ITALIA, DOPOGUERRA E RICOSTRUZIONE – 6

a cura di Cornelio Galas

Gli spazi della politica e dell’economia: la ripresa delle relazioni commerciali e la definizione dei rapporti bilaterali, 1948-1949

LA RIPRESA DEGLI SCAMBI ITALOTEDESCHI: LE PREMESSE

In questo paragrafo sarà esaminata l’attività coordinata dal ministero degli Esteri, in particolare dalla Direzione affari economici, finalizzata alla ripresa degli scambi commerciali italo-tedeschi. Un’indagine più ampia sugli intrecci economici bilaterali, sugli scambi di capitale finanziario, di capitale industriale e le reciproche compartecipazioni negli investimenti non sarà affrontata in modo esaustivo nella presente ricerca.

L’obiettivo, in questo caso, è la ricostruzione e l’analisi dell’azione politica e dei processi economici che permisero al governo italiano di riattivare nel secondo dopoguerra le relazioni commerciali fra i due paesi. Gli scambi commerciali, infatti, costituirono nella seconda metà degli anni Quaranta costituirono per il governo di Roma l’elemento maggiormente significativo dei rapporti economici italo-tedeschi.

È fondamentale ricostruire tali sviluppi in primo luogo, poiché, come si dimostrerà, fu grazie alla ripresa dei traffici commerciali che avvenne il primo riavvicinamento tra dirigenti tedeschi e rappresentanti del governo italiano; in secondo luogo, perché il nodo dei rapporti economici fu al centro delle riflessioni del governo italiano sulla Germania fin dalla fine della guerra.

Prima ancora della formazione del governo Adenauer gli scambi tra i due paesi – tra l’Italia e la Germania occidentale – avevano già raggiunto un elevato livello di sviluppo2. La collaborazione economica e commerciale, in un primo momento attraverso la sua ripresa (1947-48) e poi grazie alla sua intensificazione (1949-50), rappresentò uno dei nodi centrali nel quadro del ristabilimento dei rapporti italo-tedeschi.

Le concrete relazioni politiche tra Italia e Germania occidentale furono precedute da quelle commerciali: la costruzione dei rapporti economici cominciò prima dell’inizio dei contatti politici tra i due governi. La ripresa degli scambi, dunque, non rappresenta un tema marginale, ma costituisce una prima chiave di lettura per l’intelligibilità della storia dei rapporti fra Italia e Germania (occidentale) dopo la seconda guerra mondiale.

Si tratta tuttavia di un argomento che presenta diverse difficoltà di ricostruzione e di interpretazione. Una prima complessità deriva dall’esiguità della letteratura scientifica a disposizione. Nella storiografia italiana le ricerche incentrate sulla storia dei rapporti fra Italia e Germania nel secondo dopoguerra hanno in genere accentuato solamente la dimensione politica di tali relazioni, trascurando che tra la seconda metà degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta il peso dei rapporti economici italo-tedeschi giocò un ruolo fondamentale nell’agenda della politica estera del governo italiano.

Negli studi in lingua tedesca le relazioni economiche fra Italia e Germania nel periodo compreso tra fascismo, nazismo, guerra, occupazione e ricostruzione sono state al centro di un’importante ricerca di Maximiliane Rieder, mentre ricoprono un ruolo abbastanza marginale nello studio di Christian Vordemann.

Rieder ha posto in secondo piano la lettura delle convergenze e dei parallelismi politici fra Italia e Germania, marcando, invece, soprattutto l’aspetto dei rapporti economici, che costituirebbero, secondo Rieder, l’unico punto fermo all’interno della «travagliata» storia dei rapporti italo-tedeschi: «Lo stretto intreccio economico costituisce – scrive Rieder nell’introduzione – un fondamento delle relazioni italo-tedesche, e a differenza delle tensioni politiche, un elemento relativamente costante e stabile».

La prospettiva interpretativa adoperata nella ricerca di Max Rieder, anche a causa di oggettivi problemi di accesso alla documentazione italiana della fine degli anni Quaranta, privilegia il punto di vista tedesco sui rapporti economici bilaterali. La fase storica comprendente gli anni immediatamente precedenti l’istituzione della Repubblica federale, dal 1945 alla prima metà del 1949, risulta quindi poco sviluppata nell’ottica dell’azione politica del governo italiano per la ripresa degli scambi.

Un secondo ostacolo relativo alla ricostruzione e all’analisi delle relazioni economiche italo-tedesche nel secondo dopoguerra riguarda il drammatico stato della conservazione e dell’accessibilità delle fonti istituzionali italiane. Per diversi anni i fondi della Direzione generale affari economici (Dgae) del ministero degli Esteri sono stati sottratti alla consultazione degli studiosi.

Solamente intorno al 2005 sono stati riaperti i primi fondi della Dgae sugli anni Quaranta e solo negli ultimi anni sono stati riordinati i restanti fondi9. A più di mezzo secolo di distanza i documenti dell’“amministrazione” che gestì la ripresa dei rapporti economici italiani con il resto del mondo nei primi anni del secondo dopoguerra non hanno ancora trovato un’organizzazione adeguata alle esigenze della ricerca storica.

Nelle pagine seguenti si cercherà di ricostruire i passaggi significativi che portarono il governo di Roma a centrare l’obiettivo di riavviare i tradizionali scambi commerciali con il mercato tedesco già alla fine degli anni Quaranta, prima dell’istituzione della Repubblica federale.

Le reciproche interdipendenze tra volontà politica, pressioni economiche e variazioni del quadro internazionale di riferimento risultano centrali nella ripresa degli scambi italo-tedeschi. I risultati ottenuti in questo campo dalla politica estera dei governi De Gasperi furono condizionati da diversi fattori tra loro intrecciati. In primo luogo dalla volontà degli Stati Uniti di non isolare la Germania dal resto dell’Europa, ma di puntare sull’economia tedesca-occidentale per trainare la ripresa dei paesi europei non sottoposti alla diretta influenza dell’Unione Sovietica.

In secondo luogo la generale politica di sostegno alla coalizione centrista perseguita dall’amministrazione Usa in Italia agevolò, soprattutto dalla seconda metà del 1947, i governi De Gasperi anche nello scenario tedesco bizonale. Pochi mesi dopo la firma del Trattato di pace il governo di Roma fu invitato dalle autorità alleate della Bizona ad organizzare un primo scambio di merci tra l’Italia e le zone d’occupazione anglo-americane (luglio 1947) e qualche mese dopo (ottobre 1947) Palazzo Chigi fu autorizzato dagli americani ad istituire un Ufficio commerciale a Francoforte sul Meno (ottobre 1947) allo scopo di programmare i futuri negoziati bilaterali.

Infine, la ripresa degli scambi tra Italia e Germania fu incoraggiata e promossa dai dirigenti tedeschi all’interno delle istituzioni economiche bizonali. Le sollecitazioni tedesche, che in parte scaturivano dal desiderio di compiere nuovi passi sulla via dell’affrancamento dal controllo alleato, contribuirono ad avvalorare agli occhi degli alleati occidentali e soprattutto degli americani le richieste italiane per la ripresa dei traffici. Nel 1953 Ludwig Erhard inserì l’Italia «tra i primi paesi che nel dopoguerra riallacciarono le relazioni commerciali con la Germania».

CARATTERISTICHE DEL COMMERCIO ESTERO TEDESCO

PRIMA DELLA NASCITA DELLA REPUBBLICA FEDERALE

Prima di ripercorre le fasi salienti della ripresa delle relazioni commerciali italo-tedesche, è necessario descrivere brevemente i meccanismi imposti dagli alleati al commercio estero tedesco subito dopo la fine della guerra.

In seguito alle decisioni della Conferenza di Potsdam il commercio estero della Germania costituiva una materia di competenza esclusiva delle potenze occupanti14. Le norme che disciplinavano le importazioni e le esportazioni tedesche furono approvate dal Consiglio di controllo alleato nel settembre del 1945.

Il regolamento prevedeva in primo luogo che le importazioni fossero limitate esclusivamente al fabbisogno necessario per la sussistenza (Subsistenbedarf). La traduzione tecnica di quest’ultima norma fu di comprare e di importare per ogni dollaro speso unicamente i generi alimentari ad alto contenuto calorico. In secondo luogo si decise che le esportazioni tedesche andavano compensate in dollari, la cosiddetta Dollarklausel.

Quest’ultima rappresentò la caratteristica principale e sicuramente quella più controversa della condizione del commercio estero tedesco tra il 1945 e il 1949. La «clausola dollaro» (Dollarklausel) costituì un ostacolo alla ripresa delle esportazioni tedesche, agendo da freno alle importazioni dalla Germania per i paesi non in possesso di riserve in valuta americana. I tre elementi fondamentali della politica della Dollarklausel consistevano nell’ottenere denaro convertibile – il dollaro – dalle merci tedesche vendute, nel comprare sui vari mercati mondiali solamente i beni necessari alla sussistenza della popolazione e, infine, nel non importare in nessun caso «merci superflue».

La conseguenza immediata della clausola dollaro fu, come scrisse Ludwig Erhard qualche anno più tardi, che: «[…] la Germania si trovava nella situazione paradossale di essere per eccellenza un paese “a valuta forte” nonostante la sua miserie».

L’obbligo di pagare le esportazioni tedesche in dollari suscitò diverse proteste tra gli stati europei confinanti con la Germania. Paesi come il Belgio e l’Olanda che avevano subito l’aggressione nazista si videro chiudere le porte di un importante mercato di approvvigionamento. Il rigido regolamento stabilito dagli alleati impediva inoltre ai paesi esclusi dal circolo delle potenze occupanti di ricevere consegne a titolo di riparazioni dalla ripresa produttiva tedesca, comprando le esportazioni tedesche sottocosto (con la Reichsmark) e non invece ai valori di mercato.

Negli intenti delle potenze occupanti il regolamento del commercio estero tedesco definito nel settembre del 1945 doveva essere considerato come una procedura provvisoria, in attesa di un nuovo accordo per un piano di import-export per la Germania nel suo complesso. Poiché, in seguito, gli alleati non raggiunsero mai una soluzione con un consenso unanime, gran parte di queste regole rimasero valide fino all’istituzione della Repubblica federale, e per certi aspetti tecnici anche oltre, soprattutto per quanto riguarda le zone occidentali.

Con l’istituzione della Bizona nel gennaio del 1947 e la formazione dell’agenzia bizonale per le importazioni e le esportazioni, la Joint Export Import Agency (JEIA), gli anglo-americani divisero le importazioni destinate alle loro zone di occupazione in due diverse categorie di merci: una tipologia “A” ed una tipologia “B”. La categoria “A” comprendeva merci occorrenti per assicurare alla popolazione un minimo garantito di calorie, ed evitare così eventuali carestie o epidemie.

La categoria “B”, invece, comprendeva le materie prime necessarie per la produzione destinata all’esportazione, le cui eccedenze attive dovevano servire a facilitare il pagamento delle importazioni di generi alimentari della categoria “A”. Dopo l’introduzione della riforma monetaria (giugno 1948) i controlli degli anglo-americani durante la conduzione dei negoziati iniziarono ad essere rimossi a favore di una graduale restituzione di libertà di manovra ai dirigenti tedeschi.

LA PRIMA FASE: 1945-1946

In generale, come è stato mostrato nei capitoli precedenti, la ripresa dell’interscambio italo-tedesco rappresentava un punto molto importante dell’agenda politica italiana sulla Germania, un punto che travalicava l’ambito delle relazioni bilaterali per ripercuotersi sull’andamento complessivo dell’economia italiana. I resoconti elaborati dagli esperti di Palazzo Chigi addetti alle relazioni economiche tra l’Italia e i paesi esteri avevano sollevato il problema dell’interruzione degli scambi commerciali con la Germania fin dalla fine del 1945.

Nell’autunno del 1946, il documento della Direzione affari economici incentrato sulle relazioni con la Germania – esaminato nel secondo capitolo – illustrava in maniera dettagliata i diversi rapporti di natura economica esistenti fra i due paesi ed informava il governo che l’interruzione degli scambi, a causa della divisione e dell’occupazione del territorio tedesco, provocava effetti negativi all’interno di fondamentali settori produttivi orientati all’esportazione, con gravi ripercussioni sulle possibilità di ripresa dell’economia italiana.

Generi alimentari e prodotti agricoli in generale coprivano la quota più rilevante delle esportazioni italiane verso il mercato tedesco, seguiti dai prodotti tessili, da semilavorati e macchinari. La tipologia delle merci importate dalla Germania era composta prevalentemente da materie prime, soprattutto da quelle energetiche (in particolare il carbone), da macchinari industriali e da prodotti chimici, un insieme di merci che risultavano essenziali per lo sviluppo di non poche attività industriali.

Infatti, prima della scoperta da parte dell’Agip guidata da Enrico Mattei dei giacimenti di metano presenti nel sottosuolo della pianura padana e nel Mar Adriatico, che nel corso degli anni Cinquanta, grazie alla costruzione di una rete di distribuzione, portò al dimezzamento delle importazioni di carbone, l’acquisto di materie prime energetiche dalla Germania copriva una quota storicamente rilevante delle importazioni italiane.

Nel periodo tra le due guerre mondiali, l’Italia era riuscita a mantenere in sostanziale equilibrio la bilancia dei pagamenti attraverso il flusso delle esportazioni italiane in Germania e grazie soprattutto ai proventi derivanti dalle “partite invisibili”: un insieme di entrate che nel caso dei rapporti commerciali italo-tedeschi provenivano dal turismo (dai turisti tedeschi in Italia) e dalle rimesse degli emigranti stagionali in Germania.

Per l’Italia, paese povero di materie prime e di ampie risorse energetiche, lo sviluppo industriale implicava un tendenziale aumento delle importazioni superiore a quello delle esportazioni, e di conseguenza la necessità di compensare il deficit della bilancia commerciale attraverso i guadagni derivanti dalle voci come il turismo, le rimesse degli emigranti e dei lavoratori stagionali all’estero.

Come si vedrà, nel secondo dopoguerra, soprattutto dopo il 1948, il governo italiano, nonostante la divisione e l’occupazione del territorio tedesco, cercò di riattivare in diverse occasioni anche tale aspetto dell’interscambio fra i due paesi. L’atteggiamento dei dirigenti italiani dimostrava di essere in linea di continuità con gli indirizzi perseguiti nello stesso campo dall’Italia “liberale” e fascista.

Rolf Petri

Come ha osservato Rolf Petri:

«L’Italia come terra di emigrazione, che compensa parte del suo cronico deficit della bilancia commerciale con le rimesse dei suoi lavoratori impiegati all’estero, finanziando così le importazioni necessarie al processo di industrializzazione: questa Italia è già quella della cosiddetta “età giolittiana”, prima della Grande guerra, e quella degli accordi di clearing col Reich hitleriano».

In seguito agli studi ed ai resoconti della Direzione affari economici del periodo 1945-1946, il problema dell’interruzione degli scambi italo-tedeschi era stato direttamente sollevato dal Presidente del consiglio De Gasperi all’amministrazione statunitense in occasione del suo primo viaggio americano nel gennaio del 1947.

