“LAGER” PER EBREI IN ITALIA – 4

a cura di Cornelio Galas

Dopo lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia nel luglio 1943 e la caduta di Mussolini il 25 di quello stesso mese, gli ebrei presenti in Italia si illusero che la situazione all’interno del paese potesse cambiare. Tuttavia, ricevuto dal Re il compito di governare, il  maresciallo Pietro Badoglio comunicò alla popolazione italiana che la guerra continuava a fianco dell’Asse.

PIETRO BADOGLIO

PIETRO BADOGLIO

Nei successivi 45 giorni che precedettero la firma dell’armistizio, il governo si limitò a prendere poche iniziative a favore della popolazione ebraica e, soprattutto, non  abrogò la legislazione razziale del 1938: una soluzione che verrà presa solo nel gennaio 1944 nella zona meridionale della penisola liberata dalle forze alleate. Lo stesso Badoglio giustificò così, nelle sue memorie, una simile scelta:

Non era possibile in quel momento addivenire ad una palese abrogazione delle leggi razziali, senza porsi in violento urto coi tedeschi, o per meglio dire con Hitler, che di quelle leggi era stato non solo il propugnatore ma anche le aveva imposte a Mussolini il quale pochi mesi prima aveva dichiarato al Senato che il problema ebraico non esisteva in Italia.

Feci chiamare diversi esponenti ebrei e comunicai loro che pur non potendo per il momento procedere radicalmente all’abolizione delle leggi, queste sarebbero rimaste come inoperanti.

Dopo un mese e mezzo, l’8 settembre, l’Italia firmò l’armistizio con gli anglo-americani, rovesciando di fatto il sistema delle alleanze. Le autorità tedesche occuparono la penisola e vi estesero il progetto di «soluzione finale» della questione ebraica.

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Gli ebrei si ritrovarono così nella trappola dell’esercito e delle forze di polizia naziste, nonché delle autorità fasciste, rinate con l’appoggio del Reich sotto forma di un governo repubblicano comandato sempre da Benito Mussolini: la Repubblica Sociale Italiana.

Il nuovo Stato fascista, fortemente controllato dall’«alleato occupante», non solo confermò l’indirizzo antisemita intrapreso   dal cosiddetto “lungo” del 29 settembre, cui fece seguito il riconoscimento di status cobelligerante del governo Badoglio da parte degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e dell’Unione Sovietica, ma radicalizzò la sua politica di persecuzione della popolazione ebraica presente sul suo territorio.

La notizia della destituzione di Mussolini e del crollo del fascismo fu accolta favorevolmente dalla popolazione ebraica, convinta che il nuovo governo avrebbe preso subito delle iniziative intese ad abolire la legislazione razziale.

L’Allied Military Government, appena insediatosi nei territori meridionali della penisola, decretò immediatamente l’abrogazione di tutte le leggi che prevedevano una discriminazione secondo distinzioni di fede, di razza e di colore di pelle. Tuttavia, il governo Badoglio, come accennato, non si mosse in maniera altrettanto decisa.

Il primo atto in favore degli ebrei fu quello di arrestare Le Pera, il direttore della Demorazza, anche se questo ufficio non venne per il momento soppresso. La legislazione razziale, come detto, non fu abolita, ma furono abrogati soltanto alcuni provvedimenti amministrativi: ad esempio i senatori ebrei ebbero nuovamente pieni diritti; il ministero della Cultura popolare chiuse il suo Ufficio studi e propaganda sulla Razza; il ministero  dell’Interno abrogò le limitazioni previste dalla Pubblica sicurezza e dalla Demorazza nel concedere agli ebrei le autorizzazioni di polizia e i permessi per esercitare le attività commerciali.

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Infine furono prese iniziative per impedire nuovi espropri dei beni ebraici e la vendita di quelli trasferiti già nelle mani dell’EGELI, l’Ente creato nel 1939 per la gestione e la liquidazione dei beni e delle proprietà sequestrate agli ebrei in seguito alle leggi razziali; fu rilasciata inoltre l’autorizzazione agli studenti d’origine ebraica di riprendere l’attività scolastica nell’anno 1943-1944.

L’atteggiamento del governo rimase quindi su posizioni quanto mai “timide”, nonostante anche la stampa si fosse decisamente schierata contro le discriminazioni razziali, chiedendone l’abolizione. Tra luglio e settembre ci furono contatti tra le autorità governative e l’Unione delle Comunità israelitiche italiane per arrivare all’abrogazione della legislazione razziale, ma questi non portarono a risultati concreti.

Fallì anche il piano di trasferire nella zona già liberata dagli anglo-americani gli ebrei presenti nell’Italia settentrionale. A inizio agosto, il Congresso mondiale ebraico aveva sollecitato la Santa Sede a intervenire presso il governo italiano affinché fosse messa in atto questa soluzione, condivisa e appoggiata anche dai dirigenti dell’Unione delle comunità italiane.

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L’unica risposta governativa fu però quella inviata il 12 agosto al cardinal Maglione, della segreteria di Stato vaticana, nella quale si informava che erano state date assicurazioni alle persone interessate e che se ne facilitava lo spostamento  in  zone  meno  pericolose.

Allo  stesso  tempo,  il  governo  Badoglio  e, nello specifico, il ministero degli Esteri, si impegnò a non lasciare nelle mani dei tedeschi gli ebrei che si trovavano nei territori ancora sotto l’occupazione italiana Gli ebrei italiani in Francia furono autorizzati a rientrare in Italia e una simile ipotesi fu prospettata anche per quelli presenti in Grecia; gli stranieri, invece, per i quali rimaneva il divieto d’ingresso nel Regno, dovevano essere trasferiti nelle zone non soggette all’arretramento dell’esercito.

A proposito della Jugoslavia, ad esempio, nell’agosto 1943, il governo telegrafava al comando della II armata di «evitare di abbandonare gli ebrei croati o di affidarli alla mercé di stranieri» e di garantire la loro permanenza al campo di concentramento di Arbe (sotto giurisdizione italiana); invitava inoltre i militari italiani, dove possibile, a trasferire individualmente in Italia gli internati in quel campo.

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In Francia, le autorità italiane non consegnarono ai nazisti gli ebrei di nazionalità germanica, contravvenendo quindi a quanto deciso il 15 luglio dal capo della polizia Chierici16. Sempre in queste zone fu facilitato il trasferimento di tutti gli ebrei a Nizza, da dove sarebbe stato più facile l’ingresso «alla spicciolata» delle persone nel Regno: il ministero dell’Interno avrebbe infatti «chiuso un occhio» su questi clandestini passaggi di frontiera.

L’ebreo Angelo Donati, ex direttore della Banque Italo-Française de Crédit e ex presidente della camera di commercio italiana a Parigi rivestì in questo contesto un ruolo molto importante.

Come intermediario tra le associazioni ebraiche di Nizza e le autorità italiane mise a punto un piano, in accordo con inglesi e americani, per salvare gli ebrei rimasti e che non avrebbero potuto raggiungere l’Italia: 4 piroscafi avrebbero dovuto trasferirli via mare dal porto di Nizza verso le coste dell’Africa settentrionale, in territorio  anglo-americano, un’ iniziativa poi fallita a causa della lentezza e della complessità delle operazioni, nonché del sopraggiungere dell’8 settembre.

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Il 27 luglio il nuovo capo della polizia Carmine Senise dispose di scarcerare le persone arrestate per motivi politici e di liberare i confinati «responsabili attività antifascista in genere, offese capo Governo et cessato regime», a esclusione di comunisti e anarchici e coloro che erano stati messi al confino per spionaggio o motivi militari.

In questa prima ordinanza non vi era nessun riferimento agli ebrei internati o arrestati durante la guerra. Due giorni dopo,  un nuovo dispaccio telegrafico di Senise estendeva le misure di liberazione anche a coloro che si trovavano in campo di concentramento o in internamento libero nei comuni del Regno, compresi gli ebrei di nazionalità italiana:

Comunicasi che dovranno essere immediatamente liberati anche internati italiani sia campi concentramento sia comuni liberi cui confronti provvedimento è stato adottato per attività politica non ripetesi non riferentesi comunismo et anarchia aut spionaggio aut irredentismo et non ripetesi non trattisi allogeni Venezia Giulia et territori occupati (.)

Con analoghi criteri dovranno farsi cessare vincoli ammonizione confronti ammoniti politici (.) Dovranno inoltre essere liberati ebrei italiani internati aut confinati che oltre non avere svolto attività politica come sopra non abbiano commesso fatti speciali gravità (.) Questori competenti per giurisdizione sono pregati comunicare presente circolare et precedente Direttori Colonie Confino et Campi concentramento.

Carmine Senise

Carmine Senise

Nel corso di agosto altre circolari ordinarono la progressiva liberazione di anarchici e comunisti arrestati, confinati o internati,22  e ribadirono l’estensione delle misure anche agli ebrei italiani. Rimanevano però fuori dai provvedimenti le migliaia di ebrei stranieri

Del resto la decisione di continuare la guerra a fianco dei tedeschi portava inevitabilmente a non poter modificare quelle misure d’internamento decise con lo scoppio del conflitto. Solo il rovesciamento dell’alleanza  provocherà un decisivo cambiamento della situazione.

A fine agosto fu disposta la liberazione degli ebrei stranieri internati nel campo di Ferramonti di Tarsia. Saranno però motivazioni di carattere bellico a determinare l’ordine di sgombero del campo calabrese, vista la sua vicinanza al fronte di guerra. La decisione fu affrettata da un mitragliamento di aerei alleati il 27 agosto che causò la morte di 4 internati e il ferimento di 11:

Data attuale situazione è necessario sgombrare subito campo concentramento Ferramonti punto Pregasi pertanto disporre che internati ebrei apolidi già italiani siano liberati et rimpatriati punto Nuclei familiari ebrei stranieri che hanno possibilità sistemarsi altrove per proprio conto, ad eccezione casi speciali, dovranno essere liberati  et avviati località prescelte segnalandoli questure competenti per opportuna vigilanza punto.

