000 persone.

400px-marzabotto_-_sansabba

Da un elenco del 5 dicembre si può anche risalire alla tipologia degli internati: a Fabriano erano rinchiusi italiani; a Civitella della Chiana, anglo maltesi e ebrei inglesi; a Montalbano di Rovezzano e Bagno a Ripoli, stranieri misti; a Scipione Salsomaggiore, jugoslavi e apolidi ebrei; in provincia di Teramo: a Civitella del Tronto, ebrei jugoslavi e stranieri, a Corropoli, inglesi e jugoslavi, a Isola del Gran Sasso, cinesi, infine a  Nereto, Notaresco e Tossicia, ebrei italiani e stranieri.

L’ordine di polizia del 30 novembre sancì dunque il passaggio nelle mani dell’amministrazione italiana delle competenze sugli arresti degli ebrei.

I capi provincia si impegnarono subito nella ricerca di luoghi adatti alla concentrazione degli arrestati e, in caso contrario, fu loro disposto di inviare queste persone al campo di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena), aperto il 13 dicembre e in grado di contenere alcune centinaia di internati.

In tutto furono istituiti ex novo campi provinciali per ebrei in più di 20 province della RSI, che si aggiunsero a strutture già in funzione. Nelle zone in cui non fu possibile allestirne uno, furono utilizzate le carceri locali per racchiudere temporaneamente gli ebrei da trasferire a Fossoli.

Nelle settimane successive all’ordine del 30 novembre, il capo della polizia trasmise alle autorità provinciali alcuni telegrammi nei quali tuttavia esentava dall’internamento una parte della popolazione ebraica (gli ammalati e gli anziani oltre i 70 anni).

20160124_120158

L’arresto delle persone e il loro trasferimento in appositi campi provinciali fu dunque disposto esclusivamente tramite misure di polizia, trasmesse dal capo della polizia Tamburini alle locali autorità. Per quel che riguarda il sequestro dei beni appartenenti alla popolazione ebraica, il governo si mosse invece su una strada differente.

In un primo momento, le disposizioni dell’ordinanza n. 5 diedero luogo spesso a una razzia indiscriminata da parte di fascisti e tedeschi degli oggetti posseduti dagli ebrei.

Il 4 gennaio 1944, un decreto legge firmato dal capo del governo Mussolini regolò definitivamente la pratica, in modo tale da impedire ulteriori azioni fuori il controllo governativo.

Come era stato già annunciato da Pavolini durante il congresso di Verona, l’appropriazione da parte dello Stato di questi averi rientrava, secondo motivi anche di ordine propagandistico, «nell’interesse della Repubblica sociale italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche».

D’altronde, di questo aspetto economico della persecuzione ebraica si stava tenendo conto con particolare attenzione già negli ultimi mesi del 1943: durante la riunione del Consiglio dei ministri del 23 novembre 1943 era stato presentato uno schema di decreto per il sequestro dei beni di facile esportazione appartenenti a ebrei:

Su proposta del Ministro dell’Educazione Nazionale, il consiglio dei Ministri approva:

uno schema di decreto recante norme sul sequestro conservativo delle opere d’arte di proprietà ebraica, allo scopo di evitare che queste possano andare disperse ed in attesa delle disposizioni che saranno adottate per i patrimoni per gli ebrei.

Il decreto sancisce l’obbligo da parte dei proprietari di presentare entro 15 giorni dall’entrata in vigore del  decreto stesso una denunzia delle opere al Soprintendente alle Gallerie competente per territorio e stabilisce contemporaneamente il divieto della alienazione a qualsiasi titolo di opere d’arte appartenenti a cittadini  italiani di razza ebraica. Il decreto prevede infine a carico dei contravventori la confisca delle opere non denunziate.

1942tarsia

Venti giorni dopo, il 16 dicembre, si discusse inoltre uno schema di decreto per il sequestro e la liquidazione di aziende commerciali e industriali di proprietà ebraica.

La scelta di stabilire con decreto legislativo il provvedimento relativo al sequestro dei beni forniva innanzitutto delle regole precise da seguire, rendendo quindi la sua applicazione a livello amministrativo più efficace e meno suscettibile a cambiamenti e iniziative individuali, pena una sanzione per i trasgressori.

Conferiva, infatti, la responsabilità della sua attuazione nelle mani esclusive delle autorità italiane dello Stato di Salò, sottraendola così alle mire delle formazioni fasciste autonome e, soprattutto, dei tedeschi.

Il nuovo decreto del 1944 modificava sostanzialmente i provvedimenti del 1938, estendendo ad esempio il sequestro dei beni «esistenti nel territorio dello Stato» anche a danno degli stranieri di razza ebraica non residenti in Italia e a parte degli ebrei italiani discriminati:

Art. I. I cittadini italiani di razza ebraica o considerati come tali ai sensi dell’art. 8 del decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728, ancorché abbiano ottenuto il provvedimento di discriminazione di cui all’art. 14 dello stesso decreto legge, nonché le persone straniere di razza ebraica, anche se non residenti in Italia, non possono nel territorio dello Stato:

  1. a) essere proprietari, in tutto o in parte, o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende di qualunque natura, né avere di dette aziende la direzione, né assumervi comunque l’ufficio di amministratore o di sindaco;
  2. b) essere proprietari di terreni, né di fabbricati e loro pertinenze;
  3. c) possedere titoli, valori, crediti e diritti di compartecipazione di qualsiasi specie, né essere proprietari di altri beni mobiliari di qualsiasi.
Alessandro Pavolini

Alessandro Pavolini

I beni mobiliari e immobiliari erano destinati «a favore dello Stato e dati in amministrazione dell’Ente di Gestione e di Liquidazione Immobiliare» (EGELI); la responsabilità delle pratiche di sequestro ricadeva nelle mani dei capi provincia, i quali dovevano dare pubblicità al decreto e occuparsene con la collaborazione delle intendenze di Finanza e degli Istituti di credito. I sequestri effettuati subito dopo l’ordinanza del 30 novembre 1943 erano dichiarati nulli e venivano colpiti i contravventori alle regole.

A questo proposito, nelle conclusioni della Commissione d’inchiesta parlamentare creata nel 2001 per ricostruire le vicende, si osserva:

Di non facile quantificazione sono i beni sottratti in forza di decreti emanati dai Capi delle province a seguito dell’ordinanza del 30 novembre 1943.

In molti casi – salvo che per quella parte di beni assegnata, in alcune città, alle banche delegate dall’EGELI e gestita quindi da quelle in regime sequestratario – si ebbe una gestione diretta o indiretta dei beni da parte dell’autorità prefettizia, spesso al di fuori di precisi meccanismi procedurali.

assemblea_nazionale_del_partito_fascista_repubblicano

Il decreto legge del 4 gennaio riguardava qualsiasi genere di bene posseduto da ebrei, dal più prezioso a quello di poco valore, come la biancheria, spesso presente in piccole quantità. A fine gennaio, il capo di polizia ordinò inoltre lo scioglimento delle Comunità israelitiche e il sequestro dei loro beni.

Le amministrazioni locali di competenza furono ovunque assai meticolose nel loro lavoro ordinario di registrazione di questi averi, stilando elenchi particolarmente precisi di ogni oggetto trovato in casa di un ebreo, magari appena arrestato e in quel momento rinchiuso in campo di concentramento provinciale.

Come era avvenuto anche negli anni tra il 1938 e il 1943, più che considerazioni dettate da sentimenti razzisti intervenivano in questo caso ragioni legate a opportunismo e alla possibilità di sfruttare a proprio vantaggio l’inferiorità giuridica dei perseguitati: «dinamiche molto lontane da criteri di ordine strettamente ideologico – o unicamente ideologico – sembrano dunque segnare la realizzazione del progetto antiebraico del regime fascista».

L’aspetto più importante del decreto del 4 gennaio fu però quello del passaggio dal semplice sequestro dei beni ebraici alla loro confisca a favore dello Stato.

Vi è infatti una differenza giuridica  nel  significato  dei  due  termini:  il  sequestro  è  una  misura  provvisoria  che  non modifica la titolarità della proprietà, la confisca invece è un provvedimento che cancella la titolarità in maniera definitiva.

Con questo si spiega anche la scelta di modificare in legge una disposizione presa inizialmente nella forma di misura di polizia. Il salto di qualità rispetto alla passata legislazione, inoltre, era rappresentato dal fatto che fino a quel momento lo Stato fascista aveva stabilito dei limiti nelle proprietà economiche possedute dagli ebrei: la legge, cioè, era indirizzata a colpire le eccedenze.

bigzelle

Dopo il novembre 1943 e il gennaio 1944, invece, le proprietà degli ebrei furono colpite nella loro interezza. Durante i successivi 18 mesi di governo, Salò riuscì così a sequestrare 17.743 beni intestati a 7.920 ebrei.

Le confische dei titoli di Stato ammontarono a più di 36 milioni di lire, quelle dei titoli azionari a circa 730 milioni, dei depositi bancari a 75 milioni. Furono inoltre sequestrate 92 aziende, di cui 70 vendute ad ariani con un ricavato di 8 milioni di lire.

Tra i beni immobili, infine, furono confiscati terreni per un valore di 855 milioni e fabbricati per quasi 200 milioni. Di difficile quantificazione, invece, l’entità dei beni sottratti attraverso saccheggi, razzie e spoliazioni arbitrarie, che, nonostante la presenza di procedure regolarizzate dalla legge, continuarono al di fuori del controllo delle autorità competenti per l’azione di singoli individui, di formazioni illegali e autonome o dei tedeschi.

L’aspetto economico della persecuzione era saldamente stabilito ora da un punto di vista legislativo, quindi non più disposto provvisoriamente con ordine di polizia. Al contrario, l’arresto delle persone rimase appannaggio di ordini diramati dal capo della polizia, ad indicare la contingenza dei provvedimenti e la loro provvisorietà: non si deve scordare che anche nell’articolo del congresso di Verona gli ebrei erano considerati nemici durante la guerra  in  corso.

Sebbene  ciò  possa  dimostrare  quanto,  in  questi  primi  mesi, fosse maggiormente tenuto in conto dai vertici repubblicani l’obiettivo economico della persecuzione,  un  simile  scopo  veniva  portato  avanti  e  rimaneva  strettamente legato all’arresto delle persone.

bolzano1

Come vedremo, tra dicembre e marzo, le autorità repubblicane impiegarono il massimo sforzo nella cattura degli ebrei: rinchiusi nelle carceri o nei campi di concentramento provinciali, essi diventarono facile preda dei nazisti e dei loro programmi di deportazione e di sterminio.

Per concludere il discorso generale relativo all’antisemitismo di Stato della RSI,  aggiungeremo rapidamente altre due questioni. Per prima cosa, nella primavera del 1944 Mussolini affidò a Giovanni Preziosi la guida di un Ispettorato generale della Razza che si occupasse esclusivamente della «questione ebraica», fino a quel momento di competenza, in linea di principio, dell’ufficio della Demorazza e dell’Ufficio studi e propaganda sulla razza del ministero della Cultura Popolare.

Questo Ispettorato dipendeva dalla presidenza del Consiglio dei ministri. Come dirigente, Preziosi si distinse per la sua meticolosità e il suo impegno nella persecuzione degli ebrei.

In questi mesi elaborò un progetto di legge razziale che inaspriva ulteriormente le disposizioni del 1938: non contemplava alcun tipo di  esenzione; irrigidiva i criteri di appartenenza alla razza ebraica, sempre più basati sul sangue e su elementi restrittivi di ereditarietà; introduceva severi limiti alla contaminazione della razza italiana con quelle straniere e inferiori, tramite ad esempio il reato di «lesa razza».

Il progetto tuttavia non divenne mai legge e fu solo annunciato dal governo: era osteggiato, infatti, dal ministro Buffarini Guidi e dallo stesso Mussolini, molto probabilmente per motivi d’ordine politico legati ai rapporti di forza all’interno della compagine governativa di Salò.

L’Ispettorato, inoltre, non ebbe mai compiti esecutivi, che rimasero nelle mani della pubblica sicurezza, contrariamente a quelle che erano in realtà le intenzioni del suo direttore Preziosi. Solo a metà aprile 1945, pochi giorni prima della liberazione, fu approvata una legge relativa alla confisca dei beni ricavati dallo scioglimento delle Comunità ebraiche.

camp_concentration_bolzano

Là dove non riuscivano ad arrivare gli organi di governo, ci pensavano comunque i delatori a lamentarsi con Preziosi:

In via Lucca 34 si nascondono gli ebrei D[…] ed hanno nascosto i loro mobili e gli oggetti artistici. In via Bellotti Bon 25 esistono altri ebrei che hanno nascosto i loro oggetti. In viale Gorizia 16 sotto il nome del proprietario dello stabile I[…] sono nascosti degli ebrei. La Questura cosa fa? Poi si lamentano i sabotaggi e le vittime del dovere.

