“IMI” TRENTINI, INTERNATI, MALMENATI, INGANNATI – 9

LETTERE, DIARI, TESTIMONIANZE

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Ancora una serie di toccanti racconti sulle sofferenze degli internati militari italiani nei campi di concentramento nazisti. Con un’avvertenza: ho lasciato così com’era il testo originale. Quindi con sgrammaticature, storpiature di nomi. Non per mettere alla berlina gli autori. Ma per far capire, invece, la sincerità, il dolore, la sofferenza che arrivava sulle loro lettere direttamente dal cuore, senza orpelli letterari e null’altro che il desiderio di sentirsi ancora vivi. C’è poi anche un video che non riguarda internati trentini ma fornisce comunque particolari su quel periodo di prigionia dei nostri soldati.

a cura di Cornelio Galas

CORTIANA ARTURO Luogo di conservazione dei documenti: Museo della guerra di Rovereto, Archivio storico. Data di nascita: 1911; Luogo: Ala; Occupazione: Meccanico. Tipologia: Epistolario. Al Museo della guerra i famigliari di Arturo Cortiana (attraverso la figlia Rosellina) hanno versato un robusto pacco della sua corrispondenza con casa. Vivacissima e allegra quella del periodo di leva del 1935-36; percorsa da inquietudini, da sofferenze fisiche e morali, quella dei lunghi anni di guerra. Scrive spesso, Arturo, per sentirsi vicini i suoi e incalzarli a scrivergli a loro volta:  “… da borghese meno posta ricevo sto più sano, qui invece la differenza è grandissima per avere una sola cartolina (senza esagerare) si perderebbe il rancio di tutta la giornata (ecco, perché io scrivo). Parlando in generale, l’unica consolazione è la posta, e se le giornate passano veloci, lo è perché si aspetta il postino. Quando alla sera si ascolta il bollettino (e sì che interessa molto a noi come a tutti) ma quando entra in azione il postino, si abbandona ogni cosa e se lo circonda senza fiatare per tutto il tempo della distribuzione, e quello che succede dopo non te lo racconto nianche”. Sono parole di una lettera al fratello Francesco del marzo 1943. La madre Marina era morta nel 1941. Il padre, che si chiamava Arturo anche lui, l’avevano perso ancora all’inizio della grande guerra precedente, nel 1914. Papà Cortiana faceva il fabbro ed era proprietario di una fucina alla Rocca in Val di Ronchi, che era anche l’abitazione della sua famiglia. Era un artigiano del ferro rinomato, premiato in mostre internazionali a Milano e a Parigi. Sulla fucina (ricavata dall’adattamento di un mulino abbandonato) sono state scritte da Aldo Gorfer pagine piene di suggestione (in Terra mia. Storia e paesaggio. Comunità e paesaggio, Saturnia, Trento 1981, pp. 206-216). Ad occuparsene, fin dal primo dopoguerra, era Francesco, di una decina d’anni più grande del fratello (un suo breve scritto autobiografico, La mia guerra, è pubblicato in “I quattro Vicariati e le zone limitrofe”, n. 68, 1990, pp. 76-80).

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Arturo aveva a sua volta talento e passione nel suo lavoro, quello di meccanico. Nelle lettere a casa sottolinea spesso con orgoglio il prestigio guadagnato nella vita militare, occupandosi di motori e di automezzi. Gli avvenimenti militari vi sono evocati molto parcamente. Cortiana è scarsamente influenzato dalla retorica di regime; quando scrive del dovere di servire la patria, lo fa senza trionfalismi o formule stereotipate. Nel 1942 è in Croazia, nel 1943 in Slovenia, impegnato nella repressione dei “ribelli” jugoslavi, nei confronti dei quali ha parole di una violenza in lui insolita. Il 27 luglio 1943 invia una cartolina di poche righe in cui si fondono l’avversione a quel tenace nemico e la soddisfazione per la caduta del fascismo: “Ove mi trovo ci sono i ribelli, che combattendo contro loro dimentichiamo tutto quello che è più caro per poter arrivare allo sterminio completo di questi barbari. Io sto lontano, non avete nessun timore anche se non scrivo. W il Re W Badoglio W L’Italia libera”.

L’8 settembre lo coglie in terra balcanica. I documenti epistolari a questo punto diventano pochissimi e, per quasi due anni, di lapidaria brevità. Tra le poche frasi che arrivano a casa dalla Ruhr, spiccano sul foglio quelle che alludono a pericoli estremi: “Ho visto la morte è molto brutta ora se ne è andata”; “la vita si valuta solo quando si vede la morte”; “son contento d’aver conosciuto la fata morgana”. Passano quasi due mesi dalla fine di Hitler e del nazismo, prima che si ristabilisca un flusso vero e proprio di corrispondenza verso casa: sono le lunghe lettere di inizio luglio ’45 in cui appare ancora immerso in un incubo. “Volevo uccidermi, per non morire martorizzato. […] Le barbarie che hanno fatto i tedeschi non saranno credute se non viste o provate”. La tensione tra l’impulso alla vendetta e la fede cristiana riscoperta in prigionia conferisce a questi documenti ulteriore interesse ed emozione.

COSER ITALO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento, Tipologia: Epistolario. Descrizione: 3 cartoline. Cartoline di tre amici a Italo Coser internato militare in Germania (I.M.I.) nello M. Stammlager XVII A (17.12.1943 – 14.8.1944).

Si trascrivono i testi delle tre cartoline ricevute in prigionia dal Sergente maggiore Coser. Ricevuta da Giovanni Penasa di Pracorno di Rabbi (Tn) in data 17 dicembre 1943: “Carissimo Italo, la Vostra sorte, che già prevedevo, mi reca un vivo dolore. Vi ho sempre ricordato e non mancherò in divenire. Stò bene. Il Signore vi dia la forza di superare la prova con coraggio e rassegnazione, ecco il mio augurio. Buon Natale. Aff.mo Giovanni”.

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Ricevuta da Luigi Gentili di Valle San Felice (Tn) in data 1 [agosto?] 1944: “Caro Italo se non avessero sospeso la spedizione di pacchi ne sareste già in possesso, e manderò volentieri. Appena possibile mando sigarette. Non pensate che io abbia pensato a una sfacciataggine, tutt’altro in questi tempi! I più sinceri auguri di un presto ritorno, saluti da tutta la mia famiglia. Anche Guglielmo si trova prigioniero come voi”. Mario Foss di Ala (Tn) in data 16.8.1944: “Caro Italo, grazie di cuore per il tuo pensiero veramente gentile. E’ ormai un anno che non ci vediamo più ma il mio [ricordo] è più vivo che mai. Ripenso a tutte le nostre comuni aspirazioni e mi auguro che il destino ci ripaghi delle delusioni passate. Ti penso sempre e ti attendo con fiducia. Tua madre sta bene. Ti abbraccio, tuo Mario”.

COSTA GIULIO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento, Data di nascita: 29/11/1921; Luogo: Costa di Vallarsa; Occupazione: contadino. Titolo: “Ricordi della mia vita militare e della mia Prigionia”. Tipologia: Memoria autobiografica. Descrizione: manoscritto. Arruolato nel gennaio 1941 e destinato al 33° Reggimento di Artiglieria someggiata, Costa raggiunge l’isola di Corfù. Vi rimane due anni. Con l’armistizio e dopo una breve resistenza, i militari italiani vengono fatti prigionieri dall’esercito tedesco. Costa viene inviato in Polonia e successivamente in Prussia orientale, dove lavora presso una famiglia di contadini. Con l’arrivo dell’esercito russo è portato a Lublino, in un campo di raccolta: da lì raggiungerà l’Italia nell’ottobre 1945. Costa Giulio, di Costa di Vallarsa, viene chiamato al servizio di guerra e destinato al 33° Reggimento di Artiglieria someggiata. La sua destinazione è l’isola di Corfù in Grecia, raggiunta via Brindisi, aggregato alla divisione “Acqui”: “Dopo non tante ore di navigazione siamo arrivati a Corfù. Scesi dalla nave siamo andati in un posto che si chiama Fortezza Veneziana. Era una grande caserma”. Il paese in cui viene destinato il reparto di Giulio Costa è Moraitica. La vita militare nell’isola è tranquilla; l’unico problema sanitario è costituito dalle zanzare che provocano la malaria. Costa trascorre due anni sull’isola con alcuni trasferimenti interni (“Nell’isola vi erano mille e più soldati. Il loro contegno è sempre stato corretto verso quella gente dell’isola. Dicevano Italiano buono – Tedesco cattivo”).

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Dopo la comunicazione dell’armistizio trascorrono alcuni giorni nella confusione, quindi Costa riferisce circa le trattative intraprese con i tedeschi dal generale Gandin: “Il comando tedesco consegnò al nostro generale Gandin questo ultimatum: “1. Con i tedeschi. 2. Contro i tedeschi. 3. Cedere le armi. Questa soluzione era dura da accettare da parte dei nostri ufficiali. Ci furono diversi contrasti fra le due parti. Piuttosto che cedere le armi si passò alla battaglia. In poco tempo la nostra divisione Acqui è stata annientata con perdite gravi. Quello che è più macabro e orrendo la fucilazione in massa dei prigionieri. Itler [sic] da Berlino dava ordini ai suoi ufficiali di non fare prigionieri. Si parla di quasi 10.000 morti. Morti in combattimento, ma i più massacrati dopo la resa e affondati sulle navi dalle mine. Da qui i tedeschi vogliono impossessarsi anche dell’Isola di Corfù. Di giorno gli Stucas [sic] volavano bassi sopra l’Isola. Qualche volantino lasciavano cadere dove diceva Italiani arrendetevi. Anche qua nell’isola ci furono combattimenti. Anche qua morti e fucilazioni. Il giorno 26 settembre 1943 l’isola si arrende. Il giorno stesso assieme ufficiali e compagni siamo stati fatti prigionieri. Tutti assieme ci portarono verso al campo di aviazione di Corfù. Per strada camminando con le guardie ci dicevano Badogliani vi porteremo in Germania a morire di fame. Qualche guardia si infilava fra i soldati e gli strappava l’orologio. Ci accamparono sotto le tende per 15 giorni. Ogni giorno ci mettevano alla prova. Chi volesse andare con loro o restare prigionieri. Tutti unanime resteremo prigionieri. Si avviava così sempre di più il maltrattamento. Il cibo si diminuiva. Un chilo di pane nero si doveva mangiare in 10. Qualche scatoletta Italiana trovata nei nostri magazzini. Le parole più belle che si sentivano erano sempre quelle Italiani dovete morire. Qua incominciavamo a intravedere le dure vie della prigionia”.

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Molto interessante la descrizione dell’affondamento della “Mario Rosselli”: “La mattina del 10 ottobre 1943 ci portano al porto di Corfù. Da qui si vedeva una grossa nave ancorata al largo. Distava da noi circa 5 km. Eravamo in tanti prigionieri il numero esatto non lo saprei. Qua al porto erano pronti dei zatteroni che 100 uomini alla volta li portava alla nave. Sul primo zatterone sono salito anch’io. Arrivati alla nave ci fecero salire come fossimo bestie. La stiva della nave grande e profonda era davanti ai nostri occhi. La scaletta di accesso era una sola e per far presto ci buttavano giù come merce da scaricare. La nave era Italiana-Mario Rosselli, fatta prigioniera dai tedeschi. Quando tutti i prigionieri furono a bordo, stivati laggiù come sardine, un boato ci impaurì. Un panico terribile. Tutta questa gente ammassata voleva salire per rendersi conto dell’accaduto. La scala era una sola. Tra spintoni e grida da non dimenticare. Arrivato in cima alla nave vidi dei morti qua e là. La nave era stata bombardata e mitragliata da quattro apparecchi Americani o Inglesi. Colpita in pieno stava piano piano affondando. La nave era sotto controllo tedesco. Quando il capitano e i suoi uomini videro che affondava sempre più lasciarono la nave. Da quel momento tutti si buttarono in mare. Era veramente una disperazione. Porte e tavolato di legno erano la loro salvezza. Ma poco durò questo. Il troppo peso delle persone, non riusciva a stare a galla, e così tutti insieme morivano annegati. Diversi sapevano nuotare e piano piano si salvarono. La nave si inclinava, sempre di più. Momenti di angoscia, la morte che si avvicinava sempre di più. Pochi eravamo rimasti sulla nave, quelli che non sapevano nuotare. La nave ormai quasi si capovolgeva. Cosa ti può aiutare in questi momenti più della preghiera. Una Ave Maria e un atto di dolore sgorgavano dalle mie labbra. Signore se puoi salvaci. Dove andava poi il mio pensiero. Ai miei genitori, fratelli, zii, nonni, la mia casa, i miei paesani, la mia Valle. Intanto che meditavo tutto questo le tante lacrime che cadevano dai miei occhi arrossati, mi pareva che non si fermassero più. Mentre sto scrivendo queste due righe le lacrime bagnarono questo foglio. Da un fianco della nave con le mani si toccava l’acqua. Non posso dimenticare pure questo. Mentre pregavo pensavo ai miei famigliari. Oggi, 10 ottobre, mia mamma compiva gli anni. Senz’altro mi ricorderà con una preghiera o un rosario. Tutto ormai davanti a noi era finito. Ecco che da lontano si è visto un zatterone, che andava, vagando a raccogliere i naufraghi e i sopravvissuti. Si avvicinò alla nave e così salimmo su anche noi. Per me dico sempre un miracolo questo, poter toccare ancora terra. Arrivati al porto quei pochi rimasti, i tedeschi ci portarono in una fortezza buia ed umida. Molti si annegarono. Sulla nave tanta roba di vestiario si è dovuto lasciare. La gavetta è sempre stata con me fino al mio ritorno. Ancora pieni di paura le parole più belle erano vi porteremo in Germania, a morire di fame. Si mangiava male e quando capitava. Dopo tre giorni ci portarono al porto e ci caricarono su una petroliera. Ricordo che la nave dove ci siamo salvati dopo poche ore è affondata. Il viaggio sulla petroliera , si viveva sempre nella paura, per i sommergibili. Due volte scattò l’allarme; tanta paura e tutto finì bene. Arrivati a Patrasso siamo scesi e ci portarono in una caserma…”.

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I sopravvissuti alla tragedia