L’argomento era stato poi ripreso nel mese di marzo in un messaggio inviato da De Gasperi all’influente senatore repubblicano Arthur Vandenberg e riproposto nell’aprile dello stesso anno in una lettera destinata al Presidente Truman. Le capitali europee occidentali erano state informate dell’importanza rivestita dall’economia tedesca per quella italiana da diversi comunicati diramati dal ministro Sforza agli ambasciatori accreditati presso i governi inglese e francese.

Nell’estate del 1947 durante le sessioni della Conferenza di Parigi gli interessi economici avevano spinto il governo di Roma ad appoggiare le proposte degli Stati Uniti sulla sistemazione della Ruhr e ad avanzare una richiesta ufficiale di ripresa degli scambi con la Germania. Fino a quel momento, infatti, i tentavi italiani non avevano ottenuto risultati economicamente significativi.

Il periodo precedente la formazione della Bizona rappresentò la fase più critica delle relazioni commerciali italo-tedesche. Gli oggettivi limiti di manovra dell’Italia in campo internazionale prima della firma del Trattato pace e i diffusi orientamenti punitivi nei confronti della Germania tra le quattro potenze occupanti formarono una barriera insormontabile e si tradussero in ostacoli insuperabili per il governo italiano. In questa fase il ministero degli Esteri tentò senza successo di avviare negoziati con il Consiglio di controllo e con i governatori militari.

Nel mese di maggio del 1946 il sottosegretario al Commercio con l’Estero Enzo Storoni ebbe diversi incontri a Berlino e a Monaco di Baviera con ufficiali del Governo militare della zona d’occupazione americana. Il governo di Roma cercò di convincere i delegati statunitensi del reciproco interesse economico alla riattivazione dell’interscambio commerciale italo-tedesco: «le esportazioni verso la Germania di prodotti ortofrutticoli italiani – si legge in un promemoria del ministero degli Esteri del 14 maggio 1946 – avrà come immediata conseguenza la diminuzione delle forniture alimentari dall’America verso la Germania […] inoltre la naturale conseguenza sarà la diminuzione di rifornimento degli Stati Uniti verso il nostro Paese e verso la Germania».

Pertanto, secondo i dirigenti della Direzione generale affari economici bisognava sottolineare ai rappresentanti statunitensi il ritorno economico per l’America che derivava dalla ripresa delle relazioni commerciali italo-tedesche.

Nello stesso mese il ministro del Commercio con l’Estero Mario Bracci ottenne un incontro con i rappresentanti della Commissione Alleata, con il delegato dell’Unrra in Italia Keeny e con alcuni delegati dell’ambasciata inglese e americana a Roma per discutere dei problemi del commercio estero italiano, in particolare di quello con la Germania.

La tattica suggerita dalla Direzione affari economici si dimostrò inefficace: la consistenza massima dei traffici ipotizzati risultava troppo modesta (circa due miliardi di lire) per riuscire da sola a convincere gli anglo-americani del risparmio di risorse derivanti da un accordo tra l’Italia e la zona americana e, in secondo luogo, al di là dei quantitativi da concordare, la ripresa delle relazioni commerciali rivestiva in termini assoluti un significato molto più importante per l’economia italiana che non per quella della Germania.

Le trattative si arenarono a causa dello scarso interesse attribuito dagli americani in questa fase alla ripresa del flusso commerciale italo-tedesco, e, anche a causa di diverse complicazioni riconducibili all’inestricabile intreccio di sovrapposizione delle competenze in materia di accordi di pagamento tra la Commissione alleata, le ambasciate inglese e americana in Italia e i governi militari di occupazione. Gli italiani riuscirono, tuttavia, ad ottenere l’aggiornamento delle discussioni attraverso l’invio in Germania in autunno di una nuova delegazione.

Enrico Cuccia

Nell’ottobre del 1946 il ministero del Tesoro, la Direzione affari economici degli Esteri e il ministero del Commercio Estero organizzarono una nuova missione presieduta dall’Ispettore generale dei trattati del ministero del Commercio Estero, Giuseppe Ferlesch. Quest’ultimo era stato negli anni Trenta collaboratore di Enrico Cuccia presso il Sottosegretariato per gli scambi e valute, e nel secondo dopoguerra svolse un ruolo di primo piano da Roma nella ripresa delle relazioni economiche italo-tedesche.

La delegazione italiana si recò prima a Berlino e poi a Francoforte sul Meno, ma non ottenne risultati positivi e, dopo vari colloqui con i rappresentanti americani, la missione guidata da Ferlesch comunicò a Palazzo Chigi che in base alle «solite difficoltà» di competenze «per il momento non vi [era] nulla da scambiare».

Oltre all’invio in Germania di delegazioni, il governo di Roma non trascurò di intraprendere altre strade per tentare di riattivare in qualche modo il flusso degli scambi italo-tedeschi. Dal punto di vista delle importazioni, un primo risultato fu raggiunto nell’autunno del 1946 quando l’Italia venne ammessa a partecipare ai lavori di un sottocomitato – denominato Enemy Exports – che aveva il compito di ripartire tra i diversi paesi non occupanti i prodotti tedeschi per cui esistevano eccedenze esportabili.

Si trattava di quantitativi modesti, limitati ad articoli farmaceutici e a piccole allocazioni di carbone, legnami, piombo e zinco. Nel gennaio del 1947 la nascita della Bizona portò al superamento di quest’ultimo comitato prima ancora che fosse terminata la fase operativa del trasporto di merci tedesche verso la penisola.

Tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947 i piani italiani per la ripresa delle esportazioni dei prodotti alimentari in Germania furono bloccati da una decisione degli anglo-americani. A causa infatti del rigido inverno 1946-1947 gli approvvigionamenti alimentari per la popolazione tedesca attraversarono una fase di criticità e la Jeia impose una forte limitazione all’acquisto di prodotti orto-frutticoli, escludendoli dalla lista “A” (contenente i prodotti di vitale importanza per la popolazione come il grano e i grassi alimentari).

Inoltre, la preferenza accordata dagli anglo-americani ai generi alimentari ad alto contenuto calorico escludeva dalle possibili importazioni nella Bizona non solo gli agrumi e la produzione vinicola, ma anche altri diversi prodotti delle esportazioni italiane come i semilavorati ed altri prodotti finiti.

Nel mese di marzo, poco prima che De Gasperi sollevasse il problema degli scambi italo-tedeschi direttamente al presidente Truman, il calo delle esportazioni e la “chiusura” del mercato tedesco per i prodotti italiani tradizionalmente venduti in Germania furono i temi al centro di uno scambio di lettere tra Umberto Grazzi (Direttore della Direzione affari economici del ministero degli Esteri) e Donato Menichella (Direttore generale della Banca d’Italia).

Il 25 marzo Grazzi comunicava al ministro Sforza la situazione di impasse che si era venuta a creare dopo il nulla di fatto della missione di Ferlesch dell’ottobre precedente. L’ostacolo principale era individuato da Grazzi nella generale politica economica adottata nella gestione dell’occupazione dagli alleati occidentali, e in particolare dalle direttive angloamericane sfavorevoli all’esportazione ortofrutticola italiana.

Il problema andava affrontato dall’Italia da un punto di vista politico. Secondo il Direttore degli affari economici ai più alti livelli il governo italiano doveva sostenere di fronte agli alleati che: «l’unità economica di questo paese [la Germania], gli scambi con l’Italia e il non sfruttamento monopolistico di questa o quella zona tedesca a vantaggio di quello o questo Paese, contrario del resto alla Carta Atlantica, sono elementi indispensabili per la pacificazione e la ricostruzione europea».

Nel promemoria di Grazzi per Sforza si ritrova un primo accenno al ruolo più ampio che potevano svolgere gli scambi italo-tedeschi nei programmi di ricostruzione dell’Europa occidentale. Si trattava di un primo riferimento alla chiave di lettura europea degli interessi italiani in Germania, che nell’estate del 1947, come è stato mostrato nel capitolo precedente, divenne la posizione ufficiale del governo italiano, soprattutto durante la Conferenza di Parigi in vista dell’inizio del Piano Marshall.

L’unico risultato positivo durante i primi mesi del 1947 fu l’avvio di un mini-negoziato con l’Officomex per la conclusione di uno scambio di merci tra l’Italia e la zona di occupazione francese dal valore complessivo di circa due milioni di dollari. L’accordo con le autorità francesi fu siglato il 28 aprile 1947 e prevedeva l’acquisto di prodotti alimentari italiani destinati in massima parte alle forze d’occupazione francesi stanziate in Germania.

Non tutti i settori produttivi italiani furono danneggiati a causa della momentanea scomparsa della Germania dai mercati mondiali. Durante i primi anni del dopoguerra, il settore tessile conquistò nuovi mercati grazie all’assenza della concorrenza tedesca. Il 14 dicembre del 1946 Angelo Costa, a capo della «Confederazione Generale dell’Industria Italiana», inoltrò alla Direzione affari economici degli Esteri una richiesta di informazioni circa le prospettive future della produzione tessile tedesca.

Lo scopo del presidente del principale gruppo rappresentativo degli industriali italiani era di ricevere maggiori informazioni – e conferme – sulla temporanea impossibilità delle industrie tessili della Germania di esportare i propri prodotti nel mondo:

«Nel campo dell’esportazione [tessile] – scriveva Costa – si è cercato quindi di rientrare vantaggiosamente su quei mercati esteri […] [come] l’Estremo Oriente che erano nell’anteguerra monopolizzati, o quasi, dall’industria germanica. Sarebbe quindi sommamente interessante per questa Confederazione conoscere, anche in linea molto generica, quali possibilità ha, o potrà avere nel prossimo futuro, la [sic] industria tessile tedesca […] la conoscenza della reale situazione servirebbe, quindi, come orientamento ai settori industriali italiani interessati ai fini di un più esatto indirizzo verso determinati mercati esteri e verso determinati prodotti […]».

Umberto Grazzi

Il Direttore degli affari economici, Umberto Grazzi, rispose ad Angelo Costa l’11 gennaio del 1947, assicurando il presidente della Confederazione degli industriali che per il momento il settore tessile italiano poteva considerarsi al riparo dalla concorrenza tedesca:

«[…] non è possibile – riportava Grazzi – per il momento formulare nulla di preciso né tantomeno fornire all’occorrenza dati concreti. Le vaste e profonde distruzioni della guerra e l’incertezza che permane tuttora intorno al futuro riservato alla Germania, tanto nel campo politico quanto in quello economico e finanziario, escludono a priori la possibilità che la Germania possa procedere almeno per ora ad attuare un riallacciamento dei suoi ex rapporti e correnti di traffico. Per quanto di conoscenza dello scrivente, l’industria tessile tedesca, può essere considerata praticamente inesistente […]».

I PRIMI ACCORDI CON LE POTENZE DI OCCUPAZIONE

Nella storia della ripresa delle relazioni commerciali italo-tedesche la situazione di stallo emersa dopo il 1945 fu gradualmente superata a partire dalla primavera del 1947. L’inizio della guerra fredda favorì una maggiore disponibilità degli Stati Uniti a venire incontro alle richieste economiche del governo italiano sulla Germania.

Sul piano internazionale i fattori che contribuirono a determinare questo primo momento di svolta vanno ricollegati alla chiara volontà degli Stati Uniti di contrastare la diffusione del comunismo in Europa occidentale e allo stesso tempo di appoggiare i partiti moderati al governo dei paesi europeo-occidentali. La firma del Trattato di pace a febbraio e l’esclusione delle sinistre a maggio dal nuovo governo De Gasperi spinsero gli americani a “cedere” alle reiterate pressioni di Roma circa la ripresa dei traffici italo-tedeschi.

Alcide De Gasperi

È importante sottolineare inoltre che l’istituzione della Bizona e della Jeia ricreava per la prima volta dalla fine della guerra una prima entità economica tedesca non limitata alla singola zona di occupazione, e al contempo introduceva una prima semplificazione nel groviglio di organi amministrativi addetti al commercio estero.

A differenza del biennio 1945-1946 esisteva, almeno nelle zone controllate dagli anglo-americani, una rete istituzionale maggiormente appropriata agli interessi del governo italiano. Inoltre, la progressiva volontà degli Stati Uniti di puntare sull’economica tedesca per la ricostruzione dell’Europa occidentale comportava la ripresa dei tradizionali flussi di scambio tra la Germania e i paesi europei.

Il 29 maggio Gallina comunicava a Grazzi la sensazione di una rinnovata buona disposizione degli americani circa l’avvio di nuovi negoziati per la conclusione di un accordo commerciale tra l’Italia e la Bizona. Scriveva, infatti, Gallina: «in merito ai nostri rapporti cogli anglo-americani, per quanto riguarda la ripresa degli scambi commerciali, l’ambiente è oggi assai favorevole». I vertici della Jeia, comunicava Gallina, invitavano il governo italiano ad organizzare una delegazione per l’avvio di nuove trattative a Minden (dove si trovava una delle sedi della Jeia).

Vitale Gallina (a destra)

Tuttavia, continuava il rappresentante italiano:

«in merito ai nomi [che dovevano comporre il gruppo dei funzionari italiani da inviare in Germania] – cosa del tutto inaspettata – ho notato che quello del dott. Ferlesch che, essendo già conosciuto, ritenevo sarebbe stato accolto con particolare simpatia, è stato appreso con freddezza. Assunte informazioni riservate mi è risultato che in una nota acclusa in un fascicolo contenente elenchi di prodotti italiani figura una postilla che dice che il “Sig. Ferlesch era funzionario del governo fascista colle stesse funzioni attuali”. Pare che abbia pronunciato qualche frase sull’economia fascista che sarebbe stata male interpretata. A me sembrerebbe di non dover dare importanza alla cosa, a meno che non venga fuori qualche altro elemento oppure che gli anglo-americani non ci facciano capire che non lo desiderano […]».

Nemmeno a Roma apparentemente fu “data importanza alla cosa” ed anche gli anglo-americani sempre più intenzionati a non ostacolare la ripresa dei rapporti economici italo-tedeschi non inoltrarono a Palazzo Chigi esplicite richieste di sostituzione del funzionario. La commissione italiana che si recò in Germania a fine giugno risultava infatti composta nuovamente da Giuseppe Ferlesch, a cui fu affidata la direzione della missione.

Gli altri dirigenti incaricati di prendere parte alle trattative erano: Raffaello Giancola (Capo ufficio alla Direzione affari economici degli Esteri), Attilio Salabelle (Capo divisione alla Direzione generale valute del ministero del Commercio Estero) e Beniamino Arnau (Ispettore principale delle ferrovia al ministero dei Trasporti). In realtà il conferimento a Ferlesch delle cariche direttive nelle prime delegazioni italiane in Germania per la ripresa degli scambi si basava soprattutto sulla precedente attività dello stesso Ferlesch nel campo economico e finanziario.

