ITALIA, DOPOGUERRA E RICOSTRUZIONE – 9

a cura di Cornelio Galas

IL POTENZIAMENTO DEGLI SCAMBI COMMERCIALI

Come è noto, alla fine degli anni Quaranta il commercio tra i paesi dell’Europa occidentale era frenato – da un punto di vista economico – dall’inconvertibilità delle monete e dalla presenza dei dazi doganali e dei contingentamenti sulle merci. Questi ultimi soprattutto, fissando la quantità massima importabile di un prodotto, rappresentavano un ostacolo alla creazione di un ampio mercato unificato europeo-occidentale, fortemente caldeggiato dagli Usa.

Fino al 1950, negli scambi fra i paesi dell’Europa occidentale, il bilateralismo fu molto forte. Il sistema di divieti e di esenzioni in vigore negli anni Trenta venne in parte ripristinato nei primi anni del secondo dopoguerra, perché come è stato osservato «ciascun paese diede assoluta priorità ai propri programmi di ricostruzione nazionale, che spesso comprendevano anche ambiziosi obiettivi produttivi e sociali». I meccanismi elaborati a Bretton Woods vennero, quindi, “congelati”.

In seguito all’annuncio del Piano Marshall, gli Stati Uniti e i paesi europei iniziarono a studiare un piano per superare la struttura bilaterale degli scambi intra-europei e avviare l’apertura dei vari mercati all’economia internazionale. Non si trattò di un processo semplice e lineare. Nei paesi europei i rischi derivanti dalla competizione internazionale allarmavano quei settori dell’industria e dell’agricoltura meno preparati alla concorrenza estera.

Per tale motivo ogni paese cercò di negoziare tempi e modi della propria apertura, concedendo nel corso degli anni l’abbattimento dei dazi e dei contingentamenti per determinate tipologie di merci ma non per altre, con l’obiettivo di produrre il minore numero di difficoltà a quei settori produttivi strategici per l’industrializzazione, ma non totalmente pronti a reggere l’urto dei rispettivi competitori continentali e mondiali.

Nell’immediato, il riequilibrio della bilancia dei pagamenti europea costituiva un presupposto dell’integrazione europea e del consolidamento economico del “blocco occidentale”. Il Gatt, General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo generale sulle tariffe e sul commercio), stipulato a Ginevra nell’ottobre del 1947, si occupò di negoziare in ambito internazionale un generale e progressivo abbattimento dei dazi doganali.

A partire dal 1948 l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (Oece), in seguito a non poche pressioni statunitensi, iniziò ad intavolare con i paesi membri la liberalizzazione delle voci di importazione (la fine dei contingentamenti) nell’ambito del commercio reciproco. Con il graduale reintegro della Germania occidentale nel sistema degli scambi europei divenne impellente la necessità di trovare una soluzione efficace che superasse i limiti dell’inconvertibilità delle monete e dei contingentamenti.

La soluzione venne individuata, come è noto, in un accordo che prevedeva la nascita di un sistema di compensazioni multilaterale che assicurava la piena convertibilità delle valute dei paesi membri. Nel settembre del 1950 gli stati fondatori dell’Oece più la Repubblica federale firmarono l’accordo che sanciva la nascita dell’Unione Europea dei Pagamenti.

Attraverso la trasferibilità delle monete degli stati membri e la disponibilità di credito garantita dai fondi del Piano Marshall, l’Uep rese possibile incentivare il flusso delle esportazioni e delle importazioni intra-europee e liberalizzare progressivamente gli scambi commerciali. L’Unione europea dei pagamenti rimase in vigore fino al 1958, quando con l’Accordo monetario europeo si decise la piena convertibilità delle monete degli stati aderenti.

Il potenziamento degli scambi italo-tedeschi deve essere collocato nell’ambito di tale quadro generale di riferimento sopra delineato. Lo sviluppo dei traffici fra l’Italia e la Repubblica federale rappresenta un aspetto particolare dei generali processi di convergenza e di integrazione economica avviati in Europa occidentale tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. Di seguito saranno esaminati alcuni passaggi dei negoziati commerciali italo-tedeschi della fine degli anni Quaranta e fino alla soglia dell’Uep.

La ricostruzione e l’analisi del potenziamento dei rapporti commerciali italo-tedeschi mostra che alla vigilia dell’entrata in carica del primo governo della Repubblica federale nel settembre del 1949, come al momento del ripristino ufficiale delle relazioni estere della Germania nel 1951, l’interscambio bilaterale aveva già raggiunto un livello avanzato di sviluppo.

Dal punto di vista della presente ricerca l’osservazione dei rapporti bilaterali nel processo di costruzione delle reciproche relazioni commerciali costituisce un campo d’indagine fondamentale per analizzare lo stato dei rapporti di forza tra i due paesi e i ruoli politico-economici che ognuno dei due governi attribuiva all’altro.

È importante sottolineare, inoltre, che tra il 1949 e il 1950, gli incontri bilaterali per la conclusione dei negoziati commerciali rappresentarono da parte tedesca una delle poche possibilità di contatto con i dirigenti italiani. Grazie a questi incontri il governo federale intraprese le prime osservazioni e valutazioni sull’economia italiana in generale e sulla politica del governo De Gasperi in particolare.

Le fonti conservate presso l’archivio dell’Auswärtiges Amt di Berlino mostrano che in determinate circostanze Adenauer ed il suo entourage preferirono accogliere tutte le condizioni commerciali richieste da Roma per non compromettere il riavvicinamento politico bilaterale paventato dai rappresentanti italiani in caso contrario, anche in presenza di situazioni di relativa difficoltà economica da parte della Repubblica federale.

POLITICA ED ECONOMIA NEL POTENZIAMENTO

DEGLI SCAMBI ITALO-TEDESCHI TRA IL 1949-1950

Niccolò Machiavelli

Laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi e gli presenti accusano; e in modo sono delle cose passate partigiani che non solamente celebrano quelle etadi che da loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute, ma quelle ancora che sendo già vecchi si ricordano nella loro giovinezza avere vedute.

E quando questa loro opinione sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducono. E la prima credo sia che delle cose antiche non s’intenda al tutto la verità; e che di quelle il più delle volte si nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia, e quelle altre che possano partorire loro gloria si rendino magnifiche e amplissime.

Perché il più degli scrittori in modo alla fortuna de’ vincitori ubbidiscano che, per fare le loro vittorie gloriose, non solamente accrescano quello che da loro è virtuosamente operato, ma ancora le azioni de’ nimici in modo illustrano, che qualunque nasce dipoi in qualunque delle due provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi ed è forzato sommamente laudarli e amarli.
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

Nella prima metà del 1949, mentre i diplomatici italiani in Germania (Gallina, Relli, Wiel) erano intenti ad analizzare ogni possibile sintomo che suffragasse la tesi della naturale incompatibilità dei tedeschi ai costumi della democrazia, l’Ufficio commerciale e l’Abteilung für Außenhandel (la sezione dell’amministrazione tedesca addetta al commercio estero) intensificarono i programmi di scambio tra i due paesi.

Gli accordi commerciali bilaterali presi in considerazione in questo paragrafo sono purtroppo solo accennati nella ricerca di Maximiliane Rieder che comunque li analizza da un punto di vista strettamente economico e in un’ottica di lungo periodo. In questa sede, invece, gli accordi commerciali del 1949-1950 saranno ricostruiti ed esaminati per il loro significato economico e politico.

Il ruolo dell’Italia come importante partner economico e commerciale per il futuro stato tedesco era sottolineato da von Maltzan in un appunto del 25 gennaio 1949. Tra le priorità delle future rappresentanze estere (künftige Außenvertretungen), il direttore dell’Abteilung für Außenhandel suggeriva l’istituzione di sedi tedesche non solo a Roma – importante soprattutto da un punto di vista politico –, ma anche a Milano e a Trieste.

Dal 20 al 28 aprile 1949, si riunì a Roma una commissione mista composta da alleati occidentali (inglesi, francesi, americani), tedeschi e italiani per esaminare la revisione e il rinnovo del trattato commerciale del settembre 1948. Il nuovo accordo economico nasceva come un aggiornamento previsto dallo stesso negoziato firmato il 3 settembre 1948. Il riesame degli scambi era dettato dall’imminente istituzione dello stato tedesco occidentale, attraverso l’incorporazione e fusione della zona d’occupazione francese nella Bizona.

La delegazione tedesca che giunse in Italia per conto della Trizona era formata da nove esperti designati da Vollrath von Maltzan, tra cui spiccavano i nomi di un giovane Sigismund von Braun (futuro segretario di stato dell’Auswärtiges Amt negli anni Settanta e fratello di Wernher von Braun, scienziato e ingegnere missilistico, collaboratore della Nasa dopo il 1945) e Alexander von Süßkind-Schwendi (futuro consigliere del ministero federale per l’attuazione del piano Marshall – Bundesministerium für Angelegenheiten des Marshallplanes – e rappresentante della Repubblica federale tedesca presso l’Oece).

Wernher von Braun

Umberto Grazzi era a capo della controparte italiana, coadiuvato da circa dieci tecnici provenienti dal ministero dell’Industria, del Tesoro, dall’Istituto del Commercio Estero, dall’Ufficio Italiano Cambi e dal ministero dell’Agricoltura238; l’addetto commerciale italiano in Germania, Aldo Morante, prese parte soltanto alle prime riunioni della commissione mista.

L’ordinanza numero 29 della Jeia, emanata il 28 febbraio 1949, concedeva ai delegati tedeschi maggiore libertà d’azione rispetto al 1948. Era prevista, infatti, una migliore procedura per la concessione delle licenze di importazione in Germania, mentre gli importatori e i produttori tedeschi poterono da allora in poi effettuare direttamente gli acquisti all’estero e la commissione delle importazioni della Jeia conservò soltanto il diritto di imporre limitazioni quantitative agli acquisti, senza più possibilità di veto né per i generi, né per i mercati scelti.

Umberto Grazzi

Il 28 aprile il generale inglese Robinson, come rappresentante della Jeia e dei governi militari inglese americano e francese, e Grazzi, a nome del governo italiano, siglarono il «Primo accordo addizionale con la Germania occidentale per l’aumento di contingenti», valido a partire dal 1 luglio 1949 fino al 30 giugno 1950.

Il nuovo accordo comportava un notevole incremento dei flussi commerciali fra i due paesi. Il volume degli scambi superava i sessanta milioni di dollari in entrambi i sensi e come scrisse Ludwig Erhard «soltanto da allora il commercio italo-tedesco poté riprendere un aspetto normale, ritornando lentamente alla sua antica struttura».

Ludwig Erhard

La posizione creditoria dell’Italia nei confronti della Bizona/Trizona diminuiva sensibilmente, ma la lista delle merci era molto più lunga e ricca rispetto al negoziato del 1948. Furono autorizzati diversi accordi privati e non governativi. Infatti, il paragrafo 3 del testo dell’accordo includeva tra gli scambi anche i contratti conclusi privatamente tra uomini d’affari tedeschi e italiani in occasione della fiera di Milano che si era svolta agli inizi di aprile.

La partecipazione tedesca alla fiera di Milano del 1949 fu la prima finanziata direttamente dal Consiglio economico di Francoforte mediante sussidi straordinari, mentre nel 1948 la partecipazione a manifestazioni all’estero era stata sovvenzionata esclusivamente da enti privati.

Italia e Germania occidentale in occasione del trattato concluso il 28 aprile 1949 ripristinarono un classico strumento del commercio bilaterale: la clausola della nazione più favorita (procedura adottata nel commercio internazionale per la reciproca diminuzione dei dazi doganali). Infatti furono ristabiliti reciprocamente i tassi doganali previsti da un negoziato dell’anteguerra, il «Trattato di commercio e di navigazione italo-germanico» siglato il 31 ottobre 1925, che applicava a entrambi i paesi la clausola della nazione più favorita.

Le esportazioni tedesche verso l’Italia registravano un aumento di quasi 10 milioni di dollari rispetto all’accordo del 3 settembre 1948 (che prevedeva 51 milioni di dollari di merci tedesche esportate verso l’Italia). La quantità dei prodotti alimentari italiani destinati all’esportazione in Germania occidentale, già presenti nel precedente accordo, era raddoppiata e passava dai 12 milioni di dollari del settembre 1948 a circa 23 milioni di dollari.

