LA RESISTENZA IN TRENTINO – 23

a cura di Cornelio Galas

Torniamo ancora sulla “lista” di Venegoni, quella che –non esaurientemente – ha cercato di mettere assieme quanti furono internati nel Lager di Bolzano. Nell’elenco si contano i nomi di 671 donne, l’8,4% del totale. Erano operaie, intellettuali, contadine, in percentuale non dissimile da quella dei maschi.

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Molte erano “casalinghe”, “ragazze di casa”, come dice Marisa Scala: il che non impediva loro di collaborare nel lavoro dei campi, o nel negozio, in aggiunta ai lavori domestici. Molte, forse la maggioranza, secondo i ricordi di Laura Conti, erano le donne rastrellate a caso, o prese in ostaggio al posto di mariti, figli e genitori che non si erano presentati al lavoro coatto, o che avevano preso la strada della montagna per combattere i nazifascisti.

L’ostaggio forse più conosciuto era la già citata Margareth Colins de Tarsienne, moglie di Indro Montanelli. Anch’essa era in via Resia a garanzia di certe intese tra lo stesso Montanelli e Theo Saewecke, il capo delle SS di Milano.

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Theo Saewecke

Nel campo c’erano infine anche una trentina di prostitute, portate lì per motivi sconosciuti, e ricondotte a Genova – secondo quanto risulta a Italo Tibaldi – nel novembre 1944. Tutte le donne, a qualunque categoria appartenessero, erano rinchiuse nel Blocco F: una vicinanza che fu fonte di tensioni e litigi continui, che non impedirono però alla popolazione femminile di dare prova di altissima solidarietà e di coraggio.

Erano donne, in maggioranza, le componenti del comitato clandestino di resistenza del campo, così come erano donne, in prevalenza, coloro che dall’esterno misero a repentaglio la propria libertà e la propria incolumità per aiutare i deportati di via Resia, per far giungere loro un aiuto, un capo di abbigliamento o del cibo, quando non per organizzare qualche fuga.

Vanno ascritte al merito della determinazione e della generosità di queste prigioniere, dunque, molte delle evasioni tentate con successo. Le donne avvicinavano coloro che erano stati prescelti per un trasporto verso il nord e di nascosto passavano loro lime, seghetti e altri utensili raccolti segretamente dal comitato clandestino.

Grazie a questi strumenti diversi prigionieri riuscirono a fuggire dai treni che li stavano conducendo ai campi di annientamento. Le schede documentano ben 61 evasioni portate a termine da Bolzano, dai campi satellite o dai convogli partiti da via Resia.

Anche all’esterno del perimetro del campo furono le donne a sopportare il peso maggiore nell’attività di assistenza e di solidarietà. Va ricordata per tutte Franca Turra, che dopo l’arresto di Ferdinando Visco Gilardi assunse in prima persona, coadiuvata da molte altre donne (tra le quali Mariuccia, la moglie di Visco Gilardi) e da diversi operai delle fabbriche della zona, la responsabilità del coordinamento, dall’esterno del campo, del comitato di resistenza.

Franca Turra

Franca Turra

Franca Turra si è spenta nell’inverno del 2003, senza aver ricevuto invero quasi alcun riconoscimento per il ruolo essenziale svolto nella Resistenza bolzanina, in condizioni difficilissime.

Il lavoro del comitato clandestino per queste donne fu doppiamente rischioso e difficile: bisognava sfuggire alle spie e alla vigilanza delle guardie del campo e dei corpi di polizia, e bisognava anche vincere la diffidenza, se non addirittura l’aperta ostilità, di tanti uomini che anche nel movimento antifascista faticavano ad accettare che delle donne assumessero ruoli di rilievo nelle organizzazioni clandestine, invece di limitarsi a eseguire disciplinatamente gli ordini.

Lettera clandestina dal campo di Bolzano di Ada Buffulini a Lelio Basso: “Caro L. c’è qui con noi la moglie di Montanelli. (…) Ha raccontato che suo marito è uscito di carcere col permesso dei tedeschi con la promessa di aiutarli. Per questo lei è qui come ostaggio e ha sempre paura che faccia qualche cosa contro la sua coscienza perché Sevek ha detto che la sorte di lei, moglie, dipende dalla condotta del marito.

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Margareth Colins de Tarsienne, moglie di Indro Montanelli

Montanelli sarebbe occupato di lavorare in Svizzera, inoltre sarebbe molto vicino a Sevek e insieme con lui dovrebbe esercitare una specie di controllo sul lavoro dei vari marescialli che hanno condotto le nostre pratiche a San Vittore allo scopo di dimostrare le loro manchevolezze ed accentrare tutto nelle mani di Sevek”.  Non conosciamo i dettagli della missione che Saewecke avrebbe affidato a Montanelli.

Indro Montanelli

Indro Montanelli

È un fatto che Margareth restò a Bolzano fino alla fine della guerra, come vice responsabile del Blocco delle donne, e che si meritò il rispetto di tutte le deportate (testimonianza di Onorina Brambilla). Theodor Saewecke, condannato all’ergastolo dal Tribunale Militare di Torino per i crimini commessi a Milano, è morto nella sua casa di Amburgo nel gennaio 2001.

Theo Saewecke

Theo Saewecke

Per alcune donne, poi, la detenzione fu particolarmente penosa. Bianca Paganini racconta, nella sua testimonianza (pubblicata in Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Einaudi, Torino 1978) che con lei, nel vagone che partì il 7 ottobre da Bolzano per Ravensbrück “c’erano… una donna incinta e altre, malate”.

Bianca Paganini

Bianca Paganini

Rimase rinchiusa nel campo, con il suo regime di lavoro duro e di scarsissima alimentazione, anche un’altra donna incinta. Si chiamava Anna Azzali, ed era moglie di Luigi Azzali, deportato e ucciso a Mauthausen; attorno a lei era scattata la solidarietà dei deportati.

Ada Buffulini

Ada Buffulini

In una lettera uscita clandestinamente dal campo il 3 dicembre 1944, Ada Buffulini, coordinatrice dall’interno del comitato di resistenza clandestino, scrive a “Giacomo” (Ferdinando Visco Gilardi, che dall’esterno coordinava l’attività di assistenza): “Ti prego di mandare periodicamente (almeno una volta per settimana) un pacco di viveri alla signora Anna Azzali, perché è incinta di 7 mesi, molto deperita e ha assoluto bisogno di nutrirsi”.

Questo appello fu certamente raccolto, perché il suo nome risulta citato tra le diverse centinaia di deportati “assistiti” dal comitato clandestino. Lei stessa, quasi novantacinquenne, rintracciata a Milano nel marzo 2005, ricorderà del resto di avere ricevuto nel campo dei viveri, confezionati in una grossa scatola metallica di tipo militare. Liberata da Bolzano attorno all’Epifania, il 4 marzo 1945 diede alla luce un bambino, Giancarlo, già orfano del padre.

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Ferdinando Visco Gilardi

Era un bambino gracilissimo e la madre, che aveva condotto quasi tutta la gravidanza in carcere o nel campo di concentramento, non aveva latte per lui. Giancarlo Azzali morì quando aveva solo pochi mesi, e può a buon titolo essere annoverato tra le vittime del Lager di via Resia.

Solo di poco più di un terzo dei nomi presenti nell’elenco si è riusciti ad individuare la professione esercitata al momento dell’arresto. Inoltre, occorre considerare che in molti casi la professione indicata è quella dichiarata dal deportato all’arrivo nel Lager.

E che sovente i prigionieri già presenti nel campo consigliavano i nuovi venuti di non dichiarare la loro reale attività, magari di carattere intellettuale, e di farsi passare piuttosto per operai o contadini, cosa che avrebbe destato meno curiosità e sospetto tra le SS. Dichiarandosi competente in certe mansioni, il deportato cercava di scongiurare il rischio di essere impiegato in attività più pericolose o pesanti.

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 Michele Tarantino, parrucchiere per signora, dichiarò all’arrivo a Mauthausen di essere un autista, nella convinzione – a prima vista non infondata – di avere maggiori possibilità di essere impiegato a Mauthausen come autista che non come parrucchiere.

Anche per le professioni, l’Italia appare come un paese nel quale larga parte della popolazione era impegnata nei lavori dei campi, ma anche già fortemente industrializzata. Da Bolzano, poi, si può ben dire che sia passata una parte significativa del ceto intellettuale del paese, che si era attivamente opposto al fascismo e alla Repubblica sociale italiana, e che tedeschi e fascisti cercarono di stroncare.

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Nell’elenco ci sono centinaia di agricoltori, contadini, mezzadri, braccianti, che rappresentano circa il 15% di coloro dei quali conosciamo la professione. Anche qui, inoltre, come in generale in tutti i Lager nazisti, appare decisamente sovrastimata, in rapporto al ruolo ricoperto nella società dell’epoca, la componente operaia: fresatori, saldatori, attrezzisti, aggiustatori meccanici, vulcanizzatori, tornitori, apprendisti, operai generici e specializzati … Si scorgono, dietro queste presenze, i segni della diffusa attività antifascista che coinvolse grandi e piccole fabbriche.

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Molti sono i partigiani delle SAP – Squadre di Azione Patriottica – che agivano proprio all’interno dei grandi stabilimenti, o che comunque all’ambiente di fabbrica facevano riferimento (e si tenga presente che a Bolzano non transitarono che pochissimi arrestati dopo i grandi scioperi del marzo 1944, se non altro perché il Lager cominciò a funzionare in estate, quando gli scioperanti erano già stati deportati oltre confine da un pezzo).

Questa forte presenza operaia è dunque a sua volta il portato di una peculiarità della Resistenza italiana, che proprio nelle fabbriche ebbe uno dei propri punti di reclutamento e di forza. Contadini e operai di fabbrica: sono questi i due nuclei fondamentali dei deportati a Bolzano. Accanto a loro non deve stupire la presenza di calderai, spazzacamini, ricamatrici, boscaioli, sellai, scrivani, lavandai, ferraioli, vetturini e cocchieri, maniscalchi, mungitori… rappresentanti di un mondo del lavoro che oggi ci appare arcaico, ma che ancora negli anni quaranta aveva evidentemente una sua vitalità.

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A ben vedere la presenza di 25 sarti e di 31 calzolai nell’elenco ci parla di un’epoca nella quale abiti e calzature si confezionavano comunque su misura, sia per i signori che per i poveretti, non essendosi ancora affermata nel nostro paese la standardizzazione delle taglie e della produzione industriale dei capi di abbigliamento.

Lo stesso si potrebbe dire per i 94 falegnami e per i 38 fabbri, campioni di un mondo nel quale i mobili si tramandavano di generazione in generazione e non esisteva la grande distribuzione industriale di mobili, serramenti, maniglie, serrature e attrezzi da lavoro.

Colpisce anche l’alta incidenza di intellettuali e di rappresentanti di un ceto elevato, presenti a Bolzano in proporzione larghissimamente superiore alla media esistente nella popolazione italiana di allora. Nell’arresto e nella deportazione di tanti medici, giornalisti, avvocati, notai, giudici, dirigenti d’azienda e professori si riconosce il segno di uno speciale accanimento della RSI e dell’occupante nazista nella repressione del dissenso politico intellettuale.

Lodovico Belgiojoso

Lodovico Belgiojoso

Passarono da Bolzano Gian Luigi Banfi e Lodovico Belgiojoso, le due “B” dello studio BBPR, che nel dopoguerra avrebbe lasciato un segno indelebile nell’architettura italiana, ma che già allora si era guadagnato un posto nell’Enciclopedia Treccani. Banfi, deportato a Mauthausen come il suo amico e collega Belgiojoso, fu ucciso nell’ultima orribile gassazione di Gusen, a pochi giorni dalla fine della guerra, e non tornò, anche se i suoi colleghi mantennero per sempre anche la sua “B” nella sigla del loro studio, a perenne ricordo dell’amico ucciso.

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Anche Giuseppe Pogatschnig (cognome italianizzato in Pagano) era un noto architetto, già direttore di Casabella (suo fu il progetto, solo per citarne uno, dell’Università Bocconi di Milano), così come Raffaello Giolli, architetto, professore e critico, collaboratore delle più importanti riviste di architettura del suo tempo.

Legione Autonoma Ettore Muti

Legione Autonoma Ettore Muti

Per aver rifiutato il giuramento al fascismo Giolli era già stato espulso dall’insegnamento pubblico; internato allo scoppio della guerra nel campo di concentramento fascista di Istonio (Vasto, in Abruzzo) insieme al figlio Paolo, di 19 anni, torturato selvaggiamente dalla Muti (La Legione Autonoma Ettore Muti, fondata a Milano nel 1944 dall’ex squadrista Franco Colombo, è ricordata per le torture e le vessazioni) nel settembre 1944 nella sede di via Rovello a Milano, anche Giolli, come Banfi e Pogatschnig, finì i suoi giorni a Mauthausen.

Gian Luigi Banfi

Gian Luigi Banfi

Restò invece a Bolzano, a causa dell’interruzione della linea del Brennero, il prof. Egidio Meneghetti, farmacologo di fama, che nel dopoguerra avrebbe preso il posto di Concetto Marchesi come rettore dell’Ateneo di Padova, medaglia d’oro della Resistenza. Così come capitò fortunosamente a Virgilio Ferrari, poi sindaco di Milano e ad Abramo Oldrini, poi sindaco di Sesto San Giovanni.

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Meno fortunato fu Enzo Sereni, fratello di Emilio, che si era fatto paracadutare in Lucchesia in divisa da ufficiale inglese, sotto le mentite spoglie di Samuel Barda, per organizzare un punto di riferimento in territorio occupato dai nazisti per l’Intelligence Service britannico. Catturato, Sereni fu portato a Bolzano e di lì a Dachau, dove fu sottoposto a uno speciale regime di rigore.

Enzo Sereni

Enzo Sereni

Sopravvisse poco più di un mese: partito il 5 ottobre 1944 da Bolzano, il 18 novembre era già morto, stroncato dalla macchina dello sterminio nazista. Enzo Sereni, era soprattutto un agitatore politico, uno di coloro – e a Bolzano ve n’erano centinaia – che per le proprie idee di riscatto e di libertà avevano sacrificato ogni cosa. Era un “kibbuznik”, perché Sereni, che era emigrato prima della guerra in Palestina, era stato un propugnatore di quel movimento che nei kibbuz predicava – e cercava di praticare – un ideale di comunismo elementare, e nel contempo rivendicava il diritto degli ebrei di ritornare nella terra promessa.

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L’avvocato Luciano Elmo, liberale, fu uno dei massimi esponenti della Resistenza a Milano, prima e dopo la sua deportazione in via Resia. Arrivato con molti altri il 7 settembre, Elmo fu caricato su un treno che doveva portare a Mauthausen centinaia di deportati alla fine di novembre 1944. Ma grazie agli arnesi che il comitato clandestino aveva procurato e consegnato ad alcune persone fidate tra i partenti, anche Elmo riuscì a evadere prima del Brennero dal vagone diretto in Germania e a fare rientro a Milano. Il suo fu uno dei casi in cui gli sforzi per favorire le evasioni andarono a buon fine.

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Luciano Elmo

Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai religiosi, presenti in gran numero a Bolzano. Nell’elenco incontriamo ben 27 preti e 9 frati cappuccini. Una presenza significativa, numericamente e qualitativamente importante. Tra i religiosi deportati c’era Andrea Gaggero, che dopo Bolzano superò anche la prova della deportazione a Mauthausen, e che nel dopoguerra, smessa la tonaca, fu uno dei protagonisti del primissimo movimento pacifista italiano.

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C’erano don Narciso Sordo, del quale abbiamo già scritto nella ventunesima puntata, don Daniele Longhi, don Domenico Girardi (per citarne solo alcuni), sacerdoti che seppero costituire sempre un punto di riferimento nelle battaglie di giustizia nelle loro zone. C’era infine don Angelo Dalmasso, il sacerdote che fu arrestato per essere andato a dire messa tra i partigiani, e che restò così legato alla propria esperienza di superstite dei Lager di Bolzano e di Dachau da accettare la presidenza della sezione ANED di Cuneo.

Don Domenico Girardi

Don Domenico Girardi

Ai sacerdoti non allineati con il regime il nazifascismo riservava un trattamento di particolare severità. Lo dimostra il fatto che su 27 preti presenti a Bolzano, ben 19 furono ulteriormente deportati a Mauthausen, Dachau e Flossenbürg (anche se fortunatamente la maggioranza di costoro riuscì a sopravvivere e a fare ritorno in Italia).

Il convento di via Barana a Verona

Il convento di via Barana a Verona

Un caso del tutto peculiare, infine, è quello dei 5 frati cappuccini del convento di via Barana a Verona, presi in blocco e in blocco deportati a Bolzano. L’arresto dei frati, stando alla ricostruzione fatta nel dopoguerra da padre Corrado (Guido Toffano) è da imputare alle relazioni che il superiore del convento, padre Vittorino (Mario Fraccaro), intratteneva con i partigiani della zona fin dal luglio 1944. Tali relazioni, scrisse padre Corrado, “ovviamente” erano tenute “segretamente” tra il padre Superiore, i partigiani e i quattro confratelli, “lasciando assolutamente all’oscuro tutti gli altri frati”.

Don Angelo Dalmasso

Don Angelo Dalmasso

Il convento, insomma, “serviva come base per rifornire di armi e cibo i partigiani”. “Con la partecipazione dei confratelli furono stesi alcuni fogli con timbri e firma del Comando delle SS di Verona”. Tali documenti furono utilizzati per ottenere dei “passaggi” nella zona sugli automezzi delle stesse truppe tedesche: un gioco rischioso, che andò avanti per diverse settimane, fino a che la falsificazione non fu scoperta.

Don Andrea Gaggero

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I cinque frati coinvolti nel traffico di documenti contraffatti furono arrestati il 2 gennaio 1945. Rinchiusi nelle celle situate nei sotterranei del palazzo dell’INA, sede del Comando delle SS di Verona, furono interrogati e trattenuti per oltre tre settimane prima di essere trasferiti nel Lager di Bolzano, dove rimasero fino al 29 aprile 1945.

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I deportati in via Resia furono catturati dai nazifascisti in tutte le province del nord Italia, con l’esclusione – salvo qualche eccezione – delle province del Friuli-Venezia Giulia: nel periodo di attività del campo bolzanino, infatti, era in piena funzione anche quello della Risiera di San Sabba a Trieste. Il quale, almeno in parte, svolgeva una funzione di raccolta e di inoltro di deportati in Germania analoga a quello del Durchgangslager Bozen.

Così non stupisce che quasi il 20% dei deportati sia stato arrestato a Milano o nella sua provincia: Milano era, nei fatti, la “capitale della Resistenza”, come poi si disse; era comunque di gran lunga l’area urbana più popolosa tra quelle sotto il controllo della RSI. Colpisce, semmai, l’altissima percentuale di arrestati in altre province, come quella di Belluno (quasi il 10% del totale) o quella di La Spezia (circa l’8%).

Sono percentuali molto superiori al peso relativo di queste due province sul complesso della popolazione italiana, oggi come allora. Quelle centinaia di arrestati ci dicono oggi qualcosa sulla “attenzione” speciale riservata a queste due province, che erano in qualche modo “di confine” per la RSI.

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Andrea Gaggero

Nella sola Feltre, il 3 ottobre 1944 un grande rastrellamento portò al fermo di centinaia di persone che furono ammassate in un cinema e selezionate per la deportazione a Bolzano. Oltre un centinaio furono i feltrini che giunsero nel campo nei giorni successivi. E una ricerca condotta in loco ha individuato oltre 220 deportati dalle valli del Cadore. I fermati, in diverse successive operazioni di rastrellamento, furono centinaia.

Uomini, donne, vecchi e ragazzi furono portati nel cinema Italia di Santo Stefano di Cadore l’8 ottobre 1944. La posizione di ognuno fu valutata. La maggioranza delle donne e dei vecchi fu infine rilasciata, ma per i giovani e gli uomini validi non ci fu scampo: a gruppi vennero condotti a Bolzano, immatricolati con il triangolo rosa dei rastrellati e condotti al lavoro forzato.

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Nelle diverse frazioni di Tambre, un comune del Bellunese che conta oggi circa 1500 abitanti, i rastrellati furono decine. Solo quelli di cui si conoscono con esattezza le generalità sono nella lista ben 46. Come si spiega tanto accanimento? È vero, le valli bellunesi furono terreno di aspre battaglie della Resistenza. E infatti molti dei deportati, nelle interviste del dopoguerra, rivendicano con orgoglio la propria appartenenza al movimento partigiano.

Ma molti altri superstiti, contattati dall’ANED negli anni Settanta, nel quadro del lavoro di raccolta di una “Banca dati sulla deportazione”, non hanno difficoltà a indicare, come valori di riferimento della propria famiglia al momento dell’arresto, quelli della tradizione: Dio, patria e famiglia. Marcello de Candido parla della sua come di una famiglia – papà, mamma, tre figli e 10 figlie – “dedita alla casa e al lavoro”; Attilio De Bettin ricorda la sua come una “famiglia proletaria, di orientamenti tradizionali, vale a dire ossequiosi verso la Religione e verso il potere costituito.

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Celeste De Rigo Cromaro, infine, parla di una “famiglia tutta Patria e lavoro”. Se non erano avversari politici, dunque, che cosa ha portato tanti abitanti delle valli bellunesi nel Lager? Quirino Quinz, di Sappada, avanza un’ipotesi per quanto riguarda il suo paese: “La popolazione di Sappada è oriunda austriaca. I nazisti, occupando l’Alto Cadore, hanno cercato di arruolare gli uomini.

A causa del rifiuto molti di noi sono stati arrestati e deportati, come nel mio caso”. I nazisti non avrebbero perdonato dunque a questa popolazione di origine austriaca il rifiuto dell’adesione al Reich. Può essere una spiegazione, che però non vale per gli abitanti delle altre valli bellunesi, di sicura discendenza italiana.

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A questo proposito Teresa Rocco, arrestata a Belluno il 14 ottobre 1944 insieme alle sorelle Ermelinda, Egle e Prassede, richiesta di spiegare il motivo del suo arresto scrive solo una parola, con un punto di domanda: “Italianità?”. Belluno, provincia sottoposta alla diretta autorità tedesca in quanto facente parte dell’Operationszone Alpenvorland, la “Zona di operazioni delle Prealpi”, insieme alle province di Trento e di Bolzano, era una vigilata speciale, in quanto enclave italiana in territorio del Reich.

Negli arresti di massa e nelle deportazioni dell’autunno e dell’inverno 1944 in quelle valli si potrebbe leggere il portato di una politica forse paragonabile a una sorta di “pulizia etnica” nazista a danno della componente italiana.

Nelle valli dell’Alpenvorland si reclutavano soldati per l’esercito nazista, ma anche lavoratori per il Reich. Il rifiuto opposto a tali reclutamenti forzati conduceva spesso alla deportazione in via Resia. Un documento datato 30 ottobre 1944, firmato dal commissario prefettizio del Comune di Cles (Trento) e indirizzato a “Kurt Heinricher, consigliere germanico d’amministrazione presso la Prefettura di Trento”, e al “signor Wieser, ispettore dell’Ufficio provinciale del lavoro”, chiarisce in modo esemplare questo meccanismo.

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Il commissario prefettizio ricorda che alla comunità di Cles sono state richieste 175 persone da avviare al lavoro, e si avventura in una complessa contabilità per dimostrare che tra coloro che si sono presentati a tutto il 26 ottobre (77), coloro che erano stati dispensati (12), gli artigiani che “si ingaggiarono in periodo di precettazione con le colonne militari di stanza” (14), gli operai internati a Bolzano (10), coloro che – presentatisi – sono stati dichiarati “rivedibili” (8), coloro che già erano stati ingaggiati dall’Organizzazione Todt (24) e coloro che sono stati precettati il giorno stesso della sua lettera – “una cinquantina” – il Comune di Cles ha raggiunto l’obiettivo fissato dalle autorità germaniche.

Per questo motivo il commissario prefettizio “prega ardentemente Codesta Autorità di voler subito provvedere alla liberazione dal campo di concentramento di Bolzano dei cittadini di Cles che ivi ancora si trovano”, vale a dire 9 persone, fratelli, sorelle, genitori di precettati che si erano dati alla fuga pur di non lavorare per la Germania.

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Ada Buffulini

Un’altra provincia nella quale i rastrellamenti nazifascisti hanno portato decine e decine di persone nel Durchgangslager Bozen è quella di La Spezia. Occorre ricordare che tra La Spezia e Massa il fronte si fermò per lungo tempo, nell’autunno-inverno 1944. Alle truppe alleate che avanzavano lungo la penisola si opponevano imponenti schieramenti tedeschi.

L’entroterra spezzino fu segnato per settimane da innumerevoli rastrellamenti ed eccidi contro civili e partigiani. Attestato su quelle alture, l’esercito tedesco voleva garantirsi la sicurezza alle spalle, facendo tabula rasa di ogni nucleo di resistenza partigiana. Le deportazioni sono figlie di quelle battaglie e di quei rastrellamenti.

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Un altro rastrellamento terribile, destinato a segnare per sempre la storia di una piccola comunità, fu quello di Rocchetta Tanaro, in provincia di Asti, il 6 dicembre 1944. Furono decine e decine i fermati e i deportati quel giorno: praticamente ogni famiglia del paese ha avuto un congiunto a Bolzano.

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