LA DONNA E IL FASCISMO – 4

a cura di Cornelio Galas

Ultima puntata sul rapporto (?!) donna-fascismo. Con particolare attenzione, questa volta, anche al mondo, specifico, dell’informazione. Aggiungo. come sempre, per chi volesse approfondire l’argomento, una ricca bibliografia.

LA POLITICA DEL CONSENSO
LA BEFFA DEL VOTO

La dittatura fascista, come ogni regime totalitario, necessitava di una vasta adesione da parte del popolo italiano per conservare e legittimare il proprio potere, e di questo vi era una piena consapevolezza nello stesso Mussolini e nei suoi compagni di partito.

Infatti, uno dei punti di forza del programma politico fascista fu sicuramente “il suo inserimento e il suo agire nel tessuto connettivo della società italiana come fattore di organizzazione, in primo luogo fra i giovani e più latamente degli intellettuali, dando a questa definizione il significato più estensivo”; andrebbe aggiunta anche l’attenta organizzazione di una parte, almeno, delle masse femminili.

Attraverso un forte apparato corporativo che comprendeva i Fasci femminili, la Sezione delle Massaie Rurali, la S.O.L.D. e le varie associazioni sportive, il regime non solo costruiva il consenso delle donne, ma trasformava la partecipazione politica in un’attività assistenziale e finalizzava l’attività sportiva ad obiettivi eugenetici.

Questo reclutamento sistematico della popolazione, avveniva tra il ’29 e il ’34, quinquennio considerato dagli storici del fascismo, “come il momento del maggior consenso e della maggior solidità”. Infatti, nonostante l’Italia attraversasse proprio in quegli anni la più grande depressione economica della sua storia, con conseguenze notevoli come la disoccupazione e la riduzione dei salari, il consenso al regime fu più esteso e meno carico di riserve rispetto agli anni successivi.

Meglio tornare indietro di quasi un decennio, per affrontare la lunga questione del voto delle donne a dimostrazione dell’atteggiamento contraddittorio assunto dal regime che, se da un lato necessitava dell’adesione da parte delle masse femminili, dall’altro attuava una politica anti-femminile.

Il suffragio femminile rientra nel programma fascista sin dal 1919, e quattro anni dopo, nel maggio del ’23, Mussolini interviene nel Congresso dell’Alleanza Internazionale pro Voto alla Donna, con l’incarico di Presidente del Consiglio. In quell’occasione si espresse a favore del voto femminile per alcune categorie, cominciando dal campo amministrativo.

A livello internazionale, il voto era già stato già concesso in Olanda, in Germania, in Irlanda, nel Belgio e nel Lussemburgo, in Austria, in Russia e nei Paesi dell’est, negli Stati Uniti e in Canada. Ma per l’Italia la strada era ancora lunga, bisognava attendere ancora due anni per vedere, almeno burocraticamente, realizzarsi le promesse.

Finalmente il 25/5/25 alla Camera dei Deputati si discusse il disegno di legge che concedeva il voto amministrativo alle donne.

Queste le parole di Mussolini:
“La materia del contendere è così matura che potrebbe dirsi fradicia […], se ne discute oggi perché non se ne discuta più domani. Non divaghiamo ad indagare se la donna sia superiore o inferiore all’uomo, constatiamo che è diversa. Io sono piuttosto pessimista […], credo che la donna non abbia gran potere di sintesi, e quindi sia negata alle grandi creazioni spirituali. Nelle mie peregrinazioni non ho mai trovato una donna che mi abbia chiesto il diritto di voto. Questo torna ad onore della donna italiana. La questione del suffragio femminile può essere ritenuta di ordine secondario”.

Nonostante le convinzioni di Mussolini, il diritto al voto era una questione molto sentita fra le donne; ovviamente l’attenzione era maggiore tra quelle donne impegnate politicamente nel movimento femminile, ma anche all’interno delle associazioni cattoliche femminili la questione suscitava grande interesse.

La stessa stampa femminile di quegli anni testimonia l’impegno delle donne nel sostenere il voto. In La Donna Italiana, rivista mensile che si occupava di letteratura, di arte e di argomenti scientifici, le maggiori esponenti del movimento femminili, come Teresa Labriola, richiamavano l’attenzione nazionale sul diritto del suffragio universale.

Nell’assemblea del 25/5/25 si approvò il decreto che concedeva alle donne il voto amministrativo, con queste restrizioni: potevano votare solo le donne in grado di pagare le tasse, quelle in possesso di diploma elementare, le donne con effettivo esercizio di patria potestà, le madri di caduti in guerra e le vedove di guerra, purché non risposate né concubine, le donne decorate di medaglia al valore militare oppure civile.

Il voto fu concesso secondo determinate capacità economiche e alla posizione sociale occupata dalle donne stesse; a seguito dell’accurata selezione, le donne italiane in grado di votare -a livello amministrativo- erano appena un milione su dodici aventi diritto.

Questa decisione delineò chiaramente sia l’ostilità della nuova classe dirigente verso una possibile emancipazione delle donne, sia la direzione del consenso. Il fascismo, infatti, cercò in prevalenza l’approvazione delle classi medio – alte, della borghesia urbana e della vecchia aristocrazia italiana a causa delle forti resistenze opposte ad esso da parte del proletariato.

La discriminazione operata sul diritto di voto dimostra chiaramente quali fossero gli ambienti sociali che la dittatura era interessata a favorire. Bisogna inoltre dire, che neppure quelle donne aventi diritto hanno sempre potuto esercitarlo. Con il decreto legge emanato nell’ottobre del’25 era stata soppressa e sostituita con un governatorato, l’amministrazione elettiva del comune di Roma, ove avevano sede le organizzazioni centrali femminili.

L’intenzione del fascismo era chiara: eliminare quei luoghi in cui la possibilità di voto per le donne era maggiore. L’antica e radicata idea dell’incapacità femminile rispuntava dietro una concessione apparente, che non avrebbe cambiato il ruolo che il fascismo assegnò alle donne.

LA DONNA NELL’IMPERO

Con la conquista dell’Etiopia nel ’36 e la successiva proclamazione dell’impero, si aprì una nuova fase del fascismo e dell’intero popolo italiano. Gli anni fra il ’37 e l’entrata in guerra dell’Italia costituiscono il periodo della realizzazione del progetto fascista e del sogno mussoliniano di emulare l’antica Roma, obiettivi che non si sarebbero potuti raggiungere senza il contributo delle donne italiane.

Mai come in quegli anni, le donne furono chiamate ad una partecipazione di massa in nome della razza italiana. Si può affermare che l’attivismo nei Fasci femminili, l’associazionismo sportivo, assieme a quello benefico-assistenziale, siano stati per le donne una sorta di percorso propedeutico finalizzato alla costruzione di una coscienza di razza che, di fronte alle pretese coloniali, diventava ancor più necessaria.

Il governo fascista, infatti, chiedeva alle donne di recarsi nelle colonie e assegnava loro un duplice compito: unirsi con i soldati italiani presenti nelle colonie per creare nuove famiglie e contemporaneamente diffondere la cultura italiana agli “indigeni”.

In questo modo, la donna era posta al centro della politica espansionistica del fascismo, le venivano nuovamente attribuite funzioni morali, sociali e demografiche; ma questa volta le si chiedeva anche di affrontare un lungo viaggio, lasciando la propria casa ed il proprio paese.