Come mai che ci sono degli agenti di P.S. che dietro compenso favoriscono gli ebrei? In Roma si sono rifugiati ebrei di tutte le specie. La Questura ne conosce i rifugi e i nascondigli. Il Governatorato rilascia loro tessere annonarie sotto falsi nomi e questi ebrei sono nemici del fascismo, della Patria e della Germania?

 In via Pietro Borsieri 19 una coppia di ebrei è stata presa da Agenti della Questura e poi alla chetichella liberata nonostante avesse delle tessere false sotto il nome Tomesani mentre si chiama M[…].

In quel momento del 1944, tuttavia, gran parte (per non dire la maggior parte) del lavoro era già stato compiuto in maniera ordinaria dall’amministrazione italiana dello Stato  repubblicano.

Infine, un’ultima considerazione va fatta riguardo il progetto della RSI e della nuova compagine governativa fascista di dotarsi di una Costituzione, come stabilito nel congresso di Verona (quasi un’Assemblea costituente del nuovo Stato).

Il tentativo di redigere un testo costituzionale vide protagonisti tre personaggi: Bruno Spampanato, Vittorio Rolandi Ricci e Carlo Alberto Biggini. Non entreremo qui nel dettaglio dei contenuti e del significato che questi progetti ebbero nel complesso dibattito sui principi sui quali dovesse reggersi la Repubblica di Salò.

191230_copertina_frontcover_icon200

Nel progetto di Costituzione di Carlo Alberto Biggini, ministro dell’Educazione nazionale durante la RSI, sicuramente il testo più elaborato fra  questi tre, la questione religiosa ebraica è affrontata secondo le linee razziali che il fascismo aveva intrapreso negli anni precedenti.

Come riferimento, gli studiosi si sono da sempre attenuti al testo fornito dalla famiglia, in assenza di altra documentazione disponibile. Tuttavia, all’Archivio centrale dello Stato di Roma si trova una copia di progetto  costituzionale accompagnata da un biglietto autografo di Mussolini, nel quale il duce specifica di restituire a Biggini il testo adeguatamente rivisto e sottolineato nelle parti più dubbie.

Vittorio Rolandi Ricci

Vittorio Rolandi Ricci

In questo progetto si legge il seguente passo, sul quale il capo del governo, contrariamente ad altre parti, non appuntò alcuna osservazione:

Art. 14 Il popolo italiano ritiene ogni questione di razza abolita e per quanto riguarda i semiti sosterrà, nel campo internazionale, la opportunità di una sistemazione definitiva con la creazione dello Stato Ebraico.

Con le guerre di conquista, con le invasioni, con le dominazioni più o meno lunghe a cui sono stati soggetti tutti i popoli nella storia si sono prodotte delle mescolanze che oggi una discriminazione non sarebbe più possibile per definire una omogeneità di razza.

D’altra parte non è azzardato dire che la razza umana, benché abbia diversi aspetti di colore e di forma, diverse abitudini e costumi a seconda della latitudine e della loro ubicazione è una sola.

Infatti si può constatare che tutti i popoli tendono progressivamente a modificarsi in tutti i campi verso un fine di miglioramento comune, ragione per cui il popolo italiano ritiene superflua ogni questione di razza.

Quanto ai semiti nessuno ignora la grandissima importanza che ha avuto in antico il piccolo popolo ebraico e quale sia  stato il suo contributo alla nostra civiltà mediterranea. Dopo la conquista romana della Giudea il piccolo stato andò in frantumi ed essi si sparsero in tutto il mondo che si crede oggi raggiungano la cifra di quattordici milioni.

Da allora in poi alternate sono state in tutti i secoli le persecuzioni di ogni specie subite e perciò si considera come necessario ridare ad essi la possibilità della creazione del loro stato con le loro rappresentanze  diplomatiche  in  tutti  i  paesi,  così  verrebbe  a  formarsi  anche  per  loro  una  patria,  un  punto d’appoggio indispensabile alla loro esistenza.

Carlo Alberto Biggini

Carlo Alberto Biggini

Naturalmente servirebbero ulteriori ricerche per accertare che questo testo sia stato effettivamente elaborato da Biggini. In ogni modo, se ciò fosse vero, si potrebbe pensare che, a metà del 1944, Mussolini e una parte politica di Salò stessero valutando anche una soluzione della questione ebraica alternativa a quella intrapresa nel novembre del ’43, da applicare una volta terminato il conflitto.

Con la circolare ministeriale n. 5 del 30 novembre 1943 il governo della Repubblica sociale impresse un salto di qualità alla politica antiebraica. Come si è detto, due furono le strade lungo le quali il ministero dell’Interno, responsabile della questione, decise di muoversi: da una parte colpire fisicamente gli ebrei arrestandoli e, dall’altra, sequestrare i loro beni.

L’arresto degli ebrei, di cui ci occuperemo in questo capitolo, doveva essere eseguito dalle forze regolari di polizia: gli individui fermati erano destinati alla reclusione in appositi campi di concentramento istituiti in ogni provincia, nell’attesa che fossero realizzate una o più strutture “nazionali” in grado di accogliere tutti gli internati.

Con questa ordinanza, dunque, il governo di Salò intendeva creare un vero e proprio “sistema concentrazionario” riservato agli ebrei, che servisse al meglio lo scopo della disposizione: ricercare e fermare le persone e impossessarsi del loro patrimonio economico.

L’esecuzione del provvedimento fu affidata  alle autorità locali, prefetture e questure, che agirono principalmente sotto l’impulso di questa circolare e di altre indicazioni comunicate dal ministero nei mesi successivi per integrare e chiarire l’ordinanza di fine novembre. È possibile individuare due fasi della persecuzione, scandite proprio dall’invio di queste direttive trasmesse ai capi provincia (i vecchi prefetti).

campi-concentramento-sterminio-mappa

La prima fase si può situare nel dicembre 1943 e fu il risultato di tre principali disposizioni ministeriali. La citata ordinanza n. 5 diede l’avvio ai provvedimenti d’arresto e d’internamento degli ebrei, mettendo in moto la macchina amministrativa italiana, centrale e periferica.

Pochi giorni dopo, il 10 dicembre, una circolare del capo della polizia Tullio Tamburini chiariva la tipologia delle persone da arrestare e da destinare ai campi di concentramento. In base a questa direttiva, venivano esclusi dal provvedimento gli anziani oltre i 70 anni e i malati.

Si effettuava inoltre una distinzione tra le persone che, secondo la legislazione razziale italiana, erano considerate ebrei puri e quelle appartenenti a famiglia “mista” (ovvero sposati con ariani oppure figli di coniugi che non fossero entrambi ebrei): per queste seconde, infatti, era prevista, per ora, solo una stretta vigilanza e non l’internamento nei campi.

La distinzione teneva conto anche della nazionalità degli ebrei: da quanto scritto in questi provvedimenti, tutti gli stranieri, senza nessuna eccezione, dovevano essere inviati in campo di concentramento.

Infine, il telegramma del 28 dicembre firmato dallo stesso ministro Buffarini Guidi comunicava che le indicazioni del capo della polizia non avevano modificato il senso dell’ordinanza di fine novembre.

Queste erano state invece necessarie per motivi pratici:per favorire, ad esempio, il trasferimento graduale degli internati nei campi provinciali, strutture spesso ancora non sufficientemente attrezzate da un punto di vista igienico e “funzionale” (mancanza di posti letto, casermaggio ecc.) per accogliere fin da subito un gran numero di persone.

campi-di-concentramento-17-728

Fu sulla base di queste tre circolari che le autorità locali, prefetture, questure e comandi territoriali delle forze dell’ordine (Polizia e Carabinieri soprattutto), cominciarono ad applicare la misura nelle provincie della RSI, iniziando la ricerca delle persone colpite dall’ordinanza e impegnandosi ad aprire appositi campi per ebrei.

La seconda fase delle persecuzioni antiebraiche va da gennaio 1944 alla primavera/estate di quello stesso anno. Questa fase fu caratterizzata dai tentativi di ingerenza tedesca nelle pratiche politiche e amministrative italiane.

Le pressioni tedesche erano in realtà cominciate fin da subito, ma si fecero sempre più insistenti tra la fine di dicembre ’43 e i primi mesi del 1944, quando i comandi territoriali della polizia di sicurezza germanica provarono a imporre direttamente alle autorità periferiche di Salò delle soluzioni in contrasto con le disposizioni del governo della RSI: l’arresto dei malati e degli anziani, esentati dal provvedimento italiano, e la consegna alle SS degli ebrei arrestati e rinchiusi nei campi italiani.

Del resto, come abbiamo visto, le autorità tedesche avevano già iniziato a deportare nei campi di sterminio del Reich gli ebrei rastrellati in territorio italiano. Tra la fine del 1943 e la prima metà del 1944 nuovi convogli partirono da Milano, da Verona e dal campo di Fossoli di Carpi, vicino Modena.

Quest’ultimo era stato aperto nel mese di dicembre dalle autorità italiane per rinchiudervi diverse tipologie di internati: politici, stranieri, militari, antifascisti, partigiani. Era soprattutto diventato il campo di concentramento nazionale per gli ebrei arrestati nelle varie province e momentaneamente rinchiusi nelle carceri e nei campi provinciali.

campi-di-concentramento-e-di-sterminio-1-638

Nel febbraio del 1944, i tedeschi si impossessarono della parte di Fossoli utilizzata dagli italiani per internare gli ebrei, e da qui fecero partire numerosi convogli con destinazione Auschwitz.

Di fronte a questa continua ingerenza tedesca in pratiche che spettavano all’amministrazione italiana, capi provincia e questori chiesero al ministero centrale indicazioni su come dovessero comportarsi. Il 22 gennaio, a distanza di poche ore l’uno dall’altro, il capo della polizia  inviò  a tutte le prefetture della RSI due dispacci telegrafici nel tentativo di chiarire la situazione.

Nel primo ordinava alle autorità locali di spiegare ai comandi territoriali tedeschi le disposizioni decise per ordine del duce. Nel secondo confermava i provvedimenti d’internamento per gli ebrei puri, stranieri e italiani, e informava che sarebbero stati presi accordi con le autorità germaniche centrali per assicurare la permanenza degli internati nei campi di concentramento italiani.

In realtà questi telegrammi giunsero a destinazione spesso sovrapposti o in ritardo, a causa dei problemi di comunicazione tra gli uffici centrali e periferici durante il conflitto.

Contrariamente a quanto trasmesso nelle settimane precedenti, in entrambi i telegrammi non si faceva nessun riferimento alle esenzioni stabilite nei confronti di alcune categorie di ebrei, quali gli anziani e malati, mentre si specificava l’esclusione dal provvedimento delle famiglie miste.

campo-di-fossoli

Un mese e mezzo dopo, a inizio marzo, infine, un telegramma trasmesso sempre dal capo della polizia ripeteva nuovamente le disposizioni generali che escludevano dall’internamento gli anziani, i malati e gli appartenenti a famiglia mista, chiarendo forse per la prima volta in maniera particolareggiata i criteri con cui si sarebbe dovuto procedere.

Queste circolari costituirono la base normativa sulla quale si mossero le autorità locali della RSI per arrestare gli ebrei e per aprire campi provinciali dove rinchiuderli.

Lo scambio di comunicazioni tra periferia e ministero non si limitò però solo a questo: le citate disposizioni rappresentarono molto spesso una risposta ai quesiti inviati dalle singole prefetture o questure al loro principale interlocutore, la Direzione generale di Pubblica Sicurezza, a testimonianza che la maggior parte delle difficoltà concernevano questioni esecutive e pratiche.

Come si vedrà, una simile dinamica nei rapporti tra ministero e autorità periferica fa riflettere sui processi che portarono gli organi centrali a elaborare gli ordini. Osserva Stefano Caviglia, già a proposito dell’applicazione locale delle leggi del 1938:

Questo ci porta a parlare dell’aspetto, assai complicato, della genesi e della formazione dei vari provvedimenti. Il versante esteriore o terminale di questo processo mostra, l’abbiamo detto, la Direzione generale per la demografia e per la Razza come centro di tutte le decisioni.

Ma in realtà la “Demorazza” si trovava a decidere spesso su sollecitazione di altri uffici (per lo più prefetture del Regno e Direzione generale della Pubblica Sicurezza) che ponevano continuamente quesiti sulla liceità dell’esercizio di questa o quella attività da parte  degli ebrei.