Infatti, come si vedrà anche per altri casi, il governo e il ministero degli Esteri assegnarono consapevolmente la gestione della ripresa dell’interscambio italo-tedesco ad una serie di funzionari in possesso di una vasta esperienza all’interno di quelle istituzioni attraverso le quali lo stato aveva assunto nel periodo tra le due guerre mondiali le funzioni di guida e di controllo del commercio con l’estero.

In alcuni casi, come si riporterà in seguito, dopo l’istituzione dell’Ufficio commerciale a Francoforte, il ministero degli Esteri decise di riassumere per incarichi strategicamente rilevanti nell’ambito delle relazioni commerciali bilaterali “tecnici” che già in passato, durante l’alleanza nazifascista, avevano occupato posti chiave nel coordinamento degli scambi italo-tedeschi.

Anche l’Unione Sovietica nella primavera del 1947 dichiarò la propria disponibilità ad iniziare trattative commerciali tra l’Italia e la propria zona di occupazione. L’invito era stato formalmente comunicato a Palazzo Chigi il 22 maggio dal Rappresentante commerciale dell’URSS in Italia Kamenski. Il gruppo di funzionari italiani guidato da Ferlesch riuscì a raggiungere un’intesa sia con i rappresentanti sovietici che con gli anglo-americani. L’accordo commerciale con l’Amministrazione militare sovietica in Germania fu firmato il 28 giugno (l’accordo fu rinnovato negli anni seguenti e interrotto nel 1950 per volontà politica dall’Italia), mentre il 3 luglio venne siglato quello con la Bizona.

I due memorandum di accordo per le relazioni commerciali erano ancora ben lontani dalle potenzialità di scambio desiderate dal governo italiano. Il volume dei traffici previsti non era economicamente rilevante (circa 2 milioni di dollari con la Bizona e un milione di dollari con la zona sovietica), ma l’elemento importante era che – finalmente – come si legge in un rapporto della Direzione affari economici, grazie a questi primi accordi «il ghiaccio era stato rotto».

Poiché era già in vigore un analogo trattato con la zona francese firmato in aprile, gli accordi del 28 giugno e del 3 luglio completavano l’inizio della ripresa delle relazioni commerciali dell’Italia con l’intera Germania.

Attilio Cattani

Il 12 luglio il vice direttore degli affari Economici Attilio Cattani (destinato in futuro ad una brillante carriera diplomatica) redasse un lungo appunto per il ministro Sforza, nel quale illustrava la situazione delle relazioni economiche italo-tedesche in base agli ultimi sviluppi.

Uno dei problemi principali riguardava l’esportazione dei prodotti ortofrutticoli italiani, merci queste, che in base alle direttive anglo-americane non erano state inserite nello scambio con la Bizona. Anche i «russi» all’inizio avevano trovato difficoltà sull’acquisto degli ortofrutticoli, ma avevano in seguito accettato di inserirli nell’accordo. Tuttavia, notava Cattani, l’obiettivo principale era di convincere i rappresentanti alleati della Bizona: in questo caso tutto dipendeva non da problemi di natura tecnica, ma dalla volontà politica, dagli indirizzi politici degli anglo-americani nei confronti della Bizona e dell’Italia:

«Il problema ortofrutticolo ha costituito il perno delle trattative sia con i russi che con gli anglo-americani. Mentre i primi hanno accettato, dopo lunghe tergiversazioni, di includere tali prodotti nella lista delle merci da importare dall’Italia, gli anglo-americani hanno riconosciuto l’essenziale importanza che dette nostre esportazioni hanno sempre avuto e continueranno ad avere nel quadro degli scambi italo-tedeschi e, pure essendo ancora in attesa di definitive deliberazioni da parte dei propri Governi centrali, hanno preso formale impegno di studiare a fondo il problema ai fini di una possibile favorevole risoluzione del medesimo. In definitiva, mentre le importazioni russe di prodotti orto-frutticoli raggiungeranno prevedibilmente un volume limitato e saranno condizionate alle proprie disponibilità di mezzi di pagamento, gli acquisti anglo-americani di detti prodotti saranno certamente in funzione della politica generale anglo-americana in quel Paese e degli aiuti che si vorranno concedere all’Italia sul terreno concreto del nostro commercio di esportazione […]».

Dello stesso parere risultava anche Ferlesch, il quale già nel corso delle trattative con la Bizona si era spinto oltre, proponendo a Palazzo Chigi l’opportunità di esercitare pressioni politiche direttamente sui governi di Londra e Washington, scavalcando le autorità di occupazione in Germania. Gli ostacoli alla ripresa del commercio italo-tedesco andavano superati nelle capitali dei governi alleati:

«Ho infine – scriveva Ferlesch – richiamato attenzione su sfavorevoli ripercussioni carattere politico qualora accordo non venisse in via privata raggiunto tenuto anche conto che intese sono state già perfezionate con zona francese […] queste [autorità anglo-americane] dimostratesi particolarmente sensibili tale aspetto problema e resesi altresì conto mie argomentazioni carattere economico. Pertanto hanno ravvisato necessità interessare rispettivi governi onde poter modificare nostri riguardi direttive che finora si trovano applicate confronti terzi paesi circa importazioni orto-frutticole. In relazione passi in corso da parte autorità anglo-americane reputerei opportuno che anche nostre rappresentanze Londra e Washington appoggiassero nostra richiesta esportazioni ortofrutticole».

Il magro risultato economico era bilanciato dall’impressione riportata dalla delegazione italiana circa l’inizio di una promettente volontà di collaborazione futura manifestata dagli organi anglo-americani. Dal punto di vista dei rapporti con i rappresentanti delle potenze occupanti, la freddezza con la quale le autorità alleate avevano accolto gli inviati italiani in Germania durante i primi mesi del dopoguerra sembrava destinata al tramonto.

La delegazione guidata da Ferlesch aveva rilevato, infatti, un evidente mutamento nell’atteggiamento riservato agli italiani soprattutto dagli anglo-americani. Durante i negoziati i vertici della Bizona avevano dato prova della massima attenzione alle richieste di Roma e si erano dimostrati particolarmente cordiali con i vari funzionari:

«È da sottolineare – scriveva Cattani a Sforza – la rapidità con cui le due trattative sono state felicemente concluse e va posta in particolare rilievo l’accoglienza veramente cordiale e superiore alle aspettative riservata alla nostra Delegazione dalle Autorità americane, britanniche e sovietiche. Mentre però i rapporti con queste ultime, pur risultando cordiali, si sono mantenuti esclusivamente sul piano ufficiale, gli anglo-americani non soltanto hanno accolto la nostra Delegazione con manifestazioni ufficiali, alle quali hanno partecipato le massime autorità economiche della zona combinata [la Bizona], ma hanno anche favorito lo stabilirsi di relazioni personali con i membri della nostra Delegazione attraverso scambio di pranzi, colazioni, inviti ai vari Clubs anglo-americani ecc., determinando un’atmosfera di cordiale e simpatica collaborazione, dalla quale ci si attente buoni effetti anche nel prossimo avvenire».

Con gli accordi di luglio le autorità alleate della Bizona avevano concesso la prima autorizzazione affinché un certo numero di uomini d’affari italiani potesse recarsi nelle zone anglo-americane (sei al mese fino alla fine del 1947) per riprendere contatti con le ditte tedesche. Tuttavia, nonostante i passi avanti compiuti nell’estate del 1947, le concrete prospettive sull’interscambio italo-tedesco rimanevano negative.

In assenza di una rappresentanza italiana in Germania addetta esclusivamente alla ripresa delle relazioni commerciali, il futuro dei traffici tra i due paesi era affidato agli irregolari e imprevedibili inviti delle autorità alleate. Anche in caso di deroga alle direttive bizonali sulle importazioni della lista “A”, la peculiarità della parte più consistente delle esportazioni italiane in Germania – i prodotti agroalimentari – comportava una specifica azione di pianificazione basata sulla stagionalità delle merci, una programmazione che non poteva conciliarsi con l’invio nelle quattro zone di occupazione di saltuarie delegazioni italiane.

Inoltre, l’assenza di un maggiore coinvolgimento dei dirigenti tedeschi nelle amministrazioni addette al commercio estero della Germania rallentava e limitava l’andamento dei negoziati. Tale considerazione era diffusa tra i dirigenti della Direzione affari economici degli Esteri come Grazzi e anche tra i tedeschi della Bizona, come riporteranno in seguito Ludwig Erhard e Vollrath von Maltzan (anche se in quest’ultimo caso il parere deve essere letto tenendo presente la forte aspirazione della nuova classe dirigente tedesca bizonale a ritrovare nuovi spazi di autonomia politica ed economica).

Particolarmente duro fu il giudizio retrospettivo espresso da Erhard sull’attività della Jeia tra il 1947 e il 1949. Nel 1953 il ministro federale per l’Economia scrisse che: «La storia della Jeia ricorda i voti dei marinai: sulla carta si promisero spesso grandi agevolazioni, ma in pratica non se ne vide traccia […] i dirigenti della Jeia non erano in grado di organizzare efficacemente il commercio estero, dato il caos economico che imperversava».

Il console Gallina condivideva l’opinione di Ferlesch sulla ricerca di un dialogo bilaterale Roma-Washington e Roma-Londra come unica strada per scavalcare i limiti imposti al commercio estero tedesco. L’ostacolo delle direttive anglo-americane in merito all’importazione nella Bizona dei prodotti ortofrutticoli, continuava Gallina, poteva essere superato solo coinvolgendo direttamente il governo di Washington ed escludendo dall’orizzonte politico l’eventualità di un ritorno di autonomia per i tedeschi; solo attraverso una mediazione politica bilaterale tra Stati Uniti ed Italia era possibile riaprire il mercato tedesco alle esportazioni italiane.

Tuttavia, aggiungeva Gallina, l’Italia non doveva farsi illusioni sul futuro della Bizona e della Germania, perché la realtà dell’occupazione rappresentava l’unica certezza nell’immediato; pertanto bisognava puntare soprattutto alla vendita delle merci alle forze armate americane invece di insistere nella ripresa dei contatti con i tedeschi. I reparti dell’esercito degli Stati Uniti stanziati in Europa e in Germania avrebbero dovuto acquistare parte della produzione ortofrutticola italiana precedentemente rivolta al mercato tedesco. Scriveva infatti Gallina il 17 ottobre a Roma:

«[…] sarebbe utile che comunque da parte nostra venisse intanto interessato lo State Department in Washington allo scopo di ottenere più facilmente che questo dia istruzioni alle Forze Armate americane in Europa di comperare dall’Italia prodotti ortofrutticoli e vini in passato diretti qui [in Germania]».

Le trasformazioni susseguitesi all’interno della Bizona dopo la Conferenza dei ministri degli Esteri di Londra (25 novembre-15 dicembre 1947), smentirono le previsioni tracciate da Gallina sul prolungamento di un rigido regime di occupazione all’interno delle zone controllate dagli anglo-americani.

Nel corso della prima metà del 1948 le riforme introdotte nella Bizona dagli alleati occidentali crearono le premesse per la piena ripresa degli scambi italo-tedeschi, attraverso strade completamente opposte a quelle immaginate da Ferlesch al ministero del Commercio Estero e da Gallina a Francoforte.

La riforma della Bizona sottoscritta dai governatori militari Clay e Robertson il 5 febbraio del 1948 riconsegnava ai tedeschi ampi poteri nell’amministrazione interna delle due zone, mentre nel settore del commercio estero la Jeia iniziò gradualmente, soprattutto dopo l’introduzione del nuovo marco a giugno, a concedere ai tedeschi la possibilità della direzione delle trattative riservandosi il diritto di approvazione e di intervento in qualsiasi momento.

La linea proposta da Gallina fu infatti ignorata dal governo italiano. Sforza e De Gasperi non presero in considerazione l’idea di una scomparsa del mercato tedesco dal sistema degli scambi europei e soprattutto non ripiegarono sull’obiettivo minimo di concordare bilateralmente con Washington e con Londra la vendita dei prodotti italiani alle forze di occupazione, rinunciando alla ripresa dell’interscambio italo-tedesco.

Tale indirizzo politico divergeva dalle posizioni sulla Germania espresse dall’Italia a Parigi nell’estate del 1947, quando i rappresentanti del governo italiano avevano invece auspicato soluzioni a favore di un ripristino di autonomia per i tedeschi nella gestione delle attività produttive. Inoltre fin dalla primavera del 1947 i rapporti economici italo-tedeschi erano presentati dall’Italia ai governi occidentali come una delle componenti essenziali per la ricostruzione dell’Europa.

Secondo quest’impostazione, gli interessi italiani in Germania rappresentavano una “necessità europea”. La posizione ufficiale del governo trasmessa da Sforza alle capitali occidentali nell’agosto del 1947 recitava infatti:

«[…] sotto l’aspetto della ricostruzione economica europea, la ripresa dei traffici tra i due Paesi [la Germania e l’Italia] si pone come un problema di eccezionale gravità e urgenza. L’Europa è un corpo malato, e, per risanarlo, occorre riallacciare ad uno ad uno tutti gli anelli della catena che in altri tempi ne aveva assicurato la prosperità; trascurandone uno, si minaccia di determinare la crisi di tutti gli altri. Ripristinare gli antichi tradizionali movimenti della sua vita economica, vuol dire non solo un risparmio nel ricorso all’aiuto finanziario americano, ma anche e soprattutto un cospicuo passo innanzi nella ricostituzione del perduto equilibrio».

Il punto di vista dell’Italia sulla questione tedesca iniziava, inoltre, a trovare l’appoggio degli Stati Uniti. Infatti, a partire dalla primavera del 1947 i rapporti incentrati sul «problema della Germania» inviati a Roma da Tarchiani andavano illustrando la graduale affermazione di nuovi orientamenti all’interno dell’amministrazione Usa.

Nei piani statunitensi sull’Europa, riferiva Tarchiani a De Gasperi, le posizioni “punitive” nei confronti della Germania erano destinate a perdere d’influenza a vantaggio di una rinnovata centralità dello spazio tedesco (occidentale). Concentrare tutti gli sforzi per il rilancio delle esportazioni italiane verso la Bizona al solo scopo di assicurarsi la vendita di prodotti agli eserciti di occupazione significava non prendere atto delle trasformazioni in corso.

L’invito rivolto dall’Italia ai governi di Londra e Washington nell’estate del 1947 (su suggerimento della Direzione affari economici) era di introdurre una nuova politica economica nell’occupazione della Germania. L’obiettivo a medio termine caldeggiato dal governo di Roma era rappresentato da un progressivo reinserimento della Germania (almeno delle tre zone di occupazione occidentali) nel sistema degli scambi europei e non da un prolungamento dell’assetto uscito da Potsdam.

La ricerca di una mediazione bilaterale con le singole potenze per arrivare alla conclusione di trattati commerciali con gli eserciti di occupazione non venne mai presa in seria considerazione dalla Direzione affari economici. Tale tipo di tattica contrastava, infine, con gli obiettivi economici americani sull’Europa che, come è noto, dopo l’annuncio del Piano Marshall furono progressivamente indirizzati verso il ripristino dei flussi commerciali intra-europei, affinché i conti esteri dei paesi destinatari dell’Erp potessero tornare in equilibrio.