I nuclei familiari composti da ebrei non soggetti alla liberazione sarebbero stati trasferiti al campo di concentramento di Fraschette di Alatri, vicino Frosinone (ancora lontano dal fronte di guerra e per questo da non chiudere), insieme alle altre famiglie di stranieri non ebrei.

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Le donne «isolate» ebree straniere, salvo casi speciali, dovevano essere liberate solo se avessero avuto un posto dove sistemarsi, mentre per le straniere ariane era previsto l’invio sempre al campo  di  Alatri.

«Internati  italiani  ebrei  aut  ariani,  ottemperanza  istruzioni  impartite, dovranno essere liberati ad eccezione pericolosi aut sospetti attività nostri danni che dovranno essere accompagnati campo concentramento Farfa Sabina (Rieti)».

È importante sottolineare che, sempre secondo la disposizione, gli internati stranieri jugoslavi dovevano essere trasferiti al campo in Sabina, mentre coloro che appartenevano a nazionalità inglese, francese o russa erano destinati al campo di Montechiarugolo a Parma; i cinesi, invece, in un campo in provincia di Chieti.

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Stando al contenuto di questa circolare, dunque, risulta che la maggior parte degli ebrei veniva liberata (anche se rimaneva sotto vigilanza), mentre gli stranieri ariani appartenenti a nazioni nemiche in guerra con l’Italia erano spostati da un campo all’altro.

Il 5 settembre, a seguito del precedente dispaccio, il capo della polizia comunicava al prefetto di Cosenza la conferma della liberazione o del trasferimento delle persone internate a Ferramonti; lo stesso giorno il direttore del campo procedeva all’apertura dei cancelli.

Dopo la caduta del fascismo, dunque, il governo italiano non abrogò le leggi razziali, ma si limitò a tiepide iniziative e, secondo quanto affermato dal maresciallo Badoglio, a dare assicurazioni agli ebrei che la normativa del ’38 non sarebbe stata applicata.

L’occasione mancata in quei 45 giorni creò in realtà il presupposto per quelli che furono gli “effetti perversi” della legislazione, quale l’aggiornamento delle liste e delle registrazioni  anagrafiche, allora non distrutte o fatte sparire.

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La presenza degli elenchi degli ebrei negli uffici comunali o nelle questure si dimostrerà un elemento essenziale per le successive persecuzioni perpetrate da nazisti e “repubblichini”, che utilizzarono questi documenti per colpire anche tutti gli ebrei italiani recensiti, non arrestati né internati negli anni precedenti.

Questa inazione, inoltre, per certi versi «contribuì a rinsaldare l’impreparazione con cui gli ebrei italiani affrontarono i tragici eventi successivi all’8 settembre». Come detto, iniziative più risolutive furono prese solo dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre.

In base agli accordi contenuti al suo interno, infatti, il 10 settembre Senise ordinò la scarcerazione e la liberazione degli ebrei stranieri dai campi di concentramento e dalle località di internamento, disponendo nei loro confronti una “generica” vigilanza:

In dipendenza conclusione armistizio, pregasi disporre che gli internati sudditi nemici siano liberati. Internati suddetti che non abbiano possibilità sistemazione per proprio conto, possono essere lasciati campi o comuni di residenza, continuando corresponsione loro favore sussidio giornaliero. In tal caso nei confronti internati nei comuni dovranno essere revocate misure restrittive libertà mantenendo loro riguardi generica vigilanza.

È interessante notare in questa circolare il ruolo attribuito ai campi di concentramento, intesi non soltanto come un luogo dove scontare una misura di polizia, ma anche come uno spazio dove rimanere in caso di difficoltà.

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Se si pensa infatti alla “precarietà” degli internati stranieri, spesso senza nessun contatto con la popolazione locale o privi di una casa dove andare in una nazione a loro estranea (contrariamente, è ovvio, agli italiani), il campo di concentramento rappresentava per molti la garanzia di un vitto, di un letto, di un alloggio e di un sussidio giornaliero: insomma, paradossalmente, di una certa “sicurezza di vita”, per di più assicurata qui da una disposizione ministeriale del capo della polizia.

Nella sua testimonianza, il dr. Pollack, medico austriaco profugo in Italia, racconta ad esempio che quando il direttore del campo di Urbisaglia aprì le porte per far fuggire i prigionieri, «gli internati, senza documenti, senza soldi, senza sapere dove andare, senza lingua italiana se ne andarono in pochissimi. Tornati quasi tutti dentro, dopo circa due settimane di paura», il 30 settembre furono prelevati dai tedeschi.

Del resto, una visione “all’acqua di rose” del campo di concentramento di Urbisaglia, e in generale della quotidianità dell’internamento fascista nella vita degli ebrei, la ritroviamo anche all’interno del celebre romanzo di Giorgio  Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, nel quale il gruppo di ragazzi che ruota intorno alla ricca famiglia ferrarese ironizza sull’invio punitivo in questo campo da parte delle autorità di regime. Osserva Liliana Picciotto Fargion:

Non va inoltre dimenticato che l’unico esempio esplicito di antisemitismo, oltre al quale nessuno pensava si potesse andare, era l’antisemitismo fascista, il quale, nonostante le sue leggi vessatorie e vergognosamente discriminatorie, non si era mai tradotto in atti di crudeltà fisica generalizzata.

All’orientamento per così dire moderato del fascismo, riassunto nella formula secondo cui discriminare non voleva dire perseguitare, si deve anche aggiungere che la presenza del Vaticano in Italia rappresentava per molti una garanzia del rispetto della vita stessa delle persone.

La liberazione degli internati disposta da Senise non riuscì in realtà ad essere applicata in modo uniforme nella penisola. In molti casi, infatti, si registrarono ritardi nella ricezione della circolare , dovuti ai problemi di comunicazione tra ministero e autorità periferiche in quel convulso periodo di guerra.

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Il 13 settembre, inoltre, lo stesso Senise – che dieci giorni dopo, con la nascita della RSI, sarebbe stato destituito e deportato in Germania – inaspriva nuovamente le misure ordinando l’arresto dei «comunisti più accesi, specialmente quelli recentemente liberati, gli elementi turbolenti in genere, compresi gli ebrei pericolosi per l’ordine pubblico».

Colti quasi di sorpresa, sebbene sospettassero da tempo l’esistenza di intrighi interni al fascismo, i tedeschi non si erano fidati delle assicurazioni di Badoglio riguardo la condotta  di guerra dell’Italia fatte l’indomani del 25 luglio.

Facendo il punto sulla situazione, Hitler sosteneva che la dichiarata alleanza con l’Asse da parte di Badoglio era «una mascherata» per guadagnare qualche giorno di tempo in attesa di stabilizzare e consolidare la nuova situazione.

E aggiungeva: «a eccezione degli ebrei e dei loro compari che provocano i disordini di Roma, dietro al nuovo regime non c’è nessuno, questo è evidente».

Quando Badoglio firmò l’armistizio, infatti, l’occupazione del territorio italiano era già stata decisa dal Reich: doveva soltanto essere messa in atto. Fin dalla primavera del 1943 i vertici nazisti avevano prospettato di subentrare alle autorità fasciste nel caso in cui fosse caduto il regime.

Nel maggio del 1943 il Comando supremo tedesco aveva stabilito un piano per assicurarsi il controllo dei Balcani nell’eventualità di un collasso dell’esercito italiano e, subito dopo, cominciò la preparazione del cosiddetto “piano Alarich”, consistente in un intervento diretto nella penisola.

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Dopo l’annuncio dell’armistizio, come già stabilito, in Jugoslavia, nell’Egeo, in Francia meridionale e in Italia l’esercito tedesco disarmò le truppe italiane, disorientate dagli ordini ambigui provenienti da Roma.

Queste operazioni avvennero in maniera violenta, soprattutto là dove i militari italiani si rifiutarono di deporre le armi: si pensi ad esempio al caso di Cefalonia, dove furono fucilati dai nazisti migliaia di soldati che si opposero alla resa.

Nei  mesi  successivi,  centinaia  di  migliaia  di  soldati  italiani  furono presi dalla Wehrmacht e deportati nei campi di concentramento in Germania, impiegati spesso come manodopera al servizio dell’economia di guerra tedesca.

Lo sbarco degli anglo-americani a Salerno, il 9 settembre, accelerò le operazioni di occupazione. A nord, il gruppo di armate B dell’esercito tedesco procedette all’occupazione del territorio, impossessandosi delle maggiori città dell’Alta Italia.

Nella zona centro- meridionale, invece, la Wehrmacht (gruppo di armate C) dovette vedersela con l’avanzata anglo-americana e l’insurrezione della città di Napoli: la ritirata tedesca si assestò ai primi di ottobre sulla linea di Cassino, dove resistette fino al maggio del 1944.

Solo nell’estate di quell’anno, infatti, con il crollo di questa linea difensiva, l’avanzata alleata liberò la parte centrale dell’Italia fermandosi, però, in autunno, sull’Appennino nei pressi di Bologna, dove  si assesterà fino alla primavera del 1945.

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In questo modo, nei venti mesi successivi all’8 settembre, i tedeschi si assicurarono il controllo della parte centro-settentrionale del paese, importante non solo da un punto di vista strategico-militare, ma anche per la possibilità di sfruttarne le risorse economiche e la disponibilità di manodopera.

A partire da settembre 1943 iniziò dunque quello che può essere definito un vero e proprio «regime d’occupazione» dell’Italia da parte delle forze del Reich, sottoposta alle leggi di guerra tedesche.

La struttura di controllo del territorio occupato dipendeva da tre autorità: quella militare, sotto il generale plenipotenziario del Reich, comandante militare territoriale, generale Rudolf Toussaint; quella politica, rappresentata da Rudolf Rahn, nominato plenipotenziario del Reich presso il governo di Salò; e, infine, quella di polizia, impersonata dal “comandante delle SS e della polizia in Italia” Karl Wolff, alle dipendenze di Himmler e consigliere speciale del governo fascista.