Così la “Demorazza” disponeva nuovi divieti in una successione data dall’ordine con cui arrivavano questi  quesiti  più  che  da  un’analisi  rigorosa  della  materia. A questa  successione,  relativamente  casuale, si sovrapponeva però, con effetti determinati, l’orientamento politico centrale.

camposervigliano

Nell’analizzare le circolari inviate tra dicembre ’43 e marzo ’44 si nota, ad esempio, una differenza tra i telegrammi firmati da Buffarini Guidi e quelli invece trasmessi dal capo della polizia.

Mentre il ministro espresse nell’ordinanza n. 5 un severo e deciso orientamento antisemita, inteso a colpire la popolazione ebraica nella sua totalità, i dispacci del capo della polizia si basavano su considerazioni di ordine pratico, che tenevano conto delle difficoltà incontrate dalle autorità locali nell’applicare le disposizioni trasmesse.

In questo modo, le indicazioni del capo della polizia sembravano quasi ridimensionare gli ordini del ministro: gli aggiustamenti apportati da Tamburini il 10 dicembre alla circolare di fine novembre introdussero ad esempio quelle “discriminazioni” a favore degli ebrei, nei confronti delle  quali il Partito fascista repubblicano si era dimostrato intransigente durante il congresso di Verona.

Veniva cioè in qualche modo sconfessata la linea radicale del nuovo fascismo, secondo la quale non si dovevano più contemplare eccezioni, come invece avvenuto dopo il 1938, ma bisognava colpire tutta la popolazione ebraica presente nella RSI.

A fine dicembre, così, Buffarini fu quasi costretto a ribadire che nessuna modifica era stata apportata all’ordinanza n. 5 e che le misure prese dal capo della polizia erano momentanee e di carattere “esecutivo”.

Sebbene si possa osservare una differenza di accenti tra le disposizioni firmate dal ministro e quelle inviate dal capo della polizia, queste due autorità sembrerebbero però andare d’accordo su molte decisioni, almeno a partire dal mese di gennaio 1944.

Nello scambio di note tra i vari uffici del ministero che precedette i telegrammi del 22 gennaio  1944,  si  riscontra  una  totale  condivisione  nella  linea  da  seguire  riguardo  una  questione delicata  come  quella  dell’ingerenza  tedesca  negli  affari  italiani.

capannoni-snia

Nel comporre  il primo dispaccio, il capo della polizia tenne ben presente ciò che Buffarini Guidi aveva stabilito in un incontro del 20 gennaio proprio sulla questione ebraica, durante il quale erano stati valutati gli effetti dell’ordinanza n. 5. Il giorno successivo, Tamburini ricevette dal ministro stesso un giudizio positivo sul testo del dispaccio trasmesso il 22 gennaio.

Dopo questa breve panoramica su quelli che furono gli ordini diramati dall’alto, resta ora da esaminare quale fu la loro ricezione a livello locale, ovvero che riscontro trovarono nelle varie province della RSI.

La risposta delle autorità periferiche fu in realtà diversa da zona a zona. Ciò dipendeva dalla situazione presente in ogni provincia, che variava a seconda del momento bellico, della posizione geografica e delle autorità che vi comandavano.

A questa varietà di esperienze concorse sicuramente anche una scarsa precisione degli stessi ordini ministeriali. La circolare di fine novembre rispondeva infatti alla volontà del governo centrale di risolvere la questione ebraica in Italia, o almeno nel territorio della RSI. Tuttavia, l’ordinanza sembra essere stata inviata senza tenere conto delle effettive possibilità di applicare queste misure a livello locale.

capogreco

Lo dimostra il fatto che fin dall’inizio, come si vedrà più avanti in maniera approfondita, il ministero dovette intervenire periodicamente per migliorarne i meccanismi esecutivi.

Questi chiarimenti, tuttavia, crearono spesso un’ulteriore confusione in molte zone della RSI, soprattutto là dove l’amministrazione italiana non era autonoma nella sua azione ma doveva vedersela con l’ingerenza dell’alleato tedesco.

I campi di concentramento provinciali furono senza dubbio realizzati sulla base degli ordini provenienti dal ministero, che ne contemplavano esplicitamente la creazione, ma, allo stesso tempo, la loro apertura dipese fortemente dall’iniziativa locale degli organi periferici di competenza, le prefetture e le questure, e degli uomini che li presiedevano (capi provincia, questori e commissari di polizia  e carabinieri).

Prima di passare ad esaminare in modo dettagliato la vicenda dei campi, è bene specificare che si trattò di un fenomeno circoscritto a un periodo di tempo limitato, che oscilla tra i due e gli otto mesi.

Si può individuare con certezza una data di inizio, ovvero il 1° dicembre 1943, giorno in cui il ministero dell’Interno trasmise alle autorità locali l’ordinanza n. 5; il momento in cui queste strutture vennero chiuse, invece, varia da provincia a provincia.

chiesanuova_lapide

Un caso particolarmente longevo è quello di Padova, dove il campo provinciale restò in funzione ben otto mesi, da inizio dicembre ’43 fino al luglio 1944. Gli altri campi, generalmente, ebbero  una vita media di gran lunga inferiore: la maggior parte di essi funzionò fino al mese di marzo e aprile, perché gli ebrei rinchiusi furono trasferiti nel campo di raccolta di Fossoli di Carpi o finirono direttamente nei convogli per Auschwitz.

Alcuni campi restarono aperti addirittura solo poche settimane. La loro distribuzione geografica risulta circoscritta alla zona amministrata dal governo della Repubblica di Salò: le strutture create nei territori di diretta occupazione tedesca (la zona Prealpi e il Litorale adriatico), quali il lager di Bolzano o la Risiera  di  San  Sabba  a  Trieste,  furono  infatti  frutto  dell’iniziativa  e  sotto        l’esclusiva competenza delle autorità germaniche.

C’è da aggiungere, infine, che vi furono province della RSI in cui non sorse alcun campo provinciale. Il “tempo” e lo “spazio” risultano essere dunque due fattori determinanti nella vicenda, strettamente legati, ad esempio, all’andamento della guerra in corso nella penisola: i campi sorti nelle province del centro Italia ebbero per forza di cose una vita più breve  rispetto a quelli istituiti nel nord del paese, perché chiusi con la progressiva avanzata degli alleati.

Tuttavia lo sviluppo bellico non fu l’unica variante che determinò l’evolversi della vicenda: come detto, a dicembre le deportazioni dalla RSI erano già iniziate e continuarono per tutto il 1944. Dopo gli arresti seguiti all’ordinanza di Salò furono destinati ad Auschwitz gli ebrei rinchiusi nei campi di tutto il territorio della repubblica, indipendentemente dalla loro ubicazione (nord e centro Italia) o dall’avvicinarsi del fronte.

cop

La posizione geografica di un campo risulta importante anche in relazione all’autorità di competenza, italiana e tedesca, che si insediò in quella determinata zona: molto spesso infatti le decisioni prese nei confronti degli ebrei dipendevano dall’iniziativa del locale capo provincia o dall’influenza dei comandi territoriali germanici della polizia di sicurezza, responsabili nell’organizzazione della soluzione finale in Italia.

Nelle prossime puntate si analizzerà la vicenda dei campi di concentramento per ebrei prendendo in considerazione alcuni aspetti principali. Per prima cosa verrà illustrata quale fu la ricezione degli ordini ministeriali, in particolare della già citata circolare n. 5. Nell’eseguire le misure antiebraiche, i singoli capi provincia adottarono soluzioni diverse e da questo dipese la creazione o meno di un campo per ebrei nelle province della RSI.

Ci si soffermerà poi sul funzionamento ordinario di queste strutture, per il quale furono coinvolte non solo le prefetture, le questure e le forze dell’ordine (agenti di pubblica sicurezza, carabinieri e uomini della GNR), ma anche altri attori, come i podestà dei comuni e in generale la società civile locale: aziende e ditte delle province rifornirono infatti i campi delle attrezzature necessarie alla loro organizzazione.

Infine, verrà preso in esame un caso di studio specifico, il campo di concentramento di Vò Vecchio in provincia di Padova, grazie al quale sarà possibile ripercorrere in maniera più dettagliata il modo in cui l’amministrazione italiana applicò i provvedimenti decisi dal ministero.

copertinalibromara

La vicenda di Padova è stata ricostruita principalmente grazie alla documentazione inedita trovata all’interno del fondo della Questura dell’Archivio  di Stato locale, messa in relazione con delle fonti già conosciute: le testimonianze orali raccolte alla fine degli anni ’80 dallo studioso Francesco Selmin tra i cittadini della località veneta e i documenti del fondo di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, conservati presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma.

L’atto di nascita ufficiale dei campi di concentramento provinciali fu il 1° dicembre 1943, giorno in cui le prefetture e le questure della RSI ricevettero la circolare n. 5 firmata dal ministro Buffarini Guidi. Il testo di questa misura di polizia fu annunciato via radio e fu pubblicato sulle pagine dei giornali, nazionali e locali.

È interessante notare come questo provvedimento fu presentato in maniera differente sulla stampa. Il principale quotidiano italiano, il «Corriere della Sera», scelse di dare ampio spazio alla notizia nella parte centrale della prima pagina, sotto il titolo L’arresto di tutti gli ebrei.

cracovia_ele-074

Nell’occhiello venivano citate le disposizioni di sequestro dei beni a favore dei sinistrati di guerra e la vigilanza degli appartenenti a famiglia mista. L’articolo, che si sviluppava su tre mezze colonne, riproduceva il testo integrale dell’ordinanza e proseguiva con un commento positivo a un provvedimento che colpiva i veri nemici della nazione italiana. All’inizio si giustificavano le misure di sequestro:

É alla tribù di Israele che risale la maggior parte delle responsabilità di questa guerra. Impossessatasi delle leve  di comando dell’economia mondiale, essa ha premeditato l’aggressione e il soffocamento dei popoli proletari scatenando un conflitto universale il cui scopo è quello di dissanguare l’Europa e dischiudere le porte del potere assoluto alla razza eletta. Che i denari accumulati con ogni mezzo dagli uomini di questa schiatta perversa con l’usura e lo sfruttamento sistematico della nostra gente vadano a sanare le ferite provocate dai terroristi  dell’aria, è un atto di umana giustizia più ancora che di legittima ritorsione.

Questa vera e propria invettiva contro gli ebrei si concludeva con una considerazione su quelli che sarebbero stati gli effetti positivi del provvedimento per il futuro del paese:

Mentre si procederà alle retate e all’isolamento di questi irriducibili nostri nemici, c’è da prevedere una diminuzione non indifferente dello spionaggio e degli atti terroristici. I fili di molte congiure e tradimenti si spezzeranno come per incanto. Il livore e l’oro ebraico avranno cessato di nuocere. E sarà tanto di guadagnato per la patria e le sue fortune.

dscn5144

Al contrario del «Corriere», «Il Messaggero» di Roma scelse di riservare alla notizia uno spazio molto meno evidente: sempre in prima pagina, all’interno di un articolo sull’istituzione del capo provincia, figurava, tra gli altri argomenti, il testo dell’ordinanza di polizia.

Fatta eccezione per il giornale romano, nel presentare il provvedimento ogni quotidiano si lasciò andare a commenti più o meno violenti.

La maggior parte dei giornali pubblicizzò con enfasi soprattutto la scelta governativa di utilizzare i beni sequestrati a favore dei sinistrati: «circa la definitiva destinazione di codesti averi l’odierna ordinanza è quanto mai esplicita: essi serviranno – come giustizia vuole – ad indennizzare i sinistrati dalle incursioni aeree nemiche, epperò anche ebraiche».

Insistendo su consolidati stereotipi, gli ebrei erano considerati i padroni dell’economia mondiale ed erano accusati di aver provocato il conflitto in corso:

Era logico che essendo gli ebrei considerati nemici venissero inviati ai campi di concentramento e i loro beni sequestrati […] Non vi è chi non riconosca il valore morale e politico di questa destinazione: gli ebrei devono scontare con ciò che a loro sta più a cuore sopra ogni cosa, cioè la loro ricchezza, non importa come da essi accumulata, il fio delle loro colpe di antitaliani alleati dei nostri nemici, di quei nostri nemici che nella guerra così vilmente da essi condotta hanno portato il lutto e la distruzione nelle case di cento città italiane, seminando dal cielo la morte e la rovina.

La stampa nazionale fu generalmente concorde nel presentare il provvedimento come una logica conseguenza del manifesto programmatico di Verona:

Va sottolineato il fatto che il provvedimento di cui diamo notizia si collega direttamente, anzi ne è una conseguenza, al punto VII del manifesto programmatico approvato nella prima assemblea nazionale del Partito Fascista repubblicano, tenutasi recentemente a Verona [citato il testo del punto 7 del manifesto di Verona].