L’ORGANIZZAZIONE DELL’UFFICIO COMMERCIALE

Nel dicembre del 1947 gli anglo-americani autorizzarono l’istituzione a Francoforte sul Meno di una sezione addetta al commercio estero (Abteilung für Außenhandel) dipendente dall’agenzia economica della Bizona (la Verwaltung für Wirtschaft, una delle agenzie del Wirtschaftsrat)104. Vollrath von Maltzan assunse la direzione della nuova sezione bizonale di Francoforte. Fino all’introduzione della riforma monetaria nel giugno del 1948 gli spazi di manovra a disposizione della nuova sezione restarono limitati, tuttavia si trattò di un importante segnale di cambiamento di impostazione nella politica d’occupazione anglo-americana.

Quasi contemporaneamente iniziava l’attività dell’Ufficio commerciale italiano guidato da Aldo Morante, che non a caso fu istituito a Francoforte sul Meno. La città natale di Goethe era considerata, per la presenza degli organi alleati e tedeschi della Bizona, il nuovo centro economico della Germania occidentale. Francoforte fu ritenuta dalla Direzione affari economici la città maggiormente adatta a ristabilire i contatti con le neonate amministrazioni tedesche bizonali. Tra il 1948 e il 1949 con il sostegno degli anglo-americani l’Ufficio commerciale italiano e la Abteilung für Außenhandel divennero il centro di riferimento dei piani per la ripresa degli scambi italo-tedeschi.

Gli anglo-americani, autorizzando il governo italiano ad inviare un Addetto commerciale e la Verwaltung für Wirtschaft a formare una sezione addetta al commercio estero, crearono le premesse per la ripresa dei traffici tra i due paesi, ma a partire dal 1948 l’azione vera e propria passò progressivamente in mano a italiani e tedeschi. Nel corso del 1948 gli americani si limitarono ad appoggiare o a non intralciare la ripresa dei contatti tra i due “paesi” – tra l’Italia e la Bizona – in tale particolare settore.

La Direzione affari economici e l’Ufficio commerciale svolsero la propria attività con il “patrocinio” degli americani senza avere alcun bisogno di esercitare pressioni politiche presso le ambasciate americana e inglese di Roma e nemmeno attraverso le ambasciate italiane di Londra e Washington. Queste ultime si limitarono ad aggiornare Palazzo Chigi sugli orientamenti relativi alle politica d’occupazione coordinata dai governi dove erano accreditati.

Prima della seconda guerra mondiale (e prima dell’8 settembre del 1943) la rete dei servizi commerciali italiani in Germania controllata direttamente da Roma era stata molto vasta e articolata. Nel corso degli anni Trenta con il regime fascista, secondo i rapporti della Direzione affari economici, si era verificata una costante «inflazione di uffici e di personale».

Fino al 1943, l’ambasciata italiana a Berlino contava due sezioni addette alle relazioni economiche con circa 40 funzionari impiegati. Sempre a Berlino si trovava un ufficio dell’Istituto Nazionale per i Cambi con l’Estero e uno della Banca d’Italia. L’Istituto Nazionale per il Commercio Estero contava tre sedi di rappresentanza nelle città di Amburgo, Berlino e Monaco di Baviera.

A Berlino c’era inoltre una rappresentanza ufficiale della Confederazione degli industriali, nonché delegazioni degli agricoltori, dei commercianti e dell’artigianato. L’elenco dei servizi commerciali italiani in Germania era chiuso, infine, dalle quattro camere di commercio nelle città di Monaco, Francoforte sul Meno, Berlino e Amburgo.

All’arrivo di Morante a Francoforte nell’autunno del 1947 non solo non era rimasto più nulla di quella rete a causa della guerra, ma la divisione della Germania in quattro zone e l’occupazione da parte di quattro diverse potenze aveva prodotto la frantumazione dell’unità economica tedesca. La conseguenza immediata delle decisioni di Potsdam era stata la moltiplicazione e la complicazione dei punti di riferimento. Il 10 dicembre in uno dei primi rapporti inviati a Palazzo Chigi Morante illustrava le numerose difficoltà che si frapponevano alla realizzazione dei progetti italiani nella ripresa degli scambi:

«Sull’importanza del mercato tedesco – scriveva l’Addetto commerciale italiano – non è il caso di spendere troppe parole, e l’attuale conferenza di Londra non è che una delle più recenti e clamorose manifestazioni della lotta che le grandi Potenze svolgono per accaparrarselo.

Quanto alla mole del lavoro, basti pensare che dobbiamo essere presenti presso quattro governi alleati di zona e presso le autorità tedesche stabilite nei singoli Länder o in gruppi di essi. Dobbiamo ricostruire “ex novo” l’anagrafe delle ditte operanti sul mercato, devastata dalle distruzioni della guerra guerreggiata prima, dalle asportazioni, dalle riparazioni e dalle riforme politiche e sociali poi.

Dobbiamo studiare un’economia che si presenta con caratteri antitetici da un meridiano all’altro: di tipo socialista nella zona orientale, con qualche timida tendenza social-democratica in quella britannica, con orientamenti liberal-capitalistici nella zona americana. Dobbiamo seguire la politica agraria, finanziaria, monetaria, industriale, dei trasporti, del commercio interno e con l’estero in quattro zone, che sono in realtà quattro distinti Stati.

Dobbiamo aiutare i nostri connazionali, commercianti e industriali, privi oramai di qualsiasi radice in territorio tedesco, ad orientarsi nella fungaia di Enti e di norme che pullulano nella Germania di oggi. Dobbiamo ricostituire le perdute basi della nostra penetrazione commerciale nel Paese.

E tutto questo, ed altro ancora, dobbiamo compiere senza alcuna efficace assistenza da parte di altri organi, perché la rete consolare si è ridotta ad un’entità esigua, perché i vari uffici statali e parastatali già esistenti sono stati disciolti, perché l’organizzazione privata è crollata senza lasciare traccia, e perché infine le Camere di commercio – dopo essersi ridotte ad un nome senza soggetto – sono state ora vietate dai Governi militari alleati […] nel costituendo ufficio commerciale italiano in Germania si concentra in questo momento tutta la somma di speranze e di aspettative di quelli tra i nostri operatori che attendono con ansia la riapertura di questo vitale mercato”.

Nonostante alcune difficoltà logistiche, Morante riuscì a reclutare un piccolo ma efficiente gruppo di funzionari che ricevette il compito di coadiuvare l’Addetto commerciale nella ripresa dei contatti con le ditte tedesche e nella preparazione di incontri con i vertici della Jeia e con la sezione commercio estero guidata da Von Maltzan.

Il criterio guida nella selezione del personale dell’Ufficio commerciale fu consapevolmente individuato da Morante e dalla direzione affari Economici nell’esperienza: la priorità fu di non disperdere le competenze acquisite dai vari funzionari nel settore degli scambi italo-tedeschi durante gli anni Trenta, anche a costo di riassumere dirigenti politicamente compromessi con il fascismo ed il nazismo.

La logica adottata nel caso di Ferlesch fu intenzionalmente riadoperata tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948 per la riorganizzazione della nuova sede di Francoforte incaricata di riallacciare le relazioni commerciali bilaterali. Si scelse di richiamare in servizio quei funzionari che fino al 1943 avevano occupato ruoli di spicco nella gestione del commercio italo-tedesco.

Lo stesso Morante comunicò al ministero degli Esteri la necessità di procedere subito al reclutamento di tre ex segretari di camere di commercio italiane in Germania: soprattutto degli ex segretari Vittorio Francescon e Pio Favero110. Secondo l’Addetto commerciale la continuità del personale non rappresentava un problema politico, ma costituiva un’opportunità per lo «Stato», si trattava di un “capitale umano” irrinunciabile «per il Paese»:

«[…] per i tre impiegati addetti alle sezioni [trattati, esportazioni e importazioni], non vedo purtroppo come sia possibile conciliare le necessità di carattere tecnico con l’opportunità amministrativa di non richiamare in servizio quel personale che faceva parte delle nostre rappresentanze all’estero prima del settembre 1943 […] d’altra parte, la trattazione di problemi squisitamente tecnici (come, ad esempio, quello delle esportazioni italiane) non può essere affidata ad elementi generici, che non abbiano una vasta esperienza nel settore economico e padronanza assoluta delle lingue inglese e tedesca. È perciò che io mi vedo costretto a pregare codesto Ministero […] di volermi autorizzare ad assumere, come impiegati locali, tre segretari delle disciolte Camere di commercio italiane. Si tratta di persone con una lunga pratica commerciale, la cui preparazione tecnica è costata ingenti sacrifici all’economia italiana. Se noi disperdessimo oggi tali preziose energie, non realizzeremmo un risparmio per il nostro Paese, ma anzi rinunzieremmo ai frutti di un capitale faticosamente accumulato. Rivolgo pertanto viva preghiera a codesto Ministero di voler esaminare con la massima comprensione la suddetta richiesta, che rappresenta la chiave di volta di tutto l’edificio e, del resto, l’unica soluzione ragionevole in questo momento».

Il ministero degli Esteri accolse la richiesta dell’Addetto commerciale e così Pio Favero e Vittorio Francescon divennero i principali collaboratori di Morante a Francoforte: il primo, già direttore della Camera di Commercio italiana di Francoforte, era addetto alle importazioni, il secondo, ex direttore della Camera di Commercio italiana di Amburgo, era addetto alle esportazioni.

Fin dall’autunno del 1946 Francescon aveva inviato a Roma diverse richieste di assunzione, presentando a proprio favore una dettagliata ricostruzione del «contegno assunto tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945». Tuttavia prima dell’arrivo di Morante a Francoforte il ministero degli Esteri aveva sempre respinto le istanze dell’ex segretario a causa dei sospetti di collaborazionismo con la Repubblica sociale che gravavano su Francescon.

Le autorità alleate della Bizona non presentarono obiezioni per l’accreditamento dei funzionari proposti da Morante e dal ministero degli Esteri. Solo nell’estate del 1948 gli americani inviarono a Roma un rapporto contente diverse informazioni sull’attività di Pio Favero in Germania prima dell’8 settembre 1943. Il nuovo addetto alle importazioni, secondo il rapporto statunitense, era stato in passato un convinto nazista ed un fervente antisemita.

Oltre agli incarichi di natura economica e commerciale, fino all’8 settembre, Favero aveva collaborato con le redazioni di diverse riviste naziste, traducendo per il pubblico italiano numerosi articoli incentrati sulla politica razzista del regime nazionalsocialista. Il ministero degli Esteri decise comunque di non sollevare dall’incarico il collaboratore di Morante ed anche gli stessi americani, favorevoli alla ricostruzione dei rapporti economici tra italiani e tedeschi, preferirono chiudere un occhio non imponendo l’allontanamento del tecnico italiano addetto alle importazioni.

In seguito al “caso Favero” gli alleati occidentali in Germania non inviarono più alcun rapporto a Roma sul passato dei funzionari italiani in servizio nella Bizona. L’inasprimento della guerra fredda, il blocco di Berlino, la lotta al comunismo, la progressiva delega di poteri agli organi tedesco-bizonali da parte degli alleati occidentali contribuirono ad una progressiva perdita di interesse degli americani ad indagare sul recente passato degli addetti italiani al commercio estero in Germania.

Tuttavia, come è stato precedentemente dimostrato, fin dal 1947 – in occasione della nomina di Ferlesch – le segnalazioni alleate non si tradussero mai in esplicite richieste di revoca degli incarichi. È interessante notare, inoltre, l’assenza di comunicazioni sul passato dei rappresentanti diplomatici italiani in Germania. I casi dei «ventottisti» Guglielmo Arnò, Vitale Gallina, Roberto Chastel e i complessi legami del primo ambasciatore italiano presso la Repubblica federale, Francesco Babuscio Rizzo, con i vertici del regime fascista non destarono mai l’interesse delle autorità delle potenze alleate.

GLI SVILUPPI TEDESCOOCCIDENTALI

E IL PRIMO ACCORDO COMMERCIALE TRA L’ITALIA E LA BIZONA

Il 1948 fu, come è noto, l’anno in cui l’ipotesi della divisione della Germania divenne rapidamente una realtà concreta. Nelle zone occidentali e in quella orientale le potenze di occupazione intrapresero una serie di decisioni che portarono nel giro di un anno alla formazione di due stati separati.

Dopo l’ampliamento di poteri concesso dagli anglo-americani al Consiglio economico di Francoforte nel febbraio del 1948, le tre potenze occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) si riunirono a Londra (23 febbraio-6 marzo 1948) per la prima delle conferenze sul problema della Germania senza la partecipazione dell’Unione Sovietica.

Il 26 febbraio Olanda, Belgio e Lussemburgo si unirono alle “tre grandi potenze” riunite a Londra per le consultazioni sulla Germania. Due furono le decisioni particolarmente importanti che il gruppo delle “sei potenze” raggiunse sul futuro delle zone di occupazione occidentali: in primo luogo, l’approvazione dell’inclusione delle tre zone nei programmi d’aiuto del Piano Marshall (decisione ufficializzata il 1° giugno 1948 durante la seconda fase delle riunioni di Londra); in secondo luogo l’implicita dichiarazione, attraverso un comunicato studiato ad hoc per non rompere completamente i rapporti con l’Unione Sovietica, di costituire un governo della Germania occidentale.

La nuova sistemazione dei territori tedesco-occidentali non implicava tuttavia la fine del regime di occupazione. Il problema della sicurezza era affrontato attraverso la conferma degli anglo-franco-americani di non procedere al ritiro delle proprie forze armate dalla Germania e di continuare il controllo sul potenziale militare tedesco.

Le reazioni sovietiche ai nuovi sviluppi internazionali sulla questione tedesca non si fecero attendere. L’otto marzo 1948 una nota dell’Unione Sovietica affermava come la stessa Conferenza di Londra rappresentasse una violazione degli accordi di Potsdam e costituisse un atto di smembramento della Germania allo scopo di includere le tre zone degli anglo-franco-americani nel blocco occidentale.

Il 13 marzo la stampa sovietica annunciava il riordinamento della Commissione economica istituita all’interno della zona controllata dall’Armata Rossa. Non appena, infine, fu chiaro il senso e lo scopo delle discussioni di Londra, i rappresentanti sovietici decisero di abbandonare la Commissione alleata di controllo (20 marzo 1948), istituita tre anni prima, nel 1945, in seguito agli accordi della Conferenza di Potsdam come organo della suprema autorità in Germania.

I rapporti tra le due “superpotenze” in merito al problema tedesco subirono un’ulteriore deterioramento in seguito all’introduzione della riforma monetaria il 20 giugno 1948. Il nuovo marco avviava la fusione economica delle tre zone occidentali e al contempo prefigurava la realizzazione di un’unica entità politica tedesca-occidentale. Pochi giorni dopo, il 24 giugno, la riforma valutaria fu estesa ai settori occidentali della città di Berlino.

Questa scelta apriva, come è noto, una drammatica crisi nei rapporti internazionali tra Est ed Ovest. L’Unione Sovietica, infatti, mise in atto il blocco delle vie d’accesso terrestri alla città di Berlino Ovest, dichiarando di voler interrompere così la realizzazione della riforma monetaria nella parte occidentale della città, puntando, però, al contempo all’inclusione dell’intera Berlino nella propria sfera di influenza in caso di ritiro delle forze alleate occidentali.

Il governo e la diplomazia italiana svolsero il semplice ruolo di spettatori degli avvenimenti tedeschi e dell’escalation internazionale. L’Italia rimase sostanzialmente all’oscuro dei dettagli dei piani anglo-americani sul futuro della Germania. I rapporti provenienti dalle ambasciate italiane a Londra e a Washington nella prima metà del 1948 annunciavano la decisa volontà di quei governi di accelerare i programmi per la formazione di un’entità politica tedesca ad Ovest separata dalla zona di occupazione orientale, ma restavano piuttosto vaghi sui particolari e sui tempi precisi di quei progetti.

Il governo italiano era al corrente degli obiettivi generali degli alleati occidentali, ma non conosceva le forme, i tempi e i dettagli dei piani per la realizzazione di quegli stessi obiettivi. Anche i rappresentanti italiani nella Bizona e nella zona di occupazione francese non furono in grado di fornire al governo di Roma maggiori informazioni rispetto ai comunicati degli ambasciatori accreditati presso i governi delle grandi potenze.

Le fonti a disposizione evidenziano tuttavia una generale identità di vedute della diplomazia italiana sull’improbabilità dello scoppio di una guerra tra Stati Uniti ed Unione Sovietica a causa dei contrasti sulla sistemazione della Germania. Il console a Zurigo Maurilio Coppini già alla fine di marzo in un rapporto segreto riferiva a De Gasperi che le reazioni sovietiche alla «Conferenza dei sei» di Londra non miravano alla guerra con l’Occidente, ma ad una soluzione di compromesso:

«Sono perfettamente dell’avviso – scriveva Coppini il 22 marzo 1948 – che non sia né opportuno né tanto meno esatto sottovalutare l’importanza e la forza dell’Armata sovietica e dei suoi eventuali alleati; la valutazione deve essere fatta però in confronto alla capacità degli Stati Uniti, allo slancio di ripresa ed alla possibilità sua di neutralizzare e di annullare entro un periodo più o meno lungo di tempo l’inevitabile iniziale successo dei russi in Europa. Questa valutazione è fatta con tutta certezza dal Governo sovietico che non ha, a mio avviso, nessuna intenzione di giungere ad un conflitto armato ma tende a creare le premesse per giungere ad un accordo bilaterale con gli Stati Uniti».

Le scarse informazioni in possesso del governo italiano sulla strategia delle grandi potenze circa il futuro della Germania erano compensate da un continuo aggiornamento sull’attività degli organi tedeschi addetti all’amministrazione economica della Bizona. Nella primavera del 1948, grazie all’attività dell’Ufficio commerciale, gli sviluppi e gli ampliamenti di poteri che investirono il Consiglio economico di Francoforte furono costantemente registrati e comunicati a Roma.

Un passaggio molto seguito fu l’avvicendamento, avvenuto il 2 marzo 1948, del direttore dell’Agenzia economica bizonale, la Verwaltung für Wirtschaft. L’elezione di Ludwig Erhard (su proposta del partito liberale) alla guida dell’economia della Bizona al posto del dimissionario Johannes Semler (Csu), costituì una svolta non solo per l’attività del Consiglio economico di Francoforte, ma anche per il futuro ordinamento della politica economica tedesca-federale.

Poco dopo l’assunzione della nuova carica, Erhard organizzò un consiglio scientifico (wissenschaftlicher Beirat) composto in gran parte dai più importanti esponenti della «scuola di Friburgo» e divenne promotore di una politica economica apertamente liberista. In particolare, Erhard e i suoi collaboratori furono contrari ad un’eventuale applicazione all’interno della Bizona delle politiche economiche di stampo keynesiano come strumento per il ripristino dell’equilibrio economico e produttivo.

L’ottica adottata considerava, infatti, inscindibile la relazione logica che univa economia libera e democrazia da un parte, ed economia di stato e dittatura dall’altra. Il 21 aprile del 1948, sette settimane dopo la sua elezione, Erhard tenne il discorso d’insediamento davanti ai rappresentanti del Consiglio Economico; la linea programmatica del nuovo direttore dell’economia bizonale non presentava incertezze sui punti centrali per uscire dalla crisi e dal mercato nero: solo la riforma monetaria e il Piano Marshall, dichiarò Erhard, potevano assicurare il rilancio economico della Bizona.

Morante e Relli furono i rappresentanti italiani in Germania più attenti alle conseguenze derivanti dalla nomina di Erhard. Nella prospettiva dell’Ufficio commerciale il nuovo direttore del «ministero economico della Bizona» (come spesso veniva definita la Verwaltung für Wirtschaft) grazie «al moderno liberalismo professato» avrebbe facilitato da parte tedesca l’opera di ripresa delle relazioni economiche e commerciali italo-tedesche. Politicamente, il console Relli individuava, invece, nell’elezione di Erhard il segnale del tramonto delle idee di «ispirazione laburista» all’interno della Bizona, a vantaggio di una politica economica di chiaro «indirizzo liberista».

Negli stessi mesi in cui aumentava la tensione tra Est e Ovest sul futuro assetto della Germania, gli americani garantirono al governo De Gasperi i primi successi commerciali con la Bizona attraverso la sospensione del divieto sull’importazione di generi ortofrutticoli della lista “A”. Tra il 6 e il 10 aprile del 1948, pochi giorni prima delle elezioni politiche italiane, una delegazione guidata dal Direttore generale della Jeia, l’americano William John Logan, si recò a Roma per discutere a Palazzo Chigi di un allargamento dello scambio di merci con la Bizona.

In seguito ai negoziati il governo italiano si assicurò l’esportazione di prodotti agricoli per un valore pari a 10 milioni di dollari. Per la prima volta dalla fine della guerra l’Italia riusciva ad ottenere un aumento considerevole delle agognate esportazioni ortofrutticole.

La conclusione di un accordo commerciale economicamente rilevante con la diretta partecipazione dei dirigenti tedeschi della Abteilung für Außenhandel rimaneva l’anello mancante degli obiettivi italiani.

Prima della riforma monetaria Morante e von Maltzan riuscirono a stabilire criteri meno rigidi per le autorizzazioni ai viaggi d’affari tra l’Italia e la Bizona. L’obiettivo era di favorire nuovi contatti diretti tra le ditte italiane e tedesche importatrici ed esportatrici e stabilire così in determinati rami della produzione una collaborazione con le industrie italiane in vista della piena ripresa degli scambi.

Solo dopo l’introduzione della riforma monetaria nelle tre zone d’occupazione occidentali iniziarono i lavori per un primo accordo commerciale tra l’Italia e la Germania (occidentale). Dopo il giugno 1948 gli anglo-americani istituirono, infatti, procedure meno rigide a favore dell’Abteilung für Außenhandel. Fu abbandonata la limitazione degli scambi ai soli prodotti considerati essenziali e fu avviata anche la graduale rimozione della clausola dollaro, ma soprattutto i dirigenti tedeschi furono autorizzati a prendere parte ai negoziati per conto della Jeia, che conservava il diritto di approvazione e la firma finale di tutti i contratti.

Agli inizi di luglio del 1948 si svolse il primo incontro tra Morante e von Maltzan per l’avvio di un negoziato commerciale tra l’Italia e la Bizona. Il rappresentante dell’Ufficio commerciale ed il direttore della sezione Commercio estero della Verwaltung für Wirtschaft furono i principali artefici delle trattative. Il 3 settembre del 1948, dopo circa due mesi di discussioni, il Direttore generale aggiunto degli affari Economici Lanza D’Ajeta, a nome del governo italiano, e un delegato della Jeia firmavano a Francoforte sul Meno gli «Accordi fra il governo italiano e le autorità di occupazione anglo-americane in Germania in materia commerciale e di pagamento».

Il negoziato conseguiva notevoli risultati nel campo della ricomposizione dei rapporti commerciali bilaterali tra l’Italia e l’intera Germania occidentale. Il testo dell’accordo prevedeva, infatti, un’estensione degli scambi ai Länder della zona d’occupazione francese nel momento in cui quest’ultima sarebbe stata integrata nella Bizona. Inoltre il testo dell’accordo conteneva un’esplicita dichiarazione che mirava apertamente alla ripresa di contatti diretti tra esportatori ed importatori privati italiani e tedeschi:

«Dopo la fusione delle Zone Americana ed Inglese di Occupazione in Germania con la Zona di Occupazione Francese – recitava il documento –, e non appena ciò sia praticamente effettuabile, la Commissione Mista si riunirà per estendere le disposizioni del presente Accordo alle importazioni ed alle esportazioni da e verso la zona francese. Le parti contraenti cercheranno di incoraggiare il contatto diretto fra gli operatori commerciali interessati agli scambi di merci e servizi fra l’Italia e le Zone Americana ed Inglese di Occupazione in Germania, allo scopo di ristabilire il normale scambio di tali merci e servizi ed accelerare il movimento delle merci […]».

Il volume complessivo e la tipologia delle merci scambiate superavano di gran lunga il precedente accordo del luglio 1947. Con il trattato del 3 settembre, infatti, l’Italia esportava merci per un valore pari a 56 milioni di dollari ed importava dalla Bizona circa 51 milioni di dollari di prodotti.

Il trattato rappresentò un vero e proprio successo. Il volume degli scambi superava in entrambi i sensi la cifra di 50 milioni di dollari e con i soli prodotti alimentari l’Italia riusciva ad esportare merci per più di 12 milioni di dollari. I negoziati furono valutati positivamente da italiani, tedeschi e alleati angloamericani. Particolarmente soddisfatto si dimostrò l’Addetto commerciale Aldo Morante che il 17 settembre sulla base dei risultati raggiunti inviò a Roma un lungo resoconto sullo stato dei rapporti commerciali italo-tedeschi, smentendo allo stesso tempo le fosche previsioni esposte da Gallina nel gennaio precedente circa la capacità di ripresa degli scambi fra i due paesi:

«Non è superfluo ricordare – scriveva Morante – che il volume degli scambi italo-tedeschi si aggirava nel 1937 sui 200 milioni di dollari, di cui soltanto una parte convergeva sui territori che oggi compongono la cosiddetta Bizona. Si stima che, nello stesso anno, le attuali zone inglese e americana partecipassero agli scambi con l’estero dell’intero Reich in ragione del 52%, contro l’8% della zona francese e il 30 della zona russa e di Berlino. […]

Da ciò si ha che il valore delle merci scambiate tra l’Italia ed i territori facenti parte dell’odierna Bizona non era molto superiore, nel 1937, a quello fissato dal recente accordo […]. [Positiva] è del resto l’impressione di tutti gli ambienti alleati e tedeschi, che continuano a commentare con favore la conclusione del primo accordo commerciale post bellico con il nostro Paese.

In particolare viene messo in rilievo che l’accordo, sia come volume complessivo degli scambi, sia come composizione di essi, supera le più ottimistiche previsioni, e rappresenta indubbiamente un punto fermo nella via per il ripristino di più soddisfacenti condizioni di vita per la popolazione tedesca».

Il contributo della sezione commercio estero della Verwaltung für Wirtschaft rappresentava per i tedeschi una prova concreta della lenta e graduale ripresa di autonomia in uno dei campi più delicati: il rapporto con paesi esteri. L’8 settembre 1948, von Maltzan, in qualità di rappresentante dell’amministrazione tedesca bizonale, inviava all’addetto commerciale italiano una cordiale lettera di ringraziamento all’Italia, nella quale, partendo dall’ottimo risultato di questi primi accordi, auspicava per il futuro una più forte ripresa degli scambi commerciali tra italiani e tedeschi:

«Ho vivamente accolto la riuscita di questo primo importante accordo italo-tedesco come inizio di un’auspicabile forte ripresa di scambi di merci (Warenaustausches) tedesco-italiani, e vorrei non mancare di esprimerLe i miei più sinceri ringraziamenti per gli sforzi che Lei ha sostenuto nell’evoluzione del trattato con l’unico scopo di una felice conclusione dell’accordo».

Maximiliane Rieder non considera particolarmente significativa la partecipazione della sezione guidata da von Maltzan alle trattative siglate il 3 settembre 1948. I funzionari della Jeia intervennero spesso nel corso dei negoziati, tuttavia la lettera citata costituisce il primo esempio del secondo dopoguerra di comunicazione ufficiale da parte di un’istituzione tedesca bizonale ad un rappresentante del governo italiano. Si tratta inoltre di una prova concreta dell’importanza attribuita dai tedeschi alla conclusione dell’accordo.

Nell’ottobre dello stesso anno una circolare della Direzione generale affari economici attestava che per l’Italia gli accordi con la Bizona si collocavano, per importanza e volume, al secondo posto tra quelli con i paesi europei, dopo quelli con la Gran Bretagna, ma prima di quelli con la Francia.

Esaminando più da vicino le conseguenze dell’accordo del settembre 1948 risulta importante evidenziare che l’Italia riuscì in primo luogo a ripristinare, dopo anni di interruzione, i primi importanti traffici commerciali con la Germania e in secondo luogo si assicurò considerevoli quantità di materie prime (specialmente carbone) necessarie alla ripresa dell’attività industriale del paese, assumendo contemporaneamente una posizione creditoria nei confronti della Bizona (equivalente a quasi 5 milioni di dollari).

L’accordo commerciale con la Bizona si inseriva lungo una scia di analoghi risultati positivi raggiunti dall’Italia alla fine del 1948 nell’ambito del commercio estero. Alcuni storici hanno evidenziato, infatti, che proprio nella seconda metà del 1948 l’Italia, grazie all’incremento delle esportazioni, registrò un forte aumento di riserve valutarie, al punto da costringere l’Eca (Economic Cooperation Administration, la commissione preposta a determinare l’entità della quota di merci spettante ad ogni singolo paese beneficiario degli aiuti ERP) a ridurre gli aiuti all’Italia per l’anno 1949.

Poche giorni dopo la firma dell’accordo, Ludwig Erhard promosse l’avvio di un nuovo programma di scambi tra l’Italia e la Bizona. In particolare l’obiettivo del direttore della Verwaltung für Wirtschaft consisteva nel ripristinare il traffico dei beni di consumo non essenziali tra i due paesi (anche beni di lusso), che non erano stati inseriti nel negoziato del 3 settembre.

Le prime notizie sulle trattative in corso furono inviate a Roma da Morante il 10 settembre 1948; il rapporto dell’Addetto commerciale italiano evidenziava soprattutto il coinvolgimento dei dirigenti tedeschi:

«Dell’iniziativa – scriveva Morante – si è fatto recentemente portavoce non solo il capo dell’ufficio commercio estero, von Maltzan, ma addirittura il direttore dell’economia nell’Amministrazione bizonale, Prof. Erhardt [sic], il quale, in una conferenza-stampa, ha citato l’Italia e il Belgio come i Paesi che potrebbero mettere rapidamente a disposizione gli ingenti quantitativi di beni di consumo di cui la Bizona ha bisogno […]».

