ITALIA, DOPOGUERRA E RICOSTRUZIONE – 4

a cura di Cornelio Galas

Perché, dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Italia non ha potuto chiedere alla Germania “risarcimenti di guerra”? Perché tanti processi ai responsabili degli eccidi nazisti in Italia sono finiti prima di cominciare? Nella tesi di laurea di Filippo Triola le risposte a questi ed altri interrogativi.

Filippo Triola

POLITICA ESTERA DELL’ITALIA DOPO LA FINE DELLA GUERRA

I primi governi italiani post fascisti iniziarono ad interessarsi al problema di una futura Germania postbellica poco dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944). Fino alla fine della guerra Palazzo Chigi tentò più volte di convincere gli alleati di includere l’Italia fra le nazioni ammesse a partecipare alle discussioni sull’assetto futuro del territorio tedesco.

La documentazione esistente consente di affermare con relativa certezza che la prima iniziativa in tal senso fu messa in atto il 12 settembre 1944, quando il sottosegretario agli Esteri Giovanni Visconti Venosta indirizzò una nota agli ambasciatori di Gran Bretagna e Stati Uniti nella quale si chiedeva l’ammissione dell’Italia ad eventuali negoziati per l’armistizio tedesco.

Pochi giorni dopo, il 30 settembre, la richiesta fu reiterata direttamente dal presidente del Consiglio Bonomi all’ammiraglio Stone, capo della Commissione Alleata di Controllo. Il 12 maggio 1945, in seguito alla resa incondizionata della Germania, il segretario Generale del ministero degli Esteri Prunas inviò una nuova nota agli alleati. Per perorare la causa dell’Italia di fronte ai rappresentanti anglo-americani, la diplomazia italiana cercò spesso di sopravvalutare il ruolo svolto dalla cobelligeranza militare dopo il 13 ottobre 1943 e di enfatizzare il «contributo di sangue» versato dai «patrioti» (i partigiani).

È interessante notare la tendenza della diplomazia italiana nel descrivere il fenomeno della lotta e della resistenza dei partigiani unicamente come simbolo di sacrificio della popolazione, mentre le operazioni di supporto agli eserciti alleati compiute dal Regio esercito erano ricostruite e interpretate come azioni cruciali per il successo degli angloamericani nella campagna d’Italia.

Nell’estate del 1945 le autorità alleate concessero all’Italia la redazione di un elenco dei beni appartenenti allo stato italiano in Germania e in Austria allo scopo di assicurarne la protezione durante i primi mesi di occupazione. Tuttavia la sostanza delle richieste italiane fu sempre ignorata dalla coalizione alleata e spesso la storiografia vi ha scorto, non senza fondamento, degli sterili tentativi di riacquisire un nuovo status di potenza se non pari a quello dei quattro grandi per lo meno adeguato a quello di una media potenza.

Nell’ottica della diplomazia italiana si trattava di manovre volte a superare, in caso di successo, gli angusti limiti di azione internazionale dell’Italia derivanti dall’armistizio. In una più lunga prospettiva l’ammissione al tavolo dei grandi poteva assicurare un trattamento meno severo in occasione dell’elaborazione del trattato di pace.

Il punto di svolta può essere identificato dopo la conferenza di Potsdam, quando nel governo italiano il tema “Germania” iniziò a suscitare serie preoccupazioni di ordine economico che nei mesi successivi assunsero un peso sempre maggiore nella stesura dei memorandum inviati agli alleati. Non erano solo questioni di prestigio a spingere i dirigenti italiani a chiedere di non essere completamente esclusi dalle discussioni sui progetti relativi alla futura sistemazione della Germania.

Come la storiografia non ha mancato di dimostrare, le aspirazioni del governo italiano di far parte del gruppo delle nazioni autorizzate all’elaborazione di un eventuale trattato di pace della Germania contenevano una buona dose di rivalsa, di desiderio di un riconoscimento internazionale della diversità etica e storica dell’Italia rispetto alla Germania e alle responsabilità della guerra. Tuttavia illuminando solo tale aspetto delle richieste italiane, la storiografia ha lasciato nell’ombra una serie di questioni stringenti che coinvolgevano immediati interessi di natura economica.

Pochi mesi dopo le decisioni di Potsdam la Direzione generale affari economici del ministero degli Esteri diretta da Angelo Di Nola, in quei mesi stretto collaboratore di De Gasperi, intraprese uno studio dettagliato sulle conseguenze per l’Italia derivanti dalla divisione della Germania in quattro diverse zone di occupazione. L’indagine intendeva anche fornire al governo italiano una serie di informazioni indispensabili per orientare il complessivo atteggiamento della politica estera del paese nei confronti dell’intricata situazione tedesca.

La relazione fu completata nella seconda metà del 1946. Purtroppo l’unica copia conservata risulta senza data, ma la presenza di alcuni riferimenti ad altre circostanze ben documentabili e databili consentono di ipotizzare lo spazio di tempo compreso tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 1946 come il periodo in cui la relazione fu terminata e diffusa. È importante esaminare estesamente questo documento poiché esso ebbe un ruolo fondamentale nel processo decisionale del governo italiano sulla questione tedesca.

Il documento elaborato dalla Direzione generale affari economici contribuì in modo sostanziale a porre le basi dell’azione politica italiana nei confronti della Germania nel periodo compreso tra la fine del 1946 e l’introduzione della riforma monetaria nelle tre zone d’occupazione occidentali, avvenuta il 18 giugno del 1948. A partire dall’autunno del 1948 l’imminenza della costituzione di uno stato tedesco occidentale e l’inizio della ripresa degli scambi commerciali richiese un aggiornamento dell’indirizzo politico italiano in materia.

La relazione introduceva in primo luogo una considerazione di carattere generale circa la fondamentale importanza storicamente ricoperta dal mercato tedesco per l’economia italiana:

«[…] il mercato germanico (intendendo la Germania nei suoi confini precedenti il 1938) ha anzi sempre costituito il mercato principale per il commercio estero italiano».

Il profilo dell’interscambio tra i due paesi registrava fin dagli anni Venti una bilancia commerciale tendenzialmente in passivo per l’Italia. Tuttavia la bilancia dei pagamenti era ampiamente compensata dall’afflusso in Italia di turisti tedeschi e dalle rimesse dei lavoratori stagionali italiani in Germania.

Materie prime fondamentali (carbone e coke), beni strumentali (macchinari) e articoli industriali semifiniti come ghisa e lavorati d’acciaio rappresentavano i principali prodotti importati dalla Germania120. Le merci esportate dall’Italia riguardavano prevalentemente i settori dell’agroalimentare, del tessile e dei beni di lusso. In particolare, come riportato dalla relazione, il mercato tedesco era l’unico capace di assorbire la maggior parte dei prodotti ortofrutticoli italiani al punto che l’economia di alcune importanti regioni risultava fortemente condizionata dalla capacità di acquisto dell’economia tedesca:

«[…] il mercato germanico è veramente essenziale in quanto esso assorbe la percentuale di gran lunga maggiore della nostra esportazione ortofrutticola, dal cui fiorire dipende, come è noto, buona parte dell’economia agricola, quindi dell’economia generale italiana. […] in pratica, l’intera economia di determinate regioni italiane, quali la Sicilia, la Calabria, la Campania, la Romagna, e l’Alto Adige, dipende in modo tutt’altro che trascurabile dallo sviluppo delle loro esportazioni ortofrutticole e vinicole verso la Germania» .

È importante sottolineare l’equazione tra economia agricola ed economia generale italiana contenuta nel passo appena citato poiché nella seconda metà degli anni Quaranta, come è noto, l’agricoltura rappresentava il settore lavorativo con la percentuale più alta di popolazione attiva impiegata: oltre il 40% a fronte di un 29% di addetti all’industria.

Le preoccupazioni della Direzione generale affari economici sulla momentanea scomparsa dell’economia tedesca si intrecciavano con problemi di politica interna italiana: un contributo significativo alla ripresa dell’economia italiana passava anche attraverso la ripresa delle esportazioni verso la Germania.

Inoltre, proseguiva la relazione, gli altri paesi europei erano in grado di fornire quantitativi esigui di carbone rispetto al fabbisogno italiano e l’ipotesi di sostituire il mercato tedesco, deviando le esportazioni tradizionalmente dirette in Germania verso altri mercati (come gli Stati Uniti), non era ritenuta praticabile se non in quantitativi modesti:

«[…] occorre, inoltre, tenere presente che è comunque estremamente difficile sostituire altri mercati a quello germanico e ciò sia all’importazione sia alla esportazione. Basta, infatti, considerare la situazione deficitaria della produzione mondiale del carbone dovuta a cause che per lungo tempo non potranno essere eliminate, per rilevare che non è possibile pensare di sostituire a lungo le forniture germaniche di carbone all’Italia che ci possono affluire, con relativa facilità, sia lungo il Reno e poi da Rotterdam, per via mare, sia risalendo il Reno fino a Basilea e poi per via terra; d’altra parte è evidente non si può divergere completamente, o anche soltanto in misura notevole verso altri mercati talune nostre esportazioni verso la Germania e in primo luogo quella ortofrutticola […]».

La ripresa delle relazioni economiche italo-tedesche era quindi considerata di primaria importanza non solo per l’Italia, ma anche per il più generale equilibrio economico europeo:

«[…] lo sviluppo delle importazioni di carbone tedesco è per l’Italia assolutamente vitale nonché di estrema importanza per la pace economica e sociale della intiera Europa. […] E’ comunque assolutamente necessario nell’interesse italiano, e anche in quello dell’economia europea, che gli scambi fra l’Italia e la Germania possano riprendere al più presto possibile e nella misura più larga».

A questo punto la relazione indicava tre condizioni indispensabili per la ripresa degli scambi e contemporaneamente suggeriva al governo determinati indirizzi di politica estera da adottare nei confronti della questione tedesca. In primo luogo l’Italia doveva puntare ad un’effettiva ricostituzione dell’unità economica tedesca, poiché la divisione in quattro differenti zone di occupazione aveva creato altrettante entità fra loro scollegate, rendendo impraticabile ogni possibilità di interscambio.