É naturale perciò anche dal punto di vista giuridico che ad essi sia stato riservato per il periodo dell’attuale conflitto il trattamento già applicato ai cittadini appartenenti a nazioni nemiche, verso i quali è necessario prendere misure cautelari per neutralizzare qualsiasi eventuale azione diretta contro gli interessi d’Italia.

giornali-e-cartoline

Alcuni giornali utilizzarono toni particolarmente forti nell’esprimere la loro soddisfazione per il provvedimento ministeriale, considerato una misura «atta ad epurare definitivamente il Paese dall’elemento ebraico, che da tempo formava il bubbone cancrenoso nel corpo della nazione» e che avrebbe quindi “ripulito” l’Italia dalla «malefica influenza ebraica».

Soprattutto in periferia, la stampa locale riservò  largo spazio alla notizia del provvedimento  e, in molti casi, la pubblicazione dell’ordinanza fu seguita, nei mesi successivi, da articoli fortemente  antisemiti:  ritornavano, anche  qui, i soliti  luoghi  comuni, dalla congiura mondiale alla  guerra  giudaica.

Un discorso  a parte, invece, merita  il  quotidiano  cattolico «L’Osservatore romano», che prese decisamente una posizione critica rispetto alle disposizioni antiebraiche diramate dal ministero:

L’ordinanza non è accompagnata dai motivi che l’hanno determinata per modificare così severamente il regime adottato fin qui.

Tanto più ragioni di umanità inducono a rilevare che, quali siano questi motivi, a parte le condizioni già create alle persone in causa, così da appartarle da ogni pubblica attività, esistono pur sempre e nella massima maggioranza degli estranei a qualsiasi responsabilità, degli innocenti di qualsiasi colpa: fanciulli, donne, vecchi, malati; i più esposti alle privazioni che un simile provvedimento reca con sé, e specialmente per il rigore della stagione, la scarsità di vitto e di vesti, comunque con l’indigenza comminata per tutti.

logo-osservatore-romano

Ovvie considerazioni d’equità, d’altra parte, sono in particolare favore dei discriminati. Le ragioni per le quali è avvenuta la loro discriminazione, ragioni di fatto, sono passate in giudicato; non sono venute meno; sussistono tuttavia e pertanto la esenzione dalle disposizioni vigenti sin ora, tanto più dovrebbe valere per queste nuove che comportano segregazioni e sequestri.

unione-sarda_9-sett-1938_1mapagina_rit

L’articolo continuava con un’attenta riflessione sugli appartenenti a famiglie miste, considerati cattolici e quindi da esentare dal provvedimento, e invocava una soluzione meno drastica dell’invio nei campi, quale ad esempio la sorveglianza per tutti.

Ancora il giorno successivo le pagine del quotidiano della Santa Sede ritornavano sull’argomento, in risposta a quelli che erano stati i motivi dell’ordinanza presentati dagli altri giornali nazionali.

In particolare, l’«Osservatore romano» non concordava con coloro che volevano presentare il provvedimento quale la logica conseguenza del punto 7 del programma politico di Verona, in quanto nessun manifesto politico aveva mai costituito una fonte giuridica, «soprattutto quando vige una  legge fondamentale dello Stato che considera cittadini i nati nel territorio dello Stato da cittadini dello Stato».

Riguardo il sequestro dei beni, inoltre, si osservava che, a parte gli ebrei, nessun altro cittadino appartenente a nazione straniera e nemica era stato colpito da una simile misura. Anche se il governo voleva cautelarsi contro eventuali azioni rivolte nei confronti dell’Italia, concludeva l’articolo:

non è dunque imprescindibile l’invio in campi di concentramento, specialmente, ripetiamo, per fanciulli, donne, vecchi, malati; e per i discriminati, appunto perché si è riconosciuto che la loro attività non è mai stata volta contro gli interessi d’Italia; e pei cattolici che alle comunità ebraiche non hanno mai appartenuto; non è imprescindibile la confisca degli averi, cioè l’indigenza anche per quando, dopo le sofferenze attuali, sarà a  tutti più che mai necessario un sicuro sostentamento.

rivisterazziste

L’insistenza sull’importanza delle “discriminazioni”, ribadita più volte dal quotidiano cattolico, fa molto riflettere. Soltanto pochi giorni dopo, infatti, il 10 dicembre, il capo della polizia escluse dall’internamento nei campi proprio le categorie di persone citate nei due articoli: malati, anziani e “misti”, tranne le donne e i bambini.

Tale decisione fu giustificata in realtà con motivi di ordine pratico (ovvero per agevolare un invio graduale degli ebrei nei campi), ma rimane il sospetto che sia stata adottata anche sulla scia della presa di posizione del giornale cattolico.

In un secondo momento l’«Osservatore» sembrò inoltre fornire un’indicazione generale indirizzata a tutti i religiosi d’Italia: il sostegno della Chiesa era esteso a ogni individuo, indipendentemente dalle sue convinzioni, perché «in casa di un  prete romano cattolico, può andare chiunque (anche contrario alle sue idee)  può trovarvi un letto e un pane».

L’annuncio diffuso via radio e tramite i giornali di questa disposizione sollevò una certa perplessità da parte di alcune autorità locali, come risulta dalla documentazione consultata.

la_stampa_11_novembre_38

Mossi in questa critica non certo da considerazioni di carattere umanitario, capi provincia e questori lamentarono al ministero che la pubblicità data all’imminente arresto degli ebrei e al loro prossimo invio in campo di concentramento aveva provocato la fuga proprio di coloro che erano i destinatari del provvedimento.

Si veda, ad esempio, ciò che disse il capo provincia di Apuania (Massa Carrara) in un telegramma inviato alla Direzione generale di Pubblica Sicurezza a metà dicembre:

In seguito all’annuncio del provvedimento dato qualche giorno prima dalla radio e dalla stampa, tutte le persone valide di razza ebraica si erano segretamente allontanate dalla residenza per ignota destinazione. Al momento dell’azione si poté procedere soltanto al fermo delle seguenti tre donne (…).

Anche a Viterbo e a Pesaro i capi provincia, nel riferire al ministero i risultati delle operazioni effettuate contro gli ebrei quei primi giorni di dicembre, aggiungevano che erano in corso le ricerche di coloro che erano fuggiti dopo che la radio aveva reso note le disposizioni.

Non è escluso, naturalmente, che il prendersela con l’annuncio dato dagli organi d’informazione  fosse un modo per giustificare i fallimentari esiti che diedero le prime ricerche di ebrei.

Proprio nella provincia di Massa, ad esempio, furono arrestate, come detto qui sopra, solo tre donne: la prima incinta, la seconda ottantenne e malata, accompagnata dalla figlia, che risultava essere la terza persona arrestata!

Il console tedesco a Roma, Moellhausen, scrive nelle sue memorie che il comunicato relativo alla circolare n. 5 fu trasmesso per radio proprio per volere di Buffarini Guidi, il quale, fattogli presente che ciò avrebbe di certo compromesso lo scopo della disposizione, sembra avesse risposto sorridendo: «Ma ci tieni proprio che li arrestino  davvero  tutti?».

ebrei

Risulta  difficile  oggi  credere  a  questa  testimonianza, sebbene anche il partigiano ebreo Emanuele Artom condividesse la stessa versione dei fatti: «La  caccia agli ebrei riesce male […] Credo che Mussolini abbia apposta fatto pubblicare sui giornali la minaccia di provvedimenti antisemiti perché avessimo tempo di prepararci a nasconderci».

È certo però che la diffusione della notizia permise a molti ebrei che si trovavano nella RSI, già preoccupati per la presenza delle forze d’occupazione tedesche, di allontanarsi almeno dai luoghi dove era possibile essere rintracciati.

C’è da notare, inoltre, che in alcuni casi le autorità locali ricevettero dai propri superiori la circolare ministeriale dopo averla appresa dai giornali.

A Piacenza, ad esempio, tutto lascia supporre che il capo provincia trasmise l’ordinanza al questore solo il 4 dicembre, due giorni dopo cioè che questa era stata pubblicata sui quotidiani nazionali e locali.

Da parte loro, le autorità si impegnarono fin da subito nella ricerca di persone da arrestare. Le prefetture e le questure disponevano del resto degli elenchi di ebrei presenti nella provincia, compilati col censimento del ’38 e aggiornati nel corso degli anni di guerra.

esc09

Già prima di dicembre, in molte province si era intensificata la vigilanza sulla popolazione ebraica, in considerazione della situazione di guerra.

Da novembre, infatti, il controllo era divenuto ancora più stretto: il 1° erano state ripristinate dal governo le misure di internamento per gli stranieri e per coloro che erano considerati pericolosi nella contingenza bellica, mentre numerose richieste erano state avanzate dai tedeschi per avere gli elenchi degli ebrei presenti nelle varie province.

A metà del mese, inoltre, si era svolto il congresso del Partito repubblicano fascista a Verona, dal quale era uscita una linea politica decisamente antisemita  e orientata a radicalizzare la persecuzione antiebraica.

Rimanendo a Piacenza, a inizio novembre il questore ordinò ai comandi territoriali dei carabinieri di vigilare attentamente sulle persone appartenenti alla razza ebraica e di diffidare gli ebrei residenti nella zona a non tenere un atteggiamento ostile allo Stato di Salò:  le autorità davano per scontato che la maggior parte della popolazione ebraica non appoggiasse il nuovo fascismo e si potesse rendere colpevole di propaganda contro la Repubblica sociale.

Il 23 novembre, sempre il questore di Piacenza ordinava che, in attesa di «provvedimenti definitivi», si dovesse ulteriormente intensificare la vigilanza: gli ebrei andavano tenuti «confinati nei comuni ove attualmente risiedono».

f49aacdc-b601-4dd0-8f34-59d5ef07e0ba

Lo stesso giorno il comando territoriale di Fiorenzuola d’Arda,  paese della provincia piacentina, trasmetteva i verbali di diffida di alcune persone di razza ebraica residenti nel territorio sotto quella tenenza e si impegnava a inviare i verbali di quelle persone temporaneamente assenti per  ragioni varie.

La vicenda di Piacenza, come quella di altre province,  fa capire che, al momento dell’invio dell’ordinanza n. 5, le autorità locali erano già attive nella loro azione di controllo e vigilanza nei confronti della popolazione ebraica, come abbiamo visto anche nella precedente puntata.

A questo si aggiungevano alcuni casi di capi provincia particolarmente convinti della persecuzione. A Vicenza, ad esempio, Neos Dinale, locale prefetto dal febbraio all’agosto 1943 e poi confermato capo provincia di quella zona dal governo della RSI, si esprimeva in questi termini:

Sono internati in provincia circa 600 ebrei stranieri, il cui contegno nel modo di vita e dal punto di vista politico lascia a desiderare; ho dato severissime disposizioni in materia, ma certamente questi ebrei rappresentano dei centri infettivi per cui sarebbe desiderabile il loro raggruppamento in campi di concentramento.

ferramonti_di_tarsia

E la maggior parte di coloro che furono arrestati e deportati dopo dicembre furono proprio persone già internate in quella provincia negli anni precedenti (43 su un totale di 45 deportati). La misura ministeriale di arresto e internamento, quindi, non colse di sorpresa capi provincia, questori e forze dell’ordine.

Tuttavia, la ricezione dell’ordine di Buffarini ebbe esiti differenti in ogni provincia, anche se le autorità si cominciarono a muovere fin da subito per rendere operativo il provvedimento.

I principali responsabili del fermo degli ebrei continuarono a essere gli agenti di Pubblica sicurezza, i comandi territoriali dei carabinieri e, successivamente, quelli della Guardia Nazionale Repubblicana (in cui del resto era confluito il corpo dei carabinieri).

Mentre procedevano alla ricerca e all’arresto degli ebrei, gli organi provinciali si dedicarono anche a cercare luoghi idonei dove rinchiudere i fermati. Si possono individuare prevalentemente tre tipi di soluzioni.

ferramonti-segnale

Nelle grandi città, salvo eccezioni, le autorità non aprirono campi di concentramento, ma utilizzarono le carceri. Molto probabilmente fu una scelta legata a ragioni di ordine pratico: di solito nei grandi agglomerati urbani i rastrellamenti portavano alla cattura di un cospicuo numero di persone (siamo sull’ordine del centinaio come minimo) e la soluzione più rapida sembrava essere l’utilizzo di strutture preesistenti, ben sorvegliate e facilmente raggiungibili.

Le carceri erano inoltre i luoghi dove gli arrestati venivano generalmente registrati e schedati  e quindi costituivano un passaggio obbligato subito dopo il fermo.

Ad esempio, il 5 e il 6 dicembre, la questura di Venezia diede inizio all’arresto degli ebrei presenti in quella città, a Mestre e a Chioggia. Più di cento persone tra donne, uomini e bambini furono immatricolate nelle carceri di Santa Maria Maggiore.