Il territorio occupato venne inoltre diviso in zone di operazione vicine al fronte e alle coste, mentre a nord-est furono create dall’autorità tedesca due zone sotto il controllo di amministrazioni civili, comandate cioè da Alti commissari (Gauleiter) dipendenti direttamente dalle strutture centrali del Reich: la zona d’operazione Litorale Adriatico (Adriatische Küstenland), che comprendeva le regioni al confine italiano orientale, incluse quelle annesse dopo l’invasione della Jugoslavia; la Zona delle Prealpi (Alpenvorland), ovvero le province di Trento, Bolzano e Belluno.

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Nel resto della penisola, l’amministrazione militare di Toussaint si articolava in 19 comandi territoriali, denominati Militärkommandaturen. Caso a parte era quello di Roma: data la sua importanza strategica, la capitale d’Italia, nonché sede del Vaticano era dichiarata «città aperta» (23 settembre 1943) e presidiata da un comando esterno alle dirette dipendenze del comandante del gruppo d’armata C Kesserling.

A conferma che uno degli obiettivi principali fosse quello di sfruttare nel miglior modo possibile le potenzialità economiche dell’Italia occupata, a capo dell’Amministrazione militare fu posto il segretario di stato all’Economia del Reich, Landfried.

Questa nomina agevolò l’azione diretta degli uffici preposti allo sfruttamento dell’economia e alla razzia di manodopera dipendenti dal ministero degli Armamenti e della produzione bellica (facenti capo a Speer) e di quelli che facevano riferimento al Gauleiter Sauckel, responsabile della ricerca di lavoratori per l’economia di guerra tedesca in tutta Europa.

Questa organizzazione del territorio rimase sostanzialmente invariata fino alla fine della guerra, anche se nell’estate del 1944 si verificò un accentramento dei poteri  nell’apparato di polizia delle SS, quando il ruolo di generale plenipotenziario passò al capo delle forze SS Karl Wolff, concentrando così in un’unica figura l’autorità militare e di polizia.

L’infiltrazione e la penetrazione in Italia, durante quei primi mesi, di organizzazioni e uffici nazionalsocialisti portarono, infatti, a un progressivo svuotamento del ruolo dell’Amministrazione militare della Wehrmacht.

KARL WOLFF

KARL WOLFF

Questa evoluzione era d’altronde in linea  con la dinamica dei rapporti tra i vari organi di occupazione tedeschi, tipica anche negli altri paesi europei: era caratterizzata cioè da una costante lotta tra i diversi poteri nazisti e dalla presenza di uffici in competizione fra loro, che godevano ognuno di una «rilevante libertà d’azione» e di interpretazione degli ordini impartiti dall’alto.

In Italia, il braccio di ferro per accaparrarsi il dominio della penisola tra l’autorità politica e quella militare dell’esercito si risolse in una soluzione doppia: una vera e propria occupazione militare e, allo stesso tempo, un controllo politico del territorio da attuarsi attraverso un’alleanza politico-ideologica con un rinato governo fascista al quale affidare, in parte, l’amministrazione civile del paese.

Già nella notte tra l’8 e il 9 settembre, la radio tedesca aveva annunciato la formazione di un nuovo governo fascista, che si stava ricostituendo in Germania intorno ad alcuni gerarchi fuggiti a Monaco dopo il 25 luglio: Farinacci, Preziosi, Pavolini, Ricci e Vittorio Mussolini.

VITTORIO MUSSOLINI

VITTORIO MUSSOLINI

Il 12 settembre, la liberazione da parte di un gruppo di paracadutisti tedeschi di Benito Mussolini, imprigionato dal governo Badoglio a Campo Imperatore sul Gran Sasso, rispondeva alla volontà dello stesso Hitler di rimettere proprio il duce a capo del nuovo governo fascista:

l’esigenza di sostenere Mussolini non era un fatto di natura soltanto sentimentale […] era viceversa per lui [Hitler] un’esigenza politica mostrare ancora al nemico un’alleanza valida fondata su un binomio che, per quanto apparente potesse essere la cogestione di Mussolini agli affari dell’Asse, era pur sempre prestigioso e ricco di suggestione.

Di fronte ai piccoli dittatori del calibro di un Antonescu o di un Horty, che vacillavano e nei confronti dei quali il Reich incominciava a nutrire sfiducia, Mussolini era l’unico grande alleato cui Hitler potesse fare appello per vantare la solidarietà del fascismo internazionale.

Agli occhi del Führer il duce impersonava la continuità del fascismo, la garanzia, cioè, che fosse ancora in vita quell’«onda lunga» nata nel 1919 e proseguita per più di vent’anni.

Le ragioni politiche di tenere in piedi uno stato fascista andavano tuttavia di pari passo con quelle di ordine pratico, legate alla necessità di un’amministrazione italiana locale che collaborasse con gli organi di occupazione tedeschi nella gestione del territorio. E questo soprattutto per quanto riguardava il mantenimento dell’ordine pubblico, dal momento che i nazisti non disponevano di un numero sufficiente di forze da impiegare in quell’ambito.

Nonostante l’opposizione dei comandi della Wehrmacht, favorevoli a una pura e semplice occupazione diretta dell’Italia, vinse alla fine la strategia sostenuta da Hitler, dal ministero degli Esteri e dalle SS: il 15 settembre 1943 la radio tedesca annunciava la rinascita del fascismo con a capo Mussolini, giunto ormai in Germania. Alessandro Pavolini sarebbe stato il Segretario del Partito repubblicano fascista, le cui organizzazioni avrebbero appoggiato i tedeschi, dato assistenza al popolo e riesaminato la posizione dei loro membri in base al “tradimento” di luglio.

PAVOLINI

PAVOLINI

Le autorità militari, politiche, amministrative e scolastiche avrebbero ripreso le regolari funzioni; era proclamata la ricostituzione della milizia fascista, comandata dall’ex presidente dell’Opera nazionale Balilla Renato Ricci.

Infine, per ordine di Mussolini, gli ufficiali delle forze armate erano sciolti dal giuramento prestato al re66. Il nuovo governo capeggiato da Mussolini si riunì, per la prima volta, il 27 settembre, alla Rocca delle Caminate nella residenza del duce a Forlì. Scartata l’ipotesi di insediare il governo a Roma per l’opposizione dei tedeschi, gli apparati del nuovo Stato si stabilirono infine nella zona tra il Lago di Garda e Milano.

Quel regime che sembrava essere crollato come un “castello di carte” nella notte del 25 luglio ritornava ora in vita grazie soprattutto alla presenza di personalità fedeli al capo del fascismo, in grado di far sopravvivere, anche nella nuova avventura statale, quelle istituzioni e quelle organizzazioni nate già nel Ventennio.

A cominciare dal partito, ribattezzato Partito fascista repubblicano (PFR), guidato dal fiorentino Pavolini, che raccoglieva nomi del vecchio fascismo e figure nuove, uniti dalla volontà di battersi a fianco dei tedeschi e di combattere i “traditori” di luglio.

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La Repubblica sociale italiana dovette fin dall’inizio fare i conti con una limitata autonomia d’azione, conseguenza del controllo che l’alleato nazista aveva in quasi tutti i settori della vita economica, politica e militare.

Questo valeva, in primo luogo, per la ricostituzione delle forze armate e di polizia. Nel mese di dicembre 1943 la ex Milizia (MVSN) veniva trasformata  in  Guardia  nazionale  repubblicana  (GNR),  comandata  da  Ricci,  nella   quale confluirono i carabinieri e la polizia dell’Africa italiana, con il principale compito di reprimere il movimento partigiano e effettuare operazioni di ordine pubblico – sempre sotto la supervisione delle autorità tedesche.

Accanto a questo organo operavano non soltanto gli uomini della polizia di Stato, dipendente dal ministero dell’Interno, ma anche altre formazioni di polizia autonome parallele, autorizzate e non dal governo, frutto di iniziative di singole figure o fascisti locali: la Legione autonoma Ettore Muti, la X Mas di Junio Valerio Borghese, o alcune violente “bande” – Koch, Pollatrini, Collotti – presenti in città come Milano, Trieste.  Si  formò  inoltre  un  gruppo  di  SS  italiane  di circa  ventimila  volontari  italiani, costituitosi sul modello tedesco.

Junio Valerio Borghese

Junio Valerio Borghese

Nell’estate del 1944, infine, nacquero le Brigate Nere, corpo armato del partito. Poco successo ebbe il tentativo di ricostituire un esercito nazionale sotto la guida di Rodolfo Graziani, sia per l’opposizione delle autorità tedesche, non intenzionate a rafforzare militarmente il nuovo stato fascista, sia perché la chiamata alle armi disposta da Salò non solo portò risultati poco significativi, ma provocò la fuga di molti  giovani renitenti nelle file della Resistenza.

Oltre a quello militare e poliziesco, un settore nel quale il nuovo Stato provò a giocarsi le carte dell’autonomia fu quello socio-economico. Presentata ufficialmente in occasione della prima assemblea del partito a Verona nel  novembre 1943, la “socializzazione” dell’industria fu un obiettivo centrale del governo, sotto la spinta del ministero dell’Economia corporativa presieduto da Angelo Tarchi.

Senza entrare troppo nel dettaglio, anche in questo caso il governo repubblicano si trovò di fronte l’avversione delle autorità tedesche, contrarie a una riorganizzazione dell’economia italiana, cui si aggiunse, all’interno, l’opposizione dei grandi industriali italiani.

Fin dai primi giorni, dunque, la Repubblica sociale italiana risultò essere uno Stato strettamente controllato dagli alleati tedeschi, senza il consenso dei quali non poteva muoversi.

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Il nuovo governo italiano era ora nelle province settentrionali un fatto politico, ma era senza capitale, senza esercito, senza amministrazione, minacciato a Sud dall’invasione nemica, accampato tra le armate di un alleato potente ma scettico, i cui organi, civili e militari, occupavano in realtà il territorio del nuovo Stato, emettendo moneta propria, requisendo fabbriche e installazioni, e dando ordini alle autorità civili italiane ancora esistenti.