Gli incontri tra il personale dell’Ufficio commerciale italiano e dirigenti tedeschi per la conclusione di questo secondo accordo ricoprono un ruolo molto importante nella prospettiva della presente ricerca. Per la prima volta dalla fine della guerra, infatti, i negoziati partivano esclusivamente grazie ad un’iniziativa tedesca e non su invito delle autorità alleate, a loro volta sollecitate dai rappresentanti italiani.

La partecipazione diretta non solo del direttore dell’Abteilung für Außenhandel, von Maltzan, ma anche di Erhard dimostra l’importanza attribuita dai dirigenti tedeschi alla ripresa delle relazioni economiche e commerciali con l’Italia. Nel novembre del 1948 Morante invitò la Direzione affari economici ad autorizzare un aumento dei beni da scambiare per la conclusione del nuovo accordo per un valore pari a circa 50 milioni di dollari.

L’operazione, riferiva Morante, doveva ricevere la massima attenzione del ministero degli Esteri perché le ripetute dimostrazioni di interesse di Erhard conferivano un valore politico alle prime trattative italo-tedesche non inferiore a quello economico. Il direttore dell’economia bizonale era presentato da Morante come la personalità più importante della nuova amministrazione tedesca occidentale:

«Ho avuto stamane – comunicava Morante a Grazzi e a Sforza il 12 novembre 1948 – un nuovo colloquio sull’argomento [dello scambio di beni non essenziali rimasti fuori dall’accordo del 3 settembre] con il Prof. Erhard, il quale non solo è il vero promotore di questa operazione e di altre del genere, ma per la carica ricoperta, ministro bizonale dell’economia, e per il moderno liberalismo da lui professato e praticato, che ha condotto al successo tecnico della recente riforma monetaria, è l’uomo di punta di tutta l’amministrazione bizonale. Egli mi ha riconfermato il suo vivo interesse [per una] rapida conclusione [dell’]operazione […]».

Con la conclusione dell’accordo del 3 settembre 1948 e i successivi negoziati italo-tedeschi per un ulteriore allargamento dei beni oggetto di scambio, il governo italiano riusciva a garantire la ripresa delle relazioni commerciali con la Germania (almeno con la parte occidentale), ripresa che come è stato dimostrato, rappresentava un obiettivo cruciale della politica estera “tedesca” dell’Italia fin dall’immediato dopoguerra.

Il passo successivo fu la comune cooperazione per un rapido incremento dei traffici a cui si accompagnò da parte italiana il tentativo di potenziare al massimo tutte le tradizionali esportazioni italiane in Germania per compensare la temporanea assenza dei tradizionali flussi derivanti dalle “partite invisibili” che in passato garantivano un sostanziale riequilibrio dei conti della bilancia commerciale.

FORMAZIONE DELLA REPUBBLICA FEDERALE

RAPPORTI ITALOTEDESCHI PER LA POLITICA ESTERA ITALIANA

L’accelerazione impressa dagli alleati anglo-americani al processo di formazione di un governo tedesco-occidentale nella primavera-estate del 1948 modificava lo scenario politico dell’Europa rispetto alla situazione emersa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. In breve tempo nelle zone di occupazione non controllate dall’Unione Sovietica un nuovo stato tedesco, con un proprio governo, avrebbe sostituito la Bizona e la zona francese attraverso una rinnovata unità amministrativa.

La prima operazione destinata ad avere una vasta incidenza economica, politica e sociale fu la riforma monetaria. Si tratta, come è noto, di uno degli aspetti fondanti della storia della Germania occidentale nella seconda metà del Novecento. «Dal 1945 la storia tedesca – ha scritto Werner Abelshauser nell’introduzione della sua opera più nota – è soprattutto storia economica. Nulla ha segnato di più lo stato tedesco-occidentale quanto il suo sviluppo economico».

Il 19 giugno le tre potenze di occupazione annunciarono la «Legge per la riforma del sistema monetario tedesco» (Gesetz zur Neuordnung des deutschen Geldwesens) che entrava in vigore due giorni dopo170. Esperti finanziari statunitensi e tedeschi elaborarono gli aspetti tecnici della conversione della moneta. La valuta fu denominata Deutsche Mark e sostituì la Reichsmark, la Rentenmark e le emissioni di marchi d’occupazione su tutto il territorio delle tre zone occidentali.

Tre diverse leggi, emanate nella seconda metà di giugno, completarono il programma della riforma. In primo luogo il diritto di emissione di carta moneta fu limitato a 10 miliardi di marchi; il rapporto tra la valuta precedente e il nuovo marco fu di 10 a 1 (dieci vecchie Reichsmark per un nuovo marco) e ogni cittadino ebbe in dotazione 40 marchi (ad agosto furono rilasciati altri 20 marchi). Particolari esenzioni fiscali furono previste per i profughi, i danneggiati di guerra e i perseguitati dall’ex regime nazista.

Il 24 giugno, infine, senza chiedere l’accordo preliminare dei governi militari, Ludwig Erhard fece approvare dal Consiglio economico di Francoforte una legge, il cosiddetto Leitsätzegesetz, fortemente voluto dagli esperti tecnici del suo consiglio scientifico, che tendeva ad eliminare ogni controllo sulla vita economica e sui prezzi delle merci in genere; l’operazione che portò alla promulgazione del Leitsätzegesetz è passata alla storia con l’espressione de «il colpo di mano (Handstreich) di Erhard».

Nonostante fosse nell’aria, la riforma fu proclamata senza alcun preavviso né per la popolazione tedesca, né per i rappresentanti stranieri, diplomatici italiani inclusi, circa la data e le modalità del provvedimento. Solo dopo una settimana, il governo italiano riuscì ad avere informazioni dettagliate dai propri rappresentanti in Germania. L’immediato successo della riforma fu uno degli aspetti che maggiormente impressionò gli inviati italiani. Il 5 luglio 1948 un meravigliato console Relli scriveva a Roma che:

«Questo complesso di radicali misure economiche avrebbe avuto in qualsiasi altro paese l’effetto di un terremoto e la sua applicazione pratica sarebbe stata dubbia. Nelle particolari condizioni materiali e psicologiche della Germania, tenendo presente l’innata disciplina di questo popolo, tutto si è svolto con ordinata regolarità ed almeno i primi risultati corrispondono alle normali previsioni della teoria economica.

Le vetrine dei negozi tedeschi si sono improvvisamente riempite di merci che fino a ieri non si potevano ottenere che barattando o ricorrendo al mercato nero. Verdura e frutta sono in vendita nelle strade e vi sono generi che non trovano compratori ed i cui prezzi ribassano nella stessa misura. I borsaneristi sono in scompiglio e debbono vendere le sigarette a prezzi inferiori di quelli ufficiali. […] esso [il popolo tedesco] potrà trovare nella nuova moneta e nell’ordinamento economico che ne consegue la base della sua rinascita».

Da un punto di vista economico e politico, riferivano i vari rappresentanti italiani, la riforma monetaria confermava la linea americana di rendere la Germania occidentale un paese protagonista dei programmi di ricostruzione europea.

La risposta dell’Unione Sovietica all’introduzione del nuovo marco fu il blocco di Berlino Ovest. Il 24 giugno i sovietici interruppero il transito alle vie d’accesso terrestri (strade, ferrovie e linee fluviali) che conducevano ai settori occidentali di Berlino: iniziava così il famoso “blocco” che sarebbe durato quasi un anno, fino al 12 maggio 1949. Le tensioni internazionali scaturite dalla reazione sovietica e la successiva decisione anglo-americana di non “abbandonare” a Stalin la zona Ovest dell’ex capitale tedesca, organizzando in breve tempo il noto “ponte aereo”, non attirarono in modo particolare l’attenzione dei diplomatici italiani in Germania.

La storiografia ha ampiamente sottolineato il ruolo decisivo svolto dal blocco sovietico di Berlino Ovest e dal ponte aereo alleato nella trasformazione del rapporto tra popolazione tedesca e potenze d’occupazione occidentali, soprattutto tra tedeschi e americani.

Lo sforzo logistico degli Stati Uniti durante i mesi del ponte aereo (giugno 1948-maggio 1949) per rifornire la popolazione di Berlino Ovest ebbe tra i tedeschi occidentali l’effetto psicologico di trasformare gli americani da occupanti in difensori. Nell’opinione pubblica occidentale non filocomunista la stessa città di Berlino, da centro del militarismo e dell’autoritarismo prussiano, venne gradualmente percepita come il simbolo della difesa della libertà dall’oppressione della Russia bolscevica.

Le ripercussioni del blocco di Berlino Ovest e del ponte aereo all’interno della stampa tedesca occidentale e nei rapporti tra popolazione e occupanti/difensori anglo-americani non costituirono oggetto d’indagine per i rappresentanti italiani in missione nella Germania occidentale. I resoconti incentrati sugli eventi di Berlino inviati a Roma dai diplomatici italiani erano limitati ad un banale resoconto degli eventi e a periodici aggiornamenti delle decisioni alleate.

Uno dei rari rapporti in cui si accenna alla stato d’animo dei tedeschi in seguito al blocco e al ponte aereo descriveva un’opinione pubblica piuttosto apatica. Il console Wiel infatti, accreditato nella zona francese, suggeriva di non sopravvalutare i risvolti della crisi di Berlino nell’atteggiamento della popolazione tedesca. Per quanto riguardava la popolazione locale della zona occupata dalla Francia riportava che:

«Gli avvenimenti di Berlino – riferiva Wiel il 28 luglio 1948 –, le cui cause sono ormai ben note per soffermarsi a descriverle, sono stati qui [nella zona d’occupazione francese] appresi e considerati senza eccessive apprensioni. La popolazione tedesca si è forse già abituata alla “guerra fredda”, alla “guerra dei nervi” ai “colpi di spillo”, termini questi comunemente in voga per definire il dissidio sempre più acuto fra Occidente ed Oriente o meglio fra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica».

Nonostante il relativo isolamento dei Länder tedeschi governati dalle forze francesi rispetto alla centralità politica, economica e geografica della Bizona, risulta difficile non constatare la tendenza presente nel documento citato a sottovalutare ogni possibile ripercussione della prima crisi di Berlino.

Dello stesso tono erano anche i resoconti di Relli in missione nella zona inglese. Il console italiano più interessato ai risvolti sociali delle tensioni internazionali non rilevava alcuna conseguenza tra la popolazione:

«[…] la passionale vicenda berlinese – scriveva Relli l’8 agosto 1948 –, malgrado sia mantenuta viva dalle circostanze drammatiche e dall’intensa propaganda di ambo le parti, non è riuscita a scuotere la rassegnata indifferenza del popolo tedesco».

L’insieme dei rapporti inviati a Roma dai diversi rappresentanti italiani in Germania restituisce un’immagine pesantemente deformata della realtà tedesca occidentale durante i mesi del ponte aereo. Alle tensioni Est-Ovest a causa dell’ex capitale della Germania si contrappone una popolazione tedesca quasi assente o sostanzialmente indifferente alle sorti della «questione germanica».

La continuità, tra i diplomatici italiani, di modelli interpretativi imperniati sul postulato dell’antidemocraticità e dell’innata bellicosità del popolo «teutonico» mal si conciliava con la possibilità di guardare ai tedeschi come popolazione vittima e danneggiata o desiderosa di protezione.

La seconda inequivocabile iniziativa degli alleati occidentali orientata alla creazione di uno stato tedesco separato dalla zona di occupazione sovietica fu intrapresa nell’estate del 1948. Il primo luglio, infatti, gli alleati che avevano partecipato alla conferenza di Londra sulla Germania consegnarono ai presidenti dei Länder occidentali i cosiddetti «documenti di Francoforte».

Ministerpräsidenten (Presidenti) dei Länder furono invitati a studiare ed elaborare un disegno di costituzione che in seguito sarebbe stato denominato Grundgesetz (legge fondamentale) per rimarcarne la provvisorietà, eludendo quindi l’utilizzo del termine Verfassung (costituzione). Il compito di redigere la legge fondamentale fu affidato ad un Consiglio parlamentare (Parlamentarischer Rat), formato da deputati inviati da ogni singolo Land in numero proporzionale alla popolazione e distribuiti secondo il peso dei singoli gruppi parlamentari, e non ad un’assemblea costituente.

Il Consiglio parlamentare si riunì per la prima volta il primo settembre del 1948; Konrad Adenauer fu eletto presidente del Parlamentarischer Rat, mentre il socialdemocratico Carlo Schmid (Spd) divenne il segretario della commissione principale190. Su esplicita raccomandazione degli alleati la forma del nuovo stato tedesco-occidentale doveva garantire ampie autonomie ai Länder e ispirarsi, quindi, ad una struttura di tipo federale.

L’importanza del nuovo organo tedesco (il Parlamentarischer Rat), istituito per redigere la costituzione del futuro stato tedesco-occidentale, non fu pienamente compresa dai rappresentanti italiani in Germania.

Diversamente da quanto avveniva per il Consiglio economico, che monopolizzava l’interesse degli inviati italiani e del ministero degli Esteri, il Parlamentarischer Rat venne politicamente sottovalutato e percepito come un espediente creato dagli anglo-americani nel clima dello scontro diplomatico con l’Unione Sovietica per attrarre la popolazione tedesca dalla parte degli occidentali. Alla fine di luglio, il console Gallina espose tale interpretazione in un rapporto riservato destinato al ministro Sforza e a De Gasperi.

Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, commentava Gallina, impegnati a fronteggiarsi per estendere la propria influenza su tutto il mondo rischiavano tuttavia di perdere il potere di decisione e di controllo sull’assetto della Germania. Il pericolo insito nella politica dei «regali» al popolo tedesco da parte delle due superpotenze consisteva nella possibilità di arrivare ad una proclamazione dell’unità della Germania in assenza di un accordo internazionale:

«[…] quanto maggiori sono le responsabilità che si assumono i tedeschi nella Germania occidentale – scriveva Gallina il 29 luglio 1948 –, tanto maggiori saranno quelle che i russi dovranno concedere ai tedeschi nella Germania orientale. È evidente infatti che tanto gli Occidentali quanto la Russia cercano di attrarre nella loro orbita questo Paese. Di concessione in concessione saranno costretti, per superarsi a vicenda, a dare un po’ alla volta una indipendenza quasi assoluta alla Germania. E potrà venire il momento, si potrà presentare cioè prima o poi l’occasione favorevole in cui i due Stati tedeschi dell’Ovest e dell’Est potranno proclamare l’unità della Germania e fondersi».

È interessante notare il riferimento di Gallina ai «due Stati tedeschi dell’Ovest e dell’Est» che nell’estate del 1948 ancora non esistevano. La formazione di due entità statali al posto delle quattro zone di occupazione era evidentemente considerata indubbia, ma in modo paradossale l’osservazione dell’istituzione tedesca esplicitamente creata per consentire la nascita del primo governo della Germania occidentale (il Parlamentarischer Rat) fu essenzialmente ignorata da Gallina e dagli altri diplomatici italiani.

Il console Relli, infatti, invitato da Sforza ad esprimersi sui pronostici di Gallina, confermava i giudizi del proprio collega a Francoforte sulla nuova istituzione tedesca196. L’unico distinguo riguardava la politica sovietica in Germania che a giudizio di Relli non badava affatto ad accattivarsi le simpatie della popolazione.

In generale anche la terminologia utilizzata per indicare il Parlamentarischer Rat nei documenti inviati a Roma rivela la presenza di una scarsa conoscenza dell’istituzione. Se infatti il Wirtschaftsrat des Vereinigten Wirtschaftsgebietes venne subito tradotto in italiano dai funzionari del dicastero degli Esteri attraverso l’espressione «Consiglio Economico» e indicato sempre in questo modo, per il Parlamentarischer Rat non fu trovata una traduzione convincente.

Nei rapporti di Gallina il Consiglio parlamentare venne indicato a volte con «Costituente tedesca», altre con «Assemblea di Bonn» o «Assemblea Costituente germanica”; il console Relli citava, invece, in tedesco il nome dell’istituzione201, mentre il console Wiel scriveva «consiglio parlamentare».

Tra il 1948 e il 1949 i lavori del Parlamentarischer Rat furono nel complesso poco seguiti dai rappresentanti italiani e rimasero ai margini del processo di ridefinizione del ruolo della Germania e dei rapporti italo-tedeschi intrapreso dal governo italiano nell’autunno del 1948.

Il Consiglio economico continuò a rappresentare per il ministero degli Esteri l’unico centro politico di riferimento della Germania occidentale. L’azione dell’Ufficio commerciale e i contatti tra Morante e le “agenzie” guidate da von Maltzan e da Erhard, quest’ultimo spesso presentato come «l’uomo di punta della Germania occidentale», contribuirono a dirottare le previsioni di Palazzo Chigi sui processi di leadership tedesco-occidentali all’interno del Consiglio economico.

Una delle conseguenze di questa prospettiva adottata dal ministero degli Esteri fu la relativa impreparazione alla notizia dell’elezione di Adenauer alla guida del primo governo tedesco-occidentale. Nessun rappresentante italiano prese in considerazione le probabilità di successo di Konrad Adenauer: leader della Cdu e presidente del Parlamentarischer Rat.

L’unico contatto tra Adenauer e la diplomazia italiana, precedente alla formazione del primo governo federale, avvenne nel maggio del 1949, su iniziativa dello stesso Adenauer. Agli inizi di maggio del 1949 Gallina era a Bonn per assistere, come rappresentante del governo italiano, alle sedute finali dell’«Assemblea Costituente» (il Parlamentarischer Rat). Durante una di queste sedute, riportava Gallina a De Gasperi:

«Il Dott. Conrad [sic] Adenauer, Presidente dell’Assemblea Costituente e Capo autorevole dell’Unione Democratica Cristiana in Germania […] mi ha intrattenuto a lungo parlandomi dei rapporti con il movimento democratico italiano, a partire dai tempi del “partito popolare”. Mi ha parlato a lungo di Don Sturzo e di Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio Onorevole De Gasperi che fu già suo ospite a Colonia, di cui il Dott. Adenauer è stato per molti anno Sindaco. Alla fine del nostro incontro egli mi ha pregato di voler trasmettere a Sua Eccellenza […] l’espressione del suo deferente omaggio e di assicurarlo che egli mantiene vivo e gradito il ricordo dei rapporti personali avuti con lui in passato e che sarà lieto in futuro di poter in quella qualsiasi posizione che il popolo tedesco vorrà che egli serva, stabilire rapporti altrettanto cordiali e fattivi nell’interesse dei due Paesi».

Il 15 luglio 1949 De Gasperi inoltrò ad Adenauer una cordiale lettera di ringraziamento nella quale scriveva di ricordare:

«[…] con piacere i nostri passati incontri e sono lieto di questa occasione che mi offre la opportunità di rinnovarle le espressioni della mia cordiale amicizia. Mi congratulo con Lei per il lavoro compiuto nella preparazione della nuova Costituzione Tedesca e Le faccio i migliori auguri di successo nella Sua opera di ricostruzione basate sui principi della Democrazia Cristiana».

Ad eccezione di questo scambio di messaggi non si riscontra alcun documento significativo. Prima del settembre 1949 né gli esperti della Direzione affari politici, né i rappresentanti italiani nella Bizona e nella zona d’occupazione francese annoverarono Adenauer tra le personalità politiche in grado di svolgere un ruolo significativo nella futura Germania occidentale. L’uomo politico che come pochi altri lasciò la propria impronta nei primi anni di vita della Repubblica federale fu “scoperto” dalla diplomazia italiana il 16 settembre 1949: un giorno dopo l’elezione di Adenauer a primo Cancelliere federale.

La riforma monetaria e l’evidente volontà delle potenze occidentali di autorizzare la nascita di un governo tedesco ad Ovest richiedevano un aggiornamento delle posizioni italiane nei riguardi della «questione germanica». Il documento che era stato alla base dell’azione politica italiana nei confronti della Germania fino a quel momento, la relazione della Direzione affari economici elaborata nell’autunno del 1946, iniziava ad essere inadeguato rispetto allo scenario politico ed economico tedesco della fine del 1948.

In primo luogo la conclusione dell’accordo commerciale tra l’Italia e la Bizona (3 settembre 1948) e l’avvio dei successivi negoziati per l’allargamento degli scambi avveravano l’obiettivo più importante contenuto nella relazione degli affari Economici: la ripresa dei traffici tra i due paesi. In secondo luogo l’imminente costituzione di un nuovo stato tedesco ad Ovest, al posto delle tre zone di occupazione occidentali, scongiurava il pericolo di una eccessiva frammentazione della Germania e ricreava uno spazio economico unitario, anche se privato della zona di occupazione orientale e degli ex territori passati alla Polonia e all’Unione Sovietica.

La partecipazione al Piano Marshall e la politica di Erhard garantivano, inoltre, la libertà dei traffici tra la Germania ed il resto dei paesi dell’Europa occidentale. La fase dei «divieti di Potsdam» che aveva influenzato il testo della Direzione affari economici si avviava alla conclusione. Infine, la non lontana formazione del primo governo tedesco-occidentale implicava la comparsa di un nuovo soggetto politico sulla scena europea, un aspetto, questo, completamente assente dalla relazione del 1946 redatta come testo di orientamento per il governo nel breve periodo.

Ed era appunto la dimensione politica delle posizioni italiane sulla Germania alla luce di un futuro governo tedesco a dover costituire materia di studio per il governo e per la diplomazia. Tra il 1945 e il 1948 l’Italia si era sempre dichiarata a favore dell’unità economica della Germania.

Con l’avvio della fase costituente della Germania Ovest, quale sarebbe stato l’atteggiamento del governo di fronte alla creazione di un’unità politica tedesca occidentale? In particolare, un nuovo stato tedesco dotato di relativa autonomia era compatibile con il sistema di relazioni internazionali immaginato dagli esperti del ministero degli Esteri? L’Italia si limitava ad assistere, suo malgrado, al ritorno della Germania come attore politico o si preparava a sostenere l’integrazione del governo tedesco nel sistema di relazioni dell’Europa occidentale? Quale sarebbe stato il ruolo dei rapporti italo-tedeschi nell’ambito europeo?

Furono queste le principali domande al centro delle riflessioni italiane nel periodo compreso tra l’autunno del 1948 e la primavera del 1949 (alla vigilia della promulgazione del Grundgesetz e della formazione del primo governo della Repubblica federale).

RUOLO DELLA GERMANIA OCCIDENTALE

NELLA CONCEZIONE DI POLITICA ESTERA ITALIANA

Prima di esaminare il ruolo della Germania e dei rapporti italo-tedeschi per la politica estera del governo italiano è importante accennare brevemente ad un importante problema terminologico: l’ambiguità che circonda l’espressione «problema germanico» all’interno delle fonti italiane della seconda metà degli anni Quaranta (almeno nell’arco cronologico 1945-1953). L’espressione utilizzata dai contemporanei, «problema germanico» (più raramente «questione germanica» e «questione tedesca o della Germania»), rimanda in realtà a diversi ordini di problemi, spesso tra loro intrecciati e non sempre precisati dai vari resoconti, comunicazioni e relazioni.

Nelle fonti del ministero degli Esteri italiano tali locuzioni alludono, a volte anche all’interno di uno stesso documento e senza ulteriori specificazioni, alle conferenze degli alleati sulla Germania, alle divergenze tra le grandi potenze sul futuro assetto del territorio tedesco, alla posizione dell’Italia nei confronti della Germania e ai rapporti italo-tedeschi. Un ulteriore elemento di complessità deriva dall’aggiunta del problema della divisione della Germania dopo il 1948/49 e dalle discussioni sul riarmo della Repubblica federale, temi ugualmente inclusi nell’espressione «problema germanico».

Si tratta, dunque, di una formula-contenitore sempre identica, utilizzata per analizzare problemi diversi e cronologicamente distanti, anche se intrecciati. Fin dai primi mesi del dopoguerra l’importanza attribuita dal governo di Roma ai rapporti commerciali italo-tedeschi aveva contribuito ad indirizzare la politica estera dell’Italia su posizioni contrarie al mantenimento di una Germania economicamente trascurabile.

Per tale motivo il governo italiano guardò con favore l’introduzione di significative riforme come l’istituzione della Bizona (a differenza invece della Francia che subì controvoglia il progetto, escludendo la propria zona di occupazione dalla nuova grande area, e diversamente anche dalla Gran Bretagna, ideatrice della riforma insieme agli Stati Uniti, ma spinta, a differenza di questi ultimi, soprattutto dall’impossibilità di sostenere l’onere economico-finanziario derivante dalla gestione della propria zona di occupazione) che prevedeva il ripristino di una più grande unità economica tedesca e la possibilità per l’amministrazione della nuova area di intrattenere relazioni commerciali con i paesi esteri attraverso la Jeia.

L’orientamento dell’Italia risultò convergente con quello degli Stati Uniti che nel corso del 1947 andavano evidenziando i loro progetti di incentrare il piano Erp sulla rinascita economica della Germania occidentale in un regime di libero mercato. I punti di vista di Roma sulla Germania erano stati infine illustrati apertamente dalla delegazione guidata da Campilli durante la Conferenza di Parigi dell’estate del 1947.

Nel momento in cui tra la primavera e l’estate del 1948 si palesava il passaggio verso la formazione di un governo tedesco occidentale, il governo De Gasperi non cambiò atteggiamento e sostenne pubblicamente la necessità di integrare i tedeschi nei programmi di cooperazione economica e politica dell’Europa.

Con la conclusione del primo negoziato commerciale italo-tedesco del 3 settembre 1948 la linea di forte intesa economica, che fino a quel momento aveva caratterizzato gli obiettivi della politica estera italiana verso la Germania, raggiunse un primo importante risultato. La collaborazione dei tedeschi alla ricostruzione dell’Europa non doveva limitarsi, tuttavia, al solo settore commerciale. Secondo il governo italiano da un punto di vista politico i timori di alcuni paesi europei di fronte alla rinascita della Germania andavano superati attraverso la partecipazione dei tedeschi alla costruzione dell’integrazione europea.

Il reintegro di una struttura economico-politica tedesca nel sistema dei paesi dell’Europa occidentale divenne progressivamente la linea ufficiale del governo italiano. Il ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio sostennero spesso pubblicamente questo orientamento.

Il 18 luglio 1948 Sforza parlò apertamente della necessità politica di coinvolgere i tedeschi nei progetti europei senza creare alcuna disparità. Nella famosa prolusione pronunciata all’Università per gli stranieri di Perugia dichiarò infatti:

«E siccome la guarigione democratica dei tedeschi che follemente si cercò di ottenere dopo la guerra con didascaliche terapie straniere è una delle condizioni essenziali della soluzione del problema europeo, nostro supremo dovere è di riconciliarli con l’Europa. Ma come fare? Non v’è che un mezzo; offrire ai tedeschi di assidersi, uguali fra uguali e liberi fra liberi, al lavoro della grande federazione economica e politica dell’Europa occidentale. Quel giorno, e quel giorno soltanto, si dissiperanno i vecchi residui che vegetano ancora in tanti pagani cuori tedeschi, residui da cui sorse il nazismo; quel giorno, e quel giorno soltanto si sarà risvegliata la Germania di Goethe».

Il 15 ottobre 1948, Sforza ribadì la posizione manifestata in occasione del discorso di Perugia, dichiarando alla camera del Senato la linea del governo italiano sulla futura sistemazione della Germania in Europa:

Lo ripeto, la politica estera e la politica economica, procedono di pari passo da noi [per il governo italiano]. […] La tesi dell’unione o, quando occorre, di minori unioni federali, rappresenta il punto di vista coerente e più completo finora enunciato, perché comprende anche la Germania, elemento indispensabile alla ricostruzione economica del nostro continente. Il problema germanico non sarà risolto definitivamente che nell’ambito delle federazioni democratiche”.

Anche il Presidente del consiglio sostenne pubblicamente l’adesione della Germania ai progetti per la creazione della nuova Europa democratica, alternativa al comunismo e al fascismo. Il 20 novembre a Bruxelles, dove si era recato accettando l’invito delle «Grandes Conférences Catholiques», De Gasperi dichiarò che:

«Lo spirito di solidarietà europea – affermava De Gasperi – potrà creare, in diversi settori, diversi strumenti di salvaguardia e di difesa, ma la prima diesa della pace sta nello sforzo unitario che, comprendendo anche la Germania, eliminerà il pericolo della guerra di rivincita e di rappresaglia. Contro la solidarietà della libera Europa verrà ad infrangersi la propaganda dell’odio ideologico e rinascerà nei popoli la certezza della pace e dell’avvenire democratico, fondato sulle forze dello spirito, della libertà, del lavoro».

Il 4 dicembre durante un intervento alla Camera dei Deputati, la linea politica di apertura alla nuova Germania contribuì a motivare la mancata adesione dell’Italia al Patto di Bruxelles ritenuto eccessivamente antitedesco e sottoscritto, invece, da Francia, Inghilterra e dai paesi del Benelux:

«[…] questa caratteristica di essere un patto, specialmente contro una politica aggressiva della Germania, dà ad esso un proprio carattere, che non è il nostro. La nostra posizione storico-geografrica ci dà piuttosto il carattere di mediazione, nel senso di guadagnare a questa nuova Europa anche la Germania, e di guadagnarla alla forma democratica […] Lo spirito di solidarietà europea potrà creare in diversi settori diverse salvaguardie e difese, ma la prima difesa comune della pace sta nello spirito unitario che, comprendendo anche la Germania, eliminerà il pericolo della guerra, della rivincita e delle rappresaglie […]».

Qualche mese dopo, nel febbraio del 1949, il Presidente del consiglio dichiarava alla stampa che:

«L’Unione europea potrà divenire un efficace strumento di pace, soprattutto nella soluzione del problema germanico, poiché è chiaro che il modo di superare anche in Germania una possibile psicosi di revanche è quello di attrarre nell’orbita della collaborazione europea anche la nazione tedesca».

È importante comprendere che le dichiarazioni di De Gasperi e Sforza sulla Germania occidentale non costituivano una variabile avulsa dal più generale contesto della politica estera italiana. Nella seconda metà del 1948 iniziava il travagliato percorso politico e diplomatico verso l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, scelta, questa, che schierava il paese in modo inequivocabile nel campo occidentale contrapposto a quello sovietico.

Come è noto, l’idea di un impegno militare dell’Italia nel blocco occidentale non era molto popolare nell’opinione pubblica e suscitava non poche perplessità all’interno della maggioranza di governo e del partito di De Gasperi, oltre che tra i partiti all’opposizione. La ricerca di una politica estera «equidistante» o «neutrale» tra i due blocchi trovava consensi trasversali: nel mondo politico cattolico, nelle forze di sinistra, in particolare per il leader socialista Nenni, ed anche tra le gerarchie vaticane.

Gli stessi alleati occidentali, soprattutto la Gran Bretagna, non erano favorevoli all’adesione italiana ad un sistema di sicurezza collettiva, e, solo quando alla fine del 1948 la Francia decise di schierarsi apertamente a favore della partecipazione italiana222, gli Stati Uniti sollecitarono l’ingresso dell’Italia.

L’opinione di De Gasperi e Sforza sui rischi ai quali era esposta la penisola in caso di neutralità tra i due blocchi – isolamento, marginalizzazione e debolezza – risultò decisiva per l’avvio dell’azione politica e diplomatica del governo a favore dell’adesione dell’Italia al sistema di difesa capeggiato dagli Usa. Nel dicembre del 1949 l’appoggio del pontefice Pio XII permise infine al Presidente del consiglio e al ministro degli Esteri di superare gli ostacoli interni.

Sul piano politico De Gasperi cercò di collegare la scelta dell’ancoraggio atlantico e americano agli ideali politici europeisti. Le aspirazioni all’unità del vecchio continente potevano essere rilanciate e attuate grazie alla protezione e alla collaborazione con gli Stati Uniti. Tuttavia, la prospettiva europeista, secondo il Presidente del consiglio, sarebbe stata indebolita da un’esclusione della nuova Germania.

Tra la fine del 1948 e la seconda metà del 1949 De Gasperi andò maturando la ferma convinzione di una piena partecipazione dello stato tedesco occidentale ai programmi europei. I progetti politico-economici tendenti all’avvicinamento e alla collaborazione fra i popoli dell’Europa occidentale dovevano includere i tedeschi. In caso contrario si “rischiava”, secondo De Gasperi, la possibilità di «ritrovarsi» una Germania direttamente influenzata da Mosca:

«Il momento della guerra – scriveva nel novembre del 1948 in un appunto per un intervento alla Camera de Deputati sulla politica estera del governo – potrà essere vicino se non si trova una soluzione concordata al problema germanico; risorgere della Germania, attiva, con infiltrazione comunista: questo è il pericolo […] Centro nevralgico il problema germanico. Impossibile Europa senza Germania o parte. Si è detto da qualcuno neutralità. Se neutralità uguale proposito di star fuori dal conflitto, chi non potrebbe consentire! Ma la cosa non si pone come nel 1914! Oggi nessuno è interventista, ma nessuno di fatto può essere neutralista».

De Gasperi alla conferenza di Parigi

I discorsi di Sforza e soprattutto di De Gasperi palesavano la volontà di non isolare la Germania dai progetti di collaborazione europea. I progetti europeisti rappresentavano, dunque, lo strumento politico ed economico maggiormente efficace per ottenere, in primo luogo, il contenimento e la difesa dall’Unione Sovietica e, in secondo luogo, per scongiurare eventuali rischi derivanti da una futura nuova Germania rafforzata, ma isolata e potenzialmente orientata verso Mosca. Tuttavia mancava ancora il supporto diplomatico degli esperti del dicastero degli Esteri.

Nell’ottobre del 1948 il ministro Sforza incaricò la Direzione generale affari politici di redigere un’ampia relazione per il governo, incentrata sulla posizione da assumere di fronte alla nuova Germania che più rispondesse agli interessi geopolitici del paese. Il documento sottoposto a De Gasperi tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre229 conteneva una dettagliata analisi a favore di una nuova unità politica tedesca-occidentale.

De Gasperi

In primo luogo la relazione esaminava la politica europea degli Stati Uniti. Lo scopo dell’appoggio americano alla creazione della Germania Ovest era individuato nella volontà di risollevare l’economia dell’Europa occidentale attraverso il potenziale industriale tedesco, impedendo così la diffusione dell’ideologia comunista:

«[la politica americana vuole] giungere al più presto all’autosufficienza della Germania Occidentale (attraverso la realizzazione di una economia equilibrata basata su un nuovo livello industriale e su una ripresa degli scambi con l’estero) che faccia della Germania un elemento di stabilità economia europea. E questo non solo perché gli americani sono in fondo convinti che la risurrezione economica della Germania occidentale non potrà non conferire alla rinata economia tedesca una forza di attrazione sul corpo separato della Germania orientale, ma anche perché essi ritengono che il Piano Marshall sarebbe per loro troppo oneroso o addirittura irrealizzabile senza la ricostruzione della Germania.

La loro politica è pertanto quella di “potenziare” la Germania, non tanto ai fini dell’accerchiamento della URSS, come i russi pretendono, quanto al fine d’impedire la comunistizzazione dell’Europa rimettendo in piedi, ad un tempo, Germania ed Europa Occidentale».

La politica tedesca degli Stati Uniti, proseguiva la relazione, non rappresentava un pericolo per il ruolo e la posizione dell’Italia nel sistema dei paesi europeo-occidentali: gli interessi del paese non erano lesi da una rinascita della Germania. Infatti, l’esistenza di un’entità politico-economica tedesca al centro dell’Europa comportava, secondo la Direzione affari politici, il soddisfacimento della tradizionale visione del «concerto europeo». Tale concetto postulava un sistema di relazioni nel quale i rapporti di forza tra le potenze del continente europeo-occidentale si bilanciavano a vicenda.

La costruzione e la salvaguardia di un’Europa non soggetta all’egemonia di un solo paese costituiva una condizione di fondamentale importanza per l’Italia:

«Quale è l’atteggiamento dell’Italia? In linea generale si può affermare che siamo vitalmente interessati al “concerto” (per usare una parola che suona, purtroppo, anacronistica) delle grandi e secolari unità europee. E la Germania è innegabilmente elemento integrante e essenziale di questo concerto. L’Italia, come l’Inghilterra, vive dei sistemi equilibrati e pacifici in Europa, perisce altrimenti. La storia, anche la più recente, c’insegna che non appena l’equilibrio europeo venga rotto l’Italia comincia col perdere ogni margine di libertà e di iniziativa diplomatica e finisce col cadere vittima predestinata della potenza egemonica continentale qualunque essa sia».

L’equilibrio fra le diverse potenze dell’Europa occidentale avrebbe consentito all’Italia di svolgere più agevolmente un’azione politica e diplomatica di conciliazione fra le potenze. Dopo l’istituzione della Repubblica federale, infatti, l’idea di una mediazione dell’Italia tra Francia e Germania fu uno degli obiettivi individuati da Sforza e De Gasperi nell’azione di politica estera europea.

Da un punto di vista geopolitico l’Italia, suggeriva la relazione, avrebbe dovuto evitare di confinare direttamente con la Germania. Per tale motivo il futuro Trattato di pace austriaco doveva sancire il divieto di un nuovo Anschluss tra l’Austria e la Germania e garantire la solidità del paese:

«Quello che a noi preme è di non confinare con la Germania il che importa di cercare di ottenere che non solo venga sancito il divieto dell’Anschluss ma anche, e soprattutto, che l’Austria esca dal Trattato di pace viva e vitale e che non si pensi quindi a fusioni […]».

L’inizio della guerra fredda conferiva ad uno stato tedesco, non sottoposto alla diretta influenza sovietica, una valenza di tipo strategico-militare. Una Germania Ovest alleata ai paesi dell’Europa occidentale assicurava maggiori garanzie di difesa in caso di attacco russo. Inoltre, nel contesto internazionale, caratterizzato dalle tensioni tra le due superpotenze, il nuovo stato tedesco avrebbe colmato un enorme vuoto politico al centro dell’Europa, allontanando le più forti tensioni geopolitiche dall’Italia, attriti che i politici e i diplomatici contemporanei definirono «pressione slava» – sovietica – e americana:

«E’ innegabile l’interesse per l’Italia che questo vuoto venga colmato anche perché la fine di questo “vuoto” diminuirà progressivamente la “pressione” americana […] siamo quindi interessati ad un risollevamento politico ed economico della Germania tale da diminuire ad un tempo pressione slava e pressione americana».

La presenza di una nuova compagine statale tedesca al centro dell’Europa avrebbe assorbito le attenzioni delle due superpotenze, lasciando maggiori spazi di manovra politico-diplomatica all’Italia e spostando i punti di frizione tra sovietici e americani dal sud al centro-nord dell’Europa.

Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949 l’approccio del governo italiano nei confronti dell’imminente stato tedesco-occidentale poteva essere considerato in linea di massima già elaborato. I punti cardine erano stati individuati e delineati. Di peculiare in tale approccio c’era la volontà di non intraprendere un atteggiamento ostile, diffidente o comunque impostato sulla cautela nei confronti del futuro governo tedesco, ma di promuovere sul piano internazionale una politica estera a favore di una piena integrazione della Germania occidentale.

La possibilità di una Germania neutrale e politicamente equidistante tra i due blocchi contrapposti non era presa in considerazione né dalla relazione degli affari Politici, né dalle riflessioni di De Gasperi, e non rientrava nemmeno tra i desideri e gli scopi della Deutschlandpolitik italiana.

Adenauer

La vittoria della coalizione guidata dalla Cdu alle prime elezioni politiche della Germania occidentale dell’agosto 1949 e l’elezione di Adenauer a primo Cancelliere della Repubblica federale nel settembre del 1949 – un partito ed un leader che condividevano con la Dc italiana e soprattutto con il Presidente del consiglio De Gasperi non pochi ideali – agevolarono il riavvicinamento politico fra l’Italia e la Repubblica federale.

La presenza al governo della Germania occidentale di Adenauer e della Cdu contribuì a consolidare questi indirizzi “filotedeschi” della politica estera italiana, ma non costituì la causa determinante degli orientamenti italiani nei confronti della Repubblica federale. Fin dal 1946-1947 ragioni economiche di lungo periodo portarono l’Italia a non appoggiare una politica punitiva nei confronti della Germania uscita dalla guerra.

Alla fine del 1948 valutazioni politiche in parte inedite, come l’emergere della guerra fredda, e in parte tradizionali, come l’interesse per la costruzione di un’Europa plurale né francese, né tedesca, orientarono il governo italiano verso una politica estera a sostegno della formazione di uno stato tedesco-occidentale.

È importante sottolineare, inoltre, che nella seconda metà degli anni Quaranta gli orientamenti dell’Italia a favore di un risollevamento politico ed economico della Germania furono rinsaldati anche dalla consapevolezza della quasi totale scomparsa dei tradizionali campi di tensione.

Infatti, la fine della guerra, l’occupazione della Germania e il progressivo sfaldamento dell’alleanza antinazista tra anglo-americani da una parte e sovietici dall’altra (che provocò la marcata divisione tra le zone occidentali della Germania e la zona d’occupazione sovietica, ed in seguito tra Europa occidentale e orientale) determinò un forte ridimensionamento degli storici interessi conflittuali italo-tedeschi in politica estera, in particolare per quanto concerne la questione austriaca, l’influenza politica nei Balcani, il problema dell’Alto Adige e la concorrenza per la penetrazione commerciale nell’area danubiana.

Adenauer

Conflitti di interesse, questi, che erano stati alla base della «difficile alleanza» tra l’Italia e la Germania nel corso degli anni Trenta e che in parte sarebbero riemersi dopo gli anni Cinquanta.

Nel caso dell’Italia ad un rilevante interesse economico e commerciale, emerso fin dall’immediato dopoguerra e riscontrabile in diverse fonti, per la presenza in Europa di un’unità economica tedesca si aggiunse tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, nel clima internazionale segnato dalla guerra fredda, un interesse politico per la costituzione di uno stato della Germania occidentale non sottoposto alla diretta influenza dell’Unione Sovietica.

In una prima fase, tra il 1945 e il 1947, i forti legami economici esistenti fra i due paesi avevano indirizzato il governo italiano verso un atteggiamento incline al non isolamento della Germania dal sistema degli scambi nel quale rientrava l’Italia: quello dell’Europa occidentale. Successivamente, nel corso del 1948, dopo l’esito delle elezioni politiche, quegli orientamenti furono rinsaldati da analisi geopolitiche dettate dal contesto internazionale segnato dalla guerra fredda.

La linea del governo italiano sullo stato tedesco-occidentale fu, infine, consolidata politicamente dall’europeismo e dalla visione ideale di una nuova Europa che soprattutto il Presidente del consiglio andava maturando. La posizione di De Gasperi, condivisa anche da Sforza, che prevedeva il pieno appoggio del governo italiano all’inclusione e alla partecipazione della Germania occidentale ai progetti di cooperazione europea, svolse un ruolo non secondario nell’impostazione effettiva dei rapporti bilaterali.

In primo luogo contribuì, insieme agli interessi economici, a rendere ininfluenti i punti di vista sul «problema germanico» radicalmente opposti manifestati dai rappresentanti italiani in Germania. In secondo luogo, la linea di De Gasperi e Sforza sulla Repubblica federale risultò determinante per attribuire un ruolo di primo piano, nell’ambito della politica estera europea, alla ripresa delle relazioni politiche bilaterali italo-tedesche, considerate dalla diplomazia e soprattutto dalla Direzione affari politici in linea di massima secondarie e subordinate ai rapporti italo-francesi.

Delineare le ragioni e gli intrecci tra questi tre fattori – gli interessi economici e commerciali, le analisi di natura geopolitica e la posizione di De Gasperi e Sforza – risulta fondamentale per comprendere il processo di formazione della politica estera italiana sul «problema germanico».

La storiografia italiana ha in genere ricostruito e sottolineato soprattutto il ruolo svolto dall’europeismo di De Gasperi per spiegare la politica estera dell’Italia verso la Germania occidentale tra il 1948 e il 1953. Le convergenze politiche e culturali tra De Gasperi e Adenauer spiegano molto sul processo di riavvicinamento bilaterale, ma non esauriscono il senso della politica estera italiana nei confronti della Repubblica federale. Molto probabilmente, infatti, in assenza di rilevanti interessi economici e commerciali il governo italiano sarebbe stato meno deciso nel respingere i radicati atteggiamenti antitedeschi largamente diffusi tra i rappresentanti diplomatici italiani.

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