Tuttavia, riferendosi ai prodotti alimentari la delegazione italiana manifestò un lieve disappunto per la cifra raggiunta di soli 23 milioni di dollari. I tedeschi dichiararono di non essere in grado di superare tale cifra e che molti dei generi alimentari non erano di prima necessità; alla fine fu raggiunto un compromesso accogliente la richiesta italiana di rivedere e aumentare la cifra in occasione di un’apposita riunione fissata per il settembre 1949.

Il carbone tedesco proveniente dal bacino della Ruhr esportato in Italia subiva una flessione e passava da 27 a 22 milioni di dollari, tuttavia, era compensato dall’aumento dei rottami di ferro e acciaio incrementati fino ad un valore pari a cinque milioni e mezzo di dollari (nel settembre 1948 la cifra era equivalente a 750.000 mila dollari).

La tabella sulle merci italiane esportate in Germania evidenziava un’importante variazione qualitativa rispetto al precedente accordo del 1948 ed anche rispetto alla forma tradizionale dell’interscambio italo-tedesco. L’Italia iniziava a collocare sul mercato tedesco diversi prodotti industriali. Il volume dei prodotti finiti (tra macchinari e impianti elettrici) ammontava, infatti, ad un valore pari a 7.670.000 milioni di dollari.

Quest’ultima sostanziale trasformazione concernente la qualità e la quantità delle merci italiane esportate in Germania fu subito percepita dai contemporanei e soprattutto dai dirigenti tedeschi. Ludwig Erhard, ricordando qualche anno dopo il negoziato commerciale stipulato tra l’Italia e l’Germania nell’aprile del 1949, scrisse che:

«L’Italia era sempre stata un buon cliente per una grande quantità di prodotti finiti tedeschi, mentre la Germania acquistava di preferenza frutta ed ortaggi. Nell’aprile del 1949 nel corso delle trattative allora svolte si rivelò tuttavia quanto si fosse trasformata la struttura economica italiana. L’Italia aveva compiuto nel frattempo progressi nel campo dell’industrializzazione ed aveva un maggiore interesse a collocare i suoi prodotti industriali sul mercato tedesco».

Ludwig Erhard

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L’industria italiana, nonostante gli anni di guerra, i bombardamenti e l’occupazione tedesca, aveva preservato notevoli capacità produttive. Diversi studi hanno mostrato come alcuni settori – in particolare la metallurgia, parti della meccanica, il settore chimico e della lavorazione del petrolio – presentassero, anzi, rinnovate e rafforzate potenzialità.

La struttura economica italiana stava attraversando in quegli anni una profonda trasformazione: l’Italia da paese semi-agricolo si avviava a diventare un paese pienamente industrializzato. Nell’ottica dei dirigenti tedeschi, la penisola iniziava a non rappresentare più solamente il mercato della frutta e degli ortaggi.

L’immagine tradizionale dell’Italia come spazio economico complementare, in grado cioè di fornire alla Germania soprattutto prodotti agroalimentari e tessili, ma difficilmente prodotti finiti e complessi come macchinari e simili, iniziava ad essere intaccata.

Le trasformazioni e gli assetti del sistema produttivo italiano costituirono un tema di grande interesse per il governo federale. In seguito agli accordi italo-tedeschi del 1949, l’economia italiana fu al centro di uno studio del Bundesministerium für Wirtschaft (il ministero federale dell’Economia) della Dienststelle für Auswärtige Angelegenheit, che, come si vedrà più avanti, venne sottoposto al governo di Bonn nell’estate del 1950.

Anche la stampa tedesca rilevò i «considerevoli progressi industriali» dell’Italia. Alla fine del 1949 un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung, illustrando la rapidità della ripresa degli scambi italo-tedeschi, rilevava come diversi «rami della produzione che prima della guerra non avevano alcuna importanza sono stati ora sviluppati». Nella costruzione di macchinari, nella meccanica di precisione e nell’ottica, evidenziava l’articolo, la Germania aveva scoperto un nuovo «concorrente».

La qualità dei prodotti, tuttavia, restava appannaggio dell’industria tedesca:

«Se, nonostante questo, l’interesse per i prodotti tedeschi permane tuttora grande, ciò è dovuto in parte al fatto che la clientela italiana non ha sempre fiducia nella qualità dei prodotti nazionali. Questo dipende dal fatto che la qualità dei prodotti italiani non è costante. Questo scetticismo riguarda soprattutto quei prodotti italiani che richiedono una speciale precisione».

Il senso di stupore misto ad incredulità costituì una delle cifre principali di molte analisi giornalistiche tedesche sugli sviluppi dell’economia italiana. Un aspetto evidenziato con dovizia di particolari da Rolf Petri per il periodo successivo, negli anni del cosiddetto «miracolo economico», ma che trova precedenti anche nella fase della ripresa delle relazioni economiche italo-tedesche, nella seconda metà degli anni Quaranta.

Durante gli incontri dell’aprile 1949 il ministero degli Esteri avanzò per la prima volta alcune proposte indirizzate alla ripresa di una parte delle “partite invisibili”. Il Direttore degli affari Economici, Umberto Grazzi, richiese fondi speciali agli alleati occidentali per incentivare il viaggio in Italia dei tedeschi di fede cattolica in vista dell’Anno Santo 1950.

L’interesse dei dirigenti italiani per il Giubileo del 1950 era legato alla speranza di una ripresa del turismo tedesco in Italia e quindi al desiderio della rimessa in moto di uno di uno dei flussi delle partite invisibili, che nel passato si erano dimostrate indispensabili per compensare il deficit strutturale della bilancia commerciale con la Germania.

Le richieste italiane puntavano ad ottenere risorse finanziarie per favorire, in primo luogo, i viaggi dei fedeli e, in secondo luogo, per coprire le spese della costruzione di infrastrutture e servizi destinati ad accogliere i tanto desiderati pellegrini tedeschi. Grazzi propose tre soluzioni:

  • 1) ottenimento di una speciale allocation da parte dell’ECA in dollari per “off-shore purcase”.
  • 2) finanziamento in dollari liberi, da parte di enti interessati.
  • 3) concessione di un contingente supplementare di carbone germanico da destinarsi a tale scopo».

Le autorità alleate accettarono la proposta di sollecitare il finanziamento in dollari da parte di enti interessati, ed effettivamente il 30 aprile l’ambasciatore a Washington, Tarchiani, comunicò a Roma la disponibilità di alcune associazioni cattoliche Nord-americane a finanziare la somma di 2 milioni di dollari necessari per il viaggio e le agevolazioni dei pellegrini.

Tarchiani

Nella primavera del 1949, dunque, l’interscambio tra l’Italia e la Trizona occidentale subì una profonda accelerazione. L’Italia si avviava a divenire un partner economico e commerciale di primo piano per la Germania occidentale. Nel mese di aprile del 1949 la penisola risultò al primo posto per il volume di merci esportate nella Trizona. Questi dati furono comunicati a Roma da Morante attraverso un rapporto datato 10 giugno 1949:

«Eccezione fatta per le forniture nord-americane sul programma ERP – scriveva Morante –, l’Italia è stata nel mese di aprile al primo posto fra tutti i Paesi del mondo come fornitore della Trizona. Le esportazioni italiane hanno raggiunto un livello di 36 milioni di marchi, contro 22 milioni del Belgio, secondo classificato».

L’addetto commerciale aggiunse che nella primavera del 1949 il movimento di merci tra l’Italia e la Germania superava le cifre raggiunte durante gli anni dell’alleanza nazi-fascista:

«Tale risultato assolutamente eccezionale, che non trova riscontro neppure nei periodi dell’Asse, assieme alla notizia testè pervenuta di un congruo aumento deciso a Ginevra nelle assegnazioni all’Italia di carbone della Ruhr (da 320 mila a 515 mila tonnellate trimestrali), è una quanto mai lusinghiera promessa per l’applicazione del nuovo accordo [quello firmato il 28 aprile 1949], il cui inizio è imminente».

La riorganizzazione dei legami economici italo-tedeschi proseguì nel corso del 1949. Per agevolare le imprese tedesche e italiane nella ripresa e nella creazione di nuove relazioni commerciali, l’Italia intraprese nel luglio del 1949 la ricostruzione della camera di commercio italiana di Amburgo, fondata nel 1928 ma gravemente danneggiata alla fine della seconda guerra mondiale.

Dal 12 al 28 settembre 1949, come previsto dal negoziato firmato in aprile, si riunì a Francoforte sul Meno la delegazione mista italo-tedesca per l’accordo addizionale relativo alle esportazioni italiane di generi alimentari e prodotti tessili. Morante e Ferlesch guidavano la delegazione italiana, mentre la Repubblica federale era rappresentata da von Maltzan (la sezione commercio estero della Verwaltung für Wirtschaft nel novembre del 1949 fu trasformata in Direzione generale degli accordi Commerciali del Bundesministerium für Wirtschaft).

I tedeschi manifestarono subito forti perplessità di fronte alle richieste italiane per l’ampliamento delle esportazioni ortofrutticole fino alla cifra di quasi trenta milioni di dollari. I rappresentanti italiani, infatti, in attesa della ripresa delle entrate derivanti dalle “partite invisibili” che al momento erano insignificanti, cercavano in ogni negoziato di intensificare al massimo tutte le tradizionali esportazioni italiane in Germania.

Al di là degli aspetti più o meno tecnici relativi alle misure e ai tempi per la liberalizzazione dei due mercati in vista della fine dei contingentamenti sulle merci, l’aspetto politico interessante riguarda l’atteggiamento assunto dai delegati italiani per convincere i dirigenti tedeschi ad accettare le condizioni poste dall’Italia.

Alcide De Gasperi

La relazione segreta redatta da Ferlesch al termine delle trattative intercorse con la Repubblica federale mostra in modo inequivocabile l’ampio ricorso dei rappresentanti italiani agli argomenti di natura politica per vincere le resistenze tedesche. La posizione del governo De Gasperi sulla «questione tedesca» venne consapevolmente strumentalizzata dai dirigenti italiani durante i vari colloqui con von Maltzan.

Morante e Ferlesch ricordarono ai rappresentanti tedeschi che l’Italia era stata una delle prime nazioni a tendere la mano alla nuova Germania e che il rafforzamento dei rapporti bilaterali rappresentava un obiettivo politico di grande interesse per il governo De Gasperi. Nella fase più critica delle trattative Ferlesch si spinse oltre dichiarando esplicitamente a von Maltzan che un eventuale fallimento dell’accordo avrebbe avuto ripercussioni negative sul processo di riavvicinamento italo-tedesco:

«[a causa] della situazione di stallo che si era venuta a creare – si legge nel rapporto di Ferlesch per il governo – ho considerato opportuno svolgere una energica ed appropriata azione con il Dott. Von Maltzan giocando sull’aspetto politico delle trattative in corso. In lunghe conversazioni che ho avuto con il Dr. Maltzan, ho messo l’accento sugli sforzi che dal dopoguerra in poi il Governo italiano ha fatto per riprendere i rapporti con la Germania ed i cui frutti non potevano davvero essere considerati insoddisfacenti ed ho richiamato la sua particolare attenzione sulle dannose ripercussioni che un rinvio delle trattative avrebbe avuto sull’opinione pubblica italiana, e quindi sulle possibilità di un ulteriore rafforzamento dei nostri reciproci rapporti. Il Dr. Maltzan si è dimostrato molto sensibile a tali argomentazioni ammettendo egli la massima importanza ai rapporti italo-tedeschi».

In seguito ai colloqui tra von Maltzan e Ferlesch ed alle esplicite “ripercussioni sfavorevoli” ventilate da quest’ultimo, la delegazione tedesca accettò il programma di massima desiderato fin dall’inizio dall’Italia: pari a circa ventisette milioni di dollari di scambi per i prodotti ortofrutticoli e tessili. Tuttavia, continuava Ferlesch, di fronte ai delegati tedeschi:

«Per ragioni tattiche ho condotto le trattative conclusive con i tedeschi partendo dal presupposto che si trattasse di una soluzione di compromesso che avrei tentato di far accettare al Governo italiano […] Nella seduta plenaria tenutasi il 27 settembre [1949] ho dichiarato che il Governo italiano, dimostrando una volta di più l’interesse che esso annette al sempre più ampio sviluppo dei rapporti italo-tedeschi, si dichiarava d’accordo sulle basi indicate […]».