La repubblica era nata infatti da una decisione politica dei vertici nazisti, che ne avevano prospettato la creazione per una migliore gestione di un territorio in realtà già militarmente sotto il loro controllo. Da qui, quella paradossale situazione di “alleato occupato” in cui si venne a trovare lo Stato di Salò: realtà politica esistente ma dipendente in tutto e per tutto dal suo principale sostenitore e alleato.

Sebbene fosse subordinata all’autorità tedesca, la Repubblica di Salò era tuttavia, come detto, una realtà politica che possedeva un governo, dei ministeri e una propria amministrazione. Fu quindi da un punto di vista amministrativo e nella gestione locale del territorio che la nuova entità statale poté continuare a trovare spazi di autonomia nonostante la presenza tedesca.

Buffet organizzato in occasione del rientro dei reduci dalla Grecia a Salò: Mazzolini è il primo da destra

Buffet organizzato in occasione del rientro dei reduci dalla Grecia a Salò: Mazzolini è il primo da destra

Molte strutture e istituzioni che avevano operato nel Ventennio continuarono a esistere anche dopo la caduta del fascismo: la legittimità della RSI passava anche per la stabilità del suo apparato amministrativo, che acquisiva ancor più forza proprio dal fatto di essere in continuità con il recente passato fascista.

In questo contesto,  come  detto,  la  figura  di  Mussolini  quale  capo  del  nuovo  governo  rappresentò «l’ancoraggio per eccellenza della RSI al passato» e le sue scelte costituirono un «magnete»  in grado di attirare intorno a lui la fedeltà di numerose persone.

Secondo quanto stabilito dalle decisioni prese a Berlino a settembre, le autorità tedesche trasferirono nella penisola le forze di polizia e delle SS, poste agli ordini dell’Obergruppenführer SS Karl Wolff.

Questi era stato nominato consigliere speciale di Polizia del capo del governo di Salò e si doveva quindi occupare del coordinamento con le autorità italiane, prendendo accordi con i comandanti delle forze di polizia fasciste.

Secondo lo schema previsto dalla Direzione generale per la sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt, RSHA)84 e della Direzione generale della Polizia (Hauptamtordnungspolizei) si stabilirono in Italia:

  • «la polizia di sicurezza e del servizio di sicurezza» (Befehlshaber der Sicherheitspolizei, BdS), comandata da Harster, composta da sezioni e presidi distaccati (Aussenkommandos – AK; Aussenposten – AP);
  • «la polizia d’ordine» (Befehlshaber der Ordnungspolizei, BdO), comandata da von Kamptz.86

Pur essendo la più alta carica di polizia in Italia, Wolff tuttavia non poteva interferire nell’attività di quegli uffici dipendenti direttamente dai comandi centrali di Berlino, come ad esempio quelli delle forze della polizia e del servizio di sicurezza comandati da Hartser, comandante locale della Direzione generale per la sicurezza del Reich (RSHA), organizzata in Italia secondo il modello centrale: la polizia criminale (Gestapo) e quella con compiti di spionaggio (SD).

Roma-settembre-1943

Questo ufficio, stabilitosi a Verona, aveva il compito di arrestare le persone per motivi di sicurezza, rinchiuderle nelle prigioni o nei campi di concentramento e, successivamente, poteva disporre la loro deportazione nei lager del Reich.

Si trattava di partigiani, antifascisti, oppositori politici, sospetti appartenenti a bande, militari renitenti alla leva o componenti delle loro famiglie.

Osserva Lutz Klinkhammer: esagerando un poco, si potrebbe dire che il comandante della polizia e del servizio di sicurezza Harster in molte faccende, soprattutto nelle “faccende quotidiane” di polizia, ebbe più importanza del comandante supremo delle SS e della polizia Wolff, che formalmente occupava una carica gerarchicamente superiore.

Tuttavia quest’ultimo ebbe un’importanza da non sottovalutare nel definire gli obiettivi della politica di occupazione e la scelta dei metodi per dominare la popolazione italiana.

All’interno dell’Ufficio della Polizia di sicurezza che, come detto, rispondeva direttamente ai vertici della RSHA a Berlino, cominciò a operare anche in Italia, durante il mese di settembre, la sezione IV B 4, dipendente da Eichmann, l’ufficio responsabile della «soluzione finale» della questione ebraica.

Azioni antiebraiche erano state eseguite dalle autorità tedesche fin da subito nei confronti delle persone che si trovavano nei territori d’occupazione un tempo sotto giurisdizione italiana: in Jugoslavia, in Grecia e in Francia.

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Come abbiamo visto, durante i 45 giorni di governo Badoglio l’atteggiamento delle autorità italiane aveva garantito una certa protezione per la popolazione ebraica. Dopo l’8 settembre, invece, la situazione mutò improvvisamente a causa del disfacimento e della ritirata dell’esercito italiano.

In Jugoslavia, gli ebrei allontanatisi dai luoghi di concentramento abbandonati dagli italiani dovettero  trovare da soli un modo per sfuggire alle retate naziste. In Grecia, dove le truppe dell’esercito regio erano state violentemente disarmate e deportate in Germania, la popolazione ebraica cadde nelle mani dei tedeschi e finì, nell’estate del ’44, nei campi di sterminio dell’Europa orientale.

Per sfuggire alle retate naziste, gli ebrei che si trovavano nella Francia  Meridionale si unirono alla IV armata italiana in ritirata dal territorio francese. Alcune centinaia di ebrei, come ad esempio quelli internati nella cittadina di St. Martin Vésubie, passarono il confine al seguito dei soldati italiani, riuscendo a raggiungere i comuni della provincia di Cuneo il 15 settembre 1943, in una zona però già presidiata dal comando militare tedesco.

Il 18 settembre, il capitano locale delle SS Müller fece affiggere dei manifesti nei paesi delle vallate circostanti, nei quali ordinava a tutti i cittadini stranieri che si trovavano nel territorio di presentarsi alla caserma del comune di Borgo San Dalmazzo, sede del comando Germanico delle SS.

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Sebbene nella versione definitiva del testo non figurasse la parola ebrei, sembra che Müller intendesse proprio questi utilizzando il termine «stranieri».

Circa 350 ebrei, la maggior parte dei quali si consegnò spontaneamente ai tedeschi, furono rinchiusi il giorno dopo nel campo di concentramento di Borgo San Dalmazzo, approntato negli edifici di una ex caserma alpina.

A questi se ne aggiunsero un’altra cinquantina, finiti nelle retate di ottobre effettuate dai tedeschi sempre nella provincia. Il 21 novembre 1943, furono deportate ad Auschwitz 349 persone, passando per Nizza e per il campo di concentramento di Drancy, vicino a Parigi.

La scelta di non includere nella lista dei deportati anche gli ebrei rastrellati successivamente in territorio italiano va probabilmente ricondotta ai criteri organizzativi delle autorità naziste. Gli ebrei fuggiti dalla Francia dovevano essere trattati secondo il meccanismo pensato per quel paese, mentre quelli catturati in Italia dipendevano dalle autorità che operavano nella penisola.

Secondo Liliana Picciotto Fargion, durante le prime settimane di occupazione le operazioni tedesche contro gli ebrei non rispondevano a criteri riconducibili a un sistematico programma di «soluzione finale» in Italia.

Prima della razzia del 16 ottobre 1943 al ghetto di Roma le azioni antiebraiche furono condotte cioè non secondo i piani programmati dalla Polizia di sicurezza, ma «sono da attribuire a contingenze belliche e ai comandi della Wehrmacht,   quei comandi che per primi si misurarono nell’Italia occupata con problemi di sicurezza».

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I primi ebrei colpiti furono quelli sospettati di poter agire contro l’esercito tedesco e per questo trasferiti altrove. L’eccidio sul lago Maggiore di 54 ebrei sfollati negli alberghi e nelle case della zona (15-23 settembre 1943), il citato episodio degli ebrei provenienti dalla Francia e finiti a Borgo San Dalmazzo (18 settembre) e il rastrellamento di 24 ebrei di Cuneo il 28 settembre, furono  pera degli uomini della divisione Adolf Hitler – LSSAH (Leibstandarte Adolf Hitler), già operativa sul fronte russo a fianco alle famigerate Einsatzgruppen, le formazioni responsabili delle stragi di ebrei in quelle zone.

Tuttavia, il compito di queste unità altamente specializzate, che si muovevano a fianco dell’esercito tedesco, non era in realtà quello  di svolgere  azioni  antiebraiche,  ma  di  occupare  le  principali  città, combattere   e disarmare  le  truppe  italiane,  nonché  impossessarsi degli  impianti  militari.

Nelle  stesse settimane, la richiesta dei comandi militari germanici alle autorità locali italiane di farsi consegnare le liste degli ebrei residenti o presenti nelle province, così come gli arresti di settembre/ottobre nelle Marche, furono dunque, sempre secondo la Picciotto Fargion, non il frutto di iniziative razziali della Polizia di Sicurezza e delle SS, ma piuttosto disposizioni di carattere militare riguardanti zone d’operazione vicine al fronte di guerra.

Molto spesso – è  il caso della strage di Meina e degli altri eccidi sul Lago Maggiore del 14-15 settembre 1943 (a Baveno, Arona, Stresa) – la decisione di uccidere gli ebrei partiva quindi dall’iniziativa di singoli comandi locali, come quelli della divisione Adolf Hitler, passata per i meccanismi della guerra ideologica nazionalsocialista praticata nell’Europa orientale.

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In questo contesto, l’operazione al ghetto di Roma del 16 ottobre rappresentò un momento di svolta per vari motivi. Innanzitutto fu la prima azione condotta secondo un piano deciso dall’alto con fini prettamente razziali e affidata, per questo motivo, alla polizia di sicurezza germanica, specializzata nella persecuzione.

I vertici nazisti avevano esteso anche alla  penisola e agli ebrei di nazionalità italiana il programma di deportazione e sterminio attuato già nel resto d’Europa, secondo quanto stabilito dalla circolare inviata dalla RSHA, il 23 settembre 1943, ai suoi corrispondenti all’estero: redatta «su speciale carta bianca listata in nero e che portava l’indicazione di Geheime Reichssache – affare segreto del Reich», disponeva l’arresto per il 1° ottobre di tutti gli ebrei che si trovavano nelle zone controllate dai tedeschi, senza nessun riguardo alla nazionalità, e il loro invio in Germania «per liquidazione».

Di conseguenza, cadevano del tutto gli accordi precedenti riguardanti gli ebrei italiani. Fin dalla metà di settembre, il capo della polizia di Sicurezza di Roma,  Herbert Kappler, aveva ricevuto direttamente da Himmler l’ordine di procedere a Roma in maniera fulminea e segreta per evitare una reazione e una protesta da parte della Chiesa.

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Il rastrellamento di Roma, durante il quale furono arrestati nel ghetto circa 1.250 ebrei, è un episodio noto. Ripercorrere brevemente la vicenda è però interessante per cogliere la dinamica interna alle autorità tedesche: queste infatti si divisero sulle modalità di attuazione dell’ordine proveniente da Berlino e inviato a Kappler, che prevedeva l’arresto e la deportazione a Mauthausen di 8.000 ebrei della capitale.

Qualche dubbio fu espresso fin da subito dal consigliere d’ambasciata Moellhausen (rappresentante del plenipotenziario Rahn), favorevole piuttosto a un loro impiego in lavori di guerra, come già fatto in Tunisia.

Secondo il racconto proprio di quest’ultimo, per eludere il piano della RSHA – che prevedeva esplicitamente la «liquidazione» degli ebrei romani nei campi di sterminio nazisti – Moellhausen provò a coinvolgere l’autorità militare, ovvero Kesserling il quale, se si fosse pronunciato contro la disposizione, avrebbe potuto creare un buon motivo per non eseguirla.

Nella vicenda finirono coinvolte quindi le tre autorità d’occupazione presenti in Italia: le forze di polizia di sicurezza, dalle quali partiva in realtà l’iniziativa, da compiere rapidamente e soprattutto in segreto; il ministero degli Esteri e il plenipotenziario Rahn, non interpellati in maniera diretta nell’occasione (e probabilmente risentiti per questo); il comandante generale dell’esercito, contattato dal consigliere Moellhausen.

MUSSOLINI CON RAHN

MUSSOLINI CON RAHN

La questione fu infine risolta a Berlino a favore dell’autorità di polizia e delle SS:105 i primi giorni di ottobre, Eichmann inviò a Roma un suo fiduciario, Theodor Dannecker, accompagnato da una decina di uomini a sua disposizione, per eseguire operazioni contro gli ebrei nelle comunità delle principali città italiane.

Dannecker organizzò in pochissimo tempo il rastrellamento di Roma, condotto casa per casa da 365 uomini appartenenti alla polizia di sicurezza e alla polizia d’ordine tedesca, aiutati anche da italiani. Moellhausen, che aveva interessato della questione il ministero degli Esteri, ricevette un severo ammonimento:

Il signor Ministro degli Affari esteri la invita insistentemente a mantenersi all’infuori di tutte le questioni riguardanti gli ebrei. Queste questioni, secondo un accordo intervenuto tra il Ministero degli esteri ed il Reichssicherheithauptampt  sono  di  pertinenza  esclusiva  delle  SS.  Interferenze  su  tali  questioni potrebbero causare serie difficoltà al Ministro degli Esteri.

In particolare, gli veniva rimproverato di aver utilizzato il termine «liquidare» in un telegramma ufficiale. L’azione al ghetto rappresentò insomma una prova di forza da parte delle autorità tedesche, che dimostrarono ad esempio il loro potere di fronte alle autorità italiane recentemente rinate a Salò.

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La scelta di agire proprio nel centro di Roma costituiva inoltre un banco di prova per testare le reazioni del Vaticano, distante solo poche centinaia di metri, oltre che una “sfida” a questa istituzione. Dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca dell’Italia, infatti, la Chiesa si trovava di fronte a gravi questioni da gestire: la sua sede era in una «città aperta» e, non avendo riconosciuto la Repubblica di Salò, si poneva il problema di garantire la sovranità sulle proprietà extraterritoriali ecclesiastiche in Italia; i suoi organi dovevano impegnarsi per un sostegno alla popolazione italiana duramente provata dalla guerra; contro il pericolo di un’invasione comunista in caso di sconfitta delle forze nazifasciste, si era aperta la prospettiva di un eventuale accordo tra gli Alleati e una Germania priva del suo capo Hitler.

Questi motivi indussero il Vaticano a evitare uno scontro frontale con i tedeschi e ad attenersi, invece, a discorsi umanitari:

La situazione sembrava imporre da un lato un particolarissimo riserbo, dall’altra di mantenere a ogni costo un contatto con i tedeschi […] L’unica strada considerata utile dalla Santa Sede per venire incontro ai bisogni della popolazione sarà così quella della supplica umanitaria.

Il 7 ottobre, forse in base a tutto ciò, il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop comunicò ufficialmente che «la sovranità e l’integrità territoriale del Vaticano sarebbe stata rispettata».

E a questo il Vaticano si attenne anche di fronte ai tragici fatti del 16 ottobre. Sull’operazione al ghetto, quindi, le proteste vaticane non furono pubbliche ma si limitarono a una semplice minaccia inviata ai vertici. Come dimostra la documentazione conservata presso il Centre de documentation juive contemporaine a Parigi, lo stesso 16 ottobre, il Vescovo Hudal, rettore della chiesa cattolica tedesca a Roma, comunicava al comandante militare della città Stahel che, se si fossero ripetuti simili episodi, il Papa sarebbe stato costretto a protestare ufficialmente:

la prego di dare subito l’ordine di mettere fine immediatamente a questi arresti sia a Roma che nelle vicinanze; altrimenti temo che il Papa prenderà posizione pubblicamente contro questi arresti, ciò che darà un’arma in più alla propaganda che i  nostri nemici fanno contro noi tedeschi.

Anche l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, von Weizsäcker, convocato d’urgenza dal segretario di Stato vaticano, comunicava il 17 ottobre al suo ministero degli Esteri che la deportazione degli ebrei di Roma aveva fatto una cattiva impressione nelle autorità vaticane, costernate perché i fatti si erano svolti «sotto le finestre del Papa».

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L’ambasciatore affermava che la reazione sarebbe stata forse più attenuata se gli ebrei fossero stati impiegati al lavoro in Italia; in caso contrario il Papa avrebbe preso una netta posizione di protesta, analoga a quella dei vescovi francesi.

Questi eventi, concludeva Weizsäcker, servivano solo agli “ambienti” ostili ai tedeschi per spingere il Vaticano a uscire dalle sue riserve. In realtà, un articolo dell’«Osservatore romano», pubblicato in quei giorni, si era limitato a ribadire la vicinanza  del pontefice agli innocenti che soffrivano, senza distinzione di nazionalità, religione o razza.

Pochi giorni dopo la sua prima comunicazione, Weizsäcker scriveva sempre al ministero degli Affari esteri tedesco una lettera molto indicativa della situazione, affermando innanzitutto che il Papa «non si era lasciato trascinare in nessuna dimostrazione di protesta riguardo la deportazione degli ebrei di Roma».

Secondo l’ambasciatore, il pontefice era consapevole che questo suo atteggiamento gli sarebbe stato rimproverato da molte parti, ma dichiarava di averlo fatto per «non mettere alla prova le relazioni con il governo tedesco e gli ambienti [uffici] tedeschi presenti a Roma».

Le minacce del Papa non sortirono alcun effetto: nel corso dei mesi successivi altre centinaia di persone furono arrestate a Roma e deportate. In realtà, come si vedrà più avanti, l’atteggiamento della Chiesa seguì nel corso di questi mesi una duplice strada: se ufficialmente non ci furono mai dichiarazioni pubbliche di protesta da parte del pontefice, a livello locale gli istituti religiosi presero alla lettera le indicazioni umanitarie del Papa riguardo chi soffriva in guerra e si impegnarono in un’intensa attività di soccorso agli ebrei, quasi seguissero una direttiva dall’alto mai esplicitata in maniera ufficiale.

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Le prime azioni tedesche nell’Italia settentrionale, a dire il vero, non sembrarono allarmare in maniera eccessiva neppure gli stessi ebrei: le notizie che circolavano erano poche e per lo più contraddittorie. Si conosceva la brutalità delle pratiche naziste in Polonia e in Russia, ma queste venivano considerate un’esperienza lontana.

La fiducia e la convinzione che certe cose i tedeschi non le avrebbero mai compiute in Italia era probabilmente condivisa da    molti ebrei: ad esempio, nemmeno la richiesta di consegna di 50 chilogrammi di oro, fatta da Kappler al Presidente della comunità israelitica di Roma e all’Unione delle comunità italiane  il 26 settembre, ovvero solo venti giorni prima del 16 ottobre, servì a mettere in guardia gli abitanti del ghetto romano.

Giacomo Debenedetti, solo un anno dopo, nel novembre del 1944, dipinge efficacemente un quadro della situazione attraverso l’episodio della signora Celeste, corsa dal quartiere di Trastevere la sera prima al ghetto per avvisare gli ebrei della imminente retata:

Gli ebrei di Roma si fidarono, in certo qual modo, dei tedeschi, anche – e, diremmo, soprattutto – dopo quanto  era successo il 26 settembre. Si sentivano come vaccinati contro ogni ulteriore persecuzione. Sarebbe stata un’ingiustizia, e per temperamento non vi potevano credere.

Mostrar di temere sarebbe stato un polemizzare contro i tedeschi, manifestargli dell’antipatia. E infine sarebbe stato un peccare contro l’Autorità. Perciò   quella sera gli ebrei risero al messaggio della pazza Celeste.

Nei primi giorni d’ottobre, l’arrivo in Italia di un reparto operativo mobile comandato da un uomo di fiducia di Eichmann, con il compito di realizzare retate contro gli ebrei nelle principali città italiane, modificò dunque le dinamiche delle azioni antiebraiche tedesche nella penisola occupata.

Eichmann, il boia nazista chiese la grazia a Gerusalemme

Eichmann, il boia nazista chiese la grazia a Gerusalemme

Dopo aver agito a Roma, per tutto il mese di novembre, infatti, Dannecker fu il responsabile delle operazioni che colpirono le sinagoghe e le comunità ebraiche di molte città italiane (Siena, Firenze, Bologna, Milano, Genova, Torino).

Le persone catturate finirono nel primo convoglio che dal carcere milanese di San Vittore partì per Auschwitz il 6 dicembre 1943. Nello stesso periodo, il neonato Stato repubblicano di Mussolini cominciò  a sviluppare una propria politica antisemita. Per le autorità tedesche, il fatto che gli organi   di Salò potessero partecipare al programma di «soluzione finale» si dimostrava molto  importante.

Nonostante la decisione di procedere ad azioni repentine, gli uffici di polizia nazisti non disponevano infatti sul momento delle forze necessarie per portare a termine con successo, da soli, l’arresto di tutta la popolazione ebraica in Italia.

Di fronte alle prese di posizione antisemite degli ambienti politici e governativi fascisti, i responsabili dell’ufficio IV B 4 (nelle persone di Dannecker e Bosshammer, esperto di questioni italiane), in accordo con il ministero degli Esteri (von Thadden, della sezione affari interni Inland II del ministero Affari esteri, competente per i contatti con l’ufficio di sicurezza del Reich) si orientarono verso una collaborazione con gli organi di polizia italiani.

TEDESCHI A SALO'

TEDESCHI A SALO’

Come vedremo in maniera più approfondita nelle prossime puntate, la decisione fu quella di affiancare “finti” consiglieri per la questione ebraica ai funzionari di Salò, con l’obiettivo di accelerare la persecuzione e gli arresti.

L’inviato speciale Dannecker e il suo distaccamento “mobile” vennero sostituiti con  un ufficio fisso con sede a Verona. La macchina di sterminio nazifascista era dunque pronta a operare adesso a pieno ritmo anche in Italia, senza che molti ebrei, ovvero le sue vittime, ne avessero preso pienamente coscienza.

Osserva efficacemente Renzo De Felice:

sino a  quando non ebbero la dolorosa prova di ciò che i tedeschi intendevano fare, centinaia e centinaia di ebrei rimasero fiduciosi nelle loro case, sordi anche ai primi segni premonitori della  tragedia  […]: molti  si  illusero  che  bastasse  pagare  per  salvarsi. 

Per questi, il pericolo si era avvicinato, in quelle prime settimane d’autunno, come gli spari al ghetto di Roma nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1943.

E gli ebrei dormivano nei loro letti verso la mezzanotte del venerdì 15 ottobre, allorché dalle strade  cominciarono a udirsi scoppiettate e detonazioni.

Dal 25 luglio, quando Badoglio aveva messo il coprifuoco, e più ancora dall’8 settembre, quasi ogni notte si sentivano spari per le vie e si diceva che erano contro la gente  che circolava oltre l’ora senza permesso. Ma quegli spari abituali rimanevano isolati, come i rintocchi dell’ora, e di rado giungevano così vicini, e mai così insistenti.

Questi invece si intensificano, si stringono, si sovrappongono, diventano una vera sparatoria. E fossero solo spari, ma qualche cosa di più sinistro vi si mescola: colpi che partono secchi, per propagarsi poi quasi ondulati e fare dentro il buio un cratere cupo e svasato.

Barúch dajàn emèd (Benedetto il Giudice di Verità), sembra di stare in mezzo a una battaglia. Qualcuno si alza a sedere sul letto. Ma dell’avviso portato sul fare della sera dalla piazza di Trastevere, nessuno si  ricorda più.

Nell’estate del 1943, il numero di ebrei italiani e stranieri nel territorio del Regno si aggirava intorno alle 40.000 persone. Con la firma dell’armistizio, nonostante il pericolo imminente di un’occupazione tedesca, solo un migliaio di questi riuscì a spostarsi nel sud d’Italia, ovvero nella zona che veniva progressivamente liberata dall’esercito anglo-americano.

Buffet organizzato in occasione del rientro dei reduci dalla Grecia a Salò: Mazzolini è il primo da destra

Buffet organizzato in occasione del rientro dei reduci dalla Grecia a Salò: Mazzolini è il primo da destra

Al momento della nascita della Repubblica sociale italiana, si trovavano nella parte settentrionale della penisola all’incirca 39.000 persone considerate di «razza ebraica» (in prevalenza italiani, ma anche 8.000 tra stranieri e apolidi).

Lo spostamento di individui e gruppi di persone  all’interno del paese o verso l’estero in questi mesi convulsi rende in realtà difficile stabilire una cifra esatta. Dalle più recenti ricerche risulta che, tolti coloro che ebbero la possibilità di rifugiarsi in Svizzera e nell’Italia meridionale (forse 6.000 persone), in tutto gli ebrei presenti nel territorio della RSI e sotto occupazione tedesca dal settembre 1943 fino alla liberazione erano circa 32.000/33.000, divisi in 7.000 stranieri e 25.000 italiani.

La maggior parte degli italiani viveva nelle grandi città (Roma, Torino, Firenze, Milano, Venezia, Genova, Trieste), all’interno di storiche comunità; gli stranieri, invece, erano molto spesso sparsi in piccoli comuni o città di provincia, ovvero in quelle località d’internamento cui erano stati destinati nei primi anni della guerra.

Eichmann durante il processo a Gerusalemme. (United States Holocaust Memorial Museum, Library and Archives, Washington D.C.)

Eichmann durante il processo a Gerusalemme. (United States Holocaust
Memorial Museum, Library and Archives, Washington D.C.)

Con l’invio in Italia di un ufficio mobile della famigerata sezione IV B 4 di Eichmann, della polizia di sicurezza germanica (RSHA), ai primi di ottobre, il programma di deportazione nei campi di sterminio dell’Europa orientale venne esteso, come si è detto, anche agli ebrei della penisola, senza alcuna distinzione tra italiani e stranieri – come invece era avvenuto negli anni precedenti nelle zone militari occupate dall’Italia.

Nelle operazioni tra settembre e dicembre, i tedeschi riuscirono a procedere con eccezionale rapidità di esecuzione, dal momento che la fase “burocratica” (censimenti e accertamenti di razza) era già stata effettuata dal governo fascista durante i cinque anni di legislazione razziale.

Di fronte alle richieste tedesche, le autorità locali italiane fornirono generalmente ai nazisti le liste e gli schedari conservati nei loro uffici, necessari per reperire gli ebrei stranieri già internati durante il periodo bellico e gli italiani censiti dal 1938 in poi (l’ultimo aggiornamento sulla popolazione ebraica presente in Italia era stato fatto in alcune città proprio durante l’estate del 1943).

Il nuovo Stato di Salò adottò, fin dalla sua nascita, una politica decisamente antisemita. Le disposizioni politiche e amministrative nei confronti degli ebrei furono precedute da alcune prese di posizione dei vertici del partito repubblicano, della pubblicistica e della propaganda, segno che, come afferma Luigi Ganapini, l’antisemitismo ricopriva un ruolo importante nella costruzione  dell’identità  del  nuovo  fascismo.

Del  resto,  il  “tradimento” che  aveva determinato la caduta del fascismo e l’abbandono dell’alleanza con l’Asse da parte del re e di Badoglio era imputato, oltre che a personaggi interni al partito stesso, anche alle congiure massoniche e giudaiche:

Le parole d’ordine antisemite entrarono a pieno titolo nel patrimonio politico-ideologico con il quale il fascismo di Salò si poneva non solo in continuità con il vecchio fascismo ma anche in polemica con quella parte della tradizione fascista di cui si auspicava la rigenerazione e la rivitalizzazione al di fuori dei compromessi con la monarchia e appunto con i circoli massonici e giudaici, che erano accomunati nella congiura che aveva colpito a morte il fascismo del ventennio.

Secondo un argomento già ampiamente utilizzato in precedenza e diffuso in tutta Europa, la visione di un complotto ebraico quale causa del conflitto in corso fu motivo ricorrente nella propaganda del governo repubblicano e dei giornali.

Come abbiamo detto, durante i 45 giorni  di  Badoglio  gran  parte  della stampa  si  era  generalmente  schierata  a  favore di un’abrogazione delle leggi razziali, mentre adesso ripiegava di nuovo su posizioni antisemite.

I luoghi della persecuzione contro gli ebrei in Italia

I luoghi della persecuzione contro gli ebrei in Italia

In periferia, in particolare, si distingueva per i toni molto violenti, anche perché influenzata dalle iniziative di quei fascisti locali che, con la formazione del nuovo governo, erano ritornati al loro posto lasciato dopo il 25 luglio.

Nei quotidiani nazionali, le accuse contro gli ebrei erano un classico ritornello all’interno degli articoli che trattavano le operazioni di guerra o che si occupavano della situazione politica e economica del paese: individuati quali i nemici storici dell’Italia fascista e della Germania nazista, gli ebrei assumevano i contorni di un gruppo non ben definito, quasi astratto, nei confronti del quale scagliare le colpe della drammatica situazione venutasi a creare in Europa.

Seppur rivolte a un pubblico italiano, descritto dalla più recente storiografia come intriso di sentimenti antisemiti, le pagine di quotidiani come il «Corriere della Sera» evitavano di parlare delle operazioni antiebraiche tedesche, in linea con quanto accadeva del resto negli altri paesi d’Europa.

Anche le autorità naziste, del resto, da Hitler a Heydrich fino ad arrivare agli esecutori locali, erano consapevoli che le atrocità commesse nei confronti della popolazione ebraica, ad esempio in Polonia, non sarebbero state tollerate dall’opinione pubblica.

Lettera del podestà di Arco alla Questura di Trenta perché “benevolmente” non si inviino più ebrei ad Arco (ACAR, Carteggio e Atti 1943, cat. XV, cl. 5).

Lettera del podestà di Arco alla Questura di Trenta perché “benevolmente” non si inviino più ebrei ad Arco (ACAR, Carteggio e Atti 1943, cat. XV, cl. 5).

Le operazioni di sterminio dovevano rimanere segrete agli Alleati e, soprattutto, agli ebrei stessi. Osserva Raul Hilberg:

il primo stadio della repressione consisteva nel bloccare la fonte delle informazioni a tutti coloro che non dovevano essere al corrente. Chi non partecipava, si supponeva non ne sapesse nulla. Il secondo stadio  consisteva nell’assicurarsi che tutti coloro che erano al corrente, partecipassero.

Sui giornali italiani, quindi, erano taciute le stragi delle truppe germaniche nell’Italia settentrionale e non trovavano spazio neppure le retate di ottobre e novembre nelle grandi città.

Scorrendo, ad esempio, gli articoli che compaiono su «Il Messaggero» di Roma in  quelle drammatiche settimane di autunno del 1943, il tema dell’ebreo nemico del fascismo e del nazismo aleggia quasi sempre negli editoriali di prima pagina, negli articoli di commento  e nei discorsi dei gerarchi riportati per l’occasione.

Gli ebrei sono accusati di aver scatenato la guerra a fianco degli inglesi e degli americani e di aver congiurato contro il regime insieme alla massoneria. Manca però del tutto la pubblicità delle violenze nei loro confronti e non vi è, di conseguenza, alcun accenno alla retata nazista del 16 ottobre al ghetto di Roma (neppure nella cronaca di Roma).

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Al contrario, l’arresto e l’uccisione di partigiani e antifascisti erano riportati per dimostrare la forza delle formazioni nazifasciste nei confronti di un nemico considerato, forse, più reale e concreto anche dagli stessi lettori.

All’interno della RSI, come accennato, molte personalità fasciste sbandieravano apertamente rozze idee antisemite e insistevano affinché il governo di Salò prendesse provvedimenti più drastici nei confronti degli ebrei, spinti anche dal desiderio di dimostrare in tal modo un’indiscutibile fedeltà ai tedeschi.

In realtà, la richiesta di inasprire la politica antiebraica emerse spesso, a livello locale, durante tutto il conflitto: non sono pochi i casi, infatti, in cui, sin dal 1940-1941, le autorità provinciali (questori e prefetti), segnalavano la presenza di ebrei nella loro regione e chiedevano provvedimenti nei loro confronti.

Adesso, però, non solo i toni erano decisamente violenti, ma era richiesta al governo una persecuzione più efficace. Il prefetto di Lucca, ad esempio, già l’11 settembre 1943, proponeva al ministero, «a scanso di eventuali responsabilità», di rinchiudere in un campo di concentramento gli ebrei presenti nella zona, affinché questi, allarmati dalla presenza dei tedeschi, non potessero scappare:

Si informa codesto Ministero che da qualche giorno tra gli ebrei internati nei comuni di Castelnuovo Garfagnana e di Bagni di Lucca si è diffuso del panico, assai preoccupante, in seguito a notizie loro pervenute da ebrei residenti in altre giurisdizioni, secondo le quali le autorità germaniche starebbero raccogliendo dati e notizie sul loro conto.

Ciò fa supporre che i tedeschi abbiano in animo di condurre gli elementi ebraici in Germania. Tale supposizione avrebbe determinato in taluni il proposito di darsi alla montagna.

Sta di fatto che il locale Comando tedesco ha richiesto a questa Prefettura l’elenco di tutti gli ebrei residenti nella Provincia. Siffatto stato d’animo, che ha pervaso ormai tutti gli internati ebraici, è certamente pericoloso perché può indurre costoro a fuggire da  un momento all’altro.

E, per quanto la vigilanza da parte degli organi di Polizia possa essere diligente ed accurata, non è certo sufficiente a sventare l’attuazione di tale proposito, anche perché, come è noto a codesto ministero, gli ebrei internati vivono per proprio conto in abitazioni private; ciò che li mette in condizione di approfittare, volendo, delle ore di notte per rendersi irreperibili.

A scanso pertanto di eventuali responsabilità, si propone a cotesto Ministero che tutti gli internati di razza ebraica vengano avviati d’urgenza ad un campo di concentramento, dove sarà più agevole seguirli e controllarli. Si resta in attesa delle superiori determinazioni   in merito.

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Il ministero rispose tuttavia che non era possibile inviarli in un campo di concentramento, ma che si dovesse intensificare la vigilanza e prendere accordi con le autorità germaniche.

Una radicalizzazione delle tendenze antisemite si osserva anche nei manifesti programmatici di alcuni gruppi armati che si andavano formando autonomamente nei primi mesi d’occupazione grazie a iniziative prese a livello locale da esponenti del fascismo di provincia: la lotta all’ebraismo costituiva uno dei punti principali, a fianco di motivi quali l’alleanza con i nazisti o la guerra ai traditori e ai partigiani:

PARTITO FASCISTA REPUBBLICANO, Comando Gruppo Squadre D’Azione “Ettore Muti” Padova

Gli squadristi della “Muti” riunitisi per l’esame della situazione politica locale deliberano di agire con fermezza  e disciplina allo scopo di servire la Patria nel nome di Ettore Muti purissimo Eroe della rinascita fascista. Invitiamo la Reggenza a voler collaborare con lealtà di intenti e provvedere analogamente alle deliberazioni del gruppo esecutivo delle squadre, con spirito rivoluzionario senza compromessi ed esitazioni.

Ciò premesso chiedono che il Triumvirato disponga:

  • 1)Trattare l’internamento di tutti gli ebrei;
  • 2)Provvedere al fermo di tutti i seguaci e simpatizzanti dell’ex re e di tutte le sue case imparentate;
  • 3)Provvedere al fermo dei maggiori esponenti dei partiti sovversivi specie quelli annunciatisi dopo il 25 Luglio; […]
  • 7)Proporre la chiusura immediata delle iscrizioni al Partito Fascista Repubblicano;
  • 8)Ripulire in pieno l’ambiente universitario antifascista, antitaliano, antitedesco, antieuropeo. È meglio chiudere l’Università piuttosto che lasciare in vita un focolare d’infezione libero-massonico-comunista:
  • 9)Stringere, infine, rapporti più camerateschi e fruttuosi con le Autorità Tedesche. […] Padova, 21-10-XXI, firmato: Il gruppo esecutivo delle squadre d’azione.

Il riferimento al pericolo rappresentato dagli ebrei era presente inoltre nei discorsi degli uomini della nuova compagine governativa, talvolta anche con accenni alla purezza  del sangue e della razza, collegati, del resto, al motivo propagandistico che metteva in guardia gli italiani dall’avanzata di un esercito americano composto da orde di soldati neri.

Da parte sua, Mussolini non si espresse mai in maniera troppo chiara nei confronti degli ebrei, accennandone solo di sfuggita. A dare retta a una nota testimonianza dell’allora direttore de «Il Messaggero», Bruno Spampanato, in un colloquio avuto con lui a fine dicembre 1943 riguardo i rapporti con l’alleato germanico il duce affermava che «il manifesto della razza poteva evitarsi», in quanto prodotto di «una astruseria scientifica di alcuni docenti e giornalisti»: egli considerava al contrario il popolo italiano «un mirabile prodotto di diverse fusioni etniche sulla base di una unitarietà geografica, economica e specialmente spirituale»  e dava il merito della grandezza dell’Italia allo spirito che animava un’unica civiltà italiana.

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E concludeva: «anche quella è una posizione da rettificare». Qualunque peso si voglia dare a queste parole, è indubbio che in quei mesi Mussolini fosse preso da molti problemi, legati principalmente alla condotta della guerra e alla ricerca di spazi autonomi dove il governo  della RSI potesse muoversi eludendo l’ingerenza dell’alleato germanico.

Sconfitto sul piano della ricostruzione dell’esercito, come detto, il duce provò a giocarsi la carta di un’indipendenza di azione su altre questioni rimaste ancora in sospeso: il progetto di socializzazione dell’industria, il destino dei militari italiani internati in Germania, il futuro delle regioni al confine orientale ora amministrate dal Reich, la guerra ai partigiani e la sicurezza interna del paese.

In questo contesto, se da un lato la politica nei confronti degli ebrei poteva rappresentare la conferma dell’alleanza ideologica con il nazismo del rinato fascismo repubblicano, dall’altra poteva essere un ambito nel quale affermare una propria libertà di condotta, come già avvenuto negli anni precedenti nei territori occupati dalle truppe italiane (Francia e Jugoslavia in particolare).

Il più attivo fautore di una feroce campagna antiebraica fu Giovanni Preziosi. Rimasto in Germania al momento della nascita della RSI, teneva da Radio Monaco (la stessa che aveva annunciato la ricostituzione del partito fascista a settembre) animati discorsi contro ebrei, massoni e traditori.

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Vicino agli ambienti nazisti radicalmente antisemiti, non lesinava critiche nemmeno alle personalità del nuovo fascismo (duce incluso), scagliandosi soprattutto contro quelli che, a suo avviso, erano considerati dei filo-ebrei e massoni, primo fra tutti il neo ministro dell’Interno Buffarini Guidi, del quale, nel dicembre 1943, chiese perfino l’arresto direttamente al generale Wolff e al plenipotenziario Rahn.

Da una parte, dunque,   svolgeva attività di propaganda presso le autorità tedesche sperando, come afferma Meier Michaelis, di vedersi affidare un incarico importante nel governo italiano, quale unico e vero loro interlocutore: insisteva soprattutto sul fatto che, sebbene il fascismo fosse caduto a causa dei complotti ebraici e della massoneria, nella RSI continuavano ancora a governare elementi compromessi con tali ambienti.

Dall’altra, inviava memoriali al duce per convincerlo che si sarebbero risolti i mali dell’Italia solo se si fosse messo fine al problema ebraico e si fosse perseguita finalmente una dura lotta ai massoni. Le sue idee radicali e, forse, la sua propensione non certo disinteressata a mettere in cattiva luce presso i vertici tedeschi molti influenti fascisti di Salò suscitarono riserve anche da parte germanica, tanto che per lui non vi fu spazio all’interno del governo repubblicano formatosi a settembre.

Tuttavia, osserva Luigi Ganapini, le sue idee offrivano lo stesso una risposta politica, culturale e sociale alle domande di coloro che, ad esempio, avevano scelto di aderire al programma del fascismo repubblicano:

Le sue idee possono cavalcare i motivi della rivendicazione nazionale, della tematica del tradimento, della necessità di uscire dalla condizione subalterna e umiliante, tra sconfitta e disprezzo, in cui vivono l’Italia neofascista e coloro che a essa hanno aderito; le espressioni del suo antisemitismo possono trovare vie di comunicazione,  trasmettere  direttive,  apparire  coerenti  e  finanche  ragionevolmente  politiche  quando danno risposte all’orgoglio dei giovani che si interrogano sul significato della scelta che hanno fatto intruppandosi nelle file delle forze armate della nuova repubblica.

L’orientamento antisemita espresso dalla propaganda e dalla stampa in queste  settimane venne sancito in occasione del primo congresso del nuovo partito, riunitosi a Verona nelle giornate del 14 e 15 novembre 1943.

Questa assemblea servì innanzitutto a convogliare in un’unica direzione le diverse tendenze nate all’interno del Partito, nel momento in cui questo si stava riformando.

A livello locale, infatti, le federazioni si dividevano in molteplici posizioni, radicali e moderate: chi era più propenso a prendere un netta distanza da coloro che avevano abbandonato il regime il 25 luglio e a lottare senza esitazione contro gli oppositori politici antifascisti; e chi, invece, era favorevole a una “pacificazione” con gli avversari, per procedere uniti nella guerra contro l’invasione anglo-americana e, soprattutto, per lavorare  alla ricostruzione del paese sotto nuovi obiettivi politici, economici e sociali.

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Ricostituito ai primi di settembre, il nuovo partito fascista diretto da Pavolini dimostrava a novembre di non avere però ancora una linea politica definita:

É questo partito ancora in fase di organizzazione al centro come alla periferia a scegliere i delegati al congresso di Verona, alla riunione cioè che dovrebbe dare i fondamenti ideologici alla repubblica e le direttive di marcia  del partito.

Le elezioni per la designazione dei congressisti si svolgono nelle federazioni provinciali agli inizi di novembre e in genere risultano eletti i triumviri o i commissari federali stessi e qualche segretario di fascio di particolare peso politico. Qualcun altro è designato “dall’alto”, oppure partecipa motu proprio.

All’appuntamento di Verona, che convogliava tutti i rappresentanti locali del partito, i vertici arrivarono con un programma già scritto nei giorni precedenti. La mancanza di documentazione non permette di ricostruire con precisione gli eventi che portarono  alla stesura del manifesto programmatico votato a conclusione del congresso.

Dalle memorie dei protagonisti, si deduce che il lavoro di elaborazione del testo fu fatto principalmente dallo stesso Pavolini, con la collaborazione di alcune personalità fasciste (Bombacci e Tarchi) nonché tedesche (Rahn), in ogni modo sotto le direttive di Mussolini, il quale ne seguì le fasi di scrittura.

Il manifesto racchiudeva dunque quelle che erano le spinte politiche, ideologiche, sociali ed economiche del nuovo Stato repubblicano. Osserva Frederick William Deakin:

Le bozze di questo testo dovevano soddisfare richieste contrastanti: il manifesto doveva essere cioè quello di un movimento socialista repubblicano unitario e rispondere al desiderio a lungo represso di giustizia sociale senza concedere però alcun controllo democratico alle masse e senza indebolire il monopolio politico del partito neofascista.

Nonostante quindi, sulla carta, la riunione dovesse rappresentare il momento più alto del confronto tra le istanze politiche elaborate dai vertici e le spinte provenienti dal basso (ovvero dai federali di provincia che si stavano riorganizzando localmente), il manifesto programmatico che ne uscì fu tutt’altro: non fu cioè il prodotto del libero dibattito che animò quelle due giornate, ma l’approvazione di direttive già “confezionate” dalla dirigenza.

Lo stesso dibattito si svolse così sulla base dei temi introdotti da Pavolini nel suo discorso di apertura al congresso. Mussolini non vi partecipò, ma ne richiese un resoconto stenografico per registrare i diversi interventi e monitorare così gli orientamenti del partito in provincia.

In realtà, durante quei due giorni, il confronto fu particolarmente animato, tanto che il duce definì il congresso «una bolgia». Svariati furono i temi discussi dai delegati: la guerra, la formazione della milizia, la vendetta contro i traditori del 25 luglio, il ruolo dei giovani, la composizione del partito, la questione sociale.

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Nel manifesto finale furono dunque definite le linee programmatiche che avrebbero dovuto guidare la Repubblica sociale italiana. Al  punto 7 del testo definitivo venne esplicitato l’orientamento antisemita dello Stato: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».

In un’unica affermazione erano riassunte così tutte le tendenze che non solo avevano trovato spazio nei discorsi politici, nella propaganda e sulla stampa negli ultimi mesi, ma anche gli elementi che negli anni precedenti avevano determinato una differenziazione nella persecuzione razziale: la popolazione ebraica era adesso, nella guerra in corso, considerata un nemico, senza nessuna distinzione tra cittadini italiani e stranieri.

Non  è chiaro se l’inserimento nel manifesto di un simile punto fosse dovuto a pressioni tedesche oppure partisse da un’iniziativa degli stessi fascisti: molto probabilmente, fu  semplicemente una logica conseguenza dell’orientamento antisemita adottato dallo Stato di Salò fin dalla nascita.

Nel dibattito del congresso, tuttavia, il tema rimase marginale e non costituì argomento di discussione, forse perché già chiarito nel discorso iniziale di Pavolini. Questi, soffermandosi sulle difficoltà economiche dovute alla guerra, annunciò infatti:

In proposito ho una idea e una notizia: come Voi sapete si sta in questi giorni provvedendo al prelievo dei patrimoni ebraici (approvazioni ed applausi – era ora!).

Si tratta, non per fare della retorica, appunto di sangue succhiato al popolo italiano. È giusto che questo sangue ritorni al popolo. Mi pare non vi sia migliore via, per farlo tornare al popolo, che quella di provvedere ai bisogni dei sinistrati dai bombardamenti, di coloro che furono colpiti dalla guerra, la cui principale responsabilità risale agli ebrei.

I futuri provvedimenti ai danni degli ebrei, accolti qui con entusiasmo e applausi, venivano giustificati sotto l’aspetto economico, per andare cioè incontro ai bisogni di una nazione duramente provata della guerra. Ritornavano a questo proposito i vecchi e diffusi stereotipi dell’ebreo ricco, nonché responsabile della guerra.

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La misura presente nel Manifesto sembra avere, dunque, un forte carattere populistico, ma è frutto anche di una scelta politica e istituzionale ben precisa: il riferimento agli ebrei veniva qui subito dopo l’affermazione sull’orientamento cattolico dell’Italia e sul rispetto degli altri culti, ad eccezione però di  quello ebraico.

La religione dello Stato è la religione cattolica, Apostolica Romana, mentre ogni altro culto sarà rispettato. Per quel che riguarda gli ebrei la direzione del partito propone che in questa materia si adotti una formula che non lasci campo ad equivoci e che dica che gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri che durante questa  guerra appartengono a nazionalità nemica (Bene!)

Quel che colpisce è la consapevolezza delle conseguenze che un simile provvedimento comportava: «niente discriminazioni», ovvero nessuna eccezione. Nel resto delle giornate congressuali, la questione ebraica, come si è detto, rimase secondaria e addirittura non venne nemmeno affrontata.

Un unico intervento, del delegato di Perugia, riportava problemi locali legati alla presenza di ebrei nella regione:

Altra questione: gli ebrei e gli internati che vivono nella provincia in piena libertà di azione. Occorre un provvedimento di polizia perché tutti gli ebrei e gli internati siano trasportati in altra regione, perché ove si trovano   attualmente   impediscono   l’azione   delle   autorità  di polizia. Cosa  si   aspetta  per prendere provvedimenti?

Ma la risposta alla domanda era già stata fornita da Pavolini nel discorso di apertura al congresso. Sancito all’interno del programma del nuovo fascismo e annunciato chiaramente dal segretario del partito, l’indirizzo antisemita diventava così uno degli strumenti per individuare con più precisione i nemici della Repubblica di Salò, contribuendo all’obiettivo di “serrare le fila” tra gli uomini che ne facevano parte.

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Era questa un’esigenza che serviva a inquadrare sotto la guida del partito soprattutto quelle spinte radicali che venivano dalla provincia. Del resto, l’annuncio dell’uccisione del federale di Ferrara, avvenuta proprio durante una seduta dell’assemblea di Verona, provocò una violenta reazione da parte dei delegati lì presenti, decisi a vendicare l’accaduto al grido di “tutti a Ferrara!”.

In questa occasione, il segretario Pavolini provò a placare gli animi, disponendo che una delegazione fosse inviata per fare chiarezza sui fatti. Tuttavia, la vendetta nella città emiliana ci fu, e anche feroce: le squadre di Verona e Ferrara, aiutate da altre formazioni provenienti da località limitrofe, prelevarono dal carcere e uccisero 11 persone, tra le quali alcuni antifascisti e tre ebrei.

E mentre la questura annunciava che si sarebbero avviate subito delle indagini per risalire ai responsabili della rappresaglia, l’inviato di Pavolini, l’avvocato Vezzalini, reggente provvisorio della locale federazione fascista repubblicana (e futuro capo di quella provincia), chiese l’arresto di tutti gli ebrei maschi. Nelle stesse ore, a Verona, il delegato di Belluno prendeva la parola:

Io credo che nessuno di noi voglia essere un sanguinario, ma per evitare di trovarsi costretti ad essere realmente dei sanguinari, dopo i fatti di Ferrara, credo che dobbiamo proporre di fare in ogni città un campo di concentramento … In questi campi di concentramento faremo dell’opera politica per risanare e recuperare i recuperabili e per gli altri penseranno i tribunali.

 

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