Bisognava dunque preparare le donne alla nuova missione. Le esigenze cui il partito doveva rispondere erano fondamentalmente due: la prima, d’ordine teorico, era di formare nelle donne un interesse coloniale; la seconda, invece, molto più pratica, consisteva nell’addestrarle alla vita coloniale.

Nel 1937, con il Foglio di Disposizione numero 853 dell’otto agosto, il governo stabilì la presenza di una collaboratrice all’interno di ogni sezione dei Fasci, con il compito di infondere nelle iscritte il sentimento coloniale. Il provvedimento più efficace fu preso l’anno successivo, con il Foglio di Disposizione numero 1033 del sette aprile 1938 che prevedeva l’istituzione di campi pre – coloniali nelle varie regioni italiane.

I primi campi si allestirono ad Alessandria, Cuneo, Genova, Varese, Brescia, Vicenza, Venezia, Trieste, Bologna e Roma, all’interno dei quali si tenevano i corsi di preparazione alla vita coloniale, che diventavano spesso dei veri e propri corsi di sopravvivenza.

Le lezioni alternavano le tematiche care al regime, come la difficoltà dell’espansione italiana, la difesa della razza e il pericolo del meticciato, con la presentazione dei problemi di ordine quotidiano, che le donne avrebbero potuto trovare una volta giunte a destinazione. Si creò anche la Giornata Coloniale, il 9 di maggio, in cui venivano rilasciati i diplomi di partecipazione ai corsi.

La partenza delle prime donne verso le colonie avvenne il 23/9/38. Cento donne si imbarcarono sulla motonave Tirrenia per giungere in Libia, dove era stato costruito il primo campo nazionale coloniale. Fecero ritorno una ventina di giorni dopo. Appena giunte a destinazione, le donne sposate cercavano di ricongiungersi ai loro mariti, cosa non facile visto la forte burocratizzazione, le altre confidavano in una sistemazione all’interno del campo o delle strutture ospedaliere, se infermiere.

Nel 1940, le donne nelle colonie risultavano circa undicimila contro i quasi quarantaduemila uomini, ancora troppo poche per esaudire le esigenze demografiche della dittatura. L’amministrazione fascista pensò allora di moltiplicare i corsi pre-coloniali con la speranza di veder aumentare il numero delle presenze femminili in Africa.

In un solo anno, i corsi si diffusero in quasi tutte le province del nord Italia, soprattutto nel Veneto: dai comuni montani del bellunese fino alle più sperdute località del vicentino si istituirono campi e corsi coloniali ma senza grande successo. La partecipazione delle donne era alta, ma appena si chiedeva loro di partire per quelle terre così lontane in nome dell’Impero, l’interesse per la causa nazionale diminuiva velocemente.

A parte la mancata realizzazione degli obiettivi coloniali, è interessante sottolineare due aspetti del rapporto donna-regime fascista. In primo luogo, la costante necessità di coinvolgere le masse femminili nel programma politico fascista, per poterlo portare a compimento. Il metodo usato è sempre uguale:” pubblicizzare” la maternità, porla cioè al servizio di un interesse comune.

In secondo luogo, la risposta non certo positiva che le donne diedero alla richiesta di “popolare” le colonie mi permette di confermare quanto già detto per la vicenda delle mondine: il consenso femminile non fu certamente unanime. Molte donne italiane, forse la maggioranza, espressero più volte ed in modo diverso, secondo le loro possibilità, il dissenso verso la disciplina

ALLE DONNE D’ITALIA

“Desidero prima di tutto ringraziarvi per avere accolto con la più grande spontaneità e sollecitudine l’appello che il massimo organo del Regime vi ha rivolto nella sua recente sessione. Voi avete tutti i titoli e tutti i meriti per costituire l’avanguardia di quell’esercito femminile italiano al quale il Regime ha affidato il compito di reagire con metodo, con energia, con inflessibilità contro l’obbrobrioso assedio economico che cinge l’Italia.

Il Partito e il Regime contano quindi su di voi, sulla vostra sensibilità, sulla vostra pazienza, sulla vostra tenacia e contano sopra tutto su quello spirito di ardente patriottismo che freme nel cuore di tutte le donne italiane. Se qualcuno, negli anni gloriosi e tragici della guerra mondiale, quando la dolorosa notizia entrò nelle vostre case, fosse venuto dai voi a dirvi che un giorno sarebbe giunto in cui i Paesi ai quali avevate offerto la giovinezza dei vostri figli, avrebbero rifornito di armi esplosive i nemici che lottano contro le truppe italiane, voi avreste respinto questa ipotesi come si cerca di allontanare un sogno malvagio.

Questa è la realtà di oggi. Non è senza emozione che ieri leggevo la lettera della madre di Filippo Corridoni, che ricordava il messaggio lanciato dal figlio, nell’atto di partire per il fronte, all’Unione sindacale milanese: “Andiamo a combattere per il Belgio martire, per la Francia invasa, per l’Inghilterra minacciata…”

“Ora quelli che noi abbiamo aiutati, congiurano contro l’Italia. Ma quale è il delitto che l’Italia avrebbe compiuto? Nessuno, a meno che non sia un delitto portare la civiltà in terre arretrate, costruire strade e scuole, diffondere l’igiene e il progresso del nostro tempo. Non è il lato economico delle sanzioni quello che ci sdegna. Le sanzioni economiche, in un certo senso, saranno utili al Popolo Italiano. Oggi finalmente ci accorgiamo di avere molte più materie prime di quello che non pensassimo.

Ma quello che ci rivolta nelle sanzioni è il loro carattere morale. È questo aver messo sullo stesso piano l’Etiopia e l’Italia, è questo aver considerato il Popolo Italiano, il Popolo che ha dato tanti contributi alla civiltà del mondo, come un oggetto da laboratorio, sul quale gli esperti ginevrini possano compiere impunemente le loro crudeli esperienze.

Anche quando tutto sarà finito, il solco che queste misure hanno tracciato nel nostro animo rimarrà profondo. Non desidero aggiungere altro perché tutto ciò che io vi ho detto e potrei dirvi è già presente nelle vostre anime. Sono sicuro che, tornando nelle vostre città, voi porterete nei vostri cuori queste parole e le diffonderete ovunque in modo che esse siano la “consegna” di tutte le donne d’Ita1ia e di tutto il Popolo Italiano”.
(Discorso alle donne d’Italia, 2 dicembre 1935- XIV, in B. Mussolini, Scritti e Discorsi dell’Impero. Novembre 1935 – XIV – 4 novembre 1936 – XV -, Edizione definitiva X, Hoepli Editore, Milano, 1936).

ELOGIO ALLE DONNE D’ITALIA

“Sono veramente lieto di rivolgere a voi, donne dell’Urbe, e con voi alle donne di tutta Italia, l’espressione della mia più profonda simpatia. La fulgida Vittoria riportata dalle nostre truppe nell’A. O. si deve all’eroismo dei vostri figliuoli, dei vostri mariti, dei vostri fratelli, ma si deve anche a voi, o donne di Roma e d’Italia.