Successivamente, per motivi di spazio, furono distribuite tra la Casa israelitica di riposo e la caserma della Guardia Repubblicana (adibita anche ad alloggio per sfollati), mentre i bambini furono divisi in vari istituti minorili. Tutto  ciò in attesa che partisse un trasporto verso il campo di Fossoli, formato il 31 dicembre.

A Genova, prima dell’allestimento di un campo provinciale, fu utilizzato il carcere di Marassi. A Torino, gli ebrei arrestati furono condotti alle Carceri Nuove, per poi essere trasferiti a Milano.

fraschette2

In questa città, il carcere di San Vittore svolgeva una funzione centrale nel quadro della persecuzione degli ebrei: era un luogo di raccolta delle persone che venivano arrestate non solo a Milano e provincia, ma anche nelle grandi città del Nord come Genova e Torino o nella zona di frontiera con la Svizzera.

I locali di questa struttura furono utilizzati fin da settembre ’43 dal comando della polizia di sicurezza germanica di Milano, che ne aveva requisito alcuni raggi (le celle all’ultimo piano).

Da questo carcere partirono due convogli di ebrei diretti ad Auschwitz: il primo, il 6 dicembre 1943, formato dagli ebrei rastrellati dai tedeschi a Milano, Firenze, Torino e Genova nel corso delle operazioni di ottobre e novembre; il secondo, il 30 gennaio 1944, composto da persone fermate sempre dalle autorità naziste a Milano e da ebrei italiani e stranieri, catturati dopo il 30 novembre dagli italiani e passati per alcuni campi provinciali della RSI.

Durante tutto il 1944, San Vittore continuò ad essere un luogo di raccolta per gli  ebrei  rastrellati  nelle regioni  dell’Italia settentrionale e diretti a Fossoli di Carpi, Verona e Bolzano, da dove partirono le successive deportazioni.

giornata-della-memoria-2010-italia-israele-rc-un-visto-per-la-vita-40-728

Anche a Bologna gli arrestati nel mese di dicembre furono rinchiusi nelle carceri di San Giovanni in Monte e poi trasferiti nel campo vicino Modena. Stessa sorte toccò alle centinaia di rastrellati a Firenze, finiti nel carcere delle Murate e poi a Fossoli.

Nel capoluogo toscano, tra l’altro, le carceri servirono come punto di passaggio obbligato per gli ebrei fermati in gran parte della regione e destinati a partire per l’Italia settentrionale.

Oltre alle grandi città del centro nord, in molte altre province fu utilizzato lo stesso sistema: a Brescia,  a Como,  a Novara, a Rovigo, a Ravenna, a Livorno e a Pisa, a Viterbo, le persone arrestate dalle autorità italiane nel mese di dicembre furono tutte rinchiuse per alcune settimane nelle carceri giudiziarie e accompagnate poi direttamente a Fossoli di Carpi.

giornata-della-memoria-2010-italia-israele-rc-un-visto-per-la-vita-42-728

In generale, si può dire che il carcere cittadino era utilizzato come luogo di raccolta immediata e di registrazione subito dopo l’arresto, e gli ebrei vi venivano generalmente portati in attesa di essere trasferiti in un campo di concentramento provinciale o nazionale.

In alcune province, le autorità locali tentarono di istituire dei campi provinciali ma non vi riuscirono per problemi d’ordine pratico e per il sopraggiungere di disposizioni da parte delle autorità centrali o germaniche. A Varese, il capo provincia Pietro Giacone segnalò alla Direzione generale di Pubblica sicurezza difficoltà organizzative nella creazione di un campo per ebrei.

In una provincia ormai satura di sfollati, solo le due ex colonie dell’Opera nazionale Balilla rispondevano ai necessari requisiti in quanto già parzialmente attrezzate. Allo stesso tempo, però, presentavano alcuni gravi difetti: la prima era situata in montagna e dunque di difficile accesso; la seconda invece era troppo vicina a un nucleo urbano.

Il capo provincia comunicava inoltre al ministero alcuni motivi di ordine strategico che sconsigliavano l’apertura di un campo: la provincia di Varese confinava infatti con la frontiera svizzera e di conseguenza era un territorio di passaggio per chi tentava la fuga dall’Italia.

grumellina3

Giacone faceva dunque notare che sarebbe stato inutile attrezzare ex novo un campo, visto che il governo aveva previsto di aprire una struttura nazionale entro pochi mesi:

Si dovrebbe, in conseguenza, provvedere alla completa attrezzatura ex novo della colonia eventualmente prescelta oltre che all’impianto di tutti i servizi sia per gli internandi che per il personale di custodia, e ciò per un periodo breve, stante che codesto Ministero ha deciso la istituzione di campi nazionali di concentramento […]

Se si considera, ancora, che in questa provincia gli ebrei arrestati non superano la trentina ne deriva che la spesa della istituzione del campo di concentramento e dei servizi inerenti sarebbe sproporzionata al fine da raggiungere.

Tutte queste ragioni, quindi, consiglierebbero l’aggregazione degli internandi di questa Provincia in un campo di altra, non prossima alla frontiera, oppure la detenzione alle carceri ove ora si trovano in attesa della definitiva sistemazione di essi nei campi di concentramento nazionali di progettata istituzione. Prego impartire istruzioni in merito.

Nel caso di Siena, la consapevolezza che gli ebrei da arrestare ammontassero a un numero relativamente basso indusse il capo provincia a non reputare necessaria l’apertura di un campo provinciale.

Come vedremo più avanti, tuttavia, l’esiguo numero degli arrestati non fu un criterio valido ovunque. Furono invece solo motivi pratici quelli che non permisero alle autorità di Pesaro di istituire un campo per ebrei. Nella struttura prescelta, una villa in un comune vicino la città, mancava infatti la corrente elettrica e il materiale di casermaggio necessario al funzionamento.

il-campo-di-concentramento-di-vetralla-5-638

Il capo provincia allora chiese al ministero di comunicargli dove inviare la trentina di ebrei arrestati, dal momento che, contrariamente a quanto annunciato a metà dicembre, era impossibile aprire un campo in quella zona:

Questo ufficio dopo laboriose ricerche aveva ritenuto idoneo allo scopo una villa in contrada Madonna di Pugliano […] ma da un sopralluogo eseguito da un ingegnere del Genio Civile e da un funzionario della locale Questura, fu constatato che occorreva allacciare la corrente elettrica alla linea principale che distava 1500 metri dal locale e arredare la villa stessa di tutto l’occorrente per dare ricetto ad oltre cento internati [gli ebrei presenti nella zona erano stati censiti in numero di 153], nonché di alcune migliaia di metri di ferro spinato per la recinzione del Campo. Essendo impossibile trovare nelle attuali contingenze il materiale necessario alla bisogna, si è dovuto rinunziare a detta villa.

il-campo-di-concentramento-di-vetralla-10-638

Anche a Treviso la valutazione se creare o meno una simile struttura si basò su considerazioni d’ordine materiale. Gli stabili individuati dal ministero dell’Interno come possibili campi richiedevano infatti un lavoro di riadattamento lungo e dai costi troppo elevati: presentavano cioè:

scarsa idoneità ad uso richiesto causa promiscuità con aziende agricole et condizione detti locali cui utilizzazione proficua appare per semplice deposito materiali punto necessiterebbero pertanto radicali adattamenti con minimo indispensabile servizi et misure isolamento.

La decisione di utilizzare l’ex campo per internati civili a Monigo, abbastanza grande per accogliere eventualmente gli ebrei provenienti da Venezia, si scontrò invece con il fatto che questi locali erano stati occupati dalle autorità militari germaniche:

Considerato che ultimi arrivi sfollati hanno eliminato ogni possibilità ricettiva et che ex campo concentramento Monigo est requisito autorità germaniche per esigenza militari non appare possibilità ricevere ebrei Venezia et concentrare quelli questa provincia in località adatta alt resto comunque in attesa disposizioni.

images-1

Una situazione simile si ebbe a Piacenza, dove però la decisione finale non fu presa dagli italiani, bensì dai comandi germanici. Come abbiamo visto in precedenza, in questa provincia fin dai primi mesi della RSI il controllo delle autorità locali sugli ebrei era stato particolarmente rigido: tuttavia, l’esecuzione della circolare n. 5 non aveva portato all’arresto di molte persone, in quanto la maggior parte di esse risultava essere esentata dal provvedimento, perché anziana, malata o appartenente a famiglia mista.

Numerosi ebrei furono sottoposti a stretta vigilanza, ma pochi furono arrestati e condotti in carcere. Del resto, anche la ricerca di un luogo dove internare la popolazione ebraica non aveva dato buoni risultati. A dicembre erano iniziati i lavori per adattare a campo di concentramento un convento di frati maggiori in località Cortemaggiore, dalla capienza di 500 posti e in grado di ricevere non soltanto persone di razza ebraica.

Tuttavia questi lavori andarono molto a rilento e nel marzo 1944 il questore annunciava al capo della polizia che i posti a disposizione si sarebbero ridotti a un centinaio e che le autorità tedesche avevano disposto il trasferimento degli ebrei direttamente a Fossoli:

il comando della polizia tedesca in Italia, con sede in Bologna, nel richiedere la traduzione degli ebrei residenti  in questa provincia al campo di concentramento di Carpi (Modena), invita questo ufficio in data 10 febbraio decorso, a  desistere dalla istituzione di un campo di concentramento in questa provincia, invito che evidentemente, si riferisce soltanto agli ebrei.

images-2

Alla fine il campo fu realizzato, ma servì per rinchiudere prigionieri politici e militari. Infine, in molte province fu aperto un campo per ebrei. Anche qui vanno fatte in realtà delle distinzioni tra i luoghi di concentramento che si trovavano nelle regioni a ridosso del fronte e quelli nel resto del territorio della RSI.

I primi erano campi già in funzione durante il conflitto per internare militari o civili, ebrei stranieri compresi. Spesso e volentieri, dunque, queste strutture non soltanto accolsero persone di razza ebraica, ma continuarono ad essere utilizzate anche per l’internamento di altre categorie di fermati (civili, antifascisti ecc.).

Nei campi situati nelle regioni adriatiche, come l’Abruzzo ad esempio, le disposizioni italiane di dicembre si affiancarono alle misure decise dall’esercito tedesco, già accennate nel precedente capitolo, e dalla polizia di sicurezza germanica, creando quindi una situazione nella quale non è facile distinguere una politica chiara e uniforme: ordini militari si sovrapponevano a provvedimenti razziali e viceversa. Inoltre in questa regione l’autorità militare era naturalmente più forte, in quanto zona di operazioni di guerra.

images-3

Di conseguenza, il ruolo dei campi cambiava. Per quanto riguarda gli ebrei, questi venivano rastrellati anche nelle operazioni di retrovia effettuate dalle forze dell’esercito e inviati in campi misti insieme a  civili e prigionieri politici. Come scrive Costantino Di Sante:

Quando l’avanzata alleata venne fermata lungo la linea Gustav, l’Abruzzo meridionale divenne zona militarmente importante. Gli ebrei, gli slavi e i prigionieri di guerra che si erano nascosti nelle campagne e sui monti [dopo l’8 settembre e l’abolizione della misura d’internamento da parte del capo della polizia Senise] vennero rastrellati dalla Feldegendarmerie, la polizia militare tedesca.

Dopo la cattura furono portati a Guardiagrele, poi nel campo per prigionieri di guerra di Chieti e successivamente in una caserma requisita dalla Wehrmacht a L’Aquila,  dove erano già state internate altre persone catturate nella provincia.

images-4

Il ministero dell’Interno ordinò successivamente al capo provincia de L’Aquila di trasferire i 70 ebrei presenti nella locale caserma ai campi di Bagno a Ripoli e Castello di Montalbano a Firenze e di Scipione di Salsomaggiore a Parma.

In provincia di Teramo, il campo di concentramento istituito nella Caserma Mezzacapo tra fine 1943 e inizio 1944, era destinato a internare i civili presi nelle retrovie, da impiegare poi in lavori bellici, e vi finirono anche alcuni ebrei.

Sempre in questa provincia erano rimasti in funzione il campo di Civitella del Tronto, per internati ebrei anglolibici e tedeschi, e quello di Corropoli, dove erano presenti molti stranieri, tra i quali tedeschi di razza ebraica.

Entrambi i campi erano attivi dagli anni precedenti e rimasero aperti fino al maggio del 1944. Già dal mese di gennaio, tuttavia, le autorità tedesche e italiane avevano disposto il trasferimento di tutti gli internati della provincia in parte a Fossoli di Carpi, in parte all’ex campo n. 59 per prigionieri di guerra a Servigliano, in provincia di Ascoli Piceno.

images-5

Quest’ultimo, avrebbe dovuto tra l’altro accogliere a gennaio gli ebrei arrestati nelle province di Frosinone e di Teramo, trasferiti successivamente nel campo modenese. Gli ebrei anglolibici di Civitella del Tronto furono trasferiti a Fossoli il 4 maggio 1944, da dove furono deportati ad Auschwitz e a Bergen Belsen (gli internati finiti in quest’ultimo lager tedesco si salvarono tutti).