Dopo la conferenza di Potsdam, infatti, nelle tre zone di occupazione occidentali della Germania gli anglo-franco-americani imposero l’interruzione degli scambi commerciali tra le diverse zone d’occupazione e tra queste e gli stati europei vicini, dividendo in tal modo economie storicamente dipendenti.

In secondo luogo bisognava evitare la formazione di regimi di monopolio economico da parte delle potenze occupanti. Quest’ultimo punto rappresentava per la Direzione generale affari economici un elemento essenziale e si univa ad un’indicazione di carattere perentorio sull’opportunità di sostenere l’istituzione in Germania di un sistema di produzione non dissimile da quello in vigore nei paesi dell’Europa occidentale:

«E’ evidente che il semplice ripristino dell’unità economica tedesca non sarebbe sufficiente […] è necessario pertanto che la Germania abbia una configurazione politico – giuridico – economica tale da consentire a tutti di trafficare con lei liberamente […]».

E’ plausibile ritenere che la Direzione affari economici, nella formulazione di quest’ultima indicazione, fosse influenzata da una serie di circostanze tra loro intrecciate: l’isolamento internazionale imposto dagli alleati occidentali alla vita economico-politica delle rispettive zone di occupazione, i contemporanei avvenimenti in Europa Orientale (dove l’Unione Sovietica per imporre la propria egemonia sosteneva attivamente i partiti comunisti locali) e il discorso pronunciato da Churchill nel marzo del 1946 a Fulton sulla “cortina di ferro”.

Nell’ottica del ministero degli Esteri, infatti, le prime direttive anglo-americane erano contrarie agli interessi dell’Italia, ma era soprattutto l’ipotesi di un’eventuale affermazione dell’influenza sovietica sulla Germania ad essere considerata ancor più negativamente rispetto alla divisione sancita a Postdam.

In ultima analisi era la possibilità di un’applicazione del modello sovietico a suggerire l’istituzione di “una configurazione politica, giuridica ed economica tale da consentire a tutti di trafficare con lei liberamente”.

Il terzo obiettivo suggerito dalla relazione consisteva nella promozione di un radicale stravolgimento di alcune decisioni contenute nel Protocollo finale di Potsdam. Quest’ultimo prevedeva, infatti, drastiche riduzioni o eliminazioni di numerose fabbricazioni siderurgiche, chimiche e meccaniche spesso collegate per la realizzazione o nello scambio con industrie italiane specializzate nella produzione di semilavorati.

Integralmente attuate, le decisioni concordate a Postdam dagli alleati impedivano alla Germania di riassumere il tradizionale profilo di paese chiave nell’equilibrio economico europeo. Le potenze alleate dovevano essere sollecitate a rivedere le clausole di Potsdam e ad avviare una radicale modifica di queste ultime poiché:

«[…] le esigenze economiche fondamentali della Germania sono poi esigenze economiche di tutti i Paesi europei e in prima linea dell’Italia».

In questa fase, quindi, la politica estera italiana doveva cercare di indirizzare la propria azione diplomatica nel senso delle tre condizioni indicate dalla relazione: sostenere la revisione del programma di Potsdam, appoggiare il ripristino dell’unità economica della Germania e dichiararsi a favore dell’istituzione di un futuro regime politico ed economico compatibile con una ripresa di intense relazioni con i paesi dell’Europa occidentale.

Sotto il profilo politico il documento analizzato implicava evidenti ripercussioni nell’indirizzo della politica estera italiana nei confronti della situazione tedesca. La relazione esaminata dimostra che secondo i responsabili della Direzione generale affari economici il grado di complementarità raggiunto nel corso dei decenni dalle economie italiana e tedesca contribuiva inequivocabilmente a rendere l’Italia un paese interessato ad assumere un atteggiamento contrario allo spirito degli accordi Potsdam.

In questo campo, il governo italiano doveva essere orientato nel breve periodo ad una completa revisione degli obiettivi punitivi allora ancora prevalenti presso le potenze alleate. Tra il 1946 e il 1947 la consapevolezza del ruolo svolto storicamente dal territorio tedesco quale mercato “insostituibile” e spazio economico centrale (al contempo funzionale per la ripresa produttiva di alcuni settori dell’economia italiana, soprattutto quello dell’industria tessile e di quello agroalimentare) assunse una posizione determinante all’interno del processo di elaborazione e definizione dell’atteggiamento italiano nei confronti della Germania.

Le analisi contenute nella relazione della Direzione affari economici contribuirono alla formulazione di un primo indirizzo politico italiano sulla Germania, ancora non completamente definito in tutte le sue parti ma già basato su un punto che in seguito sarebbe stato ancor più approfondito dalla politica estera dei governi De Gasperi: il reintegro della struttura economica tedesca nel sistema dei paesi dell’Europa occidentale.

Gli argomenti a favore di un allentamento del regime di occupazione uscito da Potsdam acquisirono un peso rilevante in questa prima fase di elaborazione della posizione dell’Italia sulla Germania. Una posizione che per il momento non prendeva in considerazione l’ipotesi di una ripresa di autonomia politica per la Germania, né l’auspicava.

Nel governo italiano iniziavano a prendere forma delle linee di politica estera sul futuro della Germania molto distanti da quelle francesi, notoriamente dure, e abbastanza diverse anche da quelle inglesi, moderatamente punitive. Le relazioni provenienti dall’ambasciata italiana a Mosca illustravano una percezione russa consapevole del ruolo chiave della Germania per il futuro dell’intera Europa.

Tuttavia per la diplomazia italiana sembrava altrettanto chiaro che una soluzione del problema tedesco attraverso la piena realizzazione delle tesi sovietiche poteva solo peggiorare ulteriormente gli interessi dell’Italia. I rapporti di Tarchiani provenienti da Washington alla metà del 1946 facevano sperare il governo italiano nella probabile adozione da parte degli Stati Uniti di progetti di riforma per le zone di occupazione americana ed inglese potenzialmente convergenti con l’orientamento dell’Italia; tuttavia, prima del dicembre 1946 Palazzo Chigi non fu pienamente consapevole delle intenzioni degli angloamericani di istituire un’unione economica fra le loro zone di occupazione.

Fino alla firma del Trattato di pace l’Italia non ebbe ampi margini di manovra in politica estera e soprattutto non ebbe alcuna possibilità di intraprendere una propria azione diplomatica all’interno del territorio tedesco con il quale a partire dal 13 ottobre 1943 aveva perso ogni contatto nonché tutte le sedi di rappresentanza. Le potenze alleate vincitrici del conflitto, nonostante alcuni riconoscimenti concessi al governo italiano, considerarono sempre l’Italia, in occasione delle conferenze e dei vertici più importanti di questi primi anni, una nazione sconfitta che non poteva assolutamente essere posta allo stesso livello degli stati vincitori.

Le indicazioni contenute nella relazione della Direzione generale affari economici furono subito recepite dal governo italiano e il 2 dicembre 1946 alcune di esse furono sottoposte alle potenze alleate attraverso un memorandum. In quell’occasione, l’Italia ri-presentava il proprio punto di vista in merito alla questione tedesca e affermava:

«Importanza particolare ha l’aspetto economico del problema tedesco. E’ chiaro che la Germania continuerà ad essere un grave elemento di confusione e turbamento in Europa fino a quando non verrà assicurato al popolo tedesco un minimo di sicurezza economica e sociale. Il Governo Italiano, per parte sua, si dichiara in favore dell’unità economica della Germania e ciò sia per ragioni di carattere generale europeo, oltre che per ragioni di carattere particolare italiano».

Il governo italiano approvava e sosteneva i provvedimenti delle potenze alleate per stroncare quelle forze tedesche responsabili di “aver gettato il mondo nel baratro” ma aggiungeva:

«[…] nello stesso tempo, il popolo germanico non può essere messo fuori della comunità europea; esso deve essere guadagnato alla democrazia e allo spirito di collaborazione internazionale».

Per realizzare nel più breve tempo possibile quest’ultimo obiettivo l’Italia auspicava:

«[…] che il popolo germanico, attraverso i suoi rappresentanti qualificati, partecipi alla soluzione di così fondamentale problema».

Nel gennaio del 1947 un ennesimo promemoria contenente il punto di vista italiano sulla Germania venne consegnato da De Gasperi al Dipartimento di Stato in occasione della sua visita negli Stati Uniti. Il testo di quest’ultimo promemoria non risulta rintracciabile tra le carte d’archivio, ma è ragionevole ritenere che esso sia stato elaborato sulla base della relazione della Direzione generale affari economici.

De Gasperi

Infatti, al momento della partenza di De Gasperi per gli Stati Uniti, il 4 gennaio 1947, lo studio redatto e diffuso dalla Direzione affari economici rappresentava il documento più completo e dettagliato sulla posizione dell’Italia nei confronti della Germania a disposizione del governo. Il 16 dicembre del 1946, poco prima del viaggio di De Gasperi, il governo italiano era riuscito a far riaprire la Camera di commercio italo-tedesca di Milano, guidata da un segretario tedesco.

Con la paralisi del commercio estero della Germania in seguito all’occupazione, la riapertura della camera di commercio, dopo meno di venti mesi dalla fine della guerra, rappresentava chiaramente il segnale della volontà italiana di riprendere i tradizionali contatti economico-commerciali.

Tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947, le opinioni esposte dall’Italia nei vari memorandum rappresentavano un esempio isolato fra i paesi dell’Europa occidentale. A quella data, inoltre, la sostanza del trattato di pace dell’Italia era stata già decisa dagli alleati, risulta pertanto semplicistico scorgere in quelle affermazioni solamente una prova di tatticismo diplomatico fuori tempo massimo.

De Gasperi

Il governo italiano non auspicava misure molto severe per la Germania esclusivamente con lo scopo di ottenere in realtà quanto desiderava per sé: un trattato di pace meno oneroso o una immediata revisione dello stesso. Intenti sicuramente presenti, ma che si svilupparono attraverso altre specifiche iniziative diplomatiche: soprattutto con le continue richieste di colloqui con i delegati americani e francesi, che nell’ottica del governo italiano rappresentavano i paesi meno interessati ad un severo trattamento dell’Italia.

Interpretare tutti i comunicati e le iniziative diplomatiche dell’Italia sulla situazione tedesca tra il 1946 e il 1947 unicamente come parte di quella strategia significa subordinare tutta la complessità di interessi della politica estera italiana dei primi anni del dopoguerra ad un solo obiettivo. Le posizioni italiane sulla questione tedesca erano inoltre molto distanti da quelle dei primi governi francesi postbellici, e rischiavano di creare più attriti che consensi tra i due paesi.

Diversi documenti testimoniano la reale preoccupazione del governo italiano per una soluzione del problema tedesco nel senso auspicato dalla relazione della Direzione generale affari economici. In un appunto interno della primavera del 1947, successivo alla firma del Trattato di pace avvenuta il 10 febbraio, Vittorio Zoppi, direttore della Direzione generale affari politici del dicastero degli Esteri, ricapitolava al ministro Sforza quali fossero le reali motivazioni dell’interesse italiano nella soluzione della questione tedesca.

L’arrivo di Vittorio Zoppi, nuovo ambasciatore a Londra

La classificazione del documento, un appunto «riservato» destinato alla sola circolazione interna al ministero, permette di leggere un testo privo di formule retoriche che spesso nei memorandum ufficiali inviati agli alleati finivano per sovrapporsi e coprire gli effettivi interessi italiani, destando non poca confusione presso i rappresentanti angloamericani. Zoppi illustrava a Sforza senza preamboli quale era il perno effettivo alla base dell’interessamento italiano intorno ai problemi tedeschi:

«Non sono ragioni di prestigio, ma ragioni di interesse in quanto gran parte delle nostre esportazioni-importazioni si svolgeva prima della guerra con la Germania e l’assicurare la ripresa di tale movimento di prodotti è necessità essenziale per l’equilibrio della nostra bilancia dei pagamenti. Si pensi soltanto alla questione del carbone, così indispensabile per assicurare il lavoro delle nostre industrie e per assorbire la nostra disoccupazione. La Germania è il solo Paese nel quale potevamo acquistare notevoli quantità di carbone senza sborsare valuta, in quanto lo pagavamo coi prodotti tipici italiani. Lo stesso può dirsi per gli acciai. […] Gli interessi italiani economici – e anche quelli politici – connessi col problema germanico sono assai più importanti di quelli di altri Paesi europei, o non europei […]».

Tutte le iniziative italiane collegate ad una eventuale partecipazione al trattato di pace con la Germania fallirono. Nel corso del 1947 queste proposte andarono scemando parallelamente alle difficoltà incontrate dagli alleati nel raggiungimento all’unanimità di un accordo sulla sistemazione tedesca attraverso la stipulazione di un trattato di pace, che, come è noto, non trovò mai la luce.

E’ probabile tuttavia che i reiterati sforzi di essere ammessi ai negoziati sul trattato di pace della Germania raggiunsero in parte l’obiettivo di introdurre nell’agenda di politica estera degli alleati, in modo ancora approssimativo e non troppo articolato, il tema relativo all’importanza del mercato tedesco per la ripresa dei traffici commerciali italiani. Infatti, come si vedrà più avanti, già a partire dal 1947 gli angloamericani evitarono quasi sempre di intralciare la ripresa delle relazioni commerciali tra l’Italia e le zone d’occupazione occidentali della Germania.

Intorno alla fine del 1946 l’Italia aveva quindi già iniziato ad elaborare una propria concezione sui principali aspetti relativi al futuro dei territori tedeschi. A partire dal 1947 tale indirizzo politico sulla Germania cominciò a risultare tendenzialmente convergente con quello degli Stati Uniti, consentendo al governo italiano di accogliere con favore l’introduzione di significative riforme come l’istituzione della Bizona (a differenza invece della Francia che subì controvoglia il progetto, escludendo la propria zona di occupazione dalla nuova grande area, e diversamente anche dalla Gran Bretagna, ideatrice della riforma insieme agli Stati Uniti ma a differenza di questi ultimi spinta soprattutto dall’impossibilità di sostenere l’onere economico-finanziario derivante dalla gestione della propria zona di occupazione).

Il progetto stesso della Bizona era in prospettiva indubbiamente in linea con i punti contenuti nella relazione della Direzione generale affari economici dell’autunno del 1946. La formazione della Bizona comportava, infatti, il ripristino di una più grande unità economica tedesca, la possibilità per l’amministrazione della nuova area di intrattenere relazioni commerciali con i paesi esteri, e la graduale restituzione ai tedeschi di determinati poteri politici ed economici.

LE PRIME MISSIONI ITALIANE IN GERMANIA: 1945-1946

Fin dall’inizio del 1945 il governo italiano cercò di reperire una serie di informazioni sulla situazione esistente in Germania grazie alla stesura di questionari realizzati dallo Stato Maggiore dell’esercito, questionari che venivano sottoposti ai primi reduci provenienti dai territori tedeschi.

Le domande contenute nei questionari spaziavano dalla «situazione economica» ai «sentimenti e comportamenti della popolazione tedesca». Le risposte raccolte erano il frutto delle osservazioni personali e dei contatti avuti di volta in volta dai singoli reduci interrogati. Nel marzo del 1945 un insegnante elementare di Aversa, reduce dalla città di Berlino (prima come Internato Militare (IMI) e poi come “libero lavoratore”), rispondeva così alla domanda sulla situazione morale dei lavoratori italiani in Germania riscontrata nel campo ove era stato internato e nelle zone dove successivamente aveva vissuto:

«Le lavoratrici italiane sono in condizioni pietose, sia per le condizioni materiali, dato che la mancanza di vestiario si fa su di esse più gravemente sentire, sia dal punto di vista morale, in seguito alla diffusa prostituzione, specie nelle fabbriche. Se una donna rimane incinta, dopo 4-5 mesi viene rimpatriata per raggiungere la famiglia. Numerosi sono i lavoratori italiani che hanno relazioni con donne tedesche. L’assistenza spirituale è consentita ai cappellani militari che celebrano la Messa nei campi. Per speciale concessione del Papa, la comunione può essere presa senza confessione e anche dopo aver mangiato. […]

Nei campi d’internati italiani tutti sono antifascisti, però un certo numero d’internati tende ancora a distinguere fra l’ex duce, che in passato ha avuto dei meriti di fronte alla Nazione, e tutta la classe dei fascisti disonesti e facinorosi. Generale è l’avversione per la Repubblica Sociale Italiana. Le tendenze della maggioranza sono generalmente di sinistra […] aumentano le simpatie verso i Russi, anche perché i prigionieri russi che si trovano a Berlino dimostrano agl’italiani molta cordialità. Aspre sono le critiche contro la Monarchia e Badoglio, al quale se spesso è riconosciuto il merito di aver concluso l’armistizio, viene attribuita la colpa di averlo realizzato molto male […]».

Un altro reduce, questa volta un ufficiale, prigioniero fino al marzo del 1945 a Brema e poi sbandato nella Germania nord occidentale fino all’ottobre del 1945 (periodo del rientro in Italia) replicava così alla domanda sugli orientamenti prevalenti tra la popolazione tedesca:

«I tedeschi hanno, in genere, la speranza che la Germania possa riprendersi politicamente ed economicamente, in occasione della guerra, che ritengono prossima, fra nazioni occidentali e Russia. Il nazismo viene da tutti apparentemente ripudiato, ma l’ideologia resta e non è raro di persone che, parlando confidenzialmente, se ne auspicano il ritorno sotto l’una o l’altra forma. Funzionari nazisti sono tuttora in carica in pubblici impieghi senza che alcuno se ne mostri sorpreso.

Nella Germania nord-occidentale si ha l’impressione che tutti i tedeschi obbediscano ad una parola d’ordine: accedere a tutte le richieste alleate per ottenere quanto più è possibile ed attendere il momento propizio per fare le rivendicazioni nazionali. “Produrre” è il desiderio generale e poiché l’industria e il commercio non danno più da vivere per tutti, professionisti, operai e mercanti si sono affiancati agli agricoltori nel lavoro della terra».

In generale la situazione degli italiani in Germania era seguita con particolare attenzione dal governo italiano, poiché essa era utilizzata dalla diplomazia italiana come argomento di pressione nei confronti degli alleati, affinché questi concedessero all’Italia di inviare un funzionario stabile ed istituire, così, una rappresentanza diplomatica ufficiale.

Durante i primi mesi del dopoguerra il ministro degli Esteri De Gasperi cercò invano di ottenere l’istituzione di una missione italiana presso il Consiglio di controllo alleato in Germania con l’obiettivo di porre fine al vuoto diplomatico iniziato il 13 ottobre 1943 con la dichiarazione di guerra del Regno del Sud alla Germania e la relativa perdita di tutte le sedi di rappresentanza dell’Italia in territorio tedesco, successivamente occupate dal governo di Salò.

La riapertura di una missione diplomatica era inoltre considerata indispensabile per poter far valere e riprendere attivamente gli interessi italiani in Germania. Tuttavia, prima del 1947 la presenza italiana in Germania fu caratterizzata dall’invio di missioni temporanee con obiettivi delimitati.

La prima di tali missioni fu denominata “Missione Militare italiana in Germania”, istituita nella primavera del 1945 dopo la resa della Germania nazionalsocialista e l’occupazione di tutto il territorio tedesco da parte delle potenze alleate. Fu il “Comando Supremo Militare Alleato” a richiedere al ministero della Guerra italiano (all’epoca non ancora rinominato della Difesa) che gli fossero messi a disposizione un certo numero di ufficiali per collaborare al rimpatrio in Italia dei prigionieri di guerra, degli internati civili e dei lavoratori italiani che si trovavano in territorio tedesco.

Gli ufficiali italiani che arrivarono in Germania furono circa 40 e, dopo un mese di sosta presso il Quartier Generale angloamericano in Francia, furono trasferiti verso i Comandi militari in Germania di Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. L’Unione Sovietica non richiese mai ufficiali italiani per la propria zona d’occupazione, pertanto la missione rimpatri riuscì ad operare solamente nelle zone d’occupazione degli alleati occidentali.

In teoria i diversi ufficiali italiani avrebbero dovuto essere indipendenti gli uni dagli altri e posti agli ordini diretti dei rispettivi comandanti alleati. Tuttavia, dopo un po’ l’ufficiale italiano più anziano, il colonnello Rinaldo Fiore Vernazza, assunse la direzione della “Missione Militare italiana per i rimpatri”.

In meno di un anno con mezzi forniti dall’esercito degli Stati Uniti e con l’ausilio della Croce Rossa italiana furono rimpatriati, secondo le fonti del ministero degli affari Esteri, circa 600.000 italiani. I dati della missione rimpatri inviata in Germania indicavano circa 30.000 italiani morti, 40.000 dispersi e 10.000 che decisero di rimanere.

Non esistevano solo soldati da rimpatriare. Tra il 1945 e il 1947 molti italiani che si trovavano in Germania, e non pochi tedeschi in Italia in attesa di essere trasferiti in Germania, espressero la volontà di non voler ritornare nel paese d’origine. L’esistenza di questo aspetto molto complesso è stata ben sottolineata da Dipper in un saggio incentrato su italiani e tedeschi nel secondo dopoguerra. Si tratta di un microcosmo di esperienze e di condizioni che le fonti diplomatiche solo raramente riescono a restituire.

13 maggio 1945 – zona di Bolzano – V armata. Al centro internati di Bolzano, organizzato dal Comitato di Liberazione italiano, questo italiano legge per la prima volta dopo un anno un giornale libero, mentre attende di essere riportato a casa

Vordemann ritiene che circa 40 mila italiani che si trovavano in Germania al termine della guerra manifestarono il desiderio di non voler tornare in Italia. Una realtà difficile da ricostruire per via dell’estrema varietà dei casi. Sulle diverse categorie di italiani trasferiti coattivamente in Germania ha scritto Mantelli:

«È necessario precisare che la collocazione degli ottocentomila di cui si parla all’interno delle complesse articolazioni del sistema nazionalsocialista e della sua multiforme attrezzatura concentrazionaria fu estremamente diversificata. Il gruppo più numeroso era rappresentato dagli Internati militari italiani, abbreviato in IMI […] Un secondo gruppo, di circa centomila, comprende i lavoratori portati in Germania dopo l’8 settembre 1943.

Mi pare che per definirli sia opportuno servirsi del concetto di “lavoratori coatti”. Un terzo gruppo numericamente più ridotto, di circa trentasettemila persone in tutto, è composto infine da coloro che vennero deportati dall’Italia avendo come destinazione il sistema concentrazionario nazista vero e proprio, dipendente dalla struttura SS. Di loro poco più del 10% riuscì a sopravvivere […]

È chiaro che la distinzione proposta tra IMI, lavoratori coatti rastrellati, e deportati ha in qualche misura anche un carattere idealtipico: è necessario non confondere vicende e percorsi tra loro molto diversi, ma anche tenere presente da un lato che il confine tra una categoria e l’altro poteva essere, in casi particolari, non così netto, dall’altro che vicende di vario genere potevano far sì che il lavoratore coatto o l’internato militare finisse in KL [Konzentrationslager, cioè «campo di concentramento»]».

13 maggio 1945 – zona di Bolzano – V armata. Internati italiani dell’Italia settentrionale in un posto di smistamento ed assistenza organizzato dal Comitato Italiano di Liberazione, ove troveranno cibo e modo di lavarsi e dormire

Tra gli italiani in Germania figuravano tuttavia anche altre tipologie non inquadrabili nella categoria dei trasferimenti coatti: lavoratori emigrati prima dell’inizio della guerra, operai specializzati trasferiti attraverso gli accordi intercorsi tra regime fascista e governo nazista, lavoratori stagionali, studenti, ricercatori, numerosi venditori ambulanti, spesso provenienti dal sud Italia, che sfuggivano ad ogni tipo di controllo.

Tra i tedeschi molti credevano che sarebbe stato più semplice trovare un nuovo lavoro in Italia che nelle semidistrutte città della Germania. Durante i primi anni del dopoguerra non pochi ex soldati ed ufficiali dell’esercito tedesco ricercati per crimini di guerra riuscirono a lasciare l’Europa attraverso l’Italia. In qualche caso la fuga dei criminali di guerra nazisti fu facilitata dall’appoggio di alcuni ambienti vicino al Vaticano.

Alois Hudal

Gli studi di Focardi hanno ricostruito l’attività di protezione e di assistenza che il rettore del Collegio teutonico presso la Chiesa di Santa Maria dell’Anima a Roma, Alois Hudal, svolse fino al 1948 non solo nei confronti dei profughi austriaci e tedeschi in Italia, ma anche in favore di nazisti ricercati per crimini di guerra.

Il governo italiano attraverso il ministero degli Esteri colse l’occasione dell’invio in Germania degli ufficiali per le operazioni di rimpatrio per richiedere ai propri militari dei rapporti periodici che avessero per oggetto il quadro completo delle zone tedesche occupate, riservando particolare attenzione agli aspetti economici e sociali. La richiesta era dettata dalla necessità di reperire informazioni sull’effettiva condizione dell’apparato industriale e della società tedesca al termine della guerra.

Uno dei primi notiziari è datato 25 ottobre 1945 e risulta firmato dal colonnello Attilio Bruno, che nel marzo 1946 subentrò, in qualità di ufficiale più anziano, all’ufficiale Rinaldo Fiore Vernazza rientrato in Italia.

Il rapporto del colonnello Bruno recepiva la richiesta del governo italiano ed infatti illustrava in due lunghi paragrafi quale fosse la situazione politica ed economica della Germania nella zona inglese e nella zona americana, lì dove era accreditato.

Per quanto riguardava il contesto politico il colonnello Bruno comunicava che fra il mese di agosto ed il mese di settembre 1945 prima gli Stati Uniti e poi la Gran Bretagna avevano autorizzato nelle proprie rispettive zone, sotto la stretta sorveglianza alleata e con il divieto di intrattenere relazioni politiche con l’estero, la ricostituzione dei partiti politici tedeschi, fatta eccezione per il partito nazista. Molto rigida risultava la divisione fra le diverse zone di occupazione:

«Inoltre ogni potenza occupante ha praticamente elevate delle vere e proprie barriere fra zona e zona; barriere che le difficoltà dei trasporti e la mancanza del servizio postale (solo dal I novembre [1945] incomincerà parzialmente a funzionare) accentuano sensibilmente».

La situazione complessiva dell’apparato produttivo, secondo le osservazioni del colonnello Bruno, non sembrava interamente disperata:

«[…] Le industrie sono state in gran parte ripristinate; specie la grande industria che, sia perché largamente frazionata, sia perché sistemata in locali sotterranei non ha subito quei gravi danni che si presumevano. La Farben ad esempio come la Mercedes Benz sono in piena attività. Naturalmente i prodotti delle industrie, severamente controllate dalle autorità di occupazione, non vengono immessi sul mercato se non in piccolissime quantità necessarie per la ricostruzione degli edifici, strade, ferrovie, impianti elettrici […]».

Altri notiziari erano dedicati alle modalità di esecuzione del disarmo economico, sottolineando le differenze esistenti fra alleati occidentali da una parte e Unione Sovietica dall’altra:

«Nelle zone occupate dagli anglo-franco-americani il disarmo economico della Germania è condotto con criterio sensibilmente diverso da quello adottato nella zona russa. Mentre in detta zona il disarmo economico viene attuato trasportando materialmente in Russia gli impianti industriali tedeschi e molti dei mezzi di comunicazione, nella zona anglo-franco-americana sono esclusivamente i prodotti delle industrie germaniche che vengono sottratti o limitati. Le industrie e gli impianti in genere vengono anzi notevolmente incrementati per consentire una più larga disponibilità di manufatti o di prodotti estrattivi da incamerare in conto riparazioni».

Nell’immediato dopoguerra Palazzo Chigi temette che le asportazioni dei macchinari industriali si rivelassero ingenti e che ciò potesse compromettere la futura ripresa degli scambi economici fra Italia e Germania. È importante sottolineare che tra le motivazioni alla base delle preoccupazioni italiane sulle operazioni di smontaggio compiute dagli alleati c’era anche la volontà di difendere l’integrità degli impianti industriali situati in Germania ma di proprietà italiana.

Non si trattava in questo caso dei macchinari e delle attrezzature prelevate con la forza dai tedeschi tra il 1943 e il 1945 dalle industrie dell’Italia centro-settentrionale, ma di imprenditori italiani proprietari di fabbriche che si trovavano all’interno del territorio tedesco occupato. Il numero degli industriali italiani che si rivolse al ministero degli Esteri per ottenere la protezione dei propri interessi in Germania non era quantitativamente rilevante, ma i mezzi finanziari e le conoscenze a disposizione di questi gruppi resero le richieste qualitativamente importanti e fino al 1948 la Direzione affari economici costituì un apposito ufficio incaricato di seguire i diversi casi.

I rapporti provenienti dalla missione rimpatri dimostravano la volontà degli anglo-americani di non intaccare il potenziale economico-industriale della Germania in vista di una ricostruzione politico-economica dei territori tedeschi. Questi dati relativi ai non irrimediabili danni subiti dall’industria tedesca sono stati spesso opportunamente rilevati dalla storiografia, anche perché nettamente in contrasto con altri aspetti sociali che in quei mesi catturavano l’attenzione di ogni osservatore straniero in Germania: gli enormi danni subiti dagli edifici civili.

Seguendo altri rapporti inviati in Italia si ricava che quasi tutte le città lungo il Reno erano state rase al suolo: solo alcuni centri rurali situati in zone lontane dalle vie di comunicazione erano scampati ai bombardamenti alleati. Circa il 60% di tutte le abitazioni urbane dei settori inglese ed americano erano distrutte o inabitabili, e solo il 40% lievemente danneggiate. La penuria di beni alimentari, secondo un rapporto dell’agosto 1946, destava notevoli preoccupazioni:

«La crisi dell’alimentazione si è sensibilmente aggravata. Riduzioni che variano dal 50% (zona inglese) al 25% (zona americana) sono state apportate nelle razione viveri. La popolazione sopporta però con molta disciplina la penosa situazione. […] In zona americana si potrà col prossimo raccolto portare la razione a 1.550 calorie. Questo però richiede sempre l’importazione di almeno 100.000 ton di viveri al mese.

Per l’anno prossimo è prevista una maggior messa a coltura di terreno. Il bestiame risulta notevolmente inferiore alle capacità nutritive della zona. In Baviera il raccolto ha avuto notevoli danni dalle piogge e dalla grandine. In zona britannica […] viene concesso ai minatori un supplemento viveri, così da portare le loro razioni a 2.800-3.400-4.000 calorie secondo la categoria. Nella zona francese la razione alimentare tedesca è la più bassa che altrove. E’ divenuto comune lo “slogan”: bene, ci danno vitamine, calorie, etc. ma quando ci danno da mangiare?».

Dalla zona russa trapelavano non molte notizie ma, sebbene nessun addetto italiano avesse modo di visitare la zona sovietica, risultava che era in corso una vera e propria spoliazione delle risorse. Anche da un punto di vista demografico la guerra aveva lasciato in eredità profondi squilibri. Nell’ottobre del 1946 il Consiglio di Controllo alleato ordinò un censimento della popolazione tedesca.

Si trattava della prima rilevazione statistica dalla fine della guerra e i dati ufficiali riportarono un numero complessivo di popolazione pari a 65.910.999 persone, di cui 29.313.853 uomini e 36.597.146 donne. Abbastanza evidente era il grande divario esistente tra la popolazione maschile e quella femminile, soprattutto a causa delle perdite belliche e dei prigionieri di guerra tedeschi non ancora tornati in Germania.

La seconda missione del governo italiano in Germania tra il 1945 e il 1946 fu quella composta dagli osservatori ai processi contro i criminali nazisti, che si svolsero tra il novembre del 1945 e l’ottobre del 1946 a Dachau e Norimberga. A capo della delegazione italiana vi era un diplomatico di professione, il Console generale Guglielmo Arnò. Anche in questo caso il ministero degli Esteri cercò di servirsi dei delegati italiani per reperire contatti con gli interessi italiani in Germania:

«[…] la veste di osservatore ai processi – scriveva il console Arnò – era più che altro il mezzo per prendere contatto con i nostri interessi in Germania».

Secondo il Console Arnò, il quale dopo l’8 settembre era stato rinchiuso dai tedeschi in un campo di internamento vicino Atene (dove era in servizio nel 1943) riservato a tutti i funzionari dell’Ambasciata d’Italia non disposti ad appoggiare il governo di Salò, l’autorizzazione concessa all’Italia di inviare dei propri osservatori ai processi istruiti dagli alleati contro i maggiori vertici e collaboratori del nazionalsocialismo rappresentava un importante successo internazionale:

«La partecipazione di osservatori italiani insieme a quelli degli altri Paesi europei ha mostrato infatti che anche il nostro Paese ha dato largo contributo di vittime alla causa delle Nazioni Unite e alla lotta per la libertà democratiche sicché dopo tante accuse mosse all’Italia in materia di crimini di guerra l’Italia è apparsa innanzi ai Tribunali degli alleati come parte lesa».

La missione offrì ad Arnò l’occasione per esprimere giudizi molto severi sulla “natura” del popolo tedesco e, nonostante non rientrasse tra le istruzioni ricevute dal ministero degli Esteri, egli arricchì la relazione con lunghe considerazioni sull’impossibilità di una riabilitazione morale della Germania e dei tedeschi, valutando la descrizione dei crimini nazisti come:

«[…] la prova concreta, sensibile, della crudele aridità dell’anima tedesca. […] Il contegno dei tedeschi deve essere meditato. Essi hanno voluto tutti la guerra. Al nazionalsocialismo non rimproverano di averla scatenata ma di averla perduta. Sono più che mai convinti di essere delle vittime della strapotenza americana e russa, e della mancanza di mezzi che ha impedito loro di “fabbricare” la bomba atomica prima degli americani. Contano sulle divergenze fra le cosiddette Nazioni Unite, sul fatale urto tra Oriente ed Occidente e aspettano. Aspettano la terza guerra mondiale. L’aspettano tutti insieme tutti uniti senza vane recriminazioni senza odi settari senza inutili contrasti di partiti evitando bene di far sorridere i vincitori battendosi il petto».

E’ probabile che la collaborazione dello stesso Arnò con i rappresentanti tedeschi nel corso della prima fase della guerra avesse consentito al console italiano di intuire i crimini imputati ai vertici del nazionalsocialismo molto tempo prima della fine della guerra. Tuttavia l’attribuire una certa dose di qualità morali negative al popolo tedesco nel suo complesso fu in quei primi mesi del dopoguerra – ma anche oltre – un atteggiamento abbastanza diffuso tra i diplomatici italiani inviati in Germania.

E’ interessante notare, infine, come la più o meno frequente presenza di questi “giudizi” sul popolo tedesco non si accompagnava a nessun interesse da parte dei funzionari italiani per la politica di denazificazione. La riflessione del console Arnò costituisce una rara testimonianza di valutazione – non limitata al breve giudizio tranchant – sul senso dell’esperienza della guerra e della responsabilità nazista scritta da un diplomatico italiano in missione in Germania e rintracciabile tra le carte dell’archivio storico del ministero degli Esteri.

Gli eventi legati alla passata alleanza nell’Asse, ma soprattutto gli sviluppi e i mutamenti del periodo 1943-1945, con l’annuncio dell’armistizio, l’avvio della cobelligeranza, l’occupazione tedesca e la “scoperta” dei crimini del nazismo lasciarono pesanti ipoteche nella memoria collettiva delle due nazioni, ma solo eccezionalmente è possibile riscontrare l’opinione dei diplomatici dell’epoca su questi temi all’interno di rapporti, appunti e relazioni.

Nei primi anni del dopoguerra, come è noto, in Italia il mondo tedesco fu oggetto di una diffusa avversione da parte degli intellettuali e in generale da parte di non pochi settori dell’intera società. Le principali culture politiche italiane del dopoguerra hanno lasciato diversi scritti che testimoniano la presenza di tale momentanea sensazione di rifiuto verso la Germania, mentre le fonti ufficiali difficilmente riescono a restituire l’esistenza di tale dibattito.

La missione guidata da Arnò riuscì ad informare Roma sulle condizioni amministrative, sociali, economiche e politiche delle zone occupate dagli anglo-americani. Circa gli aspetti economici si constatava che:

«Non tutto è distrutto in Germania. La rete ferroviaria – che già prima della guerra era la più ricca d’Europa – si è moltiplicata. Nuove linee ovunque. Linee di traffico principali, a due binari hanno aumentato a quattro e persino a sei. Parchi innumerevoli di vagoni e locomotive portano i segni della guerra, ma sono in gran parte utilizzabili. I canali navigabili sono quasi tutti aperti al traffico. Molti alti forni lavorano ancora e non pochi stabilimenti che erano l’espressione più moderna del “Kolossal” sono rimasti intatti. Fra questi i laboratori della I.G. Farben di Francoforte sul Meno dove si è insediato l’Alto Quartier Generale alleato. Aperte al traffico sono le autostrade e i lavori agricoli hanno ripreso, ovunque».

Abbastanza positiva appariva, quindi, la condizione degli impianti industriali nei settori anglo-americani. Con sorpresa veniva segnalata anche dal colonnello Bruno la parziale ripresa dell’attività produttiva della Ruhr, e del carbone in generale:

«La produzione industriale nel mese di giugno ha raggiunto il 29% della capacità anteguerra; quella del carbone (zona americana) il 90%. Sei ditte tedesche sono recentemente state autorizzate a produrre pellicole foto – cinematografiche. In giugno la Ruhr ha prodotto carbone per 4.728.725 tonnellate. […] In complesso, si nota un aumento nello sviluppo della produzione industriale, che però è destinata quasi esclusivamente al consumo delle forze di occupazione e del mercato interno. Le cifre sul commercio estero sono addirittura irrisorie».

Tutti questi dati incoraggiarono gli osservatori italiani a formulare previsioni ottimistiche sulla ripresa della Germania e sulla necessità per l’Italia di non essere tagliata fuori dal circolo delle nazioni presenti sul territorio tedesco:

«In una Germania che pur nel crollo della sua potenza ha conservato gli elementi per la rinascita è necessario che l’Italia sia presente. Tanto più che fra i Paesi abbattuti dalla guerra la Germania sarà con ogni probabilità la prima a riprendersi».

Da un punto di vista economico i rapporti inviati a Roma delle prime missioni italiane in Germania convinsero la Direzione affari economici degli Esteri, e quindi il governo, che il territorio tedesco, l’ex Terzo Reich, nonostante la totale sconfitta militare subita sui fronti di battaglia e la distruzione delle maggiori città, recava in sé – quasi intatte – le potenzialità produttive per una futura rinascita (economica).

Il 30 giugno 1946 si svolsero nella zona d’occupazione americana le elezioni politiche per la nomina delle assemblee costituenti regionali. I risultati mostrarono la predominanza del partito cristiano-democratico (CDU) nel Württemberg-Baden e in Baviera, e del partito socialdemocratico (SPD) nell’Assia, relativamente scarso fu il risultato, ottenuto in queste zone, del partito comunista (KPD). Nelle zone d’occupazione degli anglo-americani vennero ripristinate le amministrazioni locali e la gestione dei comuni fu affidata direttamente ai tedeschi.

Qualche differenza si riscontrava nella zona controllata dai francesi, dove il rigore dell’occupazione era maggiore e, come segnalava la relazione di Arnò, il rapporto con la popolazione locale era contrassegnato da tensioni e reciproche incomprensioni. Molto scarse e frammentate, invece, erano le notizie fornite dagli inviati italiani sulla zona d’occupazione sovietica a causa delle difficoltà e delle limitazioni per l’accesso, volutamente mantenute dai russi. Le divergenze politiche fra gli alleati, che si palesavano durante le periodiche Conferenze dei ministri degli esteri202, erano riscontrabili anche ai livelli più bassi, nella normale attività quotidiana. Un rapporto della missione rimpatri sottolineava infatti:

«Sta di fatto che americani, inglesi, francesi, russi non possono comprendersi. Lo si vede anche nelle piccole cose. Nella mancanza di cordialità, nelle critiche reciproche che arrivano al pettegolezzo e alla inutile sgarberia. Dall’impercettibile sorriso col quale gli inglesi osservano il contegno degli americani, alla trascuratezza degli americani verso i camerati inglesi anche quando sono loro ospiti. Dall’assoluto isolamento nel quale i russi sono sempre lasciati alle grasse risate degli anglo americani quando raccontano fra una storiella e l’altra che i francesi ritengono di aver vinto la guerra».

Le fonti derivanti dalle due missioni italiane in Germania tra il 1945 e il 1946 evidenziano che la diplomazia italiana nel corso di questi mesi e in occasione di queste prime missioni riuscì a svolgere con successo il compito che le era stato affidato dal governo di Roma: reperire quante più informazioni possibili sulla situazione esistente nelle varie zone d’occupazione e tenere costantemente aggiornato il governo sugli sviluppi politici ed economici introdotti dalle forze alleate.

I diplomatici italiani inviati nelle zone d’occupazione in Germania riuscirono a tracciare un quadro alquanto esauriente. Il governo italiano, nonostante la temporanea assenza di una propria stabile rappresentanza, fu in grado di informarsi sulle condizioni sociali, economiche e politiche della Germania postbellica.

Le fonti a disposizione dimostrano che tale discorso valse soprattutto per le zone occupate dagli anglo-americani. La zona d’occupazione sotto il controllo dell’Unione Sovietica restava inaccessibile per gli inviati italiani. Tutte le informazioni in possesso dell’Italia sulla Germania orientale erano di provenienza anglo-americana o provenivano direttamente dall’Ambasciata italiana a Mosca guidata da Pietro Quaroni fino alla fine del 1946.

Anche la Francia non concesse molte autorizzazioni ai rappresentanti italiani per la propria zona. La missione guidata da Arnò non ebbe il permesso di visitare la zona d’occupazione francese, mentre solo la missione rimpatri riuscì ad ottenere un ufficiale di collegamento operante a Rastatt, una cittadina a pochi chilometri dal confine francese e lontana dal cuore del Württemberg e del Baden meridionale dove si trovava la maggior parte degli italiani da rimpatriare.

Se le condizioni delle zone di occupazione controllate dalla Francia e dall’Unione Sovietica rimasero sostanzialmente poco note o dedotte da informazioni provenienti da fonti indirette, gli sviluppi politico-economici dei territori tedeschi occupati da Inghilterra e Stati Uniti (territori che costituirono il nucleo dello stato tedesco occidentale) furono seguiti sempre in modo diretto dalla diplomazia italiana fin dalla primavera del 1945 con l’istituzione della missione rimpatri.

Dall’agosto del 1946 erano iniziate a trapelare indiscrezioni più o meno confermate sulla probabilità di un’unione economica fra la zona di occupazione della Gran Bretagna e quella degli Stati Uniti. Il governo italiano ebbe la conferma della conclusione dell’accordo anglo-americano per l’unione delle rispettive zone di occupazione in Germania nel dicembre del 1946. L’ambasciatore a Londra, Nicolò Carandini, fu il primo a comunicare a Roma i dettagli dell’accordo firmato dal ministro degli Esteri inglese Ernest Bevin e dal segretario di stato americano James Byrnes il 2 dicembre a New York.

L’entrata in vigore della nuova zona era prevista per il primo gennaio 1947. Il governo italiano accolse con favore la notizia della fusione delle due zone anglo-americane. Il progetto, infatti, iniziava a superare lo stallo emerso dopo la conferenza di Potsdam e probabilmente, come si sperava a Roma, poteva introdurre sostanziali modifiche tendenzialmente in linea con le riforme auspicate dallo studio della Direzione generale affari economici.

Alla fine del 1946 l’Italia riuscì ad ottenere dagli alleati occidentali l’autorizzazione ad istituire nelle zone degli anglo-americani una propria rappresentanza diplomatica stabile. Il primo gennaio 1947 segnò pertanto la nascita della Bizona e l’inizio dell’attività della prima rappresentanza italiana in Germania dalla fine della guerra.

Tempo di guerra fredda
La riorganizzazione delle relazioni italo-tedesche dall’istituzione della Bizona alla riforma monetaria (1947-1948)

Ogni sorta di ben installati critici del miracolo economico affermano oggi con tanto maggiore entusiasmo quanto meno possono ricordarsi di allora: “Quelli sì che erano tempi, prima della riforma monetaria! Allora sì che la gente si muoveva! Non aveva niente nello stomaco eppure faceva la fila per i biglietti del teatro. E anche le feste improvvisate in fretta, con la grappa di patate, erano semplicemente favolose e molto più riuscite dei party con champagne e Dujardin che si organizzano oggi.”

Così parlano i romantici delle occasioni mancate. Veramente dovrei lamentarmi così anch’io, perché in quegli anni in cui zampillava la fonte di pietre focaie del piccolo Kurt mi istruii quasi gratuitamente in mezzo ai patiti della cultura e dei recuperi scolastici, frequentai corsi all’Università popolare, divenni socio fisso del British Center, chiamato “Il Ponte”, discussi con cattolici e protestanti il problema della colpa collettiva, mi sentii colpevole insieme a tutti quelli che allora pensavano: liberiamocene adesso, così poi sarà una faccenda superata e più tardi, quando andrà meglio, non avremo più bisogno di sentirci una cattiva coscienza.
Günter Grass, Il tamburo di latta

LE SVOLTE DEL 1947 IN ITALIA E GERMANIA

Nel corso del 1947 si consumò la rottura definitiva dell’alleanza antinazista nata nella seconda guerra mondiale tra potenze occidentali e Unione Sovietica. I prodromi di una probabile spaccatura erano comparsi già dopo la sconfitta del nazifascismo in Europa, nel corso delle inconcludenti riunioni delle potenze vincitrici per la sistemazione della Germania.

Tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948 la tensione crescente tra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, avviò in Europa la formazione di due diverse sfere economiche e politiche, una ad est, comprendente i paesi sotto il diretto controllo sovietico, ed un’area ad ovest, contrassegnata dall’egemonia statunitense e composta dai principali paesi europeo-occidentali coinvolti nella seconda guerra mondiale.

Sul piano internazionale un importante elemento di discontinuità fu introdotto il 12 marzo quando, come è noto, il presidente americano Truman si rivolse al Congresso, chiedendo di finanziare una missione di aiuti in Grecia per appoggiare il governo conservatore del paese nella lotta contro i gruppi comunisti formatisi nella Resistenza.

Da una prospettiva politica, l’affermazione della «dottrina Truman» annunciava un’antitesi radicale tra «mondo comunista» e il cosiddetto «mondo libero», e nel corso del 1947 fu strategicamente definita dalla teoria del contenimento elaborata dal diplomatico statunitense George Kennan. Il containment implicava la necessità di “contenere” l’espansionismo sovietico, utilizzando tutti i mezzi possibili, anche la forza militare.

Il 5 giugno la strategia di politica estera americana fu affiancata dall’annuncio di un piano di aiuti per l’Europa: nel celebre discorso all’Università di Harvard il segretario di Stato americano, George Marshall, dichiarava la disponibilità degli Stati Uniti ad aiutare tutti i paesi europei che lo avessero richiesto. La notizia di un piano statunitense per la ricostruzione economica dell’Europa suscitò un grande effetto tra i governi europeo-occidentali, soprattutto perché faceva seguito alla grave crisi alimentare dell’inverno 1946-1947.

L’Unione Sovietica reagì alla dottrina Truman e al Piano Marshall intensificando la costruzione della propria sfera di potere. Nel settembre del 1947 a Szklarska Poręba, in Polonia, i partiti al potere in Europa orientale e i due principali partiti comunisti occidentali, l’italiano e il francese, formarono il Kominform: un «ufficio di coordinamento» tra Mosca e il resto dei partiti comunisti8. Nel corso della riunione costitutiva del Kominform, Andrej Ždanov formulò la nota «teoria dei due campi», secondo la quale nel mondo si erano oramai formati due grandi e diversi spazi economici e politici: uno imperialista ed antidemocratico guidato dagli Usa ed uno antimperialistico e democratico capeggiato dall’Unione Sovietica.

In questa fase il principale teatro del confronto bipolare era rappresentato dall’Europa, e in modo particolare dalla Germania. L’inizio della guerra fredda iniziò a coinvolgere diversi aspetti della vita delle nazioni europee. Queste ultime furono attraversate – in modo diverso in base ai differenti contesti storici, politici, economici e sociali – da lacerazioni che riflettevano in ambito nazionale le tensioni in atto su scala mondiale.

Per il governo italiano la discontinuità introdotta dall’amministrazione Usa fu subito chiara e in particolare sottintendeva la diretta correlazione tra aiuti americani e formazione di nuovi esecutivi senza i rappresentanti delle sinistre. Per la DC di De Gasperi si trattava della possibilità di continuare ad usufruire degli indispensabili sostegni politici ed economici statunitensi a patto di porre fine all’esperienza dei governi di unità antifascista.

Il 29 marzo l’ambasciatore Quaroni espose senza giri di parole al ministro degli Esteri Sforza le conseguenze politiche della svolta americana per i paesi dove esistevano forti partiti comunisti al governo dalla fine della guerra:

«Il messaggio Truman è un atto di grandissima importanza: soprattutto se si considera che è solo la prima manifestazione aperta di una evoluzione politica che si stava preparando da mesi. Noi ci troviamo in presenza di una campagna precisa, diretta ad inquadrare, volens nolens, Francia, Italia e gli altri Paesi dell’Europa occidentale, nella politica americana.

Il primo obiettivo che questa campagna si propone per quello che riguarda Italia e Francia è quello di portarci a costituire Governi da cui siano esclusi i comunisti. Quello che ci dicono, a tutti e due, gli americani, sempre con meno ambagi è: comunisti al governo, niente crediti, niente grano, niente carbone; governo senza comunisti, allora si comincia a ragionare».

Al di là della difficile contingenza della situazione economica evidenziata da Quaroni, il discorso di Truman rendeva stringente il problema di un adeguamento delle formule politiche di governo agli schieramenti imposti dalla guerra fredda. Schematizzando alcune delle riflessioni di Franco De Felice sulla ridefinizione del nesso nazionale-internazionale nell’Europa del secondo dopoguerra, si rileva come in generale l’esistenza di due diverse e contrapposte grandi aree economiche e politiche iniziasse a condizionare profondamente le iniziative delle classi dirigenti nazionali dei paesi europei.

L’inserimento dell’Italia in una delle due aree si traduceva in una doppia lealtà per i gruppi dirigenti italiani: lealtà al proprio paese e lealtà allo schieramento di appartenenza a cui si era integrati (o a cui ci si auspicava di partecipare). Le pressioni internazionali dettate dalla logica della guerra fredda provenienti da oltre atlantico si intrecciarono alle crescenti divergenze nazionali tra i partiti di sinistra e la DC, soprattutto nel campo della politica economica, dove la linea liberista scelta dalla direzione democristiana aveva scarse possibilità di trovare appoggio fra le sinistre.

Nel maggio del 1947 De Gasperi costituì un nuovo governo dal quale erano esclusi i partiti di sinistra. Qualche mese prima, a marzo, l’Italia aveva aderito agli accordi di Bretton Woods, mentre il 10 febbraio c’era stata a Parigi la sofferta firma del Trattato di pace che pose fine allo stato di guerra, formalmente ancora in vigore, tra le potenze alleate e l’Italia.

Nel corso dei mesi seguenti l’iter di approvazione parlamentare del Trattato suscitò accesi dibattiti tra i partiti e nella società. Non pochi furono gli autorevoli esponenti del mondo politico e culturale italiano che ammonirono il governo di rischiare l’imposizione di un Diktat con l’approvazione del Trattato. Il 24 luglio Benedetto Croce, durante una seduta dell’Assemblea Costituente, esortò il governo a non ratificare il Trattato, perché impostato su di una lettura a suo giudizio completamente errata della storia italiana, considerata dagli alleati intrisa di imperialismo ed aggressività.

È importante rilevare che tra le critiche emerse nel corso del dibattito per la ratifica del Trattato di pace l’evidenza di un mancato riconoscimento da parte delle quattro potenze per la partecipazione dell’Italia alle discussioni sulla sistemazione della Germania fu sottolineata da diversi esponenti politici. Il liberale Epicarmo Corbino durante il suo intervento sollevò esplicitamente la questione, affermando che si trattava di un’assoluta ingiustizia, soprattutto perché l’Italia era stata «sempre vittima della Germania», tanto nella prima fase della guerra, quanto nella seconda dopo l’8 settembre 1943.

Epicarmo Corbino

Nel discorso di Corbino l’Italia non era mai stata complice del Terzo Reich:

«[…] Fra le tante condizioni inique del Trattato c’è anche quella che stabilisce che noi, paese straziato dai tedeschi sia durante il periodo della guerra in cui eravamo con loro, sia dopo, cioè nel periodo in cui eravamo contro di loro, non abbiamo diritto a dire neppure una parola e in difesa dei nostri interessi e per la sistemazione della Germania quale elemento importante della sistemazione europea».

De Gasperi e Sforza erano convinti, invece, che la ratifica rappresentasse un passo indispensabile per riconquistare sul piano internazionale una nuova libertà politica ed economica19. La strada della ricostruzione passava anche attraverso l’approvazione del testo di pace preparato dagli alleati. Un’eventuale rifiuto del governo avrebbe isolato l’Italia nelle relazioni internazionali rischiando di compromettere la partecipazione del paese al Piano Marshall; partecipazione che negli anni seguenti contribuì al superamento delle limitazioni economiche stabilite da alcune clausole.

È interessante notare il parallelo tra Italia e Germania che Sforza mise in risalto nel suo discorso all’Assemblea per sostenere la ratifica del Trattato. Nelle parole del ministro degli Esteri l’approvazione rappresentava la dimostrazione di una rinnovata volontà di collaborazione internazionale e in primo luogo europea dell’Italia, il presupposto per la riammissione nel consesso mondiale.

La storia recente dei due paesi aveva dimostrato che pur nel «comune smarrimento» gli italiani avevano saputo ritrovare per primi la strada della democrazia; un concetto destinato ad esercitare una larga influenza nel modo in cui i dirigenti italiani guardavano alla Germania e a trovare, dopo il 1949, non poco spazio all’interno del dialogo politico bilaterale con la Repubblica federale:

«Guardate la Germania, ancora immersa nello stupore che seguì la crisi di follia, quale quella di cui questo sciagurato popolo fu preda; essa giace accasciata e son certo che vi sono ancora tra i tedeschi dei nazisti abbastanza fatui per compiacersi del loro isolamento. Ma noi italiani, la cui vita è sempre stata tanto più dura di quella dei ben nutriti tedeschi, possiamo bensì dolerci delle loro recenti sciagure, ma non indulgere agli stessi sentimenti, poiché abbiamo superato il punto morto e riacquistata una sana fiducia in noi stessi, ben diversa dalla malata megalomania che ha invasato per tanti anni la Germania. […] Purtroppo noi italiani […] pagammo il fio del massimo errore dei capi fascisti: aver rotto la collaborazione internazionale».

Il discorso di Sforza si serviva di diverse immagini dei tedeschi abbastanza diffuse in Italia. Si noti in particolare il riferimento ai “ben nutriti tedeschi”, una variante del noto cliché sui “pasciuti tedeschi”. Soprattutto si affermava la tesi di una netta distinzione etica e storica tra Italia e Germania: il popolo italiano, diversamente dal tedesco, aveva ritrovato, senza il bisogno di aiuti esterni, le basi della vita democratica, un popolo, infine, che era stato vittima e non complice di Mussolini e della guerra voluta da Mussolini.

Il Trattato fu ratificato dall’Assemblea Costituente il 31 luglio ed entrò in vigore il 15 settembre dello stesso anno, la firma e la ratifica del Trattato mutarono lo status internazionale dell’Italia, basato fino a quel momento sull’armistizio lungo stipulato nel 1943, con tutti i limiti ad esso legato. Gli alleati consegnarono all’Italia un testo che disciplinava la maggior parte dei possibili contenziosi italo-tedeschi derivanti dalla guerra nella sezione 3 della sesta parte del Trattato, intitolata: Rinuncia a ragioni da parte dell’Italia.

In questo modo, secondo Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer gli alleati mirarono a: «far pagare all’Italia la partecipazione alla guerra, da un lato, e, dall’altro, a non far gravare le pretese degli ex confederati sulla Germania occupata e sulle sue capacità di far fronte alle riparazioni».

Infatti, il quarto comma dell’articolo 77 del Trattato imponeva all’Italia la «rinuncia, a suo nome e a nome dei cittadini italiani, a qualsiasi domanda contro la Germania e i cittadini germanici pendente alla data dell’8 maggio 1945 […] Questa rinuncia sarà considerata applicarsi ai debiti, a tutte le ragioni di carattere interstatale relative ad accordi conclusi nel corso della guerra e a tutte le domande di risarcimento di perdite o di danno occorso durante la guerra».

Il Trattato riconosceva all’Italia il diritto alla restituzione dei beni (artistici e industriali) sottratti dai tedeschi dopo il 3 settembre 1943, ma, oltre ad impedire future richieste di risarcimenti per le stragi compiute dall’esercito tedesco in Italia durante l’occupazione, bloccava anche ogni possibilità di procedere ai trasferimenti dei risparmi accumulati dai lavoratori italiani in Germania nel corso della guerra, in seguito agli accordi intercorsi tra regime fascista e regime nazista per il trasferimento di manodopera dall’Italia alla Germania.

Nel corso dei primi anni Cinquanta, dopo la costituzione della Repubblica federale, l’articolo 77 del Trattato di pace divenne una spina nel fianco delle relazioni italo-tedesche, causando non poche irritazioni tra gli italiani, soprattutto perché i funzionari dell’Auswärtigen Amts anteposero l’articolo ogni volta che l’Italia tentò di avviare negoziati bilaterali sui risarcimenti.

All’inizio del 1947 ebbe luogo un significativo ricambio politico alla guida della politica estera italiana. Fin dalla formazione del suo terzo governo (2 febbraio 1947) De Gasperi aveva deciso di lasciare il posto di ministro degli Esteri all’autorevole esponente antifascista e repubblicano Carlo Sforza. Quest’ultimo restò alla guida di Palazzo Chigi dal 2 febbraio 1947 fino al 16 luglio 1951, dando avvio ad una fase della politica estera della storia dell’Italia repubblicana caratterizzata da una forte intesa tra Presidente del consiglio e ministro degli Esteri.

Durante questi anni il binomio De Gasperi-Sforza assunse un’influenza determinante nel processo decisionale della politica estera italiana. Nella Germania occidentale le ripercussioni dell’inizio della guerra fredda innescarono significativi processi di riorganizzazione territoriale. A differenza dell’Italia il destino politico ed economico dei tedeschi e della Germania era ancora completamente dipendente dalle scelte delle potenze occupanti.

Come già anticipato nel capitolo precedente, con l’istituzione della Bizona il 1 gennaio 1947 entrò in vigore la fusione della zona britannica e statunitense. La Francia, che in questi anni mantenne un atteggiamento politico contrario ad ogni piano che avesse come prospettiva la rinascita di una nuova entità tedesca centralizzata, decise di non aderire al progetto anglo-americano, isolando la propria zona di occupazione dalle riforme in atto.

La storiografia è oggi abbastanza concorde nell’interpretare la nascita della Bizona come il risultato di almeno due circostanze fondamentali: in primo luogo, furono determinanti le crescenti difficoltà per gli inglesi di far fronte da soli agli oneri di mantenimento della loro zona d’occupazione; in secondo luogo, influì la volontà americana di trasferire agli stessi tedeschi, gradualmente, i vari poteri di amministrazione e di governo, e di procedere alla riattivazione dell’economia tedesca per ridurre i costi dell’occupazione, ripristinando le capacità produttive e di esportazione della grande industria.

Diversi studiosi hanno sottolineato come la scelta americana, maturata tra il 1947 e il 1948, di avviare una ricostruzione della Germania occidentale di stampo capitalista affondasse le proprie radici nella volontà di creare un sicuro antemurale del bolscevismo in Europa, puntando sull’economia tedesca come motore della ripresa europea.

Nell’immediato la riforma amministrativa degli anglo-americani trovava fondamento nella necessità di arginare la paralisi economica e produttiva delle due zone di occupazione. La nuova zona integrata avrebbe agevolato le comunicazioni e favorito l’interscambio, superando la situazione creatasi tra il 1945 e il 1946, quando i confini zonali avevano rappresentato un serio ostacolo alla libertà dei traffici.

Parallelamente all’entrata in vigore della Bizona, gli anglo-americani istituirono a Francoforte sul Meno la Joint Export Import Agency (Jeia). Il nuovo “ufficio” aveva il compito di occuparsi del commercio estero bizonale e in questo campo prese il posto dell’organo centrale del governo americano in Germania, l’Omgus. Al vertice della Jeia sedevano funzionari americani ed inglesi che avevano la facoltà di intraprendere, approvare o rifiutare tutti i negoziati economici tra la Bizona e gli altri paesi.

Tuttavia verso la fine del 1947 gli angloamericani iniziarono a delegare agli stessi tedeschi la possibilità di condurre i negoziati commerciali con gli acquirenti esteri, riservandosi il diritto di intervenire in qualsiasi momento, oltre al già citato potere di approvazione degli accordi raggiunti.

I dirigenti del ministero degli Esteri italiano giudicarono positivamente la creazione della Jeia. Le riforme introdotte dagli angloamericani si avvicinavano alle trasformazioni auspicate dalla relazione della direzione affari economici dell’autunno del 1946. La Jeia, infatti, esercitando le proprie funzioni all’interno di tutto il territorio della Bizona, costituiva la porta d’accesso ad un mercato tedesco non più frazionato (zona inglese e zona americana) ma che ricreava per la prima volta dalla fine della guerra una prima unità economico-produttiva molto più vasta, che incorporava l’importantissimo distretto industriale della Ruhr.

Nel corso del 1947 anche la Francia riorganizzò nella propria zona d’occupazione l’Officomex (Office du Commerce Extérieur), un organismo simile alla Jeia, istituito a Baden-Baden nel dicembre del 1945. Tuttavia erano in vigore disposizioni nettamente contrarie ad un ripresa di autonomia da parte dei tedeschi. Il regolamento dell’Oficomex affidava il diritto di mantenere relazioni commerciali con l’estero soltanto alle autorità della potenza occupante.

Fino all’istituzione della Repubblica Federale queste misure accentuarono l’isolamento della zona francese, che in breve tempo divenne la parte della Germania occidentale maggiormente impermeabile ai rapporti con l’estero, in contrasto con quanto accadde nella Bizona. In generale il rapporto tra le autorità d’occupazione francesi e la popolazione tedesca era marcato da una latente e reciproca ostilità.

Per il governo militare d’occupazione era ancora vivo il ricordo della Francia prima sconfitta dalla Wehrmacht e poi occupata nel corso della guerra. Nel settembre del 1947 un rapporto della missione italiana per i rimpatri descriveva l’atmosfera della zona francese come:

«[…] segnata da un’ostilità fredda della popolazione contro la Potenza occupante. […] I tedeschi non vogliono considerarsi vinti dai francesi e sono perciò tanto più insofferenti dell’occupazione. Altro movente a questa ostilità è fornito dalla politica di vendetta esercitata dal Governo Militare francese, i francesi che sono stati per oltre tre anni occupati, cercano ora di rifarsi in tutti i modi».

La riorganizzazione del commercio estero tedesco occidentale, mediante la creazione della Jeia, rappresentò il primo punto di svolta per la ripresa di contatti diretti tra italiani e tedeschi anche se le conseguenze della riforma ebbero modo di concretizzarsi solamente nel corso del 1948.

Le riforme del 1947 introdotte dagli anglo-americani mutarono significativamente lo status quo in Germania scaturito dalla conferenza di Potsdam, e inaugurarono una fase densa di mutamenti politici ed economici all’interno delle quattro zone di occupazione. La maggior parte degli studiosi ha individuato i principali momenti di svolta della storia tedesca del dopoguerra negli anni 1947 e 1948.

Secondo Abelshauser, l’anno decisivo (Entscheidungsjahr) per la storia economica della Germania occidentale fu il 1947 e non il 1948: non l’anno delle liberalizzazioni e della riforma monetaria, ma l’anno della rimessa in moto dell’estrazione del carbone e l’anno in cui si richiusero le falle dell’indebolita infrastruttura industriale tedesca. Sotto il profilo politico i nuovi organi amministrativi bizonali avviarono nel corso del 1947 un graduale ritorno di autonomia per i tedeschi occidentali.

Tuttavia l’istituzione della Bizona non fu un passo premeditato degli americani nella direzione di una divisione della Germania attraverso la creazione di uno stato separato dalla zona sovietica, per quanto possa apparire così retrospettivamente45. Risulta, infatti, difficile individuare nell’unione delle due zone l’inizio di un processo che portava inevitabilmente alla formazione della Repubblica federale e alla divisione della Germania. Si tratterebbe di un’analisi fondata più sugli esiti e le conseguenze che sull’effettivo processo genetico degli eventi.

Nella prima metà del 1947 l’ipotesi di uno stato tedesco occidentale iniziò a circolare tra i governi, ma solamente come uno degli esiti possibili della controversia fra gli alleati sulla futura sistemazione della Germania. È significativo sottolineare che nel mese di marzo, alla vigilia della conferenza di Mosca (10 marzo-27 aprile), un appunto preparato dalla Direzione generale affari politici del ministero degli Esteri italiano contemplava la possibilità della creazione di due stati al posto delle zone di occupazione occidentali e orientali (il progetto era attribuito gli Stati Uniti), ma il disegno era presentato solamente come una delle alternative possibili:

«Circa il futuro Trattato di Pace con la Germania può dirsi che il fondamento dei contrasti risiede nelle alternative fra: 1°- Stato centralizzato unitario (tesi russa); 2°-Stato federale sul tipo della Germania bismarckiana instaurata nel 1866 (tesi anglo-americana) peraltro non ancora chiaramente enunciata essendosi gli angloamericani riservati di chiarire il loro punto di vista a Mosca; 3°- Federazione di Stati vista come una modernizzazione del Deutsche Bund che durò dal 1815 al 1866 (tesi francese); 4°

Inoltre, negli Stati Uniti, prevedendo le difficoltà (forse insormontabili) che si avranno alla Conferenza di Mosca, si va da qualche parte sostenendo specie in alcuni ambienti repubblicani l’idea di un progetto consistente nella ripartizione della Germania in due Stati, occidentale l’uno, orientale l’altro, ripartizione coincidente con la divisione fra le attuali zone di occupazione russa ed anglo-franco-americana».

La Bizona da sola non provocò la divisione della Germania, ma dimostrava l’approfondimento della diversità di interessi tra le potenze occupanti rispetto ai principi di unità previsti dagli accordi di Potsdam.

Ha scritto infatti Abelshauser:

«Nicht 1948, das Jahr der Währungsreform, der Liberalisierung des inneren Marktes und des Marshallplans, sondern 1947, das Jahr der „Lähmungskrise“ […], aber auch der Ankurbelung der Kohlenförderung, das Jahr, in dem sich die Lücken der geschwächten Infrastruktur wieder schlossen […], ist das wirtschaftliche Gründungsjahr der Bundesrepublik Deutschland».

(Non il 1948, l’anno della riforma monetaria, della liberalizzazione del mercato interno e del piano Marshall, bensì il 1947, l’anno della “crisi paralizzante” […], ma anche dell’incremento dell’estrazione del carbone, l’anno in cui si richiusero le falle dell’indebolita infrastruttura […], è dal punto di vista economico l’anno di fondazione della Repubblica federale tedesca).

Il governo sovietico interpretò – non a torto – la costituzione della Bizona come una rottura molto grave degli accordi (formalmente sempre in vigore) per mantenere la Germania unita. Sul piano delle relazioni internazionali il nuovo punto di scontro sulla gestione e sulle prospettive di sistemazione dei territori tedeschi occupati si intrecciò alle prime fasi dello scontro bipolare.

Tra la conferenza dei ministri degli Esteri di Mosca e quella di Londra (25 novembre-15 dicembre) il divario di posizioni tra alleati occidentali e Unione Sovietica si approfondì ulteriormente fino allo stallo; dopo Londra il tentativo di raggiungere un accordo comune sulla Germania poteva considerarsi fallito.

Stati Uniti e Gran Bretagna intuirono i rischi per i paesi del blocco occidentale derivanti da un improbabile accordo a quattro per una Germania unita e neutrale. In un simile scenario nell’ottica anglo-americana la potenza tedesca sarebbe stata facilmente succube dell’influenza sovietica, con l’incognita della rinascita di un nuovo nazionalismo potenzialmente in grado di minacciare i vicini paesi europei.

Tuttavia, la Germania e la successiva divisione della Germania non rappresentarono la causa del contrasto tra est ed ovest, ma una conseguenza della guerra fredda, un effetto dello scontro ideologico e dei conflitti di politica della potenza tra Est ed Ovest. La Germania si divise perché il mondo si stava dividendo in due blocchi contrapposti, e non il contrario.

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