Da un punto di vista economico, nella seconda metà del 1949, gli obiettivi dell’Italia nei confronti del mercato tedesco potevano considerarsi raggiunti. I rischi legati alla scomparsa della Germania dal sistema degli scambi europei, a lungo paventati dalla Direzione generale affari economici nell’immediato dopoguerra (1945-1947), appartenevano ad una fase storica superata.

Una circostanza riconosciuta dagli stessi contemporanei:

«La Germania Occidentale – commentava Ferlesch nell’ottobre del 1949 – è oggi un Paese che ha ripreso a lavorare sodo, le cui possibilità di forniture stanno rapidamente normalizzandosi e le cui possibilità di assorbimento sono conseguentemente già ora notevoli […] è certo confortante che da parte nostra si sia già riusciti, nel campo economico, a riprendere nei confronti della Germania una posizione di primo piano […]».

L’Italia nel secondo dopoguerra si attestava verso il sesto posto come mercato per le esportazioni tedesche e al quinto come mercato per le importazioni nella Germania occidentale.

La tattica utilizzata da Ferlesch e Morante in occasione dei negoziati del settembre 1949 non rappresentò un caso isolato. Dall’esame delle fonti sulle trattative intercorse tra 1949 ed il 1950 emerge il sistematico ricorso dei rappresentanti italiani agli argomenti di natura politica per strappare ai tedeschi non una soluzione di compromesso, ma l’obiettivo massimo prefissato.

The Brandenburg gate in Berlin at night.

Gli italiani sfruttarono a loro vantaggio il desiderio della Repubblica federale di superare l’iniziale diffidenza dei francesi: il sostegno politico dell’Italia alla causa dei tedeschi risultava utile a questi ultimi per ammorbidire le chiusure francesi ed accelerare il processo di partecipazione della Germania occidentale ai progetti di integrazione europea.

I dirigenti italiani non ignoravano che da un punto di vista economico era l’Italia ad avere maggiore bisogno del mercato tedesco e non il contrario. I reciproci ruoli delle due economie erano ben chiari a italiani e tedeschi. In particolare, entrambe le parti erano perfettamente a conoscenza che l’economia italiana costituiva per la Germania occidentale un mercato meno importante di quanto non fosse quello tedesco per l’Italia.

Da parte tedesca tuttavia gli accordi realizzati con il patrocinio degli anglo-americani e i successivi trattati bilaterali costituirono dei passi non irrilevanti sulla via dell’affrancamento dal controllo alleato e potevano contribuire a predisporre favorevolmente Roma nei confronti della Repubblica federale.

Nel 1949/1950 i tedeschi furono disposti a cedere alle pressioni italiane in primo luogo perché in termini quantitativi le richieste avanzate dai delegati di Roma non intaccavano le potenzialità di esportazione della Germania occidentale e, in secondo luogo, perché non si voleva compromettere un riavvicinamento politico appena iniziato, sperando inoltre nell’appoggio del governo De Gasperi in ambito europeo.

Il 5 aprile 1950 Morante e von Maltzan firmarono un nuovo accordo per l’aumento dei contingenti sulla base dei negoziati del 1949: si trattava del primo trattato parafato direttamente da italiani e tedeschi dopo la fine della clausola dollaro e dopo due anni di autorizzazioni alleate. La Jeia, infatti, era stata sciolta alla fine del 1949 dopo l’entrata in carica del primo governo federale tedesco.

Nel mese di giugno del 1950 cominciarono gli incontri per la conclusione di un nuovo importante accordo commerciale tra l’Italia e la Repubblica federale, l’ultimo prima dell’entrata in vigore dell’Unione europea dei pagamenti. La libertà di manovra dei dirigenti tedeschi era considerevolmente aumentata, risultando quasi assoluta.

Fin dal novembre del 1949 l’Alta commissione aveva concesso al governo federale pieni poteri per negoziare accordi di commercio e di pagamento, riservando alle autorità alleate il diritto di approvazione e di intervento in qualità di osservatori.

Nel giugno del 1950 una nuova ordinanza lasciava agli alleati soltanto un termine di circa venti giorni per sollevare eventuali obiezioni agli accordi commerciali raggiunti dal governo federale. Le trattative commerciali italo-tedesche dell’estate del 1950 mostrano in modo evidente come il governo De Gasperi si servì, in sede di contrattazione, della propria linea di politica estera “filotedesca” per ottenere dalla Germania le migliori condizioni economiche.

Così come era accaduto nell’autunno precedente, il governo di Roma nell’estate del 1950 ventilò la possibilità di spiacevoli ripercussioni politiche negative nell’ipotesi di una mancata realizzazione delle proprie richieste commerciali.

Nel corso dei negoziati (iniziati il 12 giugno), infatti, il Bundesministerium für Ernährung, Landwirtschaft und Forsten (il ministero federale dell’Agricoltura) guidato dal ministro bavarese della Csu, Wilhelm Niklas, manifestò numerose riserve per l’aumento delle importazioni in Germania occidentale dei prodotti agroalimentari italiani (per un valore pari a quarantacinque milioni di dollari).

Nella primavera del 1950 la Repubblica federale aveva concesso la liberalizzazione del settore agricolo verso la Francia e l’Olanda, ma non nei confronti dell’Italia. Secondo il ministro Niklas, l’aumento delle importazioni dei prodotti ortofrutticoli italiani rischiava di compromettere la ripresa del settore agricolo della Germania.

Gli agricoltori tedeschi temevano la concorrenza dei coltivatori italiani e soprattutto il basso prezzo delle merci ortofrutticole italiane rispetto a quelle prodotte in Germania. È importante rilevare che nei primi anni di vita della Repubblica federale l’aumento della produzione agricola rappresentava un problema avvertito da tutte le forze politiche al governo.

La progressiva diminuzione delle importazioni alimentari costituiva un obiettivo importante della politica commerciale tedesca. Adenauer nelle sue memorie ha scritto che:

«Quanto alle attività del ministero dell’Agricoltura e Alimentazione, il loro carattere avrebbe avuto un aspetto assai diverso da quello del passato. Si sarebbe dovuto migliorare e perfezionare la produzione agricola a un livello che finora non era mai stato raggiunto.

Noi eravamo [nel 1949/50] ancora costretti a importare il 50 per cento dei viveri che ci erano necessari. Se si voleva che la bilancia commerciale raggiungesse l’equilibrio verso il 1952, occorreva accrescere sensibilmente la produzione agricola per limitare nella maggiore misura possibile il consumo di valuta estera per l’acquisto di generi alimentari».

Dal punto di vista di Roma, la possibilità di una diminuzione (o di un mancato aumento) della quota dei generi alimentari italiani esportati in Germania occidentale non poteva essere presa in considerazione.

Soprattutto in una fase storica, come quella tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, nella quale erano venute a mancare completamente le entrate derivanti dalle partite invisibili, l’obiettivo della Direzione affari economici era rappresentato dal progressivo aumento di tutte le tradizionali esportazioni italiane.

Poco tempo prima, a maggio, in vista dell’inizio dei nuovi negoziati, Morante aveva comunicato a Roma la necessità di un sostanziale aumento delle esportazioni per compensare l’insufficienza delle partite invisibili.

«In materia di bilancia dei pagamenti – scriveva l’Addetto commerciale italiano il 17 maggio 1950 – occorre mettere in evidenza la ancora quasi completa assenza delle cosiddette partite invisibili, e soprattutto del turismo»; fino a quel momento, continuava Morante, le correnti turistiche tedesche verso l’Italia «fiorentissime prima della guerra, [erano state] limitate ai viaggi collettivi per l’Anno Santo e a pochi viaggi di istruzione e di affari».

Anche la ripresa dell’emigrazione italiana in Germania – una delle voci più importanti delle partite invisibili – non sembrava realizzabile nell’immediato ed era quindi necessario raggiungere un considerevole aumento di tutte le esportazioni italiane.

«La Delegazione tedesca – riferiva Morante – è conscia delle nostre aspirazioni e disposta, entro certi limiti, a sostenerle. D’altronde essa è decisa a stabilire le premesse per una politica aggressiva di riconquista del mercato italiano da parte del prodotto tedesco, e ritiene che questo momento sia unico, del quale occorra approfittare. La situazione è giudicata favorevole, in virtù della pressione americana per la liberalizzazione degli scambi e della spinta degli esportatori italiani di prodotti agricoli».

Per comprendere in termini quantitativi l’importanza dell’emigrazione italiana in Germania per il riequilibrio della bilancia dei pagamenti dell’Italia, si osservi la considerazione che riportava Morante qualche anno dopo, nel notiziario economico del 20 novembre 1953:

«Nei riguardi dell’Italia, bisogna tenere presente che un’emigrazione stagionale di 100 mila unità, cifra di gran lunga inferiore a quella dei migliori anni del passato, e della durata di tre mesi, assicurerebbe alla nostra bilancia dei pagamenti un beneficio annuo immediato e diretto di 12-15 milioni di dollari, oltre a vari benefici indiretti: maggiore consumo di prodotti italiani, ecc.».

Nel maggio del 1950, alla vigilia dei nuovi negoziati commerciali italo-tedeschi, l’Addetto commercia non pronosticava «quale [avrebbe potuto] essere il punto di equilibrio» tra le due delegazioni, ma ricordava che grazie al ruolo politico «di primo piano» dell’Italia nell’ambito dei paesi dell’Europa occidentale «non esist[evano] dubbi sulle posizioni di partenza».

Il messaggio implicito contenuto nella frase finale del rapporto di Morante suggeriva di ricorrere, in caso di difficoltà, ad argomentazioni o a pressioni di natura politica.

Le trattative si rivelarono particolarmente ostiche. Alla fine di giugno la posizione del ministro Niklas, contraria all’aumento delle importazioni di generi alimentari italiani, sembrò avere la meglio ed anche Umberto Grazzi, a capo della delegazione italiana insieme a Morante, comunicò a Roma la possibilità di non riuscire più a raggiungere una soluzione a favore dell’Italia:

«Il presidente della Delegazione germanica [von Maltzan] – riportava Grazzi in un appunto per Sforza datato 29 giugno – torna domani a Bonn, per prendere ordini. Ora dubito che questi possano essere di natura [tale] da soddisfarci. Sta di fatto che da domani non abbiamo più [un] accordo con la Germania: e mi riprometto di fare [un] comunicato alla stampa anche per scaricare la responsabilità dei nostri negoziatori […]».

In seguito al messaggio di Sforza per Adenauer le richieste italiane furono integralmente assecondate. Il 12 luglio 1950, infatti, venne siglato l’ultimo importante accordo bilaterale italo-tedesco precedente l’istituzione dell’Unione europea dei pagamenti. Oltre la metà dell’interscambio di merci venne svincolato dal contingentamento.

L’Italia, inoltre, a dimostrazione della propria politica di riavvicinamento al governo della Germania occidentale, abolì le restrizioni sul territorio italiano a carico degli operatori tedeschi, restrizioni che scaturivano da alcune normative annesse allo stato di guerra risalente alla dichiarazione del 13 ottobre 1943.

La scelta italiana, che derivava in parte dai contemporanei orientamenti degli Alti Commissari sulla cessazione dello stato di guerra, fu molto apprezzata dai dirigenti tedeschi. Erhard avrebbe poi scritto:

«Il commercio italo-tedesco riacquistò tutto il suo slancio soltanto in seguito all’accordo del luglio 1950 […] fatto caratteristico, quell’accordo usciva già dall’angusta cornice di un’intesa per lo scambio di merci, e si avvicinava molto al tipo di un vero e proprio trattato perché ad esempio restituiva alla Germania il diritto di domicilio […] era significativo il fatto stesso che uno Stato si dichiarasse disposto ad abolire pubblicamente e contrattualmente le leggi di guerra nei confronti della Germania […] Soltanto un anno dopo tutte le Potenze occidentali posero fine allo stato di guerra con la Germania».

Da un punto di vista economico il risultato raggiunto dall’Italia fu rilevante. Si trattò di un vero e proprio successo. Il 13 luglio 1950 Tommaso Notarangeli (Vicedirettore degli affari Economici) informava Sforza che «gli accordi commerciali italo-tedeschi testè parafati, rappresentano per l’Italia le possibilità di scambi più importanti per la sua economia [per importazioni ed esportazioni], dopo quelle relative al Piano Marshall».

Anche per la Repubblica federale si trattò di un ottimo risultato293. Tuttavia nonostante l’aumento complessivo dei prodotti finiti esportati in Italia, l’accordo del 12 luglio (così come tutti gli accordi raggiunti con l’Italia nel corso del 1950) si collocava per Bonn al quinto posto dopo quelli in vigore con gli Stati Uniti, l’Olanda, la Francia e la Svezia, ma prima di quelli conclusi con la Gran Bretagna. Nel corso del 1950 l’Italia rappresentò per la Repubblica federale il sesto mercato in assoluto per le esportazioni e il quinto per le importazioni.

Il diverso peso dei negoziati commerciali del 1950 all’interno delle economie dei rispettivi paesi (il secondo posto per l’Italia e tra il quinto e il sesto per la Germania) aiuta a comprendere perché il governo federale insieme alla volontà politica di mantenere buoni rapporti con Roma, in un momento in cui la Germania occidentale era ancora sottoposta a diversi vincoli in politica estera, accettò di soddisfare le condizioni poste dalla delegazione italiana in sede di negoziato.

In termini complessivi alla fine degli anni Quaranta la disparità tra le due economie, italiana e tedesca-occidentale, era tale da consentire alla Repubblica federale la gestione, senza particolari conseguenze, di un aumento delle importazioni italiane anche in assenza di una piena ripresa delle proprie capacità produttive e quindi di esportazione.

In ultima analisi furono soprattutto le valutazioni di natura politica a svolgere un ruolo fondamentale nel corso dei negoziati commerciali italo-tedeschi del 1949-1950.

Tra il 1949 e il 1950 i dirigenti di Bonn accettarono tutte le condizioni avanzate dalle delegazioni italiane nella prospettiva – rivelatasi poi corretta – di un rafforzamento dei rapporti con il governo di Roma: un paese ed un governo che nel 1950 a differenza della Repubblica federale e del governo Adenauer, vantava, grazie al Trattato di pace, la sovranità internazionale, l’adesione al Patto Atlantico, e un ottimo rapporto con la Francia e con la maggiore potenza occidentale: gli Stati Uniti.

Da parte del governo federale furono quindi il desiderio e la volontà di non compromettere l’amicizia dell’Italia a svolgere un ruolo fondamentale; un’amicizia promossa dallo stesso governo De Gasperi e con ripercussioni diplomatiche significative per Bonn in una fase storica nella quale tra le cancellerie europee erano ancora diffuse molte riserve sulla nuova Germania occidentale.

Con l’accordo del 12 luglio 1950 l’interscambio italo-tedesco iniziò la progressiva ascesa verso i ritmi imponenti degli anni Cinquanta, che portarono la Repubblica federale ad occupare già nel 1953 il primo mercato in assoluto per le esportazioni italiane.

Da un punto di vista economico la seconda metà del 1950 fu caratterizzata da una momentanea, ma acuta crisi della bilancia dei pagamenti della Repubblica federale. In particolare il rapido aumento delle materie prime in seguito allo scoppio della guerra di Corea (giugno 1950) portò ad un rialzo generalizzato dei prezzi.

Con la ripresa produttiva non ancora terminata le conseguenze finanziarie per la Repubblica federale, che importava un quarto delle materie prime e più della metà dei generi alimentari, si rivelarono particolarmente negative. Le imprese iniziarono ad acquistare ed immagazzinare grossi stock di materie prime, aggravando tuttavia la penuria di valuta a disposizione.

La situazione debitoria di Bonn in ambito Uep si aggravò nel corso dell’autunno, il processo di liberalizzazione delle merci fu momentaneamente interrotto e vennero ripristinati i controlli sulle importazioni e i consumi di carbone. La Bank deutscher Länder (antesignana della Deutsche Bundesbank, istituita nel 1957) adottò misure restrittive del credito per frenare l’inflazione.

Agli inizi di novembre del 1950, il Comitato direttivo dell’Uep, presieduto da Guido Carli, concesse un credito speciale alla Repubblica federale pari a 180 milioni di dollari. Nel corso della crisi dei pagamenti tedesca, il governo italiano agì apertamente a sostegno della Repubblica federale. La Direzione affari economici aveva evidenziato il rischio di gravi ripercussioni per le esportazioni italiane in Germania nel caso di un peggioramento del volume dei debiti di Bonn.

Nel medio periodo, infatti, un prolungamento delle restrizioni quantitative sulle merci esportabili in Germania (una delle misure adottate per tamponare la crisi) avrebbe colpito soprattutto l’Italia:

«Dalla natura delle esportazioni italiane in Germania – si legge in un rapporto riservato sulla crisi tedesca del 23 ottobre 1950 – in relazione alla ripresa industriale, appare certo che i settori merceologici più gravemente colpiti sarebbero quelli delle esportazioni italiane e tuttavia ciò non conferirebbe all’Italia il diritto di reclamare […]».

Guido Carli

Il 15 novembre von Maltzan in un rapporto riservato per il ministro Erhard e per il Cancelliere Adenauer sottolineava che il «Signor Carli si era molto adoperato per la nostra causa [in sede Uep]» e che «nonostante le difficoltà dell’estate [dei negoziati firmati il 12 luglio], tutti gli incontri successivi bilaterali [italo-tedeschi] si erano svolti in un’atmosfera amichevole ed erano stati impostati su di una reciproca comprensione (gegenseitigem Verständnis)».

Proprio in occasione della concessione del credito Uep, proseguiva von Maltzan, «mi sono convinto della disponibilità dell’Italia (der Bereitschaft Italiens) ad offrire un ulteriore sostegno (für eine weitere Unterstützung) [alla Repubblica federale] in sede Oece».

Gli incontri e i negoziati italo-tedeschi conclusi nella seconda metà del 1950 costituivano secondo von Maltzan:

«una nuova prova della volontà di entrambe le parti di rafforzare la cooperazione economica (wirtschaftlicher Zusammenarbeit), anche al fine, come è stato più volte sottolineato dalle delegazioni italiane in particolare, di una comune attività per la difesa dell’Europa occidentale (westlichen Verteidigung)».

Il 6 dicembre il ministro Erhard in un rapporto destinato alla Cancelleria federale e all’Ufficio per gli affari esteri (Dienststelle für Auswärtige Angelegenheiten) affermava di condividere pienamente l’opinione manifestata da von Maltzan il 15 novembre sull’atteggiamento “filotedesco” del governo italiano in sede Uep e Oece.

Le relazioni economiche italo-tedesche, osservava Erhard, dovevano essere ulteriormente sviluppate e approfondite, poiché ricoprivano un ruolo politico europeo e non solo economico. Il valore simbolico degli scambi italo-tedeschi era già stato dichiarato pubblicamente da Erhard poco giorni prima. Il 18 novembre, infatti, ebbe luogo a Francoforte la cerimonia inaugurale della Camera di commercio italiana per la Germania.

All’inaugurazione parteciparono il ministro Erhard e il Capo della missione diplomatica italiana Babuscio Rizzo, entrambi presidenti onorari della nuova camera (il presidente effettivo era Piero Bonelli delegato della Deutsche Fiat). A nome di tutto il governo federale, il ministro dell’Economia elogiò il governo De Gasperi e il Presidente della Repubblica Einaudi, quest’ultimo «per i suoi ideali liberali ed europeisti».

Erhard dichiarò, inoltre, alla stampa italiana che il valore degli scambi italo-tedeschi, oltre che economico, era soprattutto politico ed ideologico: le relazioni commerciali tra l’Italia e la Repubblica federale rappresentavano il simbolo della rinnovata «solidarietà europea».

Tuttavia, nonostante l’enfatica esaltazione di Erhard delle identità di ideali «liberali ed europeistici» tra l’Italia e la Germania, il governo federale iniziava ad osservare con preoccupazione la politica economica dell’Italia degasperiana; solo pochi mesi prima – come sarà analizzato nel prossimo paragrafo – presso il ministero federale dell’Economia era stata diffusa una relazione sulla politica economica italiana dalle conclusioni poco rassicuranti circa la generale stabilità della penisola.

Il deficit della bilancia dei pagamenti della Repubblica federale si ridusse nella prima metà del 1951. La situazione si capovolse nella seconda metà dell’anno, quando il processo di riarmo, per effetto della crisi coreana, portò ad un diffuso accrescimento del fabbisogno di metallo e di prodotti meccanici.

La Germania occidentale, a cui era stata proibita la produzione di materiale bellico, ebbe così l’occasione di recuperare i mercati perduti, esportando le merci della propria industria “pacifica” verso quei paesi fortemente impegnati nel riarmo.ù

Si verificò in Europa un aumento generalizzato della domanda di prodotti tedeschi che consentì alla Repubblica federale, nel 1952, di beneficiare di un cospicuo avanzo della bilancia dei pagamenti e di imboccare, come ha osservato Abelshauser, «il sentiero che portò la Repubblica federale a diventare nel corso degli anni Sessanta e Settanta la seconda potenza commerciale dopo gli Stati Uniti».

Fin dalla fine del 1951, la rinnovata solidità economico-commerciale della Germania occidentale e il conseguimento in politica estera dei primi passi verso la riacquisizione della sovranità (istituzione dell’Auswärtigen Amt nel marzo del 1951, adesione al Consiglio d’Europa a maggio, soppressione dello statuto della Ruhr a dicembre, firma del Generalvertrag nel maggio del 1952), determinarono – come sarà più avanti esaminato – un ribaltamento dei rapporti di forza a vantaggio della Repubblica federale.

Le relazioni della rappresentanza tedesca di Roma che esprimevano forti dubbi sulla stabilità complessiva del sistema politico italiano contribuirono ad un mutamento di percezione da parte della diplomazia tedesca.

I rappresentanti italiani percepirono distintamente questo passaggio di potere contrattuale a favore dei tedeschi proprio nell’ambito dove tra il 1949 e il 1950/51 avevano avuto gioco facile nel riuscire ad assicurarsi le migliori condizioni: in sede di negoziazioni economiche e commerciali.

«INDUSTRIA DI STATO O MONOPOLIO DI FAMIGLIE?»:

BONN SULLA REALTÀ ECONOMICA ITALIANA

Nella primavera del 1950 (tra maggio e giugno), dopo la conclusione degli accordi commerciali italo-tedeschi del 1949 e in seguito alla constatazione da parte tedesca dei progressi compiuti dall’industria italiana rispetto al periodo prebellico, il Bundesministerium für Wirtschaft (il ministero federale dell’Economia) e la Dienststelle für Auswärtige Angelegenheiten im Bundeskanzleramt (l’Ufficio per gli affari Esteri della Cancelleria federale) coordinata da Blankenhorn avviarono uno studio complessivo della realtà economico-produttiva dell’Italia.

Lo scopo della relazione era di delineare un quadro dettagliato della struttura industriale italiana, cercando allo stesso tempo di individuare le cause che erano alla base dello sviluppo produttivo della penisola nel secondo dopoguerra. Nel luglio del 1950 una relazione di circa trentacinque pagine fu inviata al ministro Erhard ed alla Cancelleria federale.

Non sono indicati gli autori, né le fonti utilizzate per la preparazione del documento. È probabile che lo studio, in assenza di rappresentanze diplomatiche in Italia, si sia basato sull’esperienza di qualche ex funzionario dell’Auswärtigen Amt specialista di affari italiani e sulle valutazioni degli addetti alle relazioni commerciali con l’Italia come Erich Eiswald (attaché agli affari economici del Consolato di Roma della Repubblica federale tra il 1950 e il 1957), coadiuvati da alcuni fidati imprenditori tedeschi tradizionalmente in contatto d’affari con le imprese italiane.

È verosimile, inoltre, che von Maltzan abbia partecipato in qualche modo alla preparazione della relazione a causa della sua esperienza nelle trattative e nei negoziati commerciali tra la Germania occidentale e l’Italia a partire dal 1948.

Si tratta di un documento importante perché vi si ritrovano diverse interpretazioni della realtà politica ed economica italiana durante i governi De Gasperi, giudizi che in seguito saranno in parte confermati o ulteriormente approfonditi dai rappresentanti tedeschi in Italia.

Diverse analisi e valutazioni (soprattutto quelle sulla politica economica e sociale) contenute nella relazione del luglio 1950 furono in seguito riprese e riproposte dalla Protokollabteilung e dalla Politische Angelegenheiten dell’Auswärtigen Amt, con piccole modifiche, nei dossier del 1951 e del 1952 redatti in occasione delle visite di Adenauer a Roma (giugno 1951) e di De Gasperi a Bonn (settembre 1952).

È importante premettere che la percezione della realtà economica italiana dei dirigenti tedeschi autori della relazione risulta tendenzialmente caratterizzata da posizioni di politica economica marcatamente liberali. La griglia interpretativa degli esperti del Bundesministerium für Wirtschaft e della Dienststelle für Auswärtige Angelegenheiten, così come emerge dall’analisi del documento, si basava su di una preferenza politica ed economica per il liberismo.

Un sistema economico fondato sull’assoluta libertà di produzione e di commercio e per il quale l’intervento dello stato era ammesso solo in casi eccezionali, più come salvaguardia delle libertà economiche che come guida per indirizzare la produzione, costituì la stella polare nelle valutazioni del sistema produttivo della penisola.

Gli orientamenti di politica economica che derivavano da quell’impostazione (che giudicava negativamente ogni intreccio tra Stato e forze produttive) rappresentarono per gli autori della relazione la via principale rispetto alla quale rilevare ogni deviazione.

Non di rado molte delle “diversità” riscontrate in Italia furono lette come vere e proprie degenerazioni. In tal senso la realtà italiana del 1950 offriva agli osservatori tedeschi innumerevoli esempi di “deviazione” dai principi del liberismo. In diversi casi la stessa politica attuata dal governo De Gasperi era giudicata come un freno allo sviluppo del paese.

In generale quanto più il campo d’indagine mostrava significative differenze con la realtà tedesca-occidentale, ma soprattutto rispetto ad una sorta di prototipo universale di economia di libero mercato, tanto più il commento dell’osservatore di Bonn diventava sarcastico e negativo.

Pertanto più che alla vigilia di un’impetuosa crescita economica – quale sarà quella dell’Italia a partire dalla metà degli anni Cinquanta –, il quadro generale della realtà economica e produttiva delineato dalla relazione, e condiviso dai dirigenti tedeschi addetti alle questioni italiane, restituiva l’immagine di un sistema corrotto e guidato da una politica economica sbagliata. Gli interventi e i condizionamenti dello stato italiano in campo economico avrebbero condotto il paese ad un prossimo e molto probabilmente irreversibile declino.

L’enorme complessità della realtà politica, economica e sociale dell’Italia rappresentò il filo rosso dell’intera relazione. Una complessità che agli occhi dell’osservatore tedesco assunse i caratteri del caos. In Italia era possibile registrare tutto e il contrario di tutto.

Caos e contraddizione per la presenza allo stesso tempo e nello stesso sistema di un ampio intervento statale nei meccanismi economici e per la presenza di un piccolo ma potente gruppo di famiglie di industriali che impediva lo sviluppo di una sana concorrenza. La situazione italiana risultava indecifrabile in primo luogo per gli stessi organi pubblici e privati del paese:

«La struttura dell’industria italiana è così complicata (derart kompliziert) che nessuno ha una visione d’insieme di essa, né gli uffici pubblici né tantomeno le banche private. Non esiste alcuna chiara somma (Summe) di ogni singola impresa, società per azioni o impresa statale.

L’Italia d’altra parte viene indicata come paese dell’Europa occidentale che ha raggiunto il livello più alto di nazionalizzazione (Nationalisierung) e di socializzazione (Sozialisierung) […] Allo stesso modo tuttavia [l’Italia] è il paese nel quale un monopolio di poche famiglie (circa 50) detiene la maggior parte delle più importanti industrie […]».

1948: il presidente del Consiglio Alcide Degasperi alla costruenda diga di Cles

Secondo la relazione, all’origine di questo strano e contraddittorio connubio c’era il fascismo e la politica autarchica voluta da Mussolini. Il fascismo aveva prodotto gigantesche imprese pubbliche (Mammut-Unternehmen), sopravvissute alla caduta del regime e mantenute in vita dopo il 1948 dall’attuale governo De Gasperi per timore di un aumento della disoccupazione e di disordini interni:

«un primo matrimonio tra Stato e industria era stato contratto durante il fascismo grazie alla politica dell’autarchia […] e dopo l’ultima guerra lo Stato, per timore di disordini interni, non ha osato abbandonare (überlassen) queste gigantesche imprese (Mammut-Unternehmen). Per conservare (erhalten) il pane ai lavoratori, [lo Stato] ha continuato e continua a prestare denaro all’industria […]».

Tra il 1948 e il 1950 il governo aveva ottenuto una maggiore stabilità economica, ma «molto restava ancora da fare in tutti i campi». Le contraddizioni attraversavano la stesse azioni adottate dal governo in ambito sociale, perché in un paese «dove ancora si registra una persistente povertà che riguarda la stragrande maggioranza della popolazione. […] per mantenere le masse (die Massen) tranquille, lo stato teoreticamente antisocialista deve perseguire una parziale politica socialista».

Per scongiurare il pericolo di consistenti licenziamenti e probabili disordini, il governo De Gasperi aiutava con sovvenzioni o «altri sistemi» tutte le grosse aziende, anche quelle perennemente in perdita, improduttive e non adeguate al mercato: «in caso di difficoltà interviene lo Stato e tutto finisce con un compromesso (dann greift der Staat ein, und alles endet mit einem Kompromiss)».

Se in Italia le grandi industrie potevano considerarsi al sicuro da eventuali fallimenti grazie all’elevato numero di occupati, le piccole e medie imprese sopravvivevano attraverso il sistematico e tollerato ricorso all’evasione fiscale. Si trattava dell’immagine dell’Italia come paese dove le regole passavano in secondo piano, e dove si trovava sempre una via d’uscita:

«Sussiste quindi la situazione paradossale, che nonostante la situazione sia in qualche modo critica per l’industria pesante, solo quest’ultima è realmente al sicuro in Italia, proprio perché il suo numero di lavoratori rappresenta una specie di assicurazione sulla vita (eine Art Lebensversicherung).

In Italia, attualmente, solo le imprese con più di 1000 operai o le piccole aziende familiari (familiäre Kleinbetrieb), grazie ai sussidi pubblici, vivono bene. Tutte le piccole e medie imprese per rimanere a galla devono adottare misure più o meno fraudolente (betrügerische Massnahmen) come la contraffazione contabile (Bücherfälschung) e l’evasione fiscale (Steuerhinterziehung): non c’è azienda che non possegga una “doppia” contabilità (eine “doppelte” Buchführung) – una per lo Stato, un’altra per sé e talvolta anche una terza per gli azionisti – altrimenti si chiude».

La dettagliata descrizione delle sistematiche quanto redditizie pratiche elusive ed evasive messe in atto dalle imprese della penisola corrispondeva sicuramente ad una parte della realtà produttiva italiana, come la storiografia economica ha poi evidenziato.

Tuttavia, all’interno della generale struttura della relazione, l’ossessione per quelle «azioni fraudolente» rafforzavano l’immagine del caos come caratteristica del sistema italiano, più che suggerire la prospettiva della necessità di riforme.

Con un misto di cinica realtà e rassegnazione, il documento introduceva uno dei classici stereotipi sull’immutabilità della realtà italiana, arrivando a prospettare la situazione paradossale di un eventuale governo comunista e socialista ugualmente impotente nei confronti dell’assetto esistente:

«La sinistra radicale (Die radikale Linke) può teoricamente avere ragione quando accusa il governo di favorire i grandi proprietari terrieri (Grossagrarier) e i grandi industriali. Ma in pratica un governo comunista o socialista non sarebbe affatto in grado di cambiare di una virgola l’attuale politica in vigore.

Al massimo, si potrebbe inserire qualche nuovo funzionario al posto di questo o quel membro proveniente dall’alta aristocrazia o al posto di qualche noto industriale dell’era fascista. Il governo, nonostante tutte le tendenze sociali provenienti dal partito democristiano e dagli altri partiti della coalizione, come i socialisti di Saragat, non fa altro che sedere insieme con questi pochi rappresentanti del capitalismo pesante nelle stesse direzioni sovvenzionate dallo Stato».

Lo stesso partito comunista guidato da Togliatti non sembrava così pericoloso. Un giudizio che in seguito sarà completamente ribaltato dall’ambasciatore Clemens von Brentano, che osserverà, invece, con la massima preoccupazione l’avanzata e la politica del Pci. Nell’estate del 1950, tuttavia, secondo la relazione «la circostanza che anche il signor (Herr) Togliatti viaggia in una lussuosa Alfa Romeo e visita Capri, ha contribuito a placare gli animi più di quanto non abbiano fatto le divisioni militari degli alleati del Patto Atlantico».

La parte centrale della relazione era dedicata ad una dettagliata esposizione dei principali complessi produttivi italiani pubblici e privati: dalle Strade Ferrate Meridionali, Edison, Sme (la Società Meridionale di Elettricità), all’Iri con Finmeccanica, Finmare e Finsider, Falck, Fiat, ma anche Italcementi, Italgas, Bomprini, Parodi-Delfino, Burfo, Pirelli e Snia Viscosa326. Tra questi, uno dei ritratti più interessanti era quello dedicato al gruppo Fiat e alla famiglia Agnelli:

«Ma l’esempio modello (Musterbeispiel) della più audace politica familiare all’interno dell’industria italiana non può che essere la famosissima Fiat, la quale è strettamente associata al nome degli Agnelli.

Il loro strumento principale, la Holding IFI (Instituto [sic] Finaziario [sic] Industriale), è stata fondata dalla stessa Fiat, e come quest’ultima rappresenta una società controllata dagli Agnelli. Circa 149 aziende sono oggi controllate da questa gigantesca (gigantischen) Holding, che è quindi così importante e forse anche la più sana in tutta Italia; il cui futuro è peraltro assicurato anche grazie a diversi legami, non del tutto trasparenti, con imprese americane […]

Oggi la Fiat è presente in 1000 città, un merito di Giovanni Agnelli e del suo braccio destro, Prof. Ing. Valletta. Naturalmente anche la Fiat ha approfittato dei prestiti statali à fonds perdu, come del resto nessuna azienda in Italia si lascia scappare questa possibilità. Tra gli azionisti privati è possibile trovare alcuni rappresentanti di punta dell’aristocrazia italiana come il conte Camerana, il principe Ranieri Maria Gaetano di Borbone, il principe San Faustino, il marchese Visconti Venosta.

La Fiat rappresenta anche il miglior esempio di un altro fondamentale aspetto dell’industria pesante italiana: che essa nonostante tutti i vantaggi, anche personali, ricevuti dal regime fascista si è mantenuta pulita da quest’ultimo. Difficilmente si trova un nome fascista nelle liste dei precedenti direttori o dei consiglieri di vigilanza delle grandi società o banche.

Al massimo si affidavano loro posti rimunerativi in società non importanti. Ciò non è solo un indizio di riserva politica (politiche Reserve), ma anche un indizio dell’esistenza di una vera e propria aristocrazia industriale (industriellen Aristokratie). [Giuseppe] Volpi e [Vittorio] Cini tuttavia rivestirono diverse volte incarichi ministeriali (Ministerposten)».

Concentrando l’attenzione soprattutto sull’Italia centro-settentrionale e sottovalutando i danni di guerra che avevano subito le città e le regioni meridionali della penisola durante il conflitto, la relazione ammetteva che la ricostruzione degli impianti italiani subito dopo la fine della guerra era stata rapida, perché il paese non aveva «sofferto per tutto il corso della guerra significative distruzioni di impianti o rilevanti asportazioni di macchinari verso la Germania».

Finita la guerra l’«ingegno e l’inventiva degli italiani» aveva completato l’opera. In determinati casi, come per l’industria chimica, il livello qualitativo e quantitativo del periodo prebellico era stato non solo raggiunto, ma anche superato. Uno sviluppo, segnalava la relazione, reso «naturalmente» possibile grazie alla precedente collaborazione italo-tedesca del periodo bellico: «nel dopoguerra molti prodotti tedeschi (viele deutsche Erzeugnisse) sono stati contraffati (nachgeahmt) dalle industrie italiane».

Dove la relazione entrava in evidente difficoltà era nell’individuazione delle cause e nella spiegazione dello sviluppo industriale italiano del dopoguerra. Il quadro tracciato nella prima parte del documento, tutto sbilanciato nell’individuazione di un immobilismo atavico, nella denuncia della corruzione diffusa e nella critica di un’insana politica economica attuata dal governo, non aiutava a scoprire le ragioni strutturali della specificità italiana rispetto alla realtà tedesca-occidentale.