Nelle Marche, le autorità italiane mantennero in funzione il campo di Urbisaglia, dove furono rinchiusi gli ebrei che erano stati destinati all’internamento libero. Lo studioso Carlo Spartaco Capogreco riporta che dopo un “singolare” periodo di internamento libero nel centro della città e un altro di internamento nell’ex campo di Pollenza (sempre in quella provincia), il 31 marzo 1944 gli ebrei furono presi dalle SS e trasferiti a Carpi.

Come si può vedere, la situazione di queste regioni vicine al fronte di guerra fu molto confusa e non è semplice individuare una politica importante:

Gli ebrei, gli slavi e i prigionieri di guerra che si erano nascosti nelle campagne e sui monti [dopo l’8 settembre e l’abolizione della misura d’internamento da parte del capo della polizia Senise] vennero rastrellati dalla Feldegendarmerie, la polizia militare tedesca.

Dopo la cattura furono portati a Guardiagrele, poi nel campo per prigionieri di guerra di Chieti e successivamente in una caserma requisita dalla Wehrmacht a L’Aquila,  dove erano già state internate altre persone catturate nella provincia.

images

Il ministero dell’Interno ordinò successivamente al capo provincia de L’Aquila di trasferire i 70 ebrei presenti nella locale caserma ai campi di Bagno a Ripoli e Castello di Montalbano a Firenze e di Scipione di Salsomaggiore a Parma.

In provincia di Teramo, il campo di concentramento istituito nella Caserma Mezzacapo tra fine 1943 e inizio 1944, era destinato a internare i civili presi nelle retrovie, da impiegare poi in lavori bellici, e vi finirono anche alcuni ebrei.

Sempre in questa provincia erano rimasti in funzione il campo di Civitella del Tronto, per internati ebrei anglolibici e tedeschi, e quello di Corropoli, dove erano presenti molti stranieri, tra i quali tedeschi di razza ebraica.

Entrambi i campi erano attivi dagli anni precedenti e rimasero aperti fino al maggio del 1944. Già dal mese di gennaio, tuttavia, le autorità tedesche e italiane avevano disposto il trasferimento di tutti gli internati della provincia in parte a Fossoli di Carpi, in parte all’ex campo n. 59 per prigionieri di guerra a Servigliano, in provincia di Ascoli Piceno.

images-5

Quest’ultimo, avrebbe dovuto tra l’altro accogliere a gennaio gli ebrei arrestati nelle province di Frosinone e di Teramo, trasferiti successivamente nel campo modenese. Gli ebrei anglolibici di Civitella del Tronto furono trasferiti a Fossoli il 4 maggio 1944, da dove furono deportati ad Auschwitz e a Bergen Belsen (gli internati finiti in quest’ultimo lager tedesco si salvarono tutti).

Nelle Marche, le autorità italiane mantennero in funzione il campo di Urbisaglia, dove furono rinchiusi gli ebrei che erano stati destinati all’internamento libero. Lo studioso Carlo Spartaco Capogreco riporta che dopo un “singolare” periodo di internamento libero nel centro della città e un altro di internamento nell’ex campo di Pollenza (sempre in quella provincia), il 31 marzo 1944 gli ebrei furono presi dalle SS e trasferiti a Carpi. Come si può vedere, la situazione di queste regioni vicine al fronte di guerra fu molto confusa:

Gli ebrei, gli slavi e i prigionieri di guerra che si erano nascosti nelle campagne e sui monti [dopo l’8 settembre e l’abolizione della misura d’internamento da parte del capo della polizia Senise] vennero rastrellati dalla Feldegendarmerie, la polizia militare tedesca.

Dopo la cattura furono portati a Guardiagrele, poi nel campo per prigionieri di guerra di Chieti e successivamente in una caserma requisita dalla Wehrmacht a L’Aquila,  dove erano già state internate altre persone catturate nella provincia.

img011-2-b

Il ministero dell’Interno ordinò successivamente al capo provincia de L’Aquila di trasferire i  70 ebrei presenti nella locale caserma ai campi di Bagno a Ripoli e Castello di Montalbano a Firenze e di Scipione di Salsomaggiore a Parma.

In provincia di Teramo, il campo di concentramento istituito nella Caserma Mezzacapo tra fine 1943 e inizio 1944, era destinato a internare i civili presi nelle retrovie, da impiegare poi in lavori bellici, e vi finirono anche alcuni ebrei.

Sempre in questa provincia erano rimasti in funzione il campo di Civitella del Tronto, per internati ebrei anglolibici e tedeschi, e quello di Corropoli, dove erano presenti molti stranieri, tra i quali tedeschi di razza ebraica. Entrambi i campi erano attivi dagli anni precedenti e rimasero aperti fino al maggio del 1944.

lager-pugliesi

Già dal mese di gennaio, tuttavia, le autorità tedesche e italiane avevano disposto il trasferimento di tutti gli internati della provincia in parte a Fossoli di Carpi, in parte all’ex campo n. 59 per prigionieri di guerra a Servigliano, in provincia di Ascoli Piceno.

Quest’ultimo, avrebbe dovuto tra l’altro accogliere a gennaio gli ebrei arrestati nelle province di Frosinone e di Teramo, trasferiti successivamente nel campo modenese. Gli ebrei anglolibici di Civitella del Tronto furono trasferiti a Fossoli il 4 maggio 1944, da dove furono deportati ad Auschwitz e a Bergen Belsen (gli internati finiti in quest’ultimo lager tedesco si salvarono tutti).

Nelle Marche, le autorità italiane mantennero in funzione il campo di Urbisaglia, dove furono rinchiusi gli ebrei che erano stati destinati all’internamento libero. Lo studioso Carlo Spartaco Capogreco riporta che dopo un “singolare” periodo di internamento libero nel centro della città e un altro di internamento nell’ex campo di Pollenza (sempre in quella provincia), il 31 marzo 1944 gli ebrei furono presi dalle SS e trasferiti a Carpi.

povc

Come si può vedere, la situazione di queste regioni vicine al fronte di guerra fu molto confusa e non è semplice individuare una politica riscaldamento e di arredi, dotato di illuminazione rudimentale e di servizi igienici insufficienti.

La seconda tipologia di campi provinciali riguarda invece quei luoghi aperti dalle prefetture e dalle questure tra dicembre 1943 e gennaio 1944 esclusivamente in esecuzione dell’ordine del ministero dell’Interno: queste strutture, cioè, ebbero l’unica funzione di racchiudere persone di razza ebraica arrestate da dicembre in poi, in attesa del loro invio a Fossoli di Carpi.

Sono distribuite geograficamente in tutta l’Italia centro settentrionale, allestite all’interno di edifici come ville, scuole, seminari e alberghi. Nell’Italia centrale furono istituiti campi provinciali a Perugia, prima nei locali delle Scuole Magistrali, in un secondo momento in una villa alla periferia della città (Villa Ajò), infine in una villa sull’Isola Maggiore del Trasimeno; a Senigallia, vicino Ancona, nella colonia estiva Unes; a Lucca, in località Bagni di Lucca, presso l’ex albergo “Le Terme”,81  di proprietà della Gioventù italiana del Littorio; a Grosseto, nel seminario vescovile di Roccatederighi; in provincia di Massa Carrara, nell’albergo “Italia” di Marina di Massa.

le_baracche_nel_campo_di_coltano2

La presenza dei campi si concentra soprattutto nelle regioni settentrionali. In Emilia Romagna sorsero a Forlì, nelle stanze dell’albergo “Commercio”; a Ferrara, nei locali della Comunità Israelitica nella centrale via Mazzini; a Parma, dove, oltre a Scipione di Salsomaggiore, fu aperta una struttura per sole donne a Monticelli Terme di Monterchiarugolo, ricavata negli alberghi “Ristorante Terme” e “Bagni”; e infine a Reggio Emilia, in una casa di campagna alla periferia della città.

In Piemonte se ne istituirono ad Asti, nei locali del Seminario della città e a Vercelli, presso la cascina Aravecchia. In Lombardia furono aperti a Sondrio, in alloggi in periferia a via Nazario Sauro, e a Mantova nei locali  della Comunità Israelitica.

Nel Veneto in provincia di Padova, in località Vò Vecchio, in una villa abitata da suore; vicino Vicenza, nella colonia alpina di Tonezza del Cimone, un paese a 1.000 metri di altitudine, e a Verona, in quello che viene chiamato “campo di concentramento di Montorio” in località Ponte di Cittadella.

risieraes-2

In Liguria, oltre al campo a Calvari di Chiavari vicino Genova, ve ne fu uno a Imperia, in località Vallecrosia presso una ex caserma  militare; in provincia di Savona, inizialmente a Spotorno, nell’Istituto Marino Merello di Bergeggi, e successivamente nella Colonia Bergamasca di Celle Ligure.

C’è da dire che questi due ultimi casi della Liguria furono sì denominati campi provinciali per ebrei, ma accolsero allo stesso tempo altre persone, come familiari di disertori o antifascisti non responsabili di reati. Infine, ad Aosta fu aperto un campo presso la Caserma Mottino.

In molte province della RSI furono dunque aperti campi di concentramento per ebrei: come detto, furono utilizzate strutture già in funzione durante la guerra, che non smisero mai di essere operative o che al contrario furono chiuse dopo l’8 settembre e riaperte per questo scopo dal governo repubblicano; e allo stesso tempo, si approntarono rapidamente ex novo dei campi provinciali in una ventina di città dell’Italia centro settentrionale.

manifesto-convegno

Con l’espressione “campo di concentramento” si intendono qui quelle strutture che così furono denominate nei documenti prodotti dalle stesse autorità ministeriali e locali. Si potrebbe azzardare l’ipotesi che questa espressione venne adottata per indicare tutte quelle strutture che non fossero già delle carceri cittadine.

In realtà, l’uso di questo termine non fu affatto casuale: per le autorità dell’epoca la denominazione di “campo di concentramento” significava qualcosa di ben preciso, come dimostra del resto la rapidità con la quale l’amministrazione locale riuscì a approntare in pochi giorni luoghi che rispondessero agli ordini ricevuti dall’alto.

Non va dimenticato, infatti, che quella dell’internamento nei campi era una pratica ormai consolidata: appena scoppiato il conflitto, aveva colpito gli stessi ebrei e in generale tutta una categoria di persone considerate pericolose per la sicurezza dello Stato in guerra (civili stranieri soprattutto), per le quali quindi si reputava necessario prendere misure di controllo.

sequestro-azienda-di-cassin-michele

La continuità con meccanismi già conosciuti e collaudati fu dunque determinante per la realizzazione a livello locale dei campi. In realtà, la presunta pericolosità degli ebrei, affermata nei discorsi, nei manifesti politici e sui giornali, non fu mai esplicitata nelle disposizioni ministeriali trasmesse a partire da dicembre 1943.

È interessante notare che mentre il sequestro dei beni veniva giustificato come una misura che avrebbe portato beneficio ai cittadini della Repubblica e alle casse di uno Stato duramente provato dalla guerra, sull’arresto degli ebrei non si dava alcuna spiegazione.

Le autorità italiane eseguirono cioè una disposizione, quella dell’arresto, che non necessitava di essere chiarita, perché colpiva un gruppo di persone comunemente riconosciuto pericoloso dalla politica e dalla propaganda di governo, nonché discriminato dalla legge ormai da cinque anni.

prisoners-marching-to-the-camp

Quella di istituire dei “campi di concentramento” fu dunque una scelta strumentale agli obiettivi dell’ordinanza ministeriale, la quale del resto contemplava esplicitamente l’utilizzo di queste strutture. Da un punto di vista economico, la reclusione e la permanenza degli ebrei nei campi assicurava alle autorità il tempo necessario per potersi appropriare dei loro averi.

Lo spostamento forzato degli ebrei dalle loro abitazioni permetteva inoltre di sequestrare e confiscare i beni lasciati, per così dire, incustoditi, nonché di utilizzare queste case ormai vuote per ospitare i numerosi sfollati e i militari in continuo movimento sul territorio della RSI.

Da un punto di vista meramente pratico, la presenza di un campo risolveva il problema di dove mettere gli arrestati, dal momento che le carceri erano sempre più affollate di persone imprigionate per motivi di ordine pubblico, di renitenti, di antifascisti e di partigiani.