L’Italia fascista. cinta dall’assedio societario organizzato da 52 Paesi, vi aveva affidato un compito delicato e decisivo: quello di fare di ogni famiglia italiana un fortilizio per resistere alle sanzioni. Con magnifica disciplina, con patriottismo superbo, voi, o donne, avete assolto a questo compito che il Regime vi aveva affidato. La Patria vi tributa la sua gratitudine, mentre il vostro esempio rimarrà consegnato nelle pagine della storia italiana”.
(Discorso dell’8 maggio 1936, in B. Mussolini, Scritti e Discorsi dell’Impero, novembre 1935 – XIV – 4 novembre 1936 – XV, Edizione definitiva X, Hoepli Editore, Milano, 1936).

LA STAMPA SOTTO IL REGIME:
MODELLI FEMMINILI ALTERNATIVI

di Francesca Delle Vedove

La concezione fascista della donna e i ruoli politico-sociali che il regime le assegnò, non solo presentano delle notevoli contraddizioni al loro interno, come ho cercato di dimostrare, ma non sono neppure sufficienti a descrivere in modo esaustivo la realtà femminile di quegli anni e la stratificazione del rapporto con la dittatura.

Nell’immaginario collettivo, la donna del ventennio fascista è fissata nei ruoli tradizionali di “madre e sposa esemplare”, di eterna compagna di “quell’italiano nuovo che doveva realizzare il mito della nuova Italia”. Sicuramente tale immagine è esistita ed ha avuto un peso rilevante nella vita di molte donne italiane, influenzandone sia i comportamenti che le scelte culturali; ma il modello femminile fascista non fu così totalizzante.

In primo luogo, mai come negli anni della dittatura la cultura ha subito una profonda spaccatura, dando vita a forme culturali tanto diverse a seconda degli ambienti sociali in cui essa si diffondeva. Pertanto, non si può affermare che le donne italiane si adattarono in maniera compatta al modello femminile fascista anzitutto perché esso non si presentò mai unitario.

Infatti, il regime ebbe tutto l’interesse nel promulgare una cultura differenziata per poter accentuare le differenze esistenti fra le donne, e sfruttarle al meglio a conseguimento dei propri obiettivi. In secondo luogo, alcuni studi più recenti percorrono una nuova direzione attraverso l’analisi della stampa femminile.

La stampa offre una possibilità di riflessione, in quanto presenta la molteplicità dell’universo femminile e conferma l’esistenza di una realtà tutt’altro che monolitica.

L’insieme delle riviste, dei settimanali e dei mensili che la donna del ventennio ebbe a disposizione confermano, in qualche misura, la pluralità dei modelli culturali esistenti in quel periodo, e soprattutto testimoniano la presenza di uno scollamento fra l’immagine femminile ufficiale e la realtà quotidiana.

E’ impossibile negare l’intenzione del governo fascista: esso tentò di costruire uno stereotipo femminile che mirasse all’esaltazione della funzione di maternità, con lo scopo di legittimare in seguito l’emarginazione sociale delle donne. E’ però altrettanto interessante rintracciare la nascita di nuovi modelli femminili, spesso in contraddizione con le linee di partito, nella stampa periodica dello stesso fascismo femminile e di altre aree meno politicizzate.

Attraverso una panoramica che toccherà alcune testate fasciste, i principali periodici a grande tiratura e alcune riviste cattoliche, cercherò di mettere in luce gli atteggiamenti di trasgressione suggeriti dalla stampa e l’eventuale risposta di consenso data dalle masse femminili, perché “la stampa femminile è davvero il luogo privilegiato di verifica delle contraddizioni del paese, sotto l’ambiguo e contraddittorio rapporto pubblico/privato”.

LE RIVISTE FEMMINILI

I ROTOCALCHI

I periodici femminili permettono, grazie alla loro molteplicità e varietà, di dare uno sguardo più diretto e meno “filtrato” della condizione delle donne italiane, offrendo una “gigantografia decontestualizzata” immediatamente percepibile. Decontestualizzata, in quanto l’analisi odierna dei periodici non consente di determinare in modo preciso le fasce sociali a cui essi si rivolgevano, anche se la prerogativa delle riviste di diffondersi in modo trasversale – così come oggi – assicura un’ampia panoramica sulla realtà femminile del ventennio.

Inoltre, non si può dimenticare che le riviste e i rotocalchi subirono meno la censura operata dal regime rispetto ai quotidiani, ebbero dunque una maggior libertà nell’offrire un’immagine femminile più articolata e complessa rispetto a quella promossa dal pensiero fascista.

La donna che Mussolini voleva casalinga, morigerata e prolifica, non veniva comunque trascurata, anzi le erano dedicate pagine e pagine di consigli legati alla sua sfera familiare, tuttavia questa stessa immagine era sottoposta ad una sorta di rovesciamento, da casalinga a consumatrice, in grado di gestire gli acquisti domestici e amministrare l’economia della casa.

Negli anni venti cominciava, infatti, il processo di intensificazione ed espansione degli spazi pubblicitari che trasformava la donna nella consumatrice destinataria prediletta dei messaggi pubblicitari, non solo quelli riguardanti la casa, ma anche per lei stessa. I prodotti di bellezza e le ultime novità della moda incuriosivano sempre più le donne dei ceti medio – alti, e molto presto avrebbero contribuito al crollo del modello fascista.

I rotocalchi, molti dei quali costituiscono ancor oggi la parte più diffusa della pubblicistica per le donne, fecero il loro ingresso in Italia attorno agli anni trenta. Il Rakam è del 1930, Lei, che poi diventerà Annabella, è del ’33. Dello stesso anno è Eva, del ’38 sono Gioia!, Grazia , seguite da Bellezza del 1940.

Tutte queste testate contribuiranno nel giro di pochi anni a consolidare un mercato in via di progressiva espansione. La struttura di questi periodici rifletteva quella tradizionale, nata nel XIX secolo: si basava sull’alternanza di immagini di moda ed articoli di attualità, ed ancora alternava romanzi a puntate con suggerimenti sugli ultimi prodotti da comprare. Una pagina era normalmente dedicata alla posta e alle recensioni, mentre in copertina spesso comparivano foto del Duce o della famiglia reale.

Le pagine letterarie, cioè quelle dedicate a piccoli romanzi o a racconti, costituiscono la parte più interessante. Il protagonista è rappresentato da un personaggio femminile che molto spesso assume un ruolo addirittura eroico, come ad esempio nei romanzi coloniali, o comunque esce dal tradizionale ruolo di subalternità. Quando l’eroina non appartiene a mondi lontani ed esotici, la protagonista diviene “la donna comune”.

Ma con una grande innovazione: la donna di tutti i giorni è perfettamente inserita nel mondo del lavoro,“ed ecco entrare nelle trame narrative un esercito di sartine, di impiegate e persino di artiste e attrici che, a differenza del passato, non portano più il marchio della perdizione”.

Questo protagonismo femminile che offriva numerose varianti, segnala un forte cambiamento della psicologia femminile sia nelle autrici dei racconti sia nelle lettrici che senza difficoltà vi si immedesimavano. Credo che il contrasto fra l’immagine femminile proposta dalle donne stesse nelle riviste, e i modelli culturali precedenti assuma i contorni di un dissenso; e ancora, sostengo che la scelta di un eroismo attivo, se pur letterario, sia l’ennesimo segnale di un rifiuto consapevole dato dalle donne alle imposizioni fasciste.

Nelle pagine di attualità, molta attenzione era dedicata alla donna sportiva, nuova immagine di salute e forza in accordo con le linee di partito. Si proponevano con insistenza figure di donne che praticavano la vela, lo sci e il nuoto accanto a foto che ritraevano immagini dei corsi ginnici ed agonistici, prerogativa delle organizzazioni sportive fasciste.

All’interno delle riviste, c’era un’ampia sezione dedicata alla donna letterata. Nonostante rappresentasse un modello poco gradito al regime, ogni settimana venivano proposti profili biografici, foto ed indiscrezioni delle scrittrici più note e più all’avanguardia. Lascerei per un momento il mondo dei rotocalchi, per ripercorrere la storia di due importanti testate, La Donna e Lidel, in quanto esse anticipano, per certi aspetti, il nuovo capitolo della stampa femminile a larga diffusione, costituito appunto dai rotocalchi.

La Donna era un periodico nato oltre un decennio prima del periodo fascista, collegato a La Tribuna di Roma e a La Stampa di Torino. La rivista, edita negli anni venti da Mondadori, presentava fascicoli mensili molto curati in carta patinata, tanto da diventare in pochi anni, il più grande magazine d’arte e di moda italiano.

La Donna cercò di infrangere quella barriera che aveva diviso per anni la stampa femminile: da una parte si schieravano infatti i giornali legati ad un impegno attivo, come i fogli femministi e socialisti e i bollettini cattolici; dall’altra vi erano i periodici di moda e di varietà, sempre più numerosi nell’ambiente borghese. In qualche modo l’inedito accostamento tra il materiale “frivolo e di intrattenimento” e un largo ventaglio di argomenti, riuscì e la rivista cominciò ad essere un periodico di varietà e attualità culturale.

Il periodico ribadiva con orgoglio, l’apertura degli argomenti trattati:

“Noi intendiamo […] che Donna porti, col diletto della letteratura, alle sue numerose lettrici l’eco e il consiglio su tutto quanto può interessare la loro casa, i loro bimbi, la loro persona e il mondo in cui vivono”.

Non mancavano gli spazi pubblicitari, le cui affiches, concepite in senso moderno, ritraevano oggetti sia specificamente femminili, dai vestiti ai prodotti di cosmesi, che oggetti utili per la casa.

La rivista si rivolgeva ad un pubblico piccolo-medio borghese, come testimonia la presentazione che appare nel primo numero del 1905:

“Pur proponendosi un programma che ha degli alti intendimenti educativi, la nostra rivista vuole essere l’amica della donna dei nostri tempi e quindi senza essere futile e leggera come le riviste francesi, rifugge dalla pedanteria e dalla serietà scolastica delle pubblicazioni anglo-sassoni.

Noi vogliamo essere il giornale della signora italiana, che è colta e intelligente, che sa tener circolo brillante in salotto, ed essere mamma premurosa ed educatrice intelligente dei propri bimbi, che non dimentica la sua casa, che sa insegnare alla cuoca un nuovo piatto, e preparare il menù di un pranzo importante […].

Noi vogliamo insomma essere lo specchio della vita odierna italiana, e siccome la vita nostra è così ricca di novità, noi, seguendone gli echi, abbiamo un campo sterminato di soggetti, i più opposti e tutti interessanti”.

Per una lettrice ancora più raffinata, era il mensile Lidel di Lydia Dosio De Liguoro. Nato a Milano nel 1919, Lidel era un periodico di attualità culturale ancora più mondano e spregiudicato nel diffondere modelli femminili cosmopoliti, di quanto lo fosse La Donna. Il titolo stesso esprimeva il carattere eclettico della rivista, formato dalle iniziali dei materiali che offriva al pubblico: Letture, Illustrazioni, Disegni, Eleganza, Lavoro.

L’impianto del periodico era, almeno nelle prime annate, principalmente culturale, tanto che, nel primo anno, era stata costituita una commissione culturale. Vi erano pagine di recensioni dedicate in prevalenza ad opere italiane, novelle e racconti, poesie e romanzi a puntate. Lidel, inoltre, vantava una fitta rete di collaboratori illustri fra i quali Massimo Bontempelli, Guido da Verona, Grazia Deledda, Ada Negri, Luigi Pirandello, Matilde Serao e Federigo Tozzi.

A cavallo fra gli anni venti e trenta, divennero sempre più frequenti gli articoli dedicati agli avvenimenti dell’Italia fascista e in questo senso la rivista si “fascistizzava”, senza però assumere i caratteri della stampa ufficiale del regime. Lidel uscirà fino al 1935.

Da un sommario sguardo a queste due riviste e ai rotocalchi degli anni trenta, si può concludere che i periodici femminili godessero di un’anomala apertura e di una mancanza di conformismo? La risposta è sicuramente negativa, ma è necessario fermarsi a riflettere sul ruolo svolto da queste riviste e sull’atteggiamento del fascismo.

Come si è già osservato, la tolleranza che il regime riservò per la stampa periodica fu sempre maggiore rispetto a quella per la stampa quotidiana, ma nonostante questa “libertà”, l’atteggiamento del fascismo subì dei cambiamenti nel corso del ventennio.

Sostanzialmente, tali trasformazioni coincisero con i mutamenti più generali nella visione del ruolo della donna. Così come nei primi anni, il movimento fascista non mostrava pregiudiziali antifemminili e questo atteggiamento si esprimeva in una indipendenza della stampa femminile, negli anni della “svolta autoritaria” dello Stato, avvenuta nel ’25, e nel ’36, anno della proclamazione dell’Impero, si può invece riscontrare nelle riviste una perdita di autonomia ed una maggiore omologazione ai modelli fascisti.

E’ impossibile pensare ad una stampa libera e incondizionata, tanto più sotto un regime totalitario; è però possibile rintracciare uno scollamento, costante lungo tutto il ventennio, fra l’immagine femminile che il fascismo imponeva e la molteplicità delle manifestazioni presenti nella realtà femminile italiana.

 

RIVISTE UFFICIALI: “RASSEGNA FEMMINILE ITALIANA”

E “IL GIORNALE DELLA DONNA”

Accanto ai rotocalchi e alle altre riviste di intrattenimento, la stampa femminile offriva alle sue lettrici la possibilità di un’informazione politica attraverso la diffusione di due celebri riviste: la Rassegna femminile italiana e Il Giornale della donna, entrambe legate alle direttive di partito, ma non per questo prive di spunti interessanti.

La Rassegna femminile nasceva il 15 gennaio del 1925 grazie alla sua fondatrice Elisa Majer Rizzioli, nobildonna veneziana e personaggio di primo piano nel fascismo degli anni venti. La Majer che già da alcuni anni si interessava alle questioni politiche, entrò nel partito fascista il 1 gennaio 1920 e si occupò fin da subito delle richieste delle donne, dal diritto elettorale fino alla controversia sull’autonomia da concedere ai Fasci femminili.

Nel ’24, Mussolini affidava al Comitato femminile milanese, nel quale Elisa Majer svolgeva funzioni di prim’ordine, il compito di esaminare la questione dello Statuto dei Fasci e di organizzare i gruppi femminili di tutta Italia. Soltanto pochi mesi dopo, la Majer diveniva ispettrice generale dei Fasci, una carica che le consentiva di aprire una rivista, chiamata da lei stessa Rassegna femminile italiana.

Il periodico nasceva come “bollettino dei Fasci femminili”, anche se, in seguito, si collocherà a mezza strada fra il foglio politico e la rivista femminile. Era costituito da un fascicolo in bianco e nero di una ventina di pagine, con una tiratura che raggiungeva le 4.000 copie circa.

La rivista, nonostante lo stretto legame con l’organizzazione fascista della quale pubblicava la cronaca ed il notiziario, cercava di ampliare la gamma dei suoi argomenti, affrontando anche questioni culturali e letterarie. La Majer Rizzioli così confermava l’orientamento del suo periodico in una letteracircolare del 21/3/ ’25:

“La guida del movimento femminile italiano e fascista in particolare: ogni suo articolo ha uno scopo preciso e di bene sociale, di coltura, di elevazione, soprattutto di fusione dei più diversi elementi femminili. Alla rassegna collaborano i migliori autori e le scrittrici più serie e valorose, senza preoccupazione che siano o no fasciste”.

Dichiarazione forse eccessivamente ottimista, tuttavia gli argomenti trattati erano effettivamente vari ed inoltre la Rassegna poteva vantare di illustri collaboratori – anzi, collaboratrici, visto che le firme erano quasi esclusivamente femminili –  come Olga Mezzomo Zannini, Maria Pezzé Pascolato e Teresa Labriola, uno dei personaggi più impegnati politicamente dello schieramento femminile.

Grazie al contributo di queste donne, spesso provenienti da percorsi di vita assai diversi, la rivista assumeva un significato sempre più ampio rispetto a quello assegnatole dal regime: nato come foglio politico, ora rappresentava un’area culturale che sapeva coniugare la militanza nel movimento femminile con l’adesione al fascismo.

La Majer e le sue collaboratrici ritenevano che il fascismo, in nome della “forza rivoluzionaria” di cui si faceva portavoce, doveva farsi carico della questione femminile e contribuire in modo decisivo alla formazione della “nuova italiana”.

Nella rivista perciò, accanto al resoconto dell’operato dei Fasci, si faceva riferimento a questa nuova immagine femminile, decisa, forte e assorbita dalla sua militanza politica, immagine che il regime avrebbe dovuto sostenere, almeno secondo le promesse fatte agli inizi del ventennio. Come tutta risposta, malgrado una certa diffusione della testata, alla fine del ’25 la Rassegna veniva chiusa.

Le motivazioni precise non vennero mai date; è probabile che l’intelligenza e l’esuberanza della Majer e delle altre donne che partecipavano alla stesura della rivista, infastidisse il governo fascista a tal punto da non essere più in grado di gestire la situazione eccetto con la chiusura della Rassegna femminile. E’ da ricordare che due anni dopo, la rivista venne nuovamente pubblicata, anche se si presentava sostanzialmente modificata.

La Rassegna aveva subito il cosiddetto processo di “fascistizzazione”: il tono era infatti molto più conformista e alcune rubriche erano state “tagliate”, così come numerose collaboratrici. Proprio a causa dei forti legami con il partito, nel ’27 la rivista fu costretta ad appoggiare la campagna demografica, ma questo non impedì alla Majer di dire la sua in proposito:

“[…] disgusta la volgarità dell’espressione: essa denota la grossolana incompetenza maschile che riduce la donna ad una macchina produttrice. […] La donna italiana non deve ritornare alla calza, né imparare che deve cieca sottomissione all’uomo, preferito di Dio…La donna moderna deve invece opporsi vigorosamente a tutti i surrogati materni, prepararsi degnamente alla maternità e compierla fino all’età maggiorenne dei figli”.

Nonostante l’irriducibilità della sua direttrice, la rivista andò via via perdendo ogni suo spazio critico verso la politica femminile del regime. In modo lento ma progressivo, la stessa Majer cominciò a perdere il favore del Duce e inevitabilmente anche il suo potere; la rivista chiuse definitivamente agli inizi del 1930.

L’esperienza della Majer e la storia della sua Rassegna femminile testimoniano il percorso e le contraddizioni più evidenti della politica culturale in materia femminile, compiuta dal fascismo. Il governo fascista pretendeva sì una massiccia partecipazione delle donne nelle varie organizzazioni fasciste, ma imponeva una “partecipazione passiva”, vale a dire priva di qualsiasi autonomia e completamente assoggettata alla gerarchia maschile fascista.

L’altra rivista ufficiale era Il Giornale della donna di Paola Benedettini Alferazzi, fondato a Roma con il sottotitolo di “Settimanale di educazione sociale femminile”. Nel ’30, diventava l’organo ufficiale dei Fasci femminili al posto della Rassegna femminile. Si apriva dunque per Il Giornale, un nuovo periodo di pubblicazione al servizio del PNF, sancito in modo ufficiale dal cambiamento del titolo: la rivista diventava La Donna fascista.

Con queste parole, si apriva la prima pagina:

“Il giornale è entrato in una nuova fase della sua vita; organo ufficiale dei fasci femminili non può e non deve esaurire il suo programma in una semplice esposizione dei fatti, ma deve rendersi interprete della nuova sensibilità femminile chiamando a raccolta tutte le donne che col proprio lavoro rappresentano valori reali e sono indice della rinnovata attività nazionale”.

Anche questa dichiarazione sembra troppo ottimista se la si confronta con la limitata libertà di cui la rivista godeva; sono necessarie però, delle considerazioni. Malgrado la linea ufficiale che Il Giornale doveva seguire, nella rivista si prendevano in considerazioni modelli femminili diversi da quello tradizionale di “moglie e madre esemplare”.

Gli articoli infatti, si rivolgevano in modo esplicito alla donna lavoratrice, inserita a pieno titolo nel mondo del lavoro salariato e con una consapevolezza maggiore della realtà sociale. Non mancavano inoltre discussioni “ufficiali”, come l’assistenza sociale alla donna lavoratrice che, se pur legata alla questione più ampia del lavoro femminile, era il vero orgoglio della dittatura fascista.

Come era già successo per il periodico di Elisa Majer Rizzioli, anche Il Giornale si trovò al centro di forti polemiche perché considerato troppo autonomo; in pochi mesi venne revocata la sua funzione di giornale ufficiale dei Fasci, anche se continuò ad uscire fino al 31/12/1942.

LE RIVISTE CATTOLICHE

La stampa popolare cattolica, nata nella seconda metà dell’800 come pubblicistica diocesana, aveva compiuto un salto di qualità agli inizi del novecento affermandosi anche fra i cattolici, e non più soltanto nell’ambito delle gerarchie ecclesiastiche.

Questo mutamento rispondeva all’esigenza di una sorta di “modernizzazione” delle forme e dei modelli dell’apostolato cristiano, in quanto le vecchie forme apparivano definitivamente superate. La consapevolezza della necessità di una maggior presenza della cultura cattolica nella società, si espresse attraverso la nascita di numerose associazioni, in prevalenza destinate al mondo femminile.

Infatti, il problema era quello della differenziazione dal movimento femminista e della creazione di un’organizzazione di massa, che costituisse una valida alternativa nel mondo femminile, a sostegno della cultura cattolica. In pochi anni nacquero numerose organizzazioni cattoliche: nel ’18 nasceva La Gioventù Femminile, nel ’22 l’Unione donne e la sezione universitaria; insieme formavano la più ampia Unione femminile cattolica.

E’ in questo contesto che la nuova stampa cattolica assumeva un nuovo significato, divenendo organo di diffusione delle varie associazioni femminili; si spiega così la presenza di numerose testate. Ne citeremo solo alcune.

Fiamma viva era un mensile diretto da Armida Barelli e Maria Sticco, pensato per una donna proveniente da uno strato sociale elevato. La rivista si proponeva come un “periodico di cultura”, il cui tono era quello della confidenza e della complicità. Nella lettura si potevano trovare sia articoli religiosi, sia cronache delle attività della Gioventù femminile, ma anche scritti dedicati ai problemi della vita quotidiana.

Non mancavano neppure pagine di moda, biografie di scrittrici più o meno note, la posta e soprattutto la pagina letteraria. E qui è necessario fermarsi per una considerazione. Cattolicesimo e fascismo erano impegnati in una lunga ed anacronistica lotta contro la letteratura d’evasione femminile costituita da racconti romantici e lacrimevoli, che spesso comparivano nelle pagine delle riviste femminili.

Era soprattutto la diffidenza cattolica verso questo genere di narrativa a condannare a chiare lettere il sentimentalismo, perché ritenuto colpevole di influenzare negativamente le donne. Così Famiglia cristiana indicava i nemici della famiglia e della donna:

“[…] il libertinaggio, l’empietà, il disordine, l’immoralità della stampa, la depravazione dei costumi, la frivolità della moda, che attira la donna fuori casa con gli spassi e gli sport”.

Nonostante l’opposizione di una rivista così autorevole che dava voce al pensiero ufficiale delle gerarchie cattoliche, sia Fiamma viva che Il Solco, continuavano nella pubblicazione di romanzi sentimentali a puntate, riscontrando un ampio sostegno nelle lettrici cattoliche che, in diverse occasioni, avevano chiesto un maggior spazio dedicato alla pagina letteraria.

Il Solco, quindicinale romano diretto da Maria Rimoldi, presentava un’impostazione più chiusa rispetto a Fiamma viva e più finalizzata a responsabilizzare le donne ad una missione di apostolato laico. Nell’editoriale del ’26 vi si leggeva:

“Siamo sicure che attraverso le pagine serene e buone della Rivista, scritte con amore, che vi parleranno di religione, di educazione, di letteratura e di arte, di problemi sociali e familiari, voi avrete la visione delle opere di bene che attendono la vostra attività […]”.

I fascicoli della rivista, in conformità con la realizzazione del programma cattolico, affrontavano temi disparati, pur mantenendo una struttura fissa: “Vita religiosa”, “Famiglia ed educazione”, “Lettere ed arti”, “Varie”, “Nel campo sociale”.

Entrambe le riviste documentano come all’interno delle organizzazioni cattoliche vi fossero posizioni differenti sia nei confronti dello stesso mondo cattolico che verso la politica fascista. Non è da trascurare la forte posizione di opposizione che Il Solco assunse contro le leggi razziali e le dure critiche della sua direttrice contro alcuni provvedimenti presi dal regime.

Nel ’23 infatti, Maria Rimoldi si era schierata contro la proibizione delle donne di accedere alla carriera di preside degli istituti secondari, come non si risparmiò qualche anno dopo, di definire “vittoria di Pirro” la concessione del voto amministrativo alle donne.

Malgrado la questione del voto non costituisse uno degli interessi principali del mondo cattolico femminile, alcune responsabili delle associazioni cattoliche esprimevano chiaramente la loro opinione:

“Non avevamo chiesto il voto; ma poiché gli eventi ci hanno messo di fronte ad una realtà, sentiamo la necessità di partecipare coscientemente alla vita civica”.

Molto diversa era la posizione assunta da Famiglia cristiana. La rivista era impegnata nella ridefinizione del ruolo femminile, in modo perfettamente congruente sia con la morale cattolica che con l’ideologia fascista. Il modello femminile proposto coincideva con quello determinato dal primato del ruolo materno: ancor prima di essere sposa, la donna era madre.

La maternità era descritta con toni “mistici e sacri”, sottolineando l’aspetto trascendentale della procreazione, cioè la possibilità per la donna di rapportarsi con la volontà di Dio. Malgrado avesse come primi destinatari le donne, Famiglia cristiana mirava ad estendere il campo dei propri lettori; col tempo infatti, gli articoli andarono a toccare argomenti più ampi, che riguardavano i problemi degli anziani fino a quelli relativi alla vita rurale.

Fu questo il motivo del grande successo della rivista, che vide aumentare progressivamente il numero dei suoi lettori fino a raggiungere, nel ’46, una tiratura di 100.000 copie. Ma il periodico più interessante è certamente La Donna italiana: rivista mensile di lettere, scienze, arti e movimento sociale femminile, fondato a Roma da Maria Magri Zopegni che lo dirigerà fino al 1943, anno in cui il giornale verrà chiuso.

Negli oltre vent’anni di pubblicazione, la rivista ha percorso un iter lineare e facilmente ricostruibile attraverso gli articoli di apertura, che l’ha portata da una iniziale posizione di apertura verso alcune aree del femminismo, ad una posizione conservatrice e in linea con la politica fascista. Pertanto non si può considerare La Donna un periodico cattolico apolitico, tutt’altro: la rivista interveniva in modo esplicito nelle questioni politico-sociali “più scottanti”, quali il lavoro femminile, la proclamazione dell’Impero, fino ad esprimersi in favore della guerra spagnola.

Come si è detto, gli articoli della prima fase della rivista riflettevano posizioni di maggior apertura, sostenendo con toni accesi le attività extradomestiche femminili proprio negli anni in cui il regime andava intensificando la campagna per l’espulsione delle donne dai posti di lavoro.

Si leggeva:

“Tutto ciò che, conformemente all’antico ideale romano e cristiano, tenda ad elevare la donna, ad affermare il diritto all’esistenza, a rivalutarne il lavoro, deve formare parte essenziale del nostro pensiero e dell’opera nostra. Troppo si è gridato e si grida contro l’invadenza della donna nella vita pubblica: e non si pensa o non si vuole pensare, che il diritto al lavoro, è una santa prerogativa umana, sancita dalla religione, conquistata con lotte titaniche, ammessa oggi dalla coscienza di tutti.

Giammai dovremmo stancarci di proclamare e di sostenere questo principio: che, oggi, non solo l’uomo ma anche la donna deve guadagnarsi il pane col sudore della sua fronte e che, a colei che lascia i quieti ripari casalinghi per entrare nella selva selvaggia del mondo, deve essere tributata protezione e rispetto”.

Il lavoro veniva esaltato, e si dichiarava il diritto al lavoro “una sacrosanta prerogativa umana”. Purtroppo questa dichiarazione libera, autentica e “rivoluzionaria”, ebbe breve durata. Soltanto qualche anno dopo, la rivista assumeva una direzione tutta risolta in chiave fascista e si adoperava nell’affermare il ruolo sociale della donna, coincidente con l’essere madre; addirittura si elogiava il fascismo per le norme sulla tutela delle madri lavoratrici:

“Il fascismo ha tributato alla donna l’equo riconoscimento del suo valore […]; ha sancito, con una geniale legislazione che riscuote l’ammirazione di tutto il mondo civile, la tutela e la protezione che le spettano come madre e come lavoratrice”.

Il cambiamento della rivista fu radicale e, a partire dagli anni trenta, La Donna si avviò verso la teorizzazione del modello della “donna fascista”, i cui maggiori contributi vennero dati da Teresa Labriola. Il “tipo” della donna fascista era da lei descritto con queste parole:

“La donna fascista non è un quid medi, non è transizione o transazione. Il fascismo sta chiaro dinanzi a noi. Sta come novità. Sta come attualità. Sta come presa di posizione totale rispetto all’avvenire. Il fascismo anticipa il domani. Non ripete come non ripiega. E’ un blocco. Se non è materia – e materia non è – è un blocco saldissimo di spirituale fermezza”.

E ancora:

“Elevata e potenziata, la donna fascista si pone quale elemento nuovo, filiale e fraterno, nella società nuova cui il fascismo ha dato vita e calore, colore e significazione”.

Il delirio della Labriola e i toni di tutta la rivista – si ricordi che La Donna era un periodico cattolico- si assimilavano a quelli dell’Italia imperiale e il repertorio linguistico diventava quello della più tradizionale stampa fascista.

Lo studio di queste testate appartenenti al mondo cattolico vuole confermare due punti essenziali di questo lavoro. Innanzitutto l’impossibilità di dare una visione unitaria ed omogenea della realtà femminile nel ventennio fascista. Le varie riviste, seppur accomunate da una censura più o meno considerevole operata dalla dittatura, testimoniano la molteplicità di sfumature presenti nell’universo femminile, troppo spesso chiuso in una visione omogenea che ne banalizza il significato.

Inoltre, la panoramica sulla stampa cattolica mi ha permesso una maggior conoscenza e consapevolezza del rapporto esistente fra il progetto fascista e il pensiero cattolico. In molte occasioni, più volte sottolineate, gli obiettivi del partito fascista trovarono un solido appoggio nella concezione cattolica della donna e della famiglia, che aiutò il fascismo nella diffusione e nell’accettazione di un modello culturale dominante.

L’ALMANACCO DELLA DONNA ITALIANA

L’ultima sezione di questa ricerca nella stampa femminile del ventennio è dedicata all’Almanacco della donna italiana, un periodico che senza interruzioni ha attraversato gli anni difficili della dittatura e ne ha descritto la realtà da un punto di vista femminile.

In Italia, la tradizione degli almanacchi era ben radicata. Nati come strumento di cultura popolare, offrivano un ampio ventaglio di nozioni: dalle tavole astronomiche a quelle geografiche, dalle informazioni igieniche a quelle di economia domestica; insieme ai calendari costituivano la forma più elementare di enciclopedia popolare.

Grande diffusione avevano avuto alcune iniziative, come l’Almanacco gastronomico (1912-1915), il celeberrimo Almanacco italiano, “enciclopedia popolare della vita pratica” e l’Almanacco dello sport del quale, nel 1920, usciva il settimo volume; tutti di grande interesse per la ricostruzione storica di quel periodo proprio perché “popolari”, pensati cioè per un pubblico medio.

In questo senso, l’Almanacco della donna italiana non si distaccava dagli altri, anche se scritto da buoni giornalisti e buoni collaboratori, fra i quali anche Montale, Jovine e Savinio. La rivista offriva un panorama quanto più articolato possibile della realtà femminile del tempo, confermando l’esistenza di un universo femminile più contraddittorio e meno monolitico di quanto il fascismo non fosse disposto a riconoscere.

Del resto, gli anni della pubblicazione della testata coincisero col periodo più rilevante per la metamorfosi della condizione femminile, realizzatasi attraverso una serie di trasformazioni che il fascismo in parte ostacolò, in parte provocò.

Mentre gli altri periodici finirono per adeguarsi lentamente alla politica del regime, l’Almanacco sfuggì al processo di “fascistizzazione” cercando di coniugare l’ossequio alle direttive di regime con una certa spregiudicatezza, almeno nelle pagine dedicate alla letteratura. L’Almanacco si proponeva come un periodico formativo ed educativo, secondo uno schema comune alle altre testate femminili; nella Prefazione del primo numero si leggeva:

“[…] Crediamo necessario che la donna rimanga e sia essenzialmente donna, vogliamo sostenerne i diritti, additarle i doveri sempre più numerosi e le responsabilità…; vogliamo indicarle le strade maestre e far sì che il nostro Almanacco sia un’eco fedele della vita, delle aspirazioni, del lavoro della donna.

Il nostro Almanacco perciò, pure tenendo presenti gli elevati problemi sociali ed economici femminili, non trascurerà di occuparsi dell’igiene e della bellezza della donna, di quelle arti antiche e pur sempre nuove che aumentano il fascino femminile, dell’abbigliamento, dei lavori muliebri, della decorazione della casa”.

Malgrado le intenzioni non siano certamente innovative, non va sottovalutata la presenza all’interno della rivista di una rubrica dedicata allo sport femminile, in anni in cui le gare ginniche femminili, ideate dal fascismo, erano ancora lontane e l’incoraggiamento dell’esercizio fisico suscitava le proteste della Chiesa.

Dunque, sostenere le attività ludiche delle donne e presentare nella pagina letteraria racconti di Guido Da Verona, considerati da larga parte del pubblico come materiale pornografico, testimoniava un atteggiamento libero ed aperto fino ad apparire spregiudicato.

Le pagine che però rivelano in modo più efficace le linee ideologiche dell’Almanacco, erano quelle dedicate alle due rubriche sulle società femminili e sui movimenti delle donne. Il saggio sulle società era un vero e proprio censimento in grado di offrire una mappa delle associazioni, da quelle politiche ai gruppi d’assistenza e di beneficenza, completate dai nomi delle dirigenti e dalle articolazioni sul territorio.

Ancora più esemplare, si presentava la “Rassegna dei movimenti femminili”, rubrica curata da Laura Casartelli, una delle protagoniste del movimento femminile degli anni venti. L’autrice si proponeva di informare in modo chiaro e semplice, la difficile situazione del movimento femminista e il complesso rapporto con il movimento delle donne cattoliche; lamentava inoltre, l’assenza di una politica femminile delle donne nei programmi dei partiti, ammirando le eccezioni rappresentate dalle sezioni femminili socialiste e dai gruppi femminili del Partito popolare.

La “Rassegna” si concludeva con il resoconto di alcuni interventi di parlamentari al congresso della Federazione nazionale pro suffragio e con altre notizie di convegni e mostre, il cui fine era il tentativo di inserire la realtà femminile italiana all’interno del movimento internazionale delle donne.

Fino a quando fu la Casartelli a curare le due rubriche principali, la rivista si presentava schierata su posizioni dichiaratamente di sinistra, anche grazie alla pubblicazione di articoli firmati dalla comunista Camilla Ravera.

Ma la situazione cambiò rapidamente nel ’26, quando la “Rassegna” venne firmata dalla più conformista Ester Lombardo, direttrice di un altro periodico del ventennio, Vita femminile. L’editoriale del ’26 confermava l’involuzione della rivista ed un allineamento con le posizioni fasciste:

“L’avvenire del nostro popolo ci sta dinanzi; tuttavia, fino ad allora sentiamo ed affermiamo che il popolo italiano quando abbia raggiunto quel grado di elevazione che permette un giudizio sicuro e sereno, riconoscerà fautori di quel suo bene raggiunto e, dandole il posto che le spetta, saprà onorare nella madre la fattrice di uomini”.

Dal ’30 in poi, le pagine politiche della rivista perderanno l’atteggiamento di apertura della prima metà degli anni venti e porteranno la firma di donne impegnate nelle organizzazioni fasciste, come Elisa Majer Rizzioli e Paola Benedettini Alferazzi. Le pagine letterarie seguirono invece, un percorso per certi versi opposto.

L’interesse verso la letteratura delle donne si allargava ulteriormente negli anni trenta e si concretizzava in una serie di rassegne internazionali dedicate alle scrittrici francesi e all’editoria angloamericana, nonostante l’autarchia culturale della dittatura.

L’attenzione per la letteratura straniera andò ampliandosi e arricchendosi nel corso degli anni fino alla creazione di una sezione, chiamata “Bibliografia femminile”, preparata da donne appartenenti alle sezioni estere del Lyceum, una prestigiosa associazione culturale fiorentina.

Si trattava di elenchi che segnalavano centinaia di novità editoriali di scrittrici, divisi per nazioni e per genere narrativo, ma basati sull’idea di un movimento letterario femminile internazionale. Questo atteggiamento di apertura non subirà incrinature neppure negli anni in cui sarà più pesante la pressione della politica culturale del regime, indirizzata verso il modello di donna casalinga e di madre.

A parte la sezione letteraria, l’Almanacco andava perdendo quella ricchezza che aveva rappresentato la caratteristica peculiare della rivista, fino a diventare nel 1940, un almanacco di guerra. Se è vero che il periodico si allineò alle posizioni ufficiali, soprattutto fra il ’36 e il ’38, va però notato che il mito del Duce e della romanità, così presenti nella stampa contemporanea, restarono ai margini della esperienza dell’Almanacco, se si eccettua qualche singola frase o poche fotografie.

Pur non schierandosi su posizioni di opposizione, e certamente non avrebbe potuto farlo, l’Almanacco della donna italiana diede un largo spazio a modelli femminili diversi da quello imposto dal regime e, senza esser un periodico ad alta diffusione come invece i rotocalchi, ebbe un ampio raggio di diffusione fra il pubblico femminile.

CONCLUSIONI

di Francesca Delle Vedove

Se all’inizio di questo lavoro dimostrare l’oppressione e lo sfruttamento delle masse femminili da parte del fascismo mi sembrava un obiettivo facilmente raggiungibile, attraverso la ricostruzione storica dell’ideologia e della politica fascista, ho dovuto in parte ricredermi.

La prima difficoltà è stata di carattere bibliografico: all’interno dell’ampia storiografia che si è occupata del ventennio fascista, non vi è neppure una pagina dedicata al rapporto donne-fascismo. Solamente in studi più recenti e in prevalenza ad opera di donne, esiste una panoramica della condizione femminile sotto il fascismo e della necessità di quest’ultimo di mobilitare le donne al fine di consolidare il proprio potere.

Appare perciò evidente che la storia delle donne sia ancora considerata una questione secondaria e che abbia un significato sociale piuttosto che politico. Ma come sostiene Luisa Passerini:

“Bisogna invece tener presente non solo sul piano metodologico, ma proprio sul piano dell’organizzazione degli studi – e degli incontri tra studiosi – che le questioni di genere non sono secondarie e separate, ma sono questioni di primarie e generali legate alla gestione del potere e quindi eminentemente politiche”.

La subordinazione di una parte dell’umanità, sia essa costituita da donne o da altri gruppi sociali, ha sempre un obiettivo strettamente politico, la legittimazione cioè di un progetto sociale finalizzato a costruire una società gerarchica ed ineguale, e ad imporre con violenza l’egemonia di un gruppo sociale sull’intero corpo della società.

Esattamente questo è il progetto realizzato dal regime fascista, un progetto che si è compiuto anche attraverso uno sfruttamento ed un inquadramento progressivo delle masse femminili. Tale politica di sfruttamento e di inquadramento percorse contemporaneamente due direzioni, entrambe perseguite dal fascismo con la stessa efficacia: la segregazione e la mobilitazione.

Una delle tante agiografie dedicate alla squadrista Ines Donati.

Con una serie di provvedimenti “negativi”, dalle disposizioni in materia di voto amministrativo alle normative che regolavano l’assunzione pubblica, il partito fascista escluse lentamente la donna dalla società per ricostruire la sua identità fra le pareti domestiche.

Il modello di “sposa e madre” imposto dalla dittatura, risultava però anacronistico e poco vantaggioso anche per gli interessi fascisti. Non solo il regime non poteva arrestare quel processo di inserimento delle donne nel mondo del lavoro salariato, ma riuscì a cogliere la possibilità di sfruttare la forza delle donne per consolidare le basi del proprio progetto politico-sociale.

Così in modo sistematico a partire dagli anni trenta, alla segregazione imposta alle donne si accompagnò una richiesta di attivismo di massa. La mobilitazione delle donne, inserite nelle molteplici organizzazioni fasciste, non ha cambiato la storica posizione antifemminile della dittatura, perché mai le donne furono libere di gestire il proprio “tempo sociale”, scandito e organizzato in toto dalle gerarchie maschili di partito.

Le stesse donne che godevano dei favori di Mussolini e che assunsero un posto di “prestigio” all’interno della società fascista, come Elisa Majer Rizzioli o Teresa Labriola, non ebbero mai una piena autonomia d’azione. Solamente la stampa femminile riuscì a mantenere una discreta libertà d’espressione, evento strano se si pensa al controllo esercitato sui mass-media da parte di ogni regime totalitario.

Probabilmente fu l’abilità di alcune direttrici e delle loro collaboratrici a permettere questa autonomia in equilibrio fra le direttive del partito e la diffusione di una cultura femminile alternativa, assegnata in prevalenza alle pagine letterarie e alle immagini di moda. Malgrado la realtà femminile fosse quella di una condizione di sottomissione strutturata e controllata, non si può negare che la mobilitazione delle donne fu un fenomeno ampio e duraturo.

Tuttavia non credo che si possa parlare di un consenso femminile di massa incondizionato alla politica del fascismo, principalmente per due aspetti. In primo luogo, ho cercato di dimostrare come non sia possibile guardare la realtà femminile del ventennio come un quadro unitario e coerente perché le azioni di risposta date dalle donne risultano differenti e spesso contraddittorie, legate sia ad un contesto storico che mutava rapidamente, sia alla posizione socio-economica delle donne stesse.

Lo sciopero prolungato delle mondine, la mancata crescita del tasso di fecondità, la poca disponibilità delle donne a partire per le colonie africane a scopi riproduttivi, fino alla diffusione, nella stampa femminile, di modelli culturali in contrasto con l’ideologia fascista, costituiscono dei chiari poli di dissenso verso una dittatura che mirava, invece, a raggiungere “l’integrazione totale di tutti i cittadini in una esperienza nazionale unica”.

Inoltre c’è da chiedersi in che misura si possa parlare di vero consenso in un regime totalitario che aveva una pratica di violenza istituzionalizzata e che attraverso l’uso monopolistico dei mezzi d’informazione creava l’opinione pubblica lungo direttrici a sé omogenee.

Il consenso delle donne – con tutte le riserve per l’uso di questo termine – non fu certamente spontaneo, ma permeato di un carattere coatto e indotto, costruito da un potere politico che ritenne le donne degne di considerazione “sia in quanto forzalavoro che in quanto riproduttrici di forza-lavoro”, secondo le esigenze storiche ed economiche che si trovò ad affrontare.

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