Come è noto, infatti, la presenza di una forte impresa pubblica nel sistema economico ha rappresentato uno dei tratti peculiari del capitalismo italiano nella seconda metà del Novecento. Nel 1950 per gli analisti tedeschi autori della relazione l’idea di una qualsiasi funzione “positiva” dell’impresa pubblica appariva semplicemente impossibile.

Lo sviluppo industriale della penisola nel periodo 1945-1950 venne interpretato quindi come un fenomeno eccezionale, frutto di un’industria esportatrice dall’atteggiamento corsaro, che aveva approfittato delle debolezze degli altri paesi travolti dalla guerra.

A partire dal 1945 si era sì verificato un considerevole aumento delle esportazioni di prodotti finiti italiani, ma alla base di tale successo c’era la momentanea assenza dai mercati mondiali della Germania, dell’Inghilterra e delle altre potenze che avevano condotto una guerra totale. L’industria italiana, invece, durante la seconda guerra mondiale, «nonostante i controlli tedeschi», aveva continuato a lavorare esclusivamente per le «proprie tasche».

Si affermava, inoltre, quasi in tono di rimprovero, che durante l’intero periodo del conflitto mondiale, l’industria italiana non aveva mai pensato completamente ad organizzare i propri impianti per la produzione bellica:

«La ragione (der Grund) [del successo delle esportazioni italiane di prodotti finiti] deve essere individuata nella momentanea assenza e nell’incapacità di esportazione (Exportunfähigkeit) della Germania, dell’Inghilterra e degli altri stati, che avevano condotto una guerra totale (totalen Krieg), mentre in Italia nonostante tutti i controlli tedeschi e dello stato [fascista], l’industria aveva continuato a lavorare solo per le proprie tasche (nur für di eigene Tasche). […] [durante la guerra] L’Italia non è mai passata totalmente alla produzione di guerra! (Italien hatte sich eben nie total auf Kriegsproduktion eingestellt!)».

Come erano, dunque, riusciti gli industriali privati della penisola a recuperare in così breve tempo i livelli della produzione prebellica? Grazia ad un’«immensa elasticità», tutta italiana:

«L’industriale italiano è per sua natura sostanzialmente “liberale”, tanto nel senso positivo quanto in quello negativo. E se il livello della produzione industriale nonostante tutte le difficoltà è risalito ad uno stadio pari a quasi il 100% del livello prebellico, questo è da attribuire alla sua straordinaria (ungeheuere) “elasticità” (Elastizität).

Una “elasticità” (Elastizität) che trova sempre una via d’uscita (die immer einen Ausweg findet) in grado di sfuggire (entgehen) alle tasse e agli oneri sociali attraverso la “doppia contabilità” (durch Doppel-Buchführung)».

Tra il 1945 e il 1950, l’apparato industriale italiano aveva beneficiato di una situazione storica unica e irripetibile, ma i principali problemi – proseguiva la relazione – erano ancora tutti sul tappeto: «si può quindi concludere che nel dopoguerra l’Italia ha raggiunto una rapida e facile vittoria tattica, ma deve ancora seguire la strategia di fondo».

Secondo le previsioni della relazione, i problemi più difficili per l’Italia si sarebbero presentati in tutta la loro gravità, in primo luogo, alla fine del Piano Marshall e, in secondo luogo, al momento della realizzazione dell’unità economica europea: quando «le sovvenzioni statali non basteranno più e ci sarà bisogno di competitività».

La questione sociale (Arbeiterfrage) rappresentava un altro dei problemi fondamentali del governo De Gasperi. Un problema reso ancora più complesso dalla confusione dei dati ufficiali:

«le statistiche sul lavoro in Italia – si legge nella relazione – sono poco precise (ungenau) e in generale rappresentano un tipico esempio dello scarso talento statistico degli italiani, che considerano questa materia del tutto astratta e inutile».

In Italia, secondo la relazione, le aziende non godevano della piena libertà di licenziamento, contro ogni razionalità economica lo stato cercava di scongiurare i tagli della forza lavoro in eccesso. Per garantire i diversi equilibri interni e mostrare «una facciata di stabilità sociale davanti agli americani» il governo evitava di adottare una sana politica economica.

Una tattica non proprio efficace, commentava il documento, perché nella penisola «si registrano ripetuti scioperi e agitazioni». Una situazione di relativa instabilità, osservava, che non poteva durare nel medio e lungo periodo.

In politica economica – concludeva la relazione – l’atteggiamento del governo italiano doveva essere soltanto uno. Non esistevano molte vie d’uscita: «la normalizzazione dovrà essere principalmente associata ad un progressivo ritiro dello Stato dall’industria e dalla produzione».

UN PAESE INSTABILE, I TIMORI DELLA DIPLOMAZIA TEDESCA SULLA STABILITÀ DEL SISTEMA ITALIANO

Il 22 luglio del 1954, a poco meno di un anno di distanza dalla caduta dell’ultimo governo De Gasperi (l’ottavo: dal 16 luglio 1953 al 17 agosto 1953), l’addetto agli affari sociali dell’ambasciata tedesca di Roma, Ernst Kusserow, tenne un colloquio privato e riservato con il Consigliere di legazione italiano Carlo Nichetti.

Il diplomatico tedesco, in quei giorni sempre più disorientato davanti alle ricorrenti crisi degli esecutivi italiani (dalla caduta di De Gasperi, nel giro di un anno si erano susseguiti nel seguente ordine i governi Pella, Fanfani, Scelba e poi Segni) domandò al suo interlocutore come funzionasse veramente il paese:

«Sulla questione di chi in Italia incarna (verkörpern) il vero potere dello Stato, Herr Nichetti ha detto che questi erano i monopoli privati uniti alla grande industria a gestione pubblica, così come una stretta cerchia di pochi commercianti che fanno affari con gli ambienti industriali.

Alla successiva domanda del perché il governo può solo così difficilmente mettere in pratica le misure che adotta, il signor Nichetti lo ha spiegato con la seguente argomentazione: come in tutti i paesi democratici il governo viene eletto. Queste elezioni costano miliardi di lire. Ora in Italia a parte il partito comunista nessun partito dispone di notevoli mezzi economici. Ciò significa che i fondi devono essere reperiti. E questo solo l’industria è in grado di farlo […]».

Sebbene il colloquio volse in seguito su temi di carattere contingente, l’incontro sembrò confermare al diplomatico tedesco alcune impressioni sulla realtà italiana in generale che già da alcuni anni i rappresentanti di Bonn avevano maturato.

L’Italia era un paese affetto da due problemi molto complessi: in economia prevalevano gli orientamenti contrari al libero mercato e favorevoli, invece, all’intervento dello stato, al dirigismo e all’intreccio corporativo tra stato e forze produttive; mentre sul piano politico si registrava un’incredibile forza del partito comunista che continuava ad aumentare la propria influenza su ampi strati di popolazione.

L’intervento diretto e da protagonista dello stato italiano nel sistema economico e produttivo del paese costituì una delle critiche principali dei rappresentanti tedeschi nei confronti del governo De Gasperi. Tra il 1950 e il 1953 i giudizi più severi di Bonn nei confronti dell’Italia furono rivolti alla politica interna e soprattutto alla politica economica.

A partire dal 1950, l’anno delle riforme – riforma agraria, Cassa del Mezzogiorno, riforma tributaria –, i principali progetti di legge del governo De Gasperi in materia economica convinsero i rappresentanti tedeschi che l’obiettivo di fondo perseguito da Roma era quello di accentuare ancora di più l’intervento dello stato in campo economico.

La tendenza in atto nel governo italiano era di privilegiare lo sviluppo industriale del paese, una sfida importante ma che, a giudizio degli inviati di Bonn, era sbagliato perseguire attraverso un allontanamento dai principi del libero mercato.

L’avanzata delle sinistre tra l’elettorato e in particolare la popolarità del partito comunista rappresentò, insieme alle critiche sulla politica economica, l’altro punto debole che i rappresentanti di Bonn addebitavano al sistema italiano del dopoguerra.

Il console Brentano iniziò a dedicare ampie e dettagliate analisi al «pericolo comunista» in Italia già poche settimane dopo il suo insediamento a Roma. In un primo momento, il console tedesco, tentò di discutere il problema direttamente con Sforza, ma il risultato fu tuttavia deludente.

Il ministro degli Esteri, come è stato in precedenza riportato, scartò decisamente l’ipotesi di ulteriori avanzate del comunismo tra la popolazione italiana, a causa di alcune caratteristiche intrinseche del popolo italiano che lo rendevano incompatibile con il comunismo. Brentano, tuttavia, continuò a segnalare a Bonn che il Pci costituiva un problema reale, non solo per l’Italia, ma per l’Europa occidentale.

I partiti di sinistra all’opposizione in Italia non erano paragonabili alla Spd di Schumacher: il Pci, infatti, avvertiva il console tedesco: «è un partito pilotato da Mosca (von Moskau gelenkt wird)». L’«opposizione di sinistra» (Linksopposition) rappresentava, dunque, qualcosa di molto più rischioso per il sistema politico ed economo del paese poiché metteva in discussione lo stesso legame dell’Italia con l’Occidente.

Le fonti conservate presso l’archivio dell’Auswärtiges Amts mostrano, dunque, che l’attenzione dei rappresentanti tedeschi in Italia era rivolta non tanto alle analisi delle scelte di politica estera del governo italiano – orientamenti ritenuti in linea di massima convergenti con gli interessi della Repubblica federale – quanto piuttosto ai problemi di politica interna.

Nel gennaio del 1951 in un rapporto riservato inviato a Bonn, Clemens von Brentano esprimeva forti dubbi sulle possibilità di successo della riforma agraria. «La suddivisione e l’assegnazione delle terre – scriveva Brentano – dovrebbe contribuire a creare posti di lavoro e portare quindi ad un miglioramento del tenore di vita della popolazione […]», aggiungendo subito dopo: «se queste speranze (Hoffnungen) diventeranno realtà, resta ancora da vedere. Le basi appaiono fragili […]».

In politica interna i migliori risultati dei governi De Gasperi, secondo Brentano, erano stati quelli raggiunti prima del 1950/51. Infatti, nonostante non fosse stata attuata una riforma monetaria nei primi anni del dopoguerra, la produttività industriale tra il 1945 e il 1950 era stata sicuramente incrementata, anche se rimaneva da affrontare il problema dell’inflazione.

Di indubbio valore storico per l’Italia era stata la riorganizzazione dell’apparato statale-burocratico completamente disorganizzato (völlig desorganisierte) dopo la caduta del regime fascista, così come la riorganizzazione degli apparati difensivi dello Stato: la polizia e l’esercito.

Tuttavia, la stabilità governativa in Italia era minacciata da diversi pericoli. Lo stesso partito di maggioranza – la DC di De Gasperi – mostrava, secondo Brentano, una rischiosa mancanza di disciplina e di compattezza. Il 19 marzo 1951 il console tedesco informava Adenauer che nella DC:

«Alcune di queste divergenze esistono da tempo in modo latente, e hanno origine nel carattere di massa del partito (Massencharakter der Partei), nelle cui file sono rappresentati elementi molto eterogenei tra loro che hanno una base comune nel cristianesimo, ma le cui esigenze pratiche spesso sono molto diverse […] inoltre nelle liste dei candidati della DC per le elezioni del 18 Aprile 1948 sono state candidate un certo numero di persone, che erano solo vagamente collegate al partito, ma che in cambio davano la garanzia di portare voti a sufficienza.

Naturalmente questi deputati non si sentono particolarmente vincolati in modo forte alla disciplina del partito e quindi non hanno paura di aprire di tanto in tanto una “fronda” […] altri motivi alla base delle divergenze all’interno della DC devono poi essere individuati nella sagace tattica dei partiti di sinistra, che addebitano ai partiti borghesi tutte le difficoltà sociali ed economiche del paese così come l’insicurezza per il futuro».

Le difficoltà interne di De Gasperi – osservava Brentano – erano aggravate dalla formazione di correnti (Flügelbildung) all’interno del suo stesso partito. Il 16 maggio, infatti, un nuovo rapporto incentrato sui problemi della DC rivelava a Bonn che:

«La corrente di sinistra chiede una maggiore attenzione ai bisogni sociali della popolazione. La corrente di destra, i cosiddetti Vespisti, contestano la politica finanziaria di De Gasperi e la riforma agraria del governo. I seguaci dell’azione cattolica se la prendono (verübeln) con De Gasperi, perché finora ha evitato un puro indirizzo clericale. I liberi anticlericali lo trattano con ostilità (anfeinden) per il solo fatto che è un credente cattolico».

Le difficoltà dell’esecutivo non erano prive di ripercussioni negative. Secondo Brentano ad approfittare delle debolezze della coalizione di governo e dei problemi economici erano specialmente le sinistre.

La popolarità dei partiti di sinistra e soprattutto dei comunisti non era, però, attribuita solamente all’azione di propaganda del Pci, ma era individuata e riconosciuta nella presenza all’interno del paese di reali problemi economico-sociali. Il sistema italiano soffriva di una questione sociale irrisolta.

Togliatti

L’incremento dei consensi verso il partito guidato da Togliatti era da rintracciare nelle difficoltà economiche lasciate irrisolte o «malamente» affrontate dal governo centrista:

«L’Italia – scriveva Brentano il 16 maggio – ha un numero di disoccupati pari alla cifra di 2 milioni […] Il tenore di vita delle masse è estremamente basso (äußerst niedrig). Nelle grandi città la diversità tra lo sperpero di una piccola elite e il tenore di vita della massa della popolazione provoca tensioni sociali di natura pericolosa. Queste difficoltà economiche rappresentano uno dei motivi del rafforzamento del partito comunista, il quale contra circa due milioni di tesserati».

Brentano ammetteva che, oltre alle difficoltà economiche, il consenso del Pci nel paese si basava anche sul ruolo storico di primo piano ricoperto dal movimento comunista durante il periodo dell’occupazione tedesca e della lotta al fascismo:

«Ma le difficoltà economiche – osservava Brentano – non sono solo l’unica base di forza del movimento comunista. Durante gli ultimi anni del regime fascista, prima e poi soprattutto durante la guerra, i comunisti erano già organizzati come partigiani. Dopo la caduta di Mussolini sorsero in ampie parti d’Italia gruppi armati di resistenza, per la gran parte sotto l’influenza esclusiva di leader comunisti. Questo ha prodotto una grande popolarità, e i comunisti sono visti da una buona parte della popolazione come i liberatori dalla tirannia del fascismo e come attivi combattenti contro l’occupazione tedesca».

Per i rappresentanti tedeschi la situazione politica italiana rischiava di slittare in uno stato di instabilità permanente. Nel novembre del 1951 Babuscio Rizzo informava in via riservata De Gasperi che il ministro della Giustizia della Baviera, Josef Müller, aveva manifestato forti preoccupazioni per la situazione politica della penisola in seguito ad un breve viaggio a Roma:

«[…] Müller ha detto che forti tensioni interne si manifesterebbero in seno al gruppo democristiano e l’attenzione del partito si concentrerebbe sempre più su giovani personalità quali Piccioni e Gonella. In campo socialista Saragat starebbe scivolando verso un più attivo socialismo di sinistra e preparandosi così all’eventualità di una riconciliazione con Nenni. Si noterebbe poi in Italia un processo di radicalizzazione, cioè di rafforzamento e di riorganizzazione delle fila comuniste ed anche di quelle neofasciste».

Josef Müller, primo da sinistra

Il divario Nord-Sud costituiva, per i rappresentanti tedeschi in Italia, un’ulteriore minaccia per la stabilità del paese. Lo stato di arretratezza del Meridione rappresentava uno dei problemi economici e sociali insoluti della storia d’Italia.

La situazione del Mezzogiorno appariva a Brentano e all’Addetto alle questioni sociali (Sozialrefent) della rappresentanza tedesca di Roma, Ernst Kusserow, particolarmente disperata. Lo «spazio del Mezzogiorno» (Mezzogiorno-Raum) non presentava soltanto il già grave fenomeno della disoccupazione diffusa e della scarsa industrializzazione, ma mostrava problematiche ancora più gravi.

Con lunghe relazioni che non di rado assumevano i tratti della letteratura esotica, a causa delle ripetute rappresentazioni di fenomeni estranei al proprio paese d’origine e alla propria cultura, i rappresentanti tedeschi descrivevano – con il supporto di dettagliati dati statistici differenziati per regione, sesso ed età – la diffusione endemica al Sud della malaria, della tubercolosi, delle malattie veneree (Geschlechtskrankenheiten) e del tracoma, la malattia degli occhi egiziana (ägyptische Augenkrankenheit).

Clemens von Brentano

Nelle campagne meridionali le abitazioni dei contadini erano spesso fabbricate con massi, senza l’utilizzo del cemento, prive di elettricità e di servizi igienici. Nel maggio del 1952 un rapporto dell’ambasciata tedesca a Roma definiva «il tenore di vita dei contadini italiani [come] il più basso d’Europa», e se in generale nel nord Italia sussistevano «enormi possibilità di miglioramento» grazie ad un buon sistema produttivo, al sud e nelle isole mancava «ogni indizio di sviluppo» e pertanto – riportava Ernst Kusserow – «devono essere dapprima create le premesse per un miglioramento della qualità della vita che possa definirsi decente».

Le cause del divario Nord-Sud erano ricondotte ad un classico determinismo geografico. Scriveva, infatti Kusserow:

«l’origine del divario risiede nelle grandi differenze climatiche, fisiologiche e nell’estrema irregolarità della morfologia dei terreni rispetto allo spazio centro-settentrionale dell’Italia. Tutti questi aspetti influiscono sul sistema economico e sulla forma della proprietà».

Malgrado l’utilizzo di categorie interpretative più o meno discutibili e non sempre adeguate alla specificità della realtà italiana del secondo dopoguerra, la mole di relazioni inviate a Bonn dalle rappresentanze tedesche in Italia tra il 1951-1953 attesta un livello di preparazione e di conoscenza sui partiti politici, le correnti politiche o le differenze culturali regionali che non si riscontra tra i documenti coevi inviati a Roma dai diplomatici italiani in Germania.

La documentazione prodotta dai diversi consolati e poi dall’Ambasciata italiana nella Repubblica federale tra il 1947 ed il 1953 non presenta nulla di paragonabile alle relazioni realizzate dalla rappresentanza tedesca di Roma.

Nella maggior parte dei casi i documenti diplomatici italiani, anche quando non presentano lunghe quanto discutibili speculazioni sullo «spirito democratico dei tedeschi», si limitano a resoconti di colloqui con autorità di governo e a riflessioni su alcuni argomenti di politica estera o riconducibili alle relazioni estere.

I documenti inviati a Bonn da Roma, invece, rappresentano spesso dei veri e propri saggi critici su un ampio ventaglio di temi: dalla storia all’economia, dalla geografia alla politica. Queste relazioni rivestono un considerevole valore storico poiché consentono di esaminare il modo in cui una parte dell’elite politico-burocratica della Germania occidentale guardava e valutava non solo la politica italiana dei primi anni Cinquanta, ma anche diversi aspetti della società, dell’economia e della storia recente e meno recente della penisola.

Si tratta di un patrimonio di fonti che presenta un alto potenziale di spunti per la ricerca storica, ma che stranamente non è mai stato preso in considerazione dalla storiografia italiana. Per quanto riguarda la politica economica, i provvedimenti discussi dal governo italiano per il rafforzamento dei poteri statuali in seguito alla situazione emergenziale inaugurata dalla guerra di Corea rappresentarono, per i rappresentanti tedeschi, un altro argomento a favore della tesi dell’allontanamento dell’Italia dai principi dell’economia di mercato.

Come è noto, nell’autunno del 1950, il governo De Gasperi iniziò ad elaborare gli strumenti necessari per un maggior controllo dello stato sull’economia come risposta per quella particolare congiuntura storica. Il 16 dicembre del 1950 il presidente americano Truman dichiarò lo stato di emergenza nazionale in seguito al peggioramento della situazione sul fronte coreano.

Sull’onda del generale processo di riarmo europeo-occidentale, nel gennaio del 1951 il governo italiano decise di aumentare la spese per la difesa e presentò un decreto legge relativo all’accertamento dei dati sulla giacenza di alcune merci strategiche e sul potenziale produttivo di alcuni settori industriali.

Il provvedimento obbligava le imprese industriali e commerciali di comunicare al governo la quantità di scorte di determinate merci ritenute strategiche per il riarmo e per assicurare il soddisfacimento dei fabbisogni essenziali del paese.

Il 5 febbraio 1951 Brentano inviava a Bonn un rapporto segreto intitolato «Il passaggio dell’Italia all’economia pianificata» (Italiens Übergang zur gelenkten Wirtschaft). Secondo Brentano (assistito anche dall’Addetto alle questioni economiche Eiswald) non sussistevano dubbi sul significato politico del decreto legge approvato l’8 gennaio 1951:

«In termini di politica economica – scriveva Brentano – questo significa un punto di svolta (Wendepunkt): la fine temporanea di quella che già non era una piena libera economia di mercato (freien Marktwirtschaft). Da un punto di vista della politica commerciale questo significa il progressivo distacco (Abkehr) dalla liberalizzazione, che già fino a questo momento era stata solo una liberalizzazione delle importazioni, il cui valore ora sarà o sempre di più indebolito dalle restrizioni alle esportazioni o del tutto illusorio».

I giudizi, spesso anche molto severi, nei confronti della politica economica dei governi De Gasperi non si tradussero mai, tuttavia, in critiche rivolte direttamente ai rappresentanti italiani. I resoconti dei colloqui e degli incontri bilaterali evidenziano la prevalenza dei temi di politica estera.

Tra il 1950 e il 1953 i problemi di ordine internazionale – le tensioni della guerra fredda, i piani politici ed economici per la costruzione dell’Europa unita – costituirono il nodo centrale delle discussioni bilaterali. I comuni orientamenti antisovietici ed europeisti dei due governi rappresentarono la base programmatica sulla quale poteva essere costruita e consolidata la nuova alleanza dopo la drammatica esperienza dei regimi fascisti.

Per i due leader di governo, De Gasperi e Adenauer, la condivisone di un patrimonio di valori riconducibile al cristianesimo simboleggiava, inoltre, la presenza di un legame che travalicava l’ambito dei formali rapporti tra capi di governo. L’Italia era stata, infine, uno dei primi paesi europei a sostenere la necessità di una rinascita della Germania e di una piena partecipazione della Repubblica federale ai progetti per l’integrazione europea.

Dopo lo scoppio della guerra di Corea nel giugno del 1950, il governo italiano non aveva esitato ad appoggiare il riarmo della Repubblica federale. Non caso Konrad Adenauer nelle sue memorie scrisse che:

«[tra il 1949 e il 1953] il nostro legame con l’Italia era ottimo. Non ho mai dimenticato che subito dopo la fondazione della Repubblica federale di Germania il governo italiano sotto la guida di Alcide De Gasperi si è eccellentemente adoperato per il rientro della Germania nella comunità delle nazione europee. Alcide De Gasperi fece una visita ufficiale al governo federale di Bonn già nel 1952, come primo capo di governo straniero. Ero legato a De Gasperi da amicizia sincera […]».

È tuttavia significativo rilevare che nei documenti riservati preparati dall’Auswärtiges Amt in occasione della prima visita ufficiale di Adenauer a Roma nel giugno del 1951 – un viaggio che in seguito sarebbe passato alla storia come il simbolo del riavvicinamento tra le due democrazie dopo l’esperienza dell’Asse – ci fosse un rapporto molto critico sulla politica economica del governo De Gasperi.

Alcide De Gasperi in Vaticano l’11 febbraio 1949, nel ventesimo anniversario dei Patti

Esaminando lo stato delle relazioni commerciali italo-tedesche il documento concludeva che:

«Lo stato dei nostri traffici con l’Italia è molto buono. L’Italia prima della guerra era al terzo posto nel nostro commercio estero, mentre noi eravamo al primo posto per l’Italia. Oggi l’Italia occupa il quinto posto e noi il secondo (dietro gli Usa) per loro. È probabile che nel futuro ci sarà un ulteriore aumento dei reciproci traffici. Un’intensificazione delle nostre relazioni economiche con l’Italia è pertanto possibile, tuttavia bisogna evidenziare i seguenti fattori:

1) L’industria italiana gode ancora di un certo protezionismo;

2) I nostri paesi hanno bisogno oggi sempre più di materie prime;

3) La politica economica di entrambi i paesi si allontana sempre di più, noi restiamo fedeli all’economia di mercato, mentre l’Italia passa progressivamente ad un’economia di piano (gelenkte Wirtschaft)».

Pertanto durante i primi anni Cinquanta, nel momento più felice della collaborazione tra l’Italia e la Germania occidentale nella promozione dei progetti d’integrazione europea, la diplomazia tedesca individuò due questioni che, a giudizio dei rappresentanti di Bonn, indebolivano il ruolo della Repubblica italiana in Europa occidentale: la forza del Pci e il perseguimento di una politica economica sostanzialmente “sbagliata”.

De Gasperi con Einaudi

Entrambi i fenomeni furono letti e individuati in opposizione all’esperienza della Repubblica federale, soprattutto per quanto riguardava il successo del Pci. Diverso e molto più complesso il caso delle critiche alla politica economica del governo De Gasperi.

In quel caso l’impressione è che l’intreccio tra Stato e forze produttive che veniva rimproverato al governo italiano si fondava più su un modello immaginario, un idealtipo di una libera economia di mercato, piuttosto che sulla coeva esperienza della Repubblica federale.

La presenza di una politica economica tendenzialmente contraria ai principi del libero mercato, incapace di venire a capo dei problemi economico-sociali del paese contribuiva, secondo il giudizio del consolato tedesco di Roma, ad alimentare il disagio sociale e finiva quindi per aumentare i consensi delle sinistre.

In prospettiva, il mancato arretramento del partito comunista rappresentava una minaccia non solo per l’Italia, ma per l’intero sistema europeo-occidentale: la fragilità italiana era potenzialmente in grado di compromettere il costituendo assetto europeo.

Le problematiche individuate dai rappresentanti di Bonn rappresentavano temi molto complessi. Nella prospettiva di Bonn l’intreccio di tali fattori (forza delle sinistre, basso tenore di vita della popolazione, risposte di politica economica sbagliate) produceva un costante e latente rischio di instabilità.

La storiografia italiana e tedesca non offre molte ricerche sulle relazioni politiche ed economiche bilaterali durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, ma è probabile ritenere che nella percezione dei dirigenti tedeschi l’intervento diretto dello Stato nell’economia e il consenso riscosso dal Pci tra la società italiana assunsero le caratteristiche di problemi strutturali del sistema italiano.

Nell’immediato le critiche al sistema politico ed economico dell’Italia produssero per la diplomazia tedesca una graduale perdita di fiducia per le possibilità del governo italiano di incidere in modo significativo nei comuni obiettivi di politica estera europea.

In questo scenario di latente instabilità il Presidente del consiglio De Gasperi rappresentava l’unico punto fermo. È importante sottolineare che nella prospettiva dei rappresentanti tedeschi il ruolo politico di De Gasperi alla guida dell’Italia appariva fondamentale.

Lo statista trentino scongiurava i rischi di un possibile scivolamento della penisola nel blocco socialista o in una posizione neutralista e minimizzava i rischi di un ritorno di fiamma di nuovi regimi politici di stampo fascista.

All’indomani della formazione del settimo governo De Gasperi (26 luglio 1951-16 luglio 1953), Brentano inviò una rassegnata relazione al Cancelliere Adenauer nella quale segnalava tutta la sua preoccupazione per la stabilità politica ed economica dell’Italia.

Le «fronde interne alla stessa DC», la questione sociale, la politica economica costituivano problemi reali, ma che venivano strumentalizzati per fini di potere dalle correnti e dai partiti dell’opposizione. De Gasperi sembrava rappresentare l’ultimo baluardo, l’ultima garanzia di stabilità prima dell’inesorabile avanzata del caos.

Attribuendo all’opinione pubblica italiana delle perplessità che erano in primo luogo dello stesso rappresentante tedesco, ma che verosimilmente rispecchiavano anche lo sconcerto provato da molti dirigenti di Bonn, Brentano scriveva che:

«L’opinione pubblica si domanda, dunque, perché e soprattutto se sia stata veramente necessaria una nuova crisi e la formazione di un nuovo governo con trattative di parecchie settimane, se poi gli scottanti problemi del paese (riforma sociale, riforma agraria e riforma monetaria) non ne sono toccati.

Non c’è pertanto da meravigliarsi se nella grande massa della popolazione ci si esercita all’indisciplina e alla faida tra bande nella critica della DC. […] dietro la facciata dell’apparente benessere esterno e di un ordine pubblico al momento in ogni caso impeccabile si annidano in realtà gravi problemi. Il divario tra ricchezza e povertà campeggia troppo fortemente.

Tra il lusso sfrenato di poche classi e gli stenti manifesti, evidenti e palesi della maggior parte della popolazione esiste un divario troppo netto e lampante, che si riflette in una sempre più pericolosa tensione. L’Italia ha oggi ufficialmente circa 2 milioni di disoccupati. […]

Il fatto che De Gasperi sia rimasto a capo del nuovo governo rappresenta una garanzia per la stabilità politica ed economica del Paese che al momento sarà preservato da forti scossoni. Così, dunque, giudichiamo la situazione esistente oggi in Italia io e molti dei miei colleghi di qui».

Le elezioni amministrative del 1952 sembrarono confermare tutte le preoccupazioni dei rappresentanti tedeschi sulla stabilità dell’Italia374. La penisola venne percepita come un paese sull’orlo di disordini e di sconvolgimenti politico-sociali.

Nel giugno del 1952, il console Brentano inviò ad Adenauer un rapporto segretissimo (Streng Geheim) nel quale, commentando i risultati delle elezioni comunali e provinciali del 25 maggio che avevano visto un arretramento di voti per la DC, affermava che:

«la situazione politica italiana è tale da destare gravi preoccupazioni […] il sostegno dei partiti di centro è pericolosamente piccolo. Se anche alle elezioni parlamentari del 1953 si dovesse ripetere un analogo risultato, il governo De Gasperi sarebbe in minoranza [al Parlamento] […] a quel punto sarebbe un problema non solo per l’Italia stessa, ma anche per gli altri paesi dell’Europa occidentale».

La percezione di gravità era accentuata dal diverso sviluppo politico attraversato dai due governi – italiano e tedesco – all’interno dei rispettivi paesi. Le difficoltà incontrate da De Gasperi in politica interna furono lette anche alla luce dei primi successi del governo Adenauer in politica estera, con la graduale riacquisizione della sovranità, e in politica interna, con l’inizio del cosiddetto «miracolo economico».

In tal senso nella percezione dei rappresentanti tedeschi la progressiva instabilità politico-governativa dell’Italia “stonava” con il contemporaneo consolidamento interno ed internazionale del governo del Cancelliere Adenauer.

Con l’approssimarsi delle elezioni politiche del 1953 il livello di conflittualità interna alla maggioranza centrista e la forza di attrazione del comunismo su vasti strati della società italiana costituirono i principali indicatori di riferimento attraverso i quali la diplomazia tedesca osservava e valutava il grado di stabilità della giovane Repubblica italiana.

L’intreccio di questi fattori contribuì, in ultima istanza, a rendere l’Italia un paese potenzialmente in grado di destabilizzare il nuovo e fragile equilibrio del sistema di alleanze dei paesi dell’Europa occidentale.

Pertanto, tra la fine del 1951 e la prima metà del 1952 un concorso di dinamiche politiche ed economiche molto diverse tra il caso italiano e quello tedesco-occidentale contribuì a modificare, tra le due diplomazie, le reciproche percezioni sui ruoli politici dei due paesi.

Le difficoltà incontrare da De Gasperi in politica interna, il successo riscosso da Adenauer nell’acquisizione della sovranità e della parità di diritti con gli altri paesi dell’Europa occidentale – il 26 maggio 1952 venne firmato come è noto il Generalvertrag che sancì l’inizio della fine dello stato di guerra delle tre potenze occidentali con la Repubblica federale, riconoscendole un rango di parità – e l’inizio del cosiddetto «miracolo economico» tedesco, che contribuì a capovolgere il saldo passivo della Germania occidentale nel commercio estero con l’Italia, approfondirono il mutamento di percezione all’interno delle diplomazie e dei governi dei due paesi.

Adenauer, Degasperi e Schuman

Già pochi mesi dopo la visita di Adenauer a Roma, i rapporti di forza nelle relazioni italo-tedesche si stavano completamente rovesciando a vantaggio della Repubblica federale. La diplomazia italiana percepì distintamente questo passaggio di potere contrattuale a favore dei tedeschi. Il settore degli scambi rappresenta il principale campo di verifica per comprendere tale slittamento di potere contrattuale a vantaggio della Repubblica federale.

Nell’autunno del 1951 le delegazioni italiane non riuscirono più, come era accaduto invece tra il 1949 e il 1950, ad imporre alle controparti tedesche tutte o la maggior parte delle proprie richieste. È significativo, inoltre, che le difficoltà incontrate dagli italiani in sede di negoziati commerciali non furono attribuite a circostanze contingenti o di natura esclusivamente commerciale.

La delegazione italiana e soprattutto i vertici della sezione affari Economici degli Esteri percepirono in tali difficoltà un cambiamento strutturale. I successi della Repubblica federale nel campo della Gleichberechtigung europea e il progressivo sviluppo dell’economia assegnavano alla Germania occidentale maggiore stabilità e sicurezza, non solo in politica interna, ma anche nei rapporti con alcuni paesi europei come l’Italia.

Nella percezione della diplomazia italiana la Repubblica federale aveva superato la “parte” del «figliol prodigo». La «mano tesa» dell’Italia aveva oramai perso parte della sua funzione, non esercitava più sui rappresentanti di Bonn la stessa attrattiva del biennio 1949-1950.

Un appunto segreto del 27 novembre 1951 scritto da Umberto Grazzi e diretto a De Gasperi mostra in modo efficace la percezione di tale “declino”. Il Direttore degli affari Economici e futuro ambasciatore italiano a Bonn riportava con amarezza che nel corso delle ultime trattative commerciali (novembre 1951) la delegazione italiana si era scontrata con un’inedita rigidità mostrata dalla controparte.

Giulio Andreotti (seduto) con De Gasperi

«[…] alcune constatazioni – si legge nell’appunto di Grazzi per De Gasperi del 27 novembre 1951 – che ho tratte dalle mie conversazioni col Signor Von Maltzan mi sembrano meritevoli di essere riferite. Anzitutto, la posizione della Germania si è notevolmente irrigidita da quella che era nel passato […].

Si direbbe che la Germania ha ripreso coscienza della sua forza e che, con l’ultima rete di Accordi raggiunti tanto in Sud America quanto in Estremo Oriente, quel Paese [la Repubblica federale] abbia oggi una posizione e quel che più conta una psicologia profondamente modificata.

Quella mancanza di elasticità e di senso di misura che caratterizza l’animo teutonico e che i tedeschi perdono solo nei momenti di disgrazia sta riprendendo in pieno, contemporaneamente alla sensazione, oggi ben ancorata nello spirito di quei dirigenti, che la Germania [Ovest] ha molte carte nel proprio gioco rispetto all’Italia».

Come si evince dalla citazione, tra i rappresentanti del governo di Roma la sensazione di “inferiorità” rinvigorì antiche immagini stereotipate sui tedeschi, mai del tutto abbandonate. La reazione della diplomazia italiana era la spia di una singolare lettura dei progressi compiuti dalla Repubblica federale nel campo della Gleichberechtigung.

Nell’ambito dei rapporti bilaterali si attestava con rassegnazione che la progressiva riacquisizione di sovranità della Germania occidentale comportava la comparsa di alcuni “effetti collaterali”.

In primo luogo, nelle relazioni internazionali, ogni passo compiuto dalla Repubblica federale sulla via della piena parità con gli altri stati implicava, secondo Palazzo Chigi, anche una sensibile erosione delle potenzialità dell’Italia di assumere un ruolo politico rilevante agli occhi di Bonn in ambito europeo. In secondo luogo, i funzionari del ministero degli Esteri certificarono una sensibile diminuzione delle possibilità italiane di condurre i negoziati commerciali in posizione privilegiata.

La cooperazione italo-tedesca per l’integrazione europea proseguirà in modo intenso soprattutto fino a quando rimase in vita De Gasperi. Ma nella prospettiva della diplomazia italiana le relazioni bilaterali a partire dalla fine del 1951 e la prima metà del 1952 avevano subito un profondo mutamento rispetto al periodo 1949-1951.

La Germania occidentale, avrebbe scritto l’addetto agli affari tedeschi Fabrizio Rossi Longhi qualche anno dopo, «non avendo più l’assillo di uscire da un isolamento che dopo il conflitto era quasi assoluto, ha ora molti aspiranti alla propria amicizia e l’aspirante italiano potrebbe avere assunto nella scala dei valori relativi un’importanza relativa».

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