Il ministero dell’Interno affidò dunque l’esecuzione dell’ordinanza n. 5 ai suoi organi locali (prefetture e questure), ma chiarì sin dall’inizio che ogni decisione doveva essere presa in accordo con gli uffici centrali.

slide_5

Lo dimostra, per esempio, l’atteggiamento tenuto nella vicenda del campo istituito in provincia di Grosseto. Se infatti tutti gli altri campi provinciali furono creati dopo le disposizioni del ministro Buffarini Guidi, quello di Roccatederighi nacque qualche giorno prima, grazie allo zelo dimostrato dal capo provincia locale nell’interpretare l’orientamento antisemita del nuovo Stato.

Il 25 novembre, cinque giorni prima dell’invio della circolare ministeriale, il capo provincia Ercolani comunicava alla Direzione generale di PS che a partire dal 28 sarebbe stato aperto un campo di concentramento per gli ebrei catturati in quella zona.

Ercolani segnalava che avrebbe esaminato lui stesso i singoli casi degli internati e che avrebbe utilizzato circa 100.000 lire dai fondi della prefettura, che sarebbero state recuperate grazie al sequestro dei beni ebraici.

Già nelle settimane precedenti, del resto, la linea dura del capo provincia si era concretizzata in iniziative non sempre legittimate dalle norme governative, come avvenuto anche in molte altre province della RSI: spoliazioni arbitrarie, censimento degli alloggi e delle proprietà ebraiche, compilazione di elenchi nominativi inviati alle autorità tedesche.

targa_a_ricordo

Il campo di Roccatederighi fu approntato nel giro di pochi giorni all’interno dei locali di un seminario estivo vescovile, e dopo la circolare ministeriale n. 5 cominciarono ad affluirvi gli ebrei arrestati nella provincia. Secondo la studiosa Luciana Rocchi, l’atteggiamento di Ercolani non fu determinato soltanto dalle sue convinzioni antisemite, ma anche da considerazioni di opportunismo politico, come il dimostrare un particolare zelo nella sua attività di capo provincia.

Il 7 dicembre, la Direzione generale della pubblica sicurezza inviava a Grosseto un telegramma nel quale si faceva presente che «la costituzione e l’organizzazione dei campi di concentramento, come è noto, sono di competenza di questo Ministero» e si chiedeva di fornire ulteriori notizie sul campo di Roccatederighi e sulla persona che era stato nominata direttore.

La risposta dalla prefettura arrivò il giorno di Natale:

In evasione alla nota suindicata comunico che l’ordine di istituire dei campi per il concentramento dei cittadini di razza ebraica fu impartito a Firenze dall’Eccellenza Buffarini nella riunione dallo stesso tenuta ai Capi della Provincia.

Poiché disposizioni in dettaglio da parte di codesta Direzione generale si sono attese invano, in adempimento dell’ordine impartito dal Ministero ho ritenuto urgente ed indifferibile istituire il campo in oggetto affidandone la direzione al maresciallo di PS di questa Questura Rizziello Gaetano segnalatomi dal Questore come elemento idoneo e capacissimo.

Dopo questi chiarimenti, gli uffici centrali del ministero non si occuparono più della vicenda dell’apertura anticipata del campo in provincia di Grosseto. Salvo questo caso, in ogni modo, le autorità periferiche si attennero agli ordini ministeriali e riferirono di solito al ministero le decisioni prese localmente.

targa-opt

I capi provincia inviarono informazioni e telegrammi concernenti le loro operazioni antiebraiche, sia perché erano stati sollecitati dagli uffici ministeriali responsabili (in particolare la Direzione generale di Pubblica sicurezza o direttamente il capo della Polizia), sia per avere delucidazioni su alcune questioni poco chiare.

La vicenda di Grosseto dimostra in ogni modo quanto l’intensità della persecuzione ebraica a livello locale dipendesse dall’iniziativa della singola autorità provinciale, spesso ligia nell’applicare le disposizioni ministeriali e più o meno volenterosa di tradurre in pratica l’orientamento antisemita sancito dal nuovo Stato.

La responsabilità delle fasi preliminari che portavano all’istituzione di un campo provinciale ricadeva infatti sulle singole persone, principalmente sul capo provincia e il questore.

Era di solito quest’ultimo che metteva in moto la macchina amministrativa dopo aver ricevuto dalla prefettura la circolare di Buffarini: chiedeva cioè ai comandi territoriali dei carabinieri o ai funzionari di pubblica sicurezza se vi fossero strutture adatte a ospitare un campo di concentramento.

Nella maggior parte dei casi, venivano individuati luoghi in posizione periferica, lontani da un grande centro abitato ma facilmente raggiungibili dai mezzi di trasporto (macchine, autocorriere), con uno spazio all’esterno dove permettere agli internati di uscire.

una-strada-del-ghetto-di-roma

Nei casi in cui non ci fosse stato nella zona un campo in funzione, si cercava solitamente una struttura già attrezzata, nella quale non fosse troppo difficile avere l’acqua corrente, allacciare l’elettricità e approntare altri servizi essenziali (una linea telefonica, una cucina ecc.).

Nella scelta del posto, le autorità locali si attennero alle direttive ministeriali inviate all’inizio del conflitto e relative alle località che avrebbero dovuto accogliere, tra il 1940 e il 1943, i civili in internamento libero o in campo di concentramento.

I campi sorsero dunque all’interno di ville, di seminari, di colonie estive, di alberghi o di caserme, edifici cioè con caratteristiche che rispondevano a criteri stabiliti negli anni precedenti dal ministero centrale.

La scelta dello stabile, molto probabilmente, non fu fatta tenendo in considerazione le centinaia di persone di razza ebraica spesso accertate nelle province, censite negli elenchi compilati dagli stessi uffici della questura e della prefettura, per le quali era ora previsto un mandato d’arresto.

Se si fosse tenuto conto di ciò, infatti, le autorità avrebbero dovuto individuare ovunque degli edifici molto ampi, dove poter rinchiudere cioè un gran numero di persone. Così non fu, perché la scelta ricadde quasi sempre su strutture in grado di contenere al massimo un centinaio di individui.

veduta-aerea-del-campo-di-fossoli-1992

D’altronde, a parte alcune eccezioni (Roma, Firenze, Venezia) le prime operazioni di arresto effettuate a inizio dicembre portarono a risultati di gran lunga inferiori alle attese: dopo l’8 settembre, e ancor più dopo la diramazione dell’ordinanza n. 5, molti ebrei erano scappati dalle località d’internamento o si erano resi irreperibili laddove erano stati registrati.

Di conseguenza ad ogni campo si trovarono destinati in media solo alcune decine di individui. In pochi casi si raggiunse il centinaio di internati.

In molte occasioni, l’apertura di un campo di concentramento servì a rinchiudere un numero veramente ridotto di persone, che spesso non superava i venti o trenta ebrei. Caso limite fu quello di Massa, provincia nella quale furono fermate, come si è detto, solo tre donne: nonostante ciò, fu istituita una struttura che prese il nome di “campo di concentramento”.

Una volta individuati i locali adatti, il questore (e in certe occasioni il capo provincia) nominava un direttore, che poteva essere un funzionario di Pubblica sicurezza – un commissario di PS ad esempio – o, raramente, una figura amministrativa locale, come il podestà del paese.

Carmine Senise

Carmine Senise

Stabiliva inoltre il personale addetto alla sorveglianza, costituito di solito da un piccolo nucleo di agenti di PS, carabinieri o militi della GNR. Il numero di queste guardie variava naturalmente a seconda della grandezza del campo e della presenza degli internati, come detto, quantificabile in media in poche decine di civili disarmati e praticamente inoffensivi da un punto di vista strettamente militare.

Non mancarono certo le eccezioni. Il capo provincia di Grosseto, sempre lui, sembrò ossessionato dal possibile rapporto tra gli internati e il mondo esterno. Adottò dunque una soluzione che si può forse definire “eccessiva” anche per un campo destinato a ospitare circa un centinaio di ebrei.

Oltre al commissario di PS direttore e i tre agenti destinati, insieme a lui, a vigilare la vita all’interno del campo, dispose che:

Il comando della 98° legione […] invierà sul posto 20 militi con un ufficiale, muniti di almeno due mitragliatrici e due fucili mitragliatori ed un congruo numero di bombe per ciascun milite.

Con detta forza, che sarà scaglionata lungo il reticolato, provvederà alla vigilanza sia di notte che di giorno, perché gli internati per nessun motivo varchino il reticolato stesso od abbiano comunque comunicazioni con le persone esterne, che d’altra parte, non possono avvicinarsi ai detti reticolati.

E, come se ancora non bastasse, proseguivaL’Arma dei carabinieri provvederà a tenere permanentemente all’esterno dei reticolati una pattuglia che vigilerà che nessuna persona, ad eccezione di quelle autorizzate si avvicini a detto campo, coadiuvando la milizia per le eventuali evasioni di detti internati.

risiera0_800_800

Al contrario, per quanto riguarda altri campi non sono poche le testimonianze che ricordano una sorveglianza ridotta e non troppo rigida, che certo non avrebbe impedito la fuga degli internati qualora questi ne avessero avuto l’intenzione.

Il direttore e il proprietario dello stabile prescelto per diventare campo per ebrei firmavano un accordo di concessione e un contratto di affitto, mentre la prefettura iniziava le pratiche di requisizione della struttura presso le autorità competenti.

Al direttore spettava la gestione del campo e il suo funzionamento. Per far questo, si rivolgeva ad aziende e fornitori della zona, che avevano il compito ad esempio di procurare il vitto per gli internati, la legna per il riscaldamento invernale e alcuni materiali necessari per l’alloggio (coperte, lenzuola).

8lezioni

Si veda l’esempio di Aosta:

La direzione del campo di concentramento verrà assunta dal Commissario PS Cav. Dott. Alberto [poco leggibile], il quale è pregato di prendere fin d’ora contatto con il Commissario prefettizio del comune di Aosta per la pulizia e la disinfestazione dei locali, per la sistemazione del recinto metallico atto ad impedire evasioni dal campo di concentramento, per il collocamento delle stufe e relative tubazioni per il riscaldamento dei locali, per l’adattamento dei lavatoi, latrine, cucina, per lo impianto della luce elettrica e del telefono e per tutte le altre opere necessarie per il normale funzionamento del campo di concentramento, tenendo presente che l’allestimento è previsto per circa 50 ebrei.

Il funzionario verrà coadiuvato per la parte contabile e burocratica dall’applicato sig. D. C. M. il quale dovrà avere un proprio ufficio nell’ex caserma Mottino, provvisto di tavolo sedie e armadietto […] Il direttore del campo di concentramento provvederà perché siano allestiti i locali necessari per la permanenza nel campo dei militari […] scrittoio, armadietto e sedie per il sottoufficiale preposto al servizio di vigilanza.

Il Cav. Dott. […] prenderà accordi con il comando della Milizia forestale e con il Direttore del consorzio agrario di Aosta Cav. B. per la fornitura di combustibile per il riscaldamento.

Provvederà inoltre alla fornitura di tutte le brande, pagliericci, lenzuola coperte, stoviglie e gavette, utensili di cucina, necessari per i dormitori e per il funzionamento della cucina; nonché alla fornitura giornaliera dei generi di alimentazione […].

dalla-brianza-ai-lager-del-terzo-reich

Molto spesso, gli ebrei erano invitati a portare con loro quelli che nei documenti ufficiali venivano definiti gli “effetti letterecci”, ovvero lenzuola e pagliericci:  alla direzione del campo spettava al limite di rifornire materiale in più, come ad esempio delle ulteriori coperte durante l’inverno.

Dotata di un direttore, della sorveglianza e dell’attrezzatura necessaria, la struttura era pronta per accogliere gli ebrei arrestati nella zona. La questura poteva così comunicare ufficialmente l’apertura al capo provincia, trasmettendo una breve descrizione del luogo e il numero degli internati.

Da parte sua la prefettura doveva occuparsi delle pratiche burocratiche ed economiche, in particolare quelle relative alle spese sostenute e da sostenere, segnalate dal questore e dal direttore.

Era lo stesso capo provincia che aveva il compito tra l’altro di mettere a conoscenza delle autorità centrali le operazioni effettuate contro gli ebrei in quel territorio, specificando se si fosse aperto o no un campo provinciale.

Del resto, le pratiche economiche passavano tutte per gli uffici centrali del ministero: ad esempio quello responsabile dell’alimentazione si occupava del rimborso delle spese effettuate per garantire il vitto agli internati e agli agenti di sicurezza.

risiera_di_san_sabba_25-4-04

Per ottenere il pagamento delle spese sostenute per il funzionamento del campo, le autorità locali erano tenute a presentare un dettagliato rendiconto composto dalle fatture rilasciate dai fornitori della zona: falegnami, fabbri, alimentari ecc.

Spesso sono proprio le ricevute di pagamento gli unici documenti che permettono di avere notizie più particolareggiate su queste strutture, in mancanza di comunicazioni dettagliate inviate al ministero o di altro materiale presente nei fondi d’archivio.

È il caso di Vercelli: grazie allo scambio di telegrammi inviati tra capo provincia e ministero centrale è possibile risalire al meccanismo e alle competenze dei pagamenti per le spese sostenute.

A seguito delle disposizioni emanate da codesto ministero dal 24 dicembre scorso anno è stato istituito in questa città un campo di concentramento per ebrei della provincia.

Da tale data nel detto campo si trovano internati undici ebrei di ambo i sessi. Ciò premesso si prega compiacersi fare conoscere se le spese per l’attrezzatura del campo, l’affitto dei locali, il riscaldamento e la sussistenza siano a carico dell’amministrazione centrale, nonché quali siano le indennità da corrispondersi agli internati.

sansabba

E la risposta del ministero fu: «Si gradirà conoscere quali spese sono state sostenute e verranno erogate per l’attrezzatura dei locali, l’ammontare del fitto ed il riscaldamento. Tali spese sono a carico di questo Ministero e debbono gravare sul capitolo 119 bis del bilancio in corso».

Nelle successive comunicazioni, il capo provincia inviò agli uffici centrali i resoconti delle spese, dai quali si nota uno stretto rapporto tra le aziende locali e la vita del campo di concentramento.

Al comune di Vercelli spettava il pagamento del riscaldamento, mentre in moltissime altre pratiche venivano coinvolte le attività e le ditte del luogo: dalla riparazione di recinzioni e vetri alle provviste di lenzuola, stoviglie e tovaglioli; dalla pulizia dei locali e l’impianto dei sanitari all’imbiancamento delle stanze; fino ad arrivare a commissioni minime, come l’acquisto di «un filo da cucire» o di «un fanale di triciclo».

Anche a Forlì, i lavori di sistemazione delle stanze furono effettuati da aziende locali, come si evince da una fattura presentata dalla Cooperativa Lavoranti Falegnami di Forlì che richiedeva il pagamento per «la costruzione di un divisorio in legno nel corridoio dell’Albergo “Commercio” sito in Corso Diaz di questa città, adibito a campo di concentramento provvisorio degli ebrei di questa provincia».

lager_in_italia-_56279116e2e9d

In base alla documentazione consultata, si può certamente affermare che quella di rivolgersi alle attività commerciali della zona per attrezzare i campi e rifornire il vitto agli internati era una pratica seguita da tutte le autorità locali: questo rapporto tra società civile e campi fu un aspetto comune a ogni provincia in cui sorse questo genere di strutture.

Le spese di funzionamento dei campi gravavano quindi sulle casse dell’amministrazione periferica, ovvero di comuni e prefetture, che anticipavano il pagamento per poi essere rimborsate successivamente dagli uffici centrali del ministero, spesso solo dopo la chiusura del campo.

In molti casi, tuttavia, si riscontrarono ritardi nei pagamenti: sia il governo centrale che l’amministrazione locale, provati ormai dalla guerra, non avevano disponibilità economiche tali che permettessero un pagamento regolare delle ditte di rifornimento.

Molte questioni rimasero inevase a lungo, in alcuni casi fino alla fine della guerra, ma intanto la soluzione di far ricadere le spese preliminari non soltanto sulle casse statali ma anche sui privati aveva garantito l’apertura di un diffuso sistema di campi su tutto il territorio della RSI.

images-6

Nello stabilire un regolamento interno, il direttore si doveva attenere principalmente a quelle prescrizioni relative alle località d’internamento, alle quali abbiamo già accennato a proposito della scelta di un luogo idoneo dove istituire un campo.

Queste linee di condotta generali, inviate una prima volta dal ministero tramite circolare, l’8 e il 25 giugno 1940, vennero nuovamente trasmesse da capi provincia e questori ai direttori: sebbene la documentazione fin qui trovata non ci permette di affermarlo con certezza, presumibilmente queste prescrizioni furono seguite da tutti i responsabili dei nuovi campi provinciali.

Tali direttive servivano soprattutto a regolare la vita degli internati, perché ne definivano i diritti e i doveri: questi erano cioè tenuti a osservare alcune regole (come non allontanarsi, non portare con sé oggetti di valore, non parlare di politica, mantenere un comportamento adeguato), e allo stesso tempo avevano diritto a un’indennità giornaliera fissa, a visite mediche in caso di malattia, a comprare alimenti che integrassero la razione di cibo prevista (ma anche coperte o vestiti pesanti per l’inverno).

images-7

Le indicazioni ministeriali erano di carattere generale e indirizzavano le autorità locali nella gestione degli aspetti più quotidiani e pratici dell’organizzazione interna al campo, come l’orario dei pasti, il tipo di cibo somministrato, l’ora d’aria degli internati:

devono essere somministrati agli ebrei internati due pasti, uno alle ore 12 e uno alle ora 19, composti di una minestra di verdura o pasta, di una pagnotta o di un piatto di verdura.

Nel giorno di sabato sarà aggiunta una porzione di carne. Gli ebrei internati potranno a proprie spese rifornirsi di altri generi alimentari, di vino, di latte ecc.. limitatamente alle restrizioni annonarie in vigore.

Con apposita ordinanza verranno stabiliti gli obblighi cui dovranno ottemperare gli internati e le modalità del servizio di vigilanza per impedire specialmente evasioni dal campo.

Se i locali ne offrono la possibilità potranno essere assegnate stanzette separate per famiglie numerose, in ogni caso i dormitori degli uomini dovranno essere rigorosamente separati da quelli delle donne.

Alcune mansioni erano svolte dagli stessi internati, quali la preparazione dei pasti o la pulizia dei locali. Nel campo femminile di Monticelli Terme a Parma, le donne lì internate si occuparono anche della pulizia degli alloggi riservati ai militi e ai carabinieri italiani addetti alla sorveglianza: caso raro, forse conseguenza di una visione fortemente maschilista da parte delle autorità.

IMI-578x420

Gli ebrei internati di solito non erano destinati a lavorare. Le condizioni di vita erano generalmente sopportabili e il cibo era, nella maggior parte dei casi, sufficiente: raramente si ha notizia di soprusi e di violenze da parte delle guardie addette alla vigilanza.

Motivo di grande sofferenza era invece la privazione della libertà e l’incertezza sul proprio destino. Vi erano naturalmente casi nei quali invece la situazione degli ebrei era più disagiata: a Cuneo, ad esempio, la caserma di Borgo San Dalmazzo disponeva di locali poco adeguati a contenere persone per un lungo periodo.

Spesso quindi la qualità delle condizioni di vita dipendeva dall’inadeguatezza di strutture concepite per una permanenza temporanea, create in previsione di un rapido trasferimento nel campo di Fossoli.

Ma ancora più importante era la sensibilità dimostrata volta per volta dalle singole autorità responsabili dell’organizzazione del campo.

internati

Il funzionamento ordinario era caratterizzato dunque da una divisione dei ruoli e delle competenze: gli aspetti economici e burocratici che richiedevano un interessamento del ministero centrale erano curati normalmente dal capo provincia e dal questore; al direttore spettava il compito di mettere in pratica le indicazioni dei superiori e di seguire tutte le questioni di “ordinaria amministrazione”, quali la risoluzione di problemi materiali, come il riparare una recinzione o un bagno, e di situazioni eccezionali determinate dagli eventi, per le quali si rendeva necessario, a volte, condurre delle indagini interne (furti, evasioni, irregolarità varie):

Informo l’ecc. Vostra che il giorno 13 and, recatomi al campo di concentramento degli ebrei per provvedere al cambio della biancheria lettereccia ho constatato che la porta della camera adibita a magazzino e del quale io avevo la chiave era stata scassinata e la maniglia rotta.

Informato immediatamente il comando della milizia confinaria che possedeva la chiave della porta che immette nel camerone ove trovasi la camera adibita a deposito della biancheria, inviava sul posto un maresciallo.

Alla presenza di questi, del brigadiere dei carabinieri comandante il distaccamento della caserma Mottino e del V. brigadiere degli agenti di PS di servizio al campo stesso si procedette a un inventario degli oggetti depositati nella camera surricordata, si constatò la mancanza di 4 lenzuola e di 5 asciugamani.

Di quanto sopra informo la Ecc. Vostra a scanso di qualsiasi responsabilità da parte del sottoscritto.

Come si può notare, l’organizzazione di queste strutture fu esclusivamente nelle mani italiane e coinvolse non soltanto le autorità ministeriali, ma anche una parte della società civile del luogo, quali le ditte e le aziende locali alle quali fu domandata una collaborazione nella fornitura di numerosi materiali.

13 maggio 1945 - zona di Bolzano - V armata. Al centro internati di Bolzano, organizzato dal Comitato di Liberazione italiano, questo italiano legge per la prima volta dopo un anno un giornale libero, mentre attende di essere riportato a casa

13 maggio 1945 – zona di Bolzano – V armata. Al centro internati di Bolzano, organizzato dal Comitato di Liberazione italiano, questo italiano legge per la prima volta dopo un anno un giornale libero, mentre attende di essere riportato a casa

Si può senza dubbio allargare a tutte le esperienze della RSI l’osservazione fatta da Adriana Muncinelli a proposito di Borgo San Dalmazzo:

come l’iniziativa, così anche la conduzione di questa seconda fase del campo fu totalmente italiana. Essa non ebbe supporti tedeschi né nell’emanazione degli ordini d’arresto né nella loro esecuzione materiale, né nella sorveglianza dei detenuti.

Non ne ebbe neppure nella gestione del campo, demandata totalmente all’amministrazione della cittadina e coinvolgente numerosi artigiani, commercianti, fornitori di servizi vari.

Quello dei campi provinciali, come detto, fu un fenomeno circoscritto in un breve arco di tempo, dalla fine del 1943 alla prima metà del 1944. Al contrario, gli arresti, le confische e le deportazioni furono costanti durante tutti e due gli anni di vita della RSI e dell’occupazione tedesca dell’Italia centro-settentrionale, anche se toccarono il culmine nei primi mesi.

Fatta eccezione per le deportazioni, i cui convogli erano organizzati sempre sotto la direzione nazista, gli arresti e la razzia dei beni ebraici vedevano protagonisti diversi soggetti: italiani e tedeschi, organismi ufficiali e formazioni autonome.

Con l’ordinanza n. 5, il governo di Salò tentò in qualche modo di avocare a sé queste pratiche, senza tuttavia riuscirvi completamente.

95232_repubblica_salo_1_03

Nonostante l’esistenza di una misura amministrativa del ministero dell’Interno repubblicano, le forze di polizia germanica continuarono infatti a eseguire fermi di persone e confische arbitrarie; in più, le formazioni poliziesche autonome createsi localmente nel territorio della RSI procedevano spesso a razzie indiscriminate fuori dal controllo del governo centrale.

Come abbiamo visto, i campi provinciali rappresentarono invece un ambito di esclusiva competenza dell’amministrazione italiana: la loro apertura fu un’iniziativa presa dai capi provincia, dai questori e dai funzionari di polizia; e, soprattutto, l’organizzazione e il controllo di queste strutture furono sempre e solo nelle mani delle autorità del ministero dell’Interno.

Certo, la debolezza dello Stato di Salò permise alla polizia di sicurezza tedesca, in qualsiasi momento lo volesse, di impossessarsi con la forza dei campi e degli ebrei internati, e di decidere sulla sorte di questi ultimi. Nonostante ciò, quella che si può definire l’“ordinaria amministrazione” dei campi provinciali rimase una prerogativa italiana.

Il caso del campo istituito a Vò Vecchio, vicino Padova, che verrà illustrato in modo approfondito nella prossima puntata, costituisce un esempio significativo e rappresentativo di come le cose si svolsero localmente: in questa provincia l’amministrazione italiana si mosse in maniera autonoma nelle pratiche che portarono all’apertura e al funzionamento del campo, almeno fino all’estate del 1944, quando, nel mese di luglio, i tedeschi decisero di irrompere in questa struttura e prelevare con la forza gli ebrei lì rinchiusi.

TEDESCHI A SALO'

TEDESCHI A SALO’

D’altra parte però la vicenda di Padova va considerata anche un caso unico: il campo rimase in funzione per ben otto mesi, senza che il governo e l’autorità tedesca disponessero l’invio degli internati al campo di Fossoli di Carpi, come invece avvenuto in tutte le altre province della RSI.

Solo l’intervento delle SS, arrivato molto tardi rispetto agli altri campi, provocò il trasferimento degli ebrei alla Risiera di San Sabba a Trieste e, dopo pochi giorni, ai lager nazisti della Polonia.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento