ITALIA, DOPOGUERRA E RICOSTRUZIONE – 2

a cura di Cornelio Galas

Ne abbiamo accennato nella prima puntata: in quali condizioni (economiche, soprattutto) si  trovava l’Italia nell’immediato, secondo, dopoguerra? Abbiamo trovato dei dati molto interessanti nella tesi di laurea di Anna Enrica Maniero (Università degli Studi di Padova, facoltà di Ingegneria, anno accademico 2010-2011) dal titolo: “L’evoluzione dell’industria italiana dalla ricostruzione ad oggi”).

Anna Enrica Maniero parte dal termine della prima guerra mondiale: “il sistema scontò la fragilità della sua costruzione, mentre la grande crisi finanziaria del 1929 finì per minacciare la sopravvivenza delle grandi banche miste che avevano costruito rapporti incestuosi con la grande industria.

Nel 1933, con il salvataggio pubblico di Comit, Credito Italiano e Banco di Roma, ebbe inizio il «secondo» capitalismo nel quale la grande impresa industriale vennea identificarsi in gran parte con il capitalismo di Stato. L‟IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, fu l‟ente pubblico costituito per questo scopo”.

E ancora: “Per avere un‟idea delle dimensioni in gioco, basti dire che alla fine del 1945 lo Stato controllava direttamente e indirettamente 356 società che concentravano il 33 per cento del capitale di tutte le Spa italiane. Nell‟industria si trattava di 178 imprese che occupavano più di 200 mila persone (Rienzi, 1947). Si può valutare che la proprietà dei mezzi di produzione delle principali società italiane nel 1948 fosse ripartita tra quattro grandi concentrazioni (Tabella 1): lo Stato (che soprattutto tramite l‟IRI aveva rilevato il blocco delle grandi imprese promosse dalle banche salvate nel 1933), il cartello elettrico (dominato dall‟Edison e costituito da public company), le altre public company (tra cui la maggiore era la Montecatini) e il gruppo dei privati a controllo familiare (capeggiato dalla FIAT).

La tabella 1 mostra i cambiamenti che interessano la composizione percentuale (espressa in termini di occupati) delle attività manifatturiere.

L‟evidenza è netta: il complesso delle produzioni di tipo più tradizionale (dall‟industria alimentare a quella del mobile nella sequenza della tabella), che ancora nel 1911 rappresentavano i due terzi delle attività di trasformazione, si riduce nel 1951 a poco più della metà; le industrie “emergenti” della metallurgia, della chimicagomma e della meccanica quasi raddoppiano di importanza (da 21,8 a 36,5 per cento del totale degli occupati).

Il grosso della flessione nei settori del primo gruppo è da imputare alle industrie tessili e dell‟abbigliamento, che perdono insieme oltre sette punti percentuali. Questa tendenza appare del tutto costante durante l‟intero arco di tempo considerato, e dunque attraverso “passaggi” tutt‟altro che indolori tra una fase e l‟altra della storia nazionale.

Il ritmo di crescita dell‟attività industriale (del numero degli occupati) è però caratterizzato nel tempo da ampie oscillazioni. Di conseguenza i cambiamenti osservabili nelle semplici quote settoriali dell‟occupazione tra le diverse date possono riflettere variazioni assolute dei livelli del tutto diverse.

Le variazioni assolute dell‟occupazione vengono riportate nella tabella 2, che mostra anche i tassi medi annui di crescita per ciascuno dei sottoperiodi nei quali è possibile ripartire l‟intervallo temporale considerato.

Da questi dati si può dedurre che i cambiamenti di struttura sono effettivamente considerevoli. In particolare è evidente che l‟aumento di peso delle produzioni meccaniche sopra evidenziato riflette un aumento del numero degli addetti molto consistente, che corrisponde a oltre il 40% di quello dell‟intera industria di trasformazione (oltre 500.000 unità su un totale di poco più di 1.200.000). E assai notevole è anche l‟accrescimento degli addetti all‟industria chimica (quasi 140.000 unità), che pone il settore al secondo posto tra tutti quelli considerati nella ricostruzione di C&S.

Dalla tabella si ricava anche che al ridimensionamento del peso delle industrie più tradizionali corrisponde una dinamica dell‟occupazione ancora positiva se osservata sull‟intero intervallo, ma nettamente più contenuta: nell‟arco dei quarant‟anni considerati gli aumenti sono mediamente dell‟ordine del 20-30%, a cui corrispondono tassi medi annui di crescita che superano raramente il punto percentuale (le industrie tessili e dell‟abbigliamento sono le uniche a mostrare variazioni dell‟occupazione negative nel decennio 1927-37).

Il confronto tra i diversi sottoperiodi rivela in ogni caso come per tutte le industrie gli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale siano quelli in cui l‟espansione dell‟occupazione è minore – nella media manifatturiera l‟incremento di occupazione è poco più che nullo; i risultati migliori li ottengono le produzioni di base (metallurgia, chimica, gomma) .

Se in termini meramente quantitativi l‟aumento di peso delle industrie di base alla fine del periodo non appare comunque travolgente (ancora nel 1951 le industrie metallurgica – fonderie incluse – chimica e della gomma raggiungono appena il 13% dell‟occupazione manifatturiera), questa relativa “lentezza” non rende giustizia alle trasformazioni via via introdotte nell‟apparato produttivo: come osserva Crepax , alla fine della guerra “erano cambiati i beni prodotti, le tecniche utilizzate e l‟organizzazione delle imprese. Lavorazioni ad alta intensità di capitali e di tecnologia avevano sostituito in larga parte le produzioni tradizionali del tempo di pace”.

Lo stato era diventato il maggior cliente. Enormi complessi industriali erano nati in funzione delle “commesse di materiali per la guerra”. Ma nell‟arco di tempo considerato l‟industria vede emergere anche produzioni affatto nuove, che i semplici dati aggregati qui riportati possono documentare solo marginalmente: lo stesso Crepax sottolinea a questo riguardo i progressi realizzati nel campo delle forniture elettriche e delle apparecchiature radiofoniche e telefoniche (nelle quali era però ancora rilevante la presenza di imprese a capitale straniero) e i risultati ottenuti nell‟ambito della chimica organica, oltre che il decollo dell‟Olivetti nel campo della meccanica; Castronovo (1980) ricorda gli sviluppi nel campo della produzione di fibre tessili artificiali, in quello degli oli minerali (nel 1926 viene fondata l‟Agip), nell‟industria aeronautica, nella fabbricazione di pneumatici.

Il secondo dopoguerra fu un periodo di grande fermento imprenditoriale. Si visse la nuova stagione di libertà come occasione per sviluppare progetti d‟impresa che il precedente regime aveva soffocato con la politica autarchica e il favore alle grandi concentrazioni capitalistiche. Si trattava di una nuova «classe» di imprenditori: meno d‟élite, meno istruiti e all‟apparenza meno «adatti» a perseguire iniziative importanti, ma che nondimeno fondarono e allevarono imprese di dimensione consistente mossi dal desiderio di uscire dalla povertà: “un enorme desiderio di fare, una fortissima volontà di emergere trasformaronomolti di noi in uomini di attivismo frenetico. […] In poco tempo il nostro paese fu capace di battere la miseria secolare” (Ferrero, 1999).

Giorgio Fuà inserì questo fenomeno tra i principali fattori del miracolo economico italiano (Fuà, 1965). Le stesse imprese di cui lo Stato dovette assumere la proprietà furono tra le maggiori protagoniste del «miracolo economico» degli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso. La grande siderurgia a ciclo integrale (i cui bassi costi consentirono di rendere disponibile all‟industria meccanica acciaio a buon prezzo), le grandi infrastrutture (autostrade,telecomunicazioni, opere pubbliche), la riconversione della meccanica dalle produzioni di guerra a beni competitivi in tempo di pace (le automobili Alfa Romeo, i beni capitali dell‟Ansaldo e della Breda), i trasporti (le compagnie marittime e lo sviluppo dei trasporti aerei che presto sostituirono quelli marittimi nel servizio ai passeggeri).

Anche i privati contribuirono in misura importante all‟espansione del reddito nazionale: gli autoveicoli FIAT, la chimica Montecatini (che vinse con Giulio Natta un premio Nobel per l‟invenzione del polipropilene), le macchine da calcolo Olivetti, le fibre della SNIA Viscosa, le public company elettriche (che promossero un‟efficiente produzione da fonti idroelettriche). Ma anche un‟industria nuova di zecca, quella degli elettrodomestici, merci che prima d‟allora erano viste solo come «sogno americano».

Quindici anni dopo la crisi del 29 lo stato poteva contare sul controllo diretto di una vasta area di industrie ma soprattutto sul controllo pressochè totale dei settori siderurgico, meccanico pesante, cantieristico ed armatoriale, sulla proprietà delle principali bache private , delle casse di risparmio, e sul controllo totale del sistema creditizio tramite una legge bancaria che permetteva alla banca d‟Italia di intervenire sul sistema bancario con funzioni di indirizzo ispezione e controllo.

Va inoltre detto che ancora alla fine della guerra rimanevano in vigore l’intera struttura protezionistica di dazi e tariffe doganali che controllava il commercio estero di quasi tutti i deni industriali e agricoli, e inoltre rimaneva l‟obbligo di versare all‟Uic, Istituto controllato dalla Banca d‟Italia, l’intero stock di valuta, introitato con scambi con l‟estero.

Il Piano Marshall, ufficialmente chiamato piano per la ripresa europea (European Recovery Plan) a seguito della sua attuazione, fu uno dei piani politico-economici statunitensi per la ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale.

George Marshall

Bisogna tener conto, sempre nel dopoguerra, di un altro fenomeno: le migrazione. E su questo c’è un interessante studio di Alessandro Gottardi, Fabio Lenzo e Kewjn Witschi.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia era un paese logorato dalla tragedia appena vissuta. I problemi da affrontare erano tanti ma bastarono pochi anni di pace e di libera democrazia per ridare un nuovo volto al Paese, che in breve si ripresentò fiorente e migliore di prima. Nell’Europa occidentale gli Stati Uniti riuscirono a consolidare in tempi molto brevi la propria area di influenza, sfruttando soprattutto lo stretto legame tra aiuti economici e richieste politiche.

Il piano Marshall – si legge sempre in quest’analisi – fu lo strumento fondamentale di questa politica: gli U.S.A. fornivano a condizioni favorevoli materie prime, macchinari, navi, ecc…, in modo da scacciare lo spettro della fame, aiutare la ricostruzione e far decollare nuovamente la produzione industriale; per contro però, ponevano condizioni economiche (come l’acquisto di manufatti statunitensi) e, soprattutto politiche. Gli U.S.A. subordinarono di fatto gli aiuti del piano Marshall a interventi nella politica interna delle nazioni interessate, cui davano “consigli” sul comportamento da tenere nei confronti dei sindacati, dei partiti di sinistra, della politica estera.

Nel 1948 l’Italia era un Paese in gran parte agricolo, tanto che l’industria occupava solo il 17% dei lavoratori: in poco meno di trenta anni essa si sviluppò e arrivò ad occupare il 32% dei lavoratori, mentre l’agricoltura perse il 30% degli addetti ai lavori. Furono soprattutto le piccole e medie aziende, grazie alla loro flessibilità ed alla capacità di adattarsi rapidamente alle necessità del mercato, la base d’affermazione dell’economia italiana.

Un altro fattore di sviluppo dell’economia fu la costruzione, da parte dello Stato, di una fitta rete autostradale che rese agevoli e veloci le comunicazioni e i trasporti fra le regioni del Paese e gli altri Stati europei. Era un enorme giro di ricostruzioni: case, strade, ferrovie ecc… questo creava molti posti di lavoro, in più cresceva anche il benessere e quindi ripartirono i consumi.

Bisognava produrre di più, che in quei tempi voleva dire ingrandirsi e assumere. In quel periodo alcune industrie esistenti si potenziarono sino a divenire grandi multinazionali come ad esempio la Fiat, specializzata nel settore automobilistico.

BOOM ECONOMICO

Fra il 1952 e il 1963 il reddito pro-capite in Italia ebbe un incremento molto superiore rispetto a quello conosciuto da tutti gli altri paesi Europei, ciò consentì una vera e propria rivoluzione nei consumi. Il decollo industriale Italiano fu favorito dall’adesione nel 1951 alla Comunità economica europea (Cee), istituita con i Trattati di Roma ed entrata in vigore il 1° Gennaio 1958.

Negli anni compresi tra il 1958 e il 1963 l’industria italiana conobbe uno straordinario sviluppo, soprattutto nei settori della meccanica, della chimica e dell’elettricità, tanto che si parlò di un vero e proprio miracolo economico. L’Italia divenne la settima potenza industriale del mondo. Tuttavia l’economia Italiana continuò a presentare due volti differenti: il Sud rimase arretrato e povero, con un’agricoltura ancora in gran parte latifondistica, senza infrastrutture (strade, centrali elettriche, porti ecc.) non in grado di consentire l’insediamento d’industrie, che invece rimasero concentrate al Nord nel “Triangolo industriale” Milano-Torino-Genova.

L’emigrazione ha “impoverito” il Sud, ha contribuito alla crescita delle disuguaglianze. Il Sud ha vissuto una forte fuga di manodopera e non è riuscito ad entrare nel circolo dell’industrializzazione, (si intende che le industrie non si insediavano al Sud).

LE MIGRAZIONI INTERNE

Le prime migrazioni in Italia hanno avuto carattere agricolo i pastori portavano le loro greggi a pascolare assai lontano dalle montagne, nelle pianure sottostanti; i mietitori accorrevano in frotte nel Tavoliere delle Puglie e in altre zone coltivate intensamente a grano; inoltre, il raccolto e la monda del riso avevano sempre attirato manodopera stagionale prevalentemente femminile dalle altre regioni confinanti con la Lombardia.

Il secondo dopoguerra vide l’Italia diventare in pochi anni un paese industriale; questo provocò un grosso movimento migratorio che ebbe come effetto un gigantesco mescolamento di popolazione al suo interno. L’avvento dell’ industrializzazione infatti richiese forti contingenti di lavoratori dagli altri paesi e soprattutto dalle campagne: le città si popolarono e crebbero in modo vertiginoso.

Le migrazioni Sud-Nord Italia dal dopoguerra ad oggi: un caso FIAT

Dal 1946 ad oggi circa sei milioni di italiani emigrarono all’estero, mentre negli stessi anni altri 17.000.000 di italiani cambiarono residenza, trasferendosi per motivi di lavoro da una parte all’altra del Paese, ma soprattutto nelle città industriali del Centro- Nord. Fu soprattutto nel corso degli anni Sessanta che un imponente flusso migratorio portò molti lavoratori dalle aree agricole del Mezzogiorno verso le regioni e le città industrializzate dell’Italia del Nord che potevano garantire posti di lavoro nelle loro fabbriche.

Tipico è il caso di Torino dove gli stabilimenti FIAT assorbirono grandi quantità di manodopera, al punto che in alcuni reparti più dell’80% degli operai era di origine meridionale.

LA CASSA DEL MEZZOGIORNO

Nel dopoguerra l’economia del Sud Italia, come visto in precedenza, era ancora molto arretrata; così il governo di allora cercò un modo per incentivare lo sviluppo al Sud. Il rimedio sembrava essere la “Cassa del mezzogiorno” che venne istituita nel 1950 e fu seguita da una legge del 1953 di credito agevolato.

Il progetto consisteva nello stanziamento di 1000 miliardi di lire (circa 7 miliardi di franchi all’epoca) da destinare alle industrie che si fossero localizzate sotto una linea immaginaria che si trovava a sud di Roma. La linea fu tracciata lì, perché si stimava che in quel area risiedeva una percentuale pari al 38% della popolazione nazionale, quindi gli aiuti avrebbero toccato moltissime persone.

La cassa del Mezzogiorno era un incentivo che serviva per invogliare le industrie a stabilirsi nel sud Italia, così facendo avrebbero contribuito a sviluppare questa area. Inoltre vi era la concessione di esenzioni fiscali e di contributi a fondo perso a tutti coloro che volevano creare attività industriali nel sud.

Spesso succedeva che chi decideva di stabilire la propria attività sistemasse le sue industrie il più vicino possibile alla linea di divisione della penisola dato che il mercato non era certo nel sud Italia bensì al nord; in tal caso i prodotti giungevano molto più rapidamente nella Pianura Padana e loro potevano comunque usufruire dei sussidi e delle esenzioni da tasse.

Nel mezzogiorno e nelle isole furono create grandi aziende chimiche siderurgiche e meccaniche dette “Cattedrali del deserto”, si pensava che esse avrebbero dato lavoro a milioni di disoccupati ma anche che avrebbero potuto produrre e vendere a condizioni convenienti e che intorno si sarebbe potuto sviluppare il cosiddetto indotto costituito da tante piccole aziende private al servizio dell’azienda pubblica.

Purtroppo non fu così perché le grandi aziende che furono costruite erano poco efficienti e molto inquinanti. I loro dirigenti furono nominati molto spesso per motivi politici anche se non avevano esperienza industriale. Le industrie costruite nelle cosiddette zone depresse si rivelarono troppo grandi e troppo costose. In pochi anni sperperarono quantità consistenti di denaro pubblico senza riuscire a creare né un indotto né uno sviluppo economico.

IL MECCANISMO PERVERSO DEI DAZI

Il governo italico decise di introdurre dei dazi doganali per disincentivare le importazioni, questo rappresentò un vantaggio per gli industriali che producevano e vendevano all’interno dei confini dello Stato, perché ora non temevano più la concorrenza estera e potevano quindi vendere i loro prodotti a prezzi più alti.

Dall’altra parte i consumatori si trovano con un potere d’acquisto più basso e tutti coloro che esportavano vedono i loro utili diminuire perché gli altri paesi, ad esempio la Francia, rispose ponendo a loro volta dazi sulle merci italiane. Questi dazi sono solo serviti ad arricchire ulteriormente le grandi industrie, come la FIAT, e ad impoverire i piccoli artigiani e il popolo. Tutto ciò può significare che il governo tenesse la parte alle grandi industrie.

IL RUOLO DEL GOVERNO

Per assicurare maggiore stabilità ai governi la Democrazia cristiana decise di avviare un dialogo con il Partito socialista, creando così una sorta di coalizione di centro-sinistra. I primi governi di centro-sinistra realizzarono alcuni importanti riforme:
• Elevazione dell’obbligo scolastico da 11 a 14 anni;
• Nazionalizzazione delle aziende che producevano energia elettrica;
• Potenziamento della Cassa del Mezzogiorno;
• Riforma degli ospedali e della sanità;
• Miglioramento dei trasporti urbani;
• Abolizione dei contratti di mezzadria.
• Abolizione dell’avviamento professionale e istituzione della scuola media unica.

I governi pensavano che il paese si sarebbe sviluppato più rapidamente allargando la presenza dello Stato nell’economia; inoltre, queste riforme contribuirono a dare un notevole impulso al mutamento sociale ed economico che già negli anni precedenti era stato intenso.

LE CAUSE DELLO SQUILIBRIO NORD-SUD

Attorno al 1950, l’industria italiana, da poco uscita dalle rovine della guerra, è impegnata nella ricostruzione. Dopo la ricostruzione l’economia meridionale, nonostante uno sviluppo generale, vede diminuire il suo peso sull’economia nazionale. L’agricoltura del Sud conosce un certo sviluppo, ma nello stesso arco di tempo lo sviluppo dell’agricoltura del Nord è molto più rapido.

Analogamente, mentre nel 1951 l’industria meridionale rappresenta il 14,9% della produzione industriale nazionale, nel 1960 essa passava al 14,6%, sostanzialmente rimane uguale anche se arriva il boom economico e il Nord cresce a dismisura. Quanto alle attività terziarie, queste erano passate, nel Mezzogiorno, dal 23,4% (nel 1951) al 23,0% (nel 1960).

Complessivamente, la parte di prodotto nazionale proveniente dal Mezzogiorno passa in dieci anni dal 23,4 al 21,2% del totale. Lo squilibrio tra le due parti del paese si aggrava col passare del tempo, il Sud non migliora mentre il Nord avanza rapidamente. I contadini devono costituire il cosiddetto esercito industriale di riserva, cioè una massa di lavoratori da trasformare in operai soltanto se l’industria italiana fosse entrata in una fase di espansione, erano una specie di riservisti.

L’afflusso massiccio di contadini poveri dal Sud al Nord andrebbe a ingrandire la massa già immensa dei disoccupati creando una serie di tensioni sociali gravissime. A questo punto, la politica di riforma manifesta contraddizioni nelle proprie decisioni. L’obiettivo della riforma agraria é accontentare la richiesta di terra dei contadini meridionali, e bloccare un movimento di massa ormai pericoloso, con la riforma agraria si raggiunge l’obbiettivo.

In seguito gli interventi di bonifica e di finanziamento della Cassa del Mezzogiorno cominciano a diventare più selettivi, meno indiscriminati, concentrandosi cioè in prevalenza su quella che viene definita la polpa del Mezzogiorno – le zone fertili costiere, la piana del Volturno, ecc. – lasciando perdere l’osso, e cioè le zone montane scarsamente produttive, se non del tutto sterili.

Si cerca cioè di finanziare un’agricoltura altamente meccanizzata, basata su colture specializzate, in grado di produrre a prezzi competitivi per i mercati europei. E’ una soluzione logica, dal punto di vista strettamente economico. Ma in questo modo i milioni di contadini che vivevano una vita stentata nelle zone che costituivano l’osso del Mezzogiorno, vengono abbandonati a se stessi.

L’EMIGRAZIONE VERSO I CENTRI INDUSTRIALI

Anche negli anni ’50 la soluzione provvisoria delle contraddizioni del Mezzogiorno viene dall’emigrazione. Ma, a differenza della grande emigrazione che si era attuata tra ‘800 e ‘900, questa non è diretta soltanto verso l’estero, che in quegli anni significa specialmente il Belgio, ma soprattutto verso l’interno, verso l’Italia settentrionale e in particolare il triangolo economico.

L’impetuoso sviluppo dell’industria del Nord negli anni del “miracolo economico”, provoca un fenomeno di migrazioni interne senza precedenti nella storia d’Italia, sia per le sue dimensioni, sia per le trasformazioni sociali cui esso dà luogo. Le persone lasciano le campagne con la prospettiva di trovare lavoro e benessere nella macchina produttiva del Nord, ovvero l’industria.

MIGRANTI DAL NORD E MIGRANTI DAL SUD

Per chi lasciava le campagne del Nord la situazione era, in genere, più favorevole. C’era una forte corrente migratoria dalle zone collinari povere di alcune regioni (soprattutto del Veneto) verso città lontane come Milano e Torino. Ma nella maggior parte dei casi si trattava di andare dalla campagna al capoluogo di provincia, o a un grosso paese in cui erano nate delle industrie.

In questi casi gli spostamenti erano limitati (poche decine di chilometri) o addirittura inesistenti: molti potevano continuare a risiedere dov’erano prima, e limitarsi a cambiare mestiere. In termini di condizioni di vita, di abitudini, di integrazione nell’ambiente sociale circostante, i cambiamenti erano modesti e non drammatici.

Ben diverso era, invece, il caso di chi abbandonava la campagna meridionale. Qui, essendo mancato – o assai ridotto nelle sue dimensioni – uno sviluppo industriale moderno, partire significava fare non decine, ma centinaia e anche migliaia di chilometri.

Significava passare in un mondo diverso, caratterizzato da abitudini, mentalità diverse e spesso ostili. Il quartiere di San Salvario a fianco della stazione di Porta Nuova a Torino è stato per anni il primo approdo degli immigrati dal Sud, che appena arrivati cominciavano a girare per quelle strade alla ricerca di un alloggio.

In un clima di diffidenza, spesso l’unica soluzione era rappresentata dalle pensioni ed affittacamere che noleggiavano i letti secondo i turni di lavoro delle fabbriche. Si calcola che da tutto il Paese circa 6.000.000 di italiani si trasferirono al Nord, mettendo in crisi le amministrazioni comunali delle grandi città che, soprattutto nei primi anni, non seppero offrire loro case adeguate, scuole, ospedali, strade e tutte le altre attrezzature civili che caratterizzano una città progredita.

Intere comunità di immigrati che non potevano permettersi una casa nei quartieri più centrali e che non riuscivano a trovare alloggi nei quartieri operai delle città industriali, si concentravano in enormi quartieri dormitori sorti nelle periferie dotate di pochi servizi pubblici e lontani dal centro.

Le migrazioni interne richiedono agli inizi gli stessi gravi sacrifici personali di quelle all’estero: lasciare a casa la famiglia, andare a lavorare da soli nelle grandi città, cambiare attività lavorativa, vivere in una camera d’affitto con più compagni da lavoro o in una baracca, cucinarsi da soli i cibi se non vi è la mensa aziendale della fabbrica, risparmiare i soldi da inviare a casa, acclimatarsi al nuovo ambiente di lavoro e alla nuova mentalità, e, infine, se il lavoro sarà sicuro, il salario sarà giusto, affrontare il problema della chiamata della famiglia.

Questo comporta trovare una casa a poco prezzo nei quartieri più modesti o nei dintorni della città in cui si lavora, pagare le spese del trasferimento della famiglia e del trasloco dei pochi mobili, e poi subito dopo affrontare e risolvere tutti i problemi educazione dei figli, della scuola nuova, del trovare lavoro ad altri membri della famiglia perché questa possa sostentarsi in una società e in un gruppo sociale straniero che praticamente saranno avversi all’emigrato.

SVILUPPO ECONOMICO-SOCIALE DELL’ITALIA NEGLI ANNI SESSANTA

Negli anni ‘60 sbocciò il benessere; alla fine del 1965 oltre la metà delle famiglie aveva un frigorifero, il 49% un televisore, il 23% una lavatrice, le case in costruzione aumentarono a dismisura, ecc. Gli occupati nell’industria erano quasi 7 milioni, il doppio della gente che lavorava nei campi, mentre crebbero gli studenti, gli impiegati e le casalinghe.

L’Italia era così sicura di un futuro sereno che il servizio di leva fu ridotto da diciotto a quindici mesi. Si lavorava meno e in condizioni migliori, c’era molto più tempo libero. Dal punto di vista socio culturale l’aspetto prevalente degli anni sessanta fu quello dell’instaurarsi di costumi propri del consumismo capitalista. Durante questi anni la famiglia italiana passò dal risparmio al consumo.

Bisogna sottolineare che ciò avvenne anche perché la famiglia non aveva abbastanza capitali per investirli in beni durevoli. Le famiglie italiane, da allargate che erano, tendevano a divenire nucleari: capitava più spesso che fosse solo un membro a procurare il denaro per tutta la famiglia. Dopo la tv si poteva aspirare a possedere anche un’autovettura (di preferenza la “grandiosa” FIAT 600). Si passò dalle 342.000 vetture immatricolate negli anni cinquanta ai 4.670.000 veicoli circolanti a metà del sessanta.

Per far fronte a tutti questi veicoli si programmò la costruzione di un’estesissima rete autostradale, che in breve tempo divenne la seconda d’Europa dopo quella della Germania. Naturalmente la FIAT non era estranea a questa scelta che privilegiò il trasporto su ruote rispetto a quello su rotaia, fatto che finirà per creare giganteschi problemi di viabilità. Così molte famiglie erano costrette a comprarsi la macchina soprattutto perché dei mezzi pubblici non se ne vedeva traccia.

Altro dato importante di questo periodo fu la massiccia migrazione della popolazione dal sud nelle regioni del nord. Città come Milano e Torino, dove un cittadino su nove lavorava alla FIAT, videro aumentare il numero degli abitanti. Di conseguenza si verificò una violenta e incontrollata urbanizzazione, mentre aumentò la speculazione edilizia.

Per tutti gli anni del boom economico erano aumentati i profitti, era aumentata la produzione e gli investimenti, ma i salari erano rimasti sempre i soliti. Faticosamente, fra il 1962 ed il 1963, i sindacati riuscirono a cambiare rotta. Però per resistere al conseguente aumento dei prezzi, ed alla crisi economica dovuta anche alla minore competitività delle merci sui mercati esteri, nonché al crescente disavanzo della bilancia commerciale, la banca d’Italia dovette attuare una pesante stretta creditizia.

Tutto ciò causò una fuga di capitali all’estero e un notevole calo degli investimenti con conseguente caduta dell’occupazione. Chi ha subito i colpi più duri è stata la manodopera femminile, ma ne risentì anche quella maschile. Ciò causerà seri problemi sia a livelli pensionistici, (infatti aumentarono ulteriormente le pensioni di invalidità), che a livello scolastico. In questi anni le scuole cominciarono ad essere considerate aree di “parcheggio” per la forza lavoro giovanile in attesa di occupazione, anche se poi, ottenuto il titolo di studio, spesso il lavoro diventa solo un miraggio.

Tutto ciò spiega abbondantemente la grande protesta degli studenti medi che, manifestatasi per la prima volta nel biennio 1968/69, finirà per diventare una delle costanti della vita italiana. Lo stato cercò di risolvere l’economia rilanciando l’industria pubblica e trasferendo al sud l’industria pesante.

Gli investimenti nel Mezzogiorno aumentarono notevolmente e furono compiute generose assunzioni nell’amministrazione pubblica. Il tutto ha comportato un aumento della spesa pubblica e nuovi oneri fiscali che caddero soprattutto sui lavoratori dipendenti: con la riforma del sistema fiscale, nei primi anni sessanta la quota spettante al fisco viene prelevata direttamente dalla busta paga, senza che il contribuente debba fare alcun sforzo.

Gli industriali del Nord cercarono di reagire alla crisi decentrando la produzione, aumentando i ritmi di lavoro e lasciando peggiorare le condizioni di vita in fabbrica. In questo periodo viene incentivata la produttività mediante aumenti salariali. Quindi la ripresa della crescita produttiva, dopo il 1967 è legata principalmente al massimo sfruttamento del lavoro operaio.

Anche fuori dalle fabbriche la situazione non era facile: i servizi pubblici sono scarsi e di cattiva qualità. Lo stato spendeva molto, ma male. Tutto ciò avveniva mentre gli industriali invece di reinvestire i profitti preferivano trasferirli in luoghi più sicuri, dando il via ad una vera e propria industria dell’espatrio clandestino di capitali. Tutta questa situazione esplose fra il settembre ed il novembre del 1969, in occasione del rinnovo contrattuale dell’industria.

L’azione sindacale venne profondamente mutata, rispetto ai decenni precedenti, ed al centro delle rivendicazioni non vi era più soltanto la richiesta di un maggior salario, ma anche quella di migliori e più umane condizioni di lavoro. Nonostante le difficoltà incontrate il movimento sindacale riuscì ad ottenere clamorosi successi. Oltre agli aumenti salariali, al miglioramento delle condizioni di lavoro, si ottenne l’importantissimo statuto dei lavoratori, attraverso il quale si attuava un ampio controllo sindacale, si impediva agli imprenditori di licenziare liberamente.

A tutto ciò si aggiunse l’abolizione delle “gabbie salariali”, che permettevano di erogare al sud stipendi inferiori che al nord e l’approvazione delle 150 ore. Si trattava di ore di permesso, servendosi delle quali i lavoratori avrebbero potuto riprendere a studiare e quindi riqualificarsi. In conclusione si può dire che, alla fine del decennio sessanta, gli imprenditori ebbero ciò che si meritavano. Infatti avevano creduto di risolvere la crisi del 64/66 riducendo gli investimenti ed aumentando i ritmi di lavoro, ora si ritrovavano le fabbriche piene di impianti vecchi e di operai ribelli.

Bisogna ricordare che però fra il 1964 ed il 1969, i consumi e i redditi degli italiani continuarono ad aumentare. Il periodo compreso tra il 1964 e il 1969 può essere suddiviso in due momenti qualitativamente assai significativi, che ancora oggi fanno discutere. Il primo momento è rappresentato da una crisi economica del tutto imprevista che, apertasi alla fine del 1963, esplose a pieno nel 1964 e fu superata solo alla fine del 1965. Si trattò di una crisi che apparve allora temporanea e in seguito fu considerata una specie di preannuncio della grande crisi del 1970.

Tutte e due le ipotesi sono fondate: la crisi del 1964-65 fu l’espressione di un momento negativo ampiamente superato nel quadriennio successivo e fu allo stesso tempo un’anteprima di quello che sarebbe successo negli anni seguenti. Il secondo momento è quello della ripresa, dei primi passi della programmazione economica e della riaffermazione del libero mercato, secondo una logica diversa dal passato. In questo periodo che va dal 1966 al 1969 si ebbe la crescita del prodotto interno lordo, dopo il periodo di rallentamento del 1964.

Pur nettamente distinguibili tra loro, questi due sottoperiodi sono accumulati da un nuovo quadro politico, il centro-sinistra, sorto con l’intento di modificare le linee della politica economica del periodo precedente. Sulla carta il disegno dell’intervento dello stato era abbastanza dettagliato; nei fatti le autorità di politica economica dovettero fare i conti con due ostacoli imprevisti alla realizzazione dei programmi elaborati: la crisi del 1964-65 e l’affermazione di un nuovo modello spontaneo di sviluppo che fu chiamato “intensivo”.

La crisi del 1964-65

Nel 1964 il governo di centro-sinistra, nato nel 1963, dovette far fronte a due impegni urgentissimi: far fronte all’inaspettato e preoccupante squilibrio della bilancia dei pagamenti e contrastare le spinte inflazionistiche generate dalla crescita del costo del lavoro.

Abbiamo visto come il costo del lavoro incrementò nei primi anni sessanta. L’offerta di lavoro, alimentata dall’esodo agricolo, si rivelò niente affatto illimitata e la manodopera incominciò a scarseggiare. I salari presero ad aumentare, da prima per effetto delle leggi del libero mercato e poi a seguito dell’azione sindacale. I consumi interni crebbero velocemente, i prezzi incominciarono a salire, le esportazioni non erano più competitive sui mercati esteri e le importazioni rallentarono notevolmente.

L’emergere di questa situazione negativa bloccò i progetti di riforma del governo e obbligò la banca d’Italia a prendere, tra la fine del 1963 e l’inizio del 1964, una serie di misure anticrisi: furono innalzati i tassi di interessi. In Italia ci si accorse che l’unica strada praticabile per contrastare queste situazioni negative era rappresentata soltanto dalla politica monetaria.

In effetti nel 1964-65 le modalità di intervento ebbero pieno successo. Quando la liquidità scarseggia, il credito è razionato, il tasso di interesse aumenta in misura rilevante e i pagamenti verso l’estero vengono assoggettati a vincoli onerosi, le imprese si vedono costrette a risparmiare su tutti i fattori di produzione; riducono così le scorte, effettuano licenziamenti, rinviano i piani di investimento.

Tutti questi comportamenti hanno un effetto negativo sulla domanda e conseguentemente sul livello di attività. Diminuisce, quindi, anche la domanda di importazioni mentre le imprese cercano nei mercati esteri la domanda che è venuta a mancare sui mercati interni, favorendo le esportazioni. In questo modo la bilancia dei pagamenti migliora.

Contemporaneamente, sul mercato interno delle merci accade che la caduta del prodotto interno lordo, si accompagna a una consistente riduzione di tutte e due le componenti della domanda finale interna: gli investimenti e i consumi delle famiglie, perché il reddito di queste è colpito dal ritorno della disoccupazione, con il risultato di una stabilità artificiale dei prezzi che allontana lo spettro dell’inflazione.

Negli anni sessanta siamo ancora lontani dal benessere diffuso. Nelle strade circolano ancora le vecchie 600, i televisori sono in bianco e nero, la vecchia catena di montaggio domina in tutte le fabbriche. Nel periodo compreso tra il 1964 e il 1969 il governo, che aveva dovuto rinunciare al suo piano iniziale, fu costretto a trovare un compromesso per salvare l’Italia.

Così dapprima (1964-65) prese le misure anticrisi e successivamente (nel 1966), in sintonia con la ripresa, rilanciò l’idea di programmare un piano di riforme approvando il piano di sviluppo economico per il quinquennio 1967-1971 presentato dal ministro Pieraccini. Gli industriali reagirono a questo periodo di crisi modificando il loro assetto produttivo e finanziario, le modalità di impiego della forza lavoro e il modello di sviluppo dell’intera economia.

La ripresa del 1966-1969

I tassi di crescita annua del PIL reale tornano ad essere elevati come all’epoca del miracolo economico, gli operatori ritrovarono fiducia nelle prospettive economiche. Con la crisi del 1964-65 il sistema si era allontanato dalla piena occupazione, molti lavoratori avevano preso il posto e altri non riuscivano a trovare il primo impiego: in un certo senso si erano ricostituite le condizioni che negli anni cinquanta avevano alimentato un’offerta illimitata di lavoro con cui frenare la dinamica salariale, tenere basso il costo del lavoro e ampliare l’occupazione a buon mercato.

In effetti i salari frenarono la loro corsa dopo l’impennata registrata durante il miracolo e i costi di produzione diminuirono: Ciò nonostante la domanda di lavoro ristagnava. La crescita sostenuta del prodotto interno lordo non si basò su un incremento dell’occupazione, ma esclusivamente su una straordinaria espansione della produttività del lavoro. Contemporaneamente quella sorta di blocco della domanda di lavoro si unì con il blocco dell’offerta che suscitò all’ora vivaci discussioni.

Il blocco della domanda, invece, è da considerarsi il perno su cui hanno ruotato tutti gli eventi successivi (la grande crisi degli anni settanta, la fine prematura dell’idea di programmazione dell’idea economica, la nascita dello stato assistenziale, la rivoluzione tecnologica degli anni ottanta).

CONSUMI

Negli anni ‘50 e ’60, quando ebbe inizio il “boom economico”, si ebbe anche una grande proliferazione di oggetti che la ripresa della produzione industriale metteva a disposizione delle persone le quali, grazie ad una maggiore disponibilità economica, potevano acquistare.

SCOOTER

Questo oggetto ebbe il suo sviluppo nei primi anni del boom economico e fu davvero una bella scoperta perché nel giro di due o tre anni tutti ne possedevano una. La prima azienda a immetterla sul mercato fu la Piaggio dopo di che si immise la mitica Lambretta.

TELEVISIONE

Questo oggetto invece ebbe il suo sviluppo verso il 1954 quando incominciò ad entrare nelle case dei più facoltosi e ricchi italiani e nei ritrovi pubblici come bar e sala da biliardo. Nel 1960 tutti si riunivano nei bar o in casa di chi possedeva il televisore, per assistere ai programmi più famosi del tempo come LASCIA O RADDOPPIA condotto da Mike Bongiorno o le famose Olimpiadi di Roma.

L’AUTOMOBILE

Ebbe il suo sviluppo nel 1960 con la fine delle olimpiadi di Roma e deve la sua grande diffusione e popolarità ai grandi miglioramenti delle strade e alla costruzione delle prime autostrade. L’azienda leader di quegli anni fu la F.I.A.T, una industria che crebbe e prosperò dando un contributo significativo all’intera economia italiana. Fu Giovanni Agnelli a guidare l’azienda sulla falsa riga di Henry Ford, indirizzandone la produzione verso modelli di serie destinati a una fascia più larga di utenti.

LA CAMBIALE

E’ lo strumento che insieme agli oggetti entrò nelle case di molti italiani perché consentì l’acquisto di elettrodomestici e altri beni durevoli anche senza avere a disposizione subito il contante; l’istituto poligrafico dello stato stampò tanti tipi di “pagherò” che diventarono lo strumento per circondarsi subito di tante suppellettili.

TURISMO ALL’ ITALIANA

Verso gli anni 55 fino agli anni 60-62 la costiera romagnola ebbe il suo boom: italiani e non incominciarono per le vacanze a venire qui in Italia. Gli albergatori affittavano stanzette con tutti i confort per la modica cifra di 600-1000 al giorno verso il 1959 la voce “divertirsi” diventò un imperativo, e tutto ciò venne costatato dall’improvviso aumento dei bilanci familiari. Ogni persona spendeva quasi 3000 lire per spettacoli e manifestazioni e 2500 per il cinema.

CENTRI COMMERCIALI

Le persone incominciarono a frequentare i centri commerciali, mentre fino a poco tempo prima conoscevano solo il piccolo negozietto a gestione famigliare. Le persone non andavano solo per fare la spesa ma anche per incontrarsi e passare un po’ di tempo.

RADIO

Ebbe il suo sviluppo alla metà degli anni 60 quando le persone incominciarono a richiedere cose diverse dalla TV, nacquero vari programmi radiofonici condotti da persone che divennero molto famose.

FIAT E OLIVETTI

Tra i principali gruppi del “triangolo industriale” Milano, Genova, Torino, la FIAT e l’Olivetti furono tra i primi nel dopoguerra ad affrontare un processo di riorganizzazione aziendale con l’apertura verso il mercato internazionale. FIAT è la sigla della Fabbrica Italiana Automobili Torino, una società automobilistica costituita nel 1899 sotto la guida di Agnelli. A partire dal 1915 la FIAT partecipò attivamente alle forniture belliche, ascendendo in tal modo al terzo posto tra le industrie italiane, dopo l’Ansaldo e l’Ilva.

Nel dopoguerra la FIAT intensificò la produzione e l’esportazione di auto, promuovendo il considerevole sviluppo della motorizzazione privata. La possibilità di produrre a costi decrescenti dipendeva, da un lato, dal massimo sfruttamento degli impianti, di pari passo con la sostituzione dei macchinari più obsoleti; dall’altro, dall’allargamento del mercato interno, in presenza di un aumento generale del potere di acquisto, e da una graduale liberalizzazione degli scambi.

Si può dire, in sintesi, che la FIAT fu un asse portante del modello di sviluppo caratteristico del “miracolo economico” italiano degli anni ‘60, avendo esteso, in quegli anni, la sua presenza all’estero sino a diventare un gruppo multinazionale. All’ inizio degli anni Sessanta, infatti, più della metà della popolazione torinese viveva direttamente del lavoro del gruppo FIAT, ma consistenti frange di addetti alle attività terziarie, al commercio e ai servizi operavano ai margini del vasto giro di interessi alimentato dalla principale impresa motrice e dalle sue affiliate.

Inoltre la continua crescita della produzione automobilistica e delle costruzioni accessorie aveva richiamato a Torino e nella sua cintura, fra il 1951 e il 1961, un continuo flusso migratorio, specialmente dalle zone depresse del Mezzogiorno e dalle campagne più povere dell’entroterra regionale.

Altrettanto intensa fu la trasformazione dell’Olivetti. Poste le basi fra il 1946 e il 1947 per un’opera costante di rinnovamento dei sistemi di lavorazione e di controllo, l’azienda di Ivrea si avvalse degli aiuti governativi e di quelli americani per progettare nuovi impianti e inaugurare un tipo di produzione standardizzata per categorie differenziate di consumatori e per una più ampia gamma di impieghi.

Fu merito di Adriano Olivetti l’elaborazione di un piano di sviluppo complessivo, che teneva conto sia dei risultati già raggiunti dopo il 1937 nel campo delle macchine per scrivere e delle calcolatrici, sia delle nuove potenzialità offerte dal settore dell’attrezzaggio (rettificatrici, macchine multiple e speciali, impianti di lavorazione automatizzati).

Sotto il profilo economico la sua espansione si svolse più o meno negli stessi tempi e con le stesse cadenze di quella della FIAT. Dopo la pausa di “raccoglimento” del 1952-53, in coincidenza con una breve fase recessiva, il periodo centrale degli anni Cinquanta rappresentò per l’impresa di Ivrea un momento cruciale. Anche in questo caso, a innescare uno sviluppo quantitativo senza precedenti e a costi decrescenti, fondato sul binomio ad ogni livello di tecnica e organizzazione, fu l’impetuosa crescita della domanda di nuovi beni di consumo durevoli.

Fra il 1946 e 1958 il numero delle macchine per scrivere di tipo standard si moltiplicò per più di quattro volte e mezzo, quello delle portatili di quasi nove, e quello delle macchine da calcolo e contabili per più di sessantasei volte.

STRANIERI IN ITALIA

Le migrazioni dai paesi del sud del mondo è un fenomeno di dimensione planetaria: negli ultimi 10 anni sono venute anche in Italia moltissime persone alla ricerca di condizioni di vita migliori di quelle dei paesi d’origine: sono lavoratori che provengono da molti paesi ancora in via di sviluppo, dove l’economia sociale è molto difficile e la situazione politica è di grande incertezza. Su 130 milioni di rifugiati e immigrati nel mondo l’Italia comunque ne ospita poco più di 1 milione.

L’irregolarità ha assunto sempre più consistenza nonostante i provvedimenti di sanatoria o di regolarizzazione (e comunque è un fenomeno diffuso in tutta Europa): la maggior parte dei cittadini extracomunitari riescono a trovare un lavoro precario al Centro Sud della penisola nel settore agricolo, della pesca e dell’edilizia. Il caso italiano comunque rimane anomalo per l’interesse della malavita che sta attivando una vera e propria tratta di manodopera e purtroppo di nuovi “schiavi” o “schiave”.

Come per i “nostri” primi emigrati italiani, anche per i cosiddetti extracomunitari è molto difficile trovare un’abitazione, oltre che un lavoro in regola. Gli emigrati sono visti spesso come elementi di disturbo: vogliono lavorare, ma spesso questi sono costretti ad accettare lavori “in nero” o, peggio, illegali; hanno bisogno di alloggi e di abitazioni dignitose, ma il paese ha già i “suoi” senza – casa, i “suoi” poveri, che vivono in condizioni abitative inadeguate; hanno bisogno di assistenza sanitaria, ma questo è un servizio che già costa moltissimo e che non soddisfa nemmeno le necessità degli italiani.

E’ un vero problema, che comunque certo non si risolve non accettando più immigrati, poiché le nostre industrie hanno bisogno di loro per poter funzionare e perché non si può impedire a nessuno di cercare condizioni di vita migliori. Molte società occidentali sono da lungo tempo multietniche, composte cioè da persone di etnie differenti.

L’Italia si è trovata impreparata di fronte a questo fenomeno: i provvedimenti del governo sono stati tardivi e sono operativi da poco tempo circa i nuovi ingressi (vedi la “Legge Martelli”). Dobbiamo comunque prepararci a vivere in società composte da razze, religioni, etnie diverse: l’importante è trovare un modo per vivere tutti insieme pacificamente.

CONCLUSIONE: LE MIGRAZIONI E LA SOCIETÀ MULTIETNICA

Rispetto al passato il mondo contemporaneo è seguito da un considerevole incremento dei flussi migratori. Oggi si emigra da tutte le aree povere del mondo verso quelle ricche: la scelta della destinazione è condizionata da fattori non solo geografici ed economici (dal Centro al Nord-America, dalla riva Sud a quella Nord del Mediterraneo, dall’Europa Orientale a quella Occidentale), non solo politici, ma anche culturali (la lingua, la regione, la presenza di comunità di connazionali).

La portata di questo flusso imponente non è facilmente misurabile, anche perché in parte considerevole le migrazioni si svolgono in forma clandestina. Proprio il carattere incontrollabile e, in apparenza inarrestabile del fenomeno costituisce un problema di non facile soluzione per le economie e per le opinioni pubbliche dei paesi industrializzati.

La società multietnica

Diverse sono state le reazioni. Da un lato (sinistra politica) si è manifestata nelle chiese cristiane, ma anche in una parte della cultura liberale la tendenza a cogliere gli aspetti positivi dell’immigrazione: non solo l’afflusso di nuova forza lavoro pronta a svolgere qualsiasi lavoro, ma anche l’ingresso di nuovi valori, usanze e culture.

In questa prospettiva il multiculturalità viene considerato un valore positivo: è così sostenuta l’idea di una società multietnica, in cui le differenze culturali e religiose siano adeguatamente protette e valorizzate, soprattutto in ambito scolastico.

La reazione identitaria

Dal lato opposto, il fenomeno migratorio ha suscitato risposte di ansia e ripulsa (con punte di vera e propria xenofobia), risvegliando l’antica paura dell’Occidente di essere sommerso da ondate di popoli più numerosi e demograficamente più vitali. Questa minaccia, vera o presunta, portata agli equilibri dei paesi ospiti dall’ingresso degli immigrati (soprattutto se dotati di forte coesione culturale, com’è il caso dei musulmani) ha accentuato, per reazione, la tendenza alla riscoperta e alla difesa golosa delle identità nazionali o religiose, già alimentata dalla caduta dei grandi sistemi ideologici.

CURIOSITÀ (FILM , TESTI CANZONI, FOTOGRAFIE E ALTRO)

I temi dell’emigrazione e del boom economico sono stati oggetti di diversi film dal dopoguerra fino ai giorni nostri. Dal 1945 al 1950 il cinema italiano si riscatta con la ricca e feconda stagione del neorealismo, quando alcuni registi girano, con attori presi dalla strada, con pochi mezzi e senza sostegni dallo Stato, film che raccontano storie ambientate nella realtà dell’Italia distrutta dalla guerra come: “La terra trema”, “Roma città aperta” e “Ladri di biciclette”.

Ecco alcuni dei film più famosi che ritraggono la realtà del dopoguerra italiano.

LADRI DI BICICLETTE (1948)
A un padre di famiglia che ha trovato un impegno come attacchino nella Roma del dopoguerra rubano la bicicletta, strumento fondamentale per il lavoro. Disperato, cerca di rubarne una allo stadio: bloccato e aggredito dalla folla viene lasciato libero davanti alle lacrime del figlio Bruno che commuovono la gente. Questo film è una delle opere migliori del neorealismo “centro attorno al quale orbitano le opere degli altri neorealisti”, ed è una lucida e profonda anali della dura realtà di quei anni.

IL BOOM (1963)
Per risollevare i propri affari e pagare i troppi debiti Giovanni Alberti decide di vendere un occhio a un riccone. Ma arrivato a un passo dell’operazione subentra la paura. Il film si regge tutto sulla recitazione di Sordi sulla sua abilità nel descrivere le meschinità dell’Italiano medio.

COSI’ RIDEVANO (1998)
Anche se il film è recente, la storia è ambientata negli anni 50/60, periodo in cui il boom economico investì il nord e in particolare la Torino della Fiat e degli operai. Il titolo del film si rifà a una vecchia rubrica della rivista “La domenica del corriere”: sull’ultima pagina comparivano delle barzellette che però non facevano ridere più nessuno, ma semmai intenerivano per l’ingenuità di un pubblico ormai scomparso.

Nella Torino degli anni 50, centinaia di meridionali arrivavano ogni giorno. Il calabrese Pietro arriva a Torino e cerca subito il fratello maggiore Giovanni. Lui, già a Torino da qualche anno, va in giro ben vestito, sembra un signorino, ma si vergogna delle origini e dei propri segreti. Giovanni vuole che Pietro diventi un bravo maestro. Pietro crede ciecamente nella bontà di Giovanni, che in realtà è diventato un delinquente. Per amore del fratello Pietro si auto accusa di un omicidio commesso dal fratello, e rinuncia ad una vita che poteva dargli riscatto sociale e un lavoro prestigioso.

I COMPAGNI (1963)
Il professore Sinigalia guida uno sciopero di lavoratori tessili Torinesi alla fine dell’ 800. L’arrivo di un gruppo di crumiri, alcuni tafferugli e l’intervento della polizia fanno fallire lo sciopero, ma gli operai hanno cominciato a prendere coscienza delle loro forze. Il film è un affresco spettacolare, divertito e malinconico su un nascente movimento operaio dove qualche sdolcinatura alla De Amicis non limita la forza di questa commossa rievocazione del socialismo Torinese agli inizi del secolo.

TREVICO-TORINO (1973)
L’amara presa di coscienza di un giovane emigrato del Sud nella capitale dell’auto: il contatto traumatico con la città, l’assunzione alla Fiat, l’amicizia con un sindacalista e con una giovane extraparlamentare, l’inasprimento del lavoro dopo un litigio con il caporeparto. È un film realizzato seguendo l’idea zavattiniana del giornale cinematografico che cerca di equilibrare documentario, narrazione e sensibilità psicologica.

PANE E CIOCCOLATA (1973)
L’emigrato Italiano (Manfredi) cameriere nella linda Svizzera, compie l’efferato crimine di orinare in pubblico, perdendo lavoro e permesso di soggiorno: comincia così una vita di clandestinità fino al disperato e fallimentare tentativo di simulata arianità con tintura bionda ai capelli. Nonostante l’ingombrante presenza di Manfredi che non si rifiuta nessun vezzo gigionesco, Brusati riesce ad affrontare il tema dell’emigrazione senza cadere nel populismo e lavorando efficacemente sul registro grottesco – surreale.

L’emigrazione (sia verso l’America che dal sud al nord d’Italia) fu oggetto anche di molte canzoni. Molte raccontavano delle difficoltà incontrate durante il viaggio e nei primi momenti dell’integrazione, ma parlavano anche di nostalgia per la terra lontana considerata pur sempre come la vera “casa”, nonostante le necessità di andarsene per trovare un lavoro.

“AMERICA AMERICA”

Mamma mia dammi cento Lire
Che in America voglio andar,
cento Lire io te le do ma in
America no no no
Suoi fratelli alla finestra:
“Mamma mia, lasciala andar!”
“Va’ va’ pure, o figlia ingrata,
bastimento s’affonderà.”
Quan’ fu stata in mezzo al mare
Bastimento l’è affondà.
“Il mio vestito da ballerina
l’acqua del mare lo bagnerà.
I miei capelli son ricci e belli:
l’ acqua del mare li marcirà.
E la mia carne è tanto tenera
I pesci del mare la mangieran.
Le parole dei miei fratelli
Sono quelle che m’ han tradì.
Le parole della mia mamma
Son venute la verità

CASA MIA (Equipe 84)
Torno a casa, siamo in tanti sul treno
occhi stanchi, ma nel cuore il sereno
Dopo tanti mesi di lavoro mi riposerò
dietro a quella porta le mie cose io ritroverò
la mia lingua sentirò, quel che dico capirò
Dolce sposa, nel tuo letto riposa
Al mattino sai di avermi vicino
apri la valigia c’è il vestito che sognavi tu
guardati allo specchio, tu sei bella non levarlo più
Nostalgia che passa e va, fino a quando tu verrai
Casa mia, devo ancora andar via
non chiamarmi, io non posso voltarmi
porto nel mio sguardo la mia donna è tutto quel che ho
torno verso occhi sconosciuti che amar non so
questa volta chi lo sa, forse l’ultima sarà.

AMARA TERRA MIA (Domenico Modugno)
Sole alla valle e sole alla collina
per le campagne non c’è più nessuno
addio, addio amore, io vado via
amara terra mia, amara e bella…
Cieli infiniti e volti come pietra
mani incallite ormai più senza speranza
addio, addio amore io vado via
amara terra mia, amara e bella…
Fra gli uliveti è nata già la luna
un bimbo piange, allatta un seno magro
amara terra mia, amara e bella…

Durante gli anni del Boom economico si formò una vera e propria “classe operaia”, che, attraverso la canzone politica, parlava di sfruttamento e di condizioni di vita dure. Ecco alcuni testi che affrontano i vari temi di quegli anni.

LA CASSA DEL MEZZOGIORNO (Versi di M. Cardarola, Musica di E. A. Mario)
Simmo arrivate a n’epoca
Ca ‘o munno è fatto ‘e dollare
Cu ‘e dollare 11’America
Stu munno o vo cagnà:
perciò ‘e ccittà se cagnano:
so’ tale e quale a ‘e ffèmmene
ca cu’ ‘e ggioielle e 11’abbite
so bone d’abbaglià!
Ogge, ‘a Cassa do’ ‘ mezzogiorno
scecche ‘a ccà, scecche ‘a 11àsa
‘e stu Napule che ne fa!
Tutt’’o popolo, notte e giorno,
spiènne ‘a ccà, spiènne ‘a 11’avò
fa’ ‘o munno maraviglià.
Però sultanto ‘a fèmmena
‘a stessa restarrà.
Te ve’ bene? E nfrughete-nfru!
‘A Capri nfi’ ‘e Camàldule,
n’incrocio ‘e teleferiche,
e ‘a gente vene e va!
Pe’ tramme, projettile!
Pe’ treno, n’elicottero!
S’arriva dint’ a n’ attimo
Addo’ se vo’ arriyà!
Ce sta ‘a Cassa d’ ‘o Mezzogiorno?
Scecche ‘a ccà, scecche ‘a 11à,
ogne ghiuorno na nuvità!
Viene ‘a 11’estero,
e vuo’ i’ attuorno?
Spiènne ‘a ccà, spiènne ‘a 11à,
truove chello che vuò truvà.
È certo ca ‘a miseria
Afflige viecchiem e giuvene,
e vide ca s’ammòsciano
vicchiaia e giuventù…
Stu core mio, ca è giovine
E faciarria miràcule,
ahimè, se fa nu pizzeco,
Ma cù ‘a Cassa d’ ‘o Mezzogiorno
-scecche ‘a ccà, scecche ‘a llàviecchonun
se po’ addevantà.
Nun è sempe chillu taluorno:
spienne ‘a ccà, spienne ‘a llà,
truove chello ca vuò truovà!
E allora pure ‘a fèmmena
Se proje llà pe’ llà…
Tu lle dice: -Nfrunghete-nfru?
Te risponne: -E ndringhete-ndrà.

SARETE VOI PADRONI AD EMIGRARE
Quel giorno che so’ andato a Settentrione
L’hai maledetto sempre, o moglie mia;
è stato per la disoccupazione
che ho dovuto lasciare la terra mia.
La Svizzera ci accoglie a braccia chiuse,
ci mette il pane duro dentro in bocca;
tre anni l’ho inghiottito questo pane,
tre anni carcerato alle baracche.
Lo sfruttamento è calcolato bene,
ci carica fatica ogni minuto;
è un orologio di gran precisione,
la Svizzera cammina col nostro fiato.
Padroni dell’Italia e dell’Europa
L’uno all’altro stretti son legati,
mentre che i sindacati traditori
vogliono separare gli sfruttati.
Sono tornato a maggio per il voto,
ma non ha vinto il proletariato,
perché finchè ci sono le elezioni
vincono i riffiani e i padroni.
Ma noi ci organizziamo per lottare
E per unirci a tutti i proletari;
sarete voi padroni ad emigrare,
ad emigrare ma da tutto il mondo

DIALOGO FRA DUE GIOVANI SULLE DONNE NEGLI ANNI ‘50/’60
M.= Che ne pensi Luca del modo in cui le donne venivano trattate nel secolo scorso
(cioè ormai nel 1900) e del “rispetto” che ricevono oggi?
L.= Non lo so, non ho seguito questo argomento.
M.= Perché non approfondiamo?
L.= Ok ci sto!
M.= Ho trovato questo libro “Enciclopedia pratica per la famiglia”, un vecchio testo per
la scuola media del 1961. Pensa che una volta non c’era educazione Tecnica, ma i
ragazzi facevano cose diverse dalle ragazze. La materia si chiamava “Applicazioni
tecniche”. Ho sfogliato il libro per curiosità, per capire cosa facevano le nostre mamme
(e nonne) a scuola, e sfogliandolo mi sono resa conto che molti argomenti sono
veramente assurdi.
L.= Scrutando l’indice ho visto cose strane, che le donne di oggi non si degnerebbero di
fare e nemmeno di pensare.
M.= Per esempio hai visto il paragrafo in cui
la donna, moglie e madre modello, doveva
cambiare arredamento per ogni occasione?
L.= Sì ci ho dato un’occhiata sono pratiche
veramente inusuali. Chiaramente il
presupposto era che la donna non lavorava,
altrimenti come faceva?
E tu hai dato uno sguardo all’agenda pratica
delle cose da fare e da ricordare nei dodici
mesi dell’anno?
M.= La donna era considerata “schiava della
casa e della famiglia”. Anche al giorno d’oggi
alle donne è riservato un gradino sempre
inferiore agli uomini, quando tornano dal lavoro sono sempre in cucina o a rimettere in
ordine casa, anche se oggi l’uomo è più disponibile nei loro confronti.
L.= Hai ragione, ma devi considerare che fino a pochi anni fa i posti di lavoro per le
donne erano scarsi, mentre oggi si sono aperti nuovi orizzonti che offrono più
importanza alla donna sul piano sociale.
M.= Sono d’accordo con te, ma la parità di diritti è ancora un traguardo da raggiungere.

FOTO

La piaga dell’acqua

Nella fotografia, cortesemente concessa dal “Gazzettino” di Venezia, una donna alla fontana pubblica in Friuli verso la fine degli anni Cinquanta. Una parte dell’Italia, anche di quella oggi ricca, viveva ancora senza avere in casa l’acqua corrente. Nel Veneto del 1961, all’immediata vigilia del boom, ricorda il sociologo Ulderico Bernardi, su 100 case 48 erano senza l’acqua corrente, 52 senza il gabinetto, 72 senza il bagno, 15 senza la luce elettrica, 81 senza il gas a rete, 86 senza il termosifone.

L’ecatombe infantile

Nella foto, una scuola rurale del 1910. I bambini ritratti sono praticamente gli scampati a una mortalità infantile spaventosa. Spiega il “Sommario delle statistiche storiche” edito dall’Istat che nel decennio1900-1910 morirono in media 719.565 italiani l’anno dei quali 296.576 bambini al di sotto dei 5 anni: il 41%. Nello stesso decennio furono registrate mediamente 1.138.373 nascite. Il che vuol dire che uno su quattro dei piccoli non arrivava ai cinque anni.

Eppure in passato i dati erano stati perfino peggiori: basti dire che l’età media in cui si moriva, nel decennio 1881-1890, era di sei anni e quattro mesi. Oltre dieci volte più bassa di quella che si sarebbe registrata tra il 1951 e il 1955 (69 anni) o di quella di oggi. Ma negli orfanatrofi, spiega Ernesto Nathan nel suo “Vent’anni di vita italiana”, le cose andavano ancora peggio: nel 1887 “si ricevettero nei Brefotrofi o si collocarono direttamente a balia, tra figli legittimi, illegittimi ed esposti, 23.913 fanciulli, d’ambo i sessi s’intende; ne morirono 12.859, il 53,77%”.

E anche qui in passato era andata perfino peggio: “la mortalità, per crassa ignoranza , incuria o indifferenza delittuosa, è stata inaudita, spaventevole: in alcuni casi da arrivare fino al 99% degli entrati”.

1953: nudi nelle miniere

Nella straordinaria fotografia del grande Fulvio Roiter, tratta dal suo libro “Visibilia”, due minatori al lavoro in una miniera di zolfo a Caltanissetta. Costretti a lavorare nudi per il caldo soffocante e perché i vestiti si appiccicavano alla pelle, i picconieri (per non parlare dei “carusi” che prendevano ancora meno) guadagnavano allora 530 lire al giorno: il costo di tre chili di pasta (154 lire l’uno) o di tre etti di salame (1.461 lire il chilo). Il poeta Alessio di Giovanni dedicò ai “carusi”, i bambini che trasportavano lo zolfo fuori dalla miniera e che cominciavano a lavorare già a sette o otto anni.

BIBLIOGRAFIA

  • Italia 1951: grande miseria: “Commissione Parlamentare sulla miseria 1951″
  • Italia 1951: salario e potere acquisto: “Commissione Parlamentare sulla miseria e
    Sommario statistiche storiche italiane 1861-1955”, Roma, 1958
  • Case del Veneto nel 1961: strascichi di miseria alla vigilia del boom: “Paese Veneto”, di Ulderico Bernardi, ed. Il Riccio, Firenze 1987
  • Percentuale di analfabeti nel 1931: sito www.bibliolab.it su dati tratti da “Storia della
    scuola in Italia dal Settecento ad oggi” di Genovesi ed. Laterza e La scuola in Italia, di
    Marcello Dei, ed. Il Mulino
  • Percentuale di analfabeti nel 1961: sito www.bibliolab.it su dati tratti da “Storia della
    scuola in Italia dal Settecento ad oggi” di Genovesi ed. Laterza e La scuola in Italia, di
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INTERNET

  • http://www.caritasroma.it/immigrazione/
  • http://www.istat.it/novità/stranieri.html
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  • http://kidslink.scuole.bo.it/ic7-bo/emigrazione/pagine/
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  • http://www.bassafriulana.org/scuole/icpal/medie_carlino/progetti/900/boom.htm
  • http://itczanon.org/iodonna/i/inquadramenti/Manzini/II%20boom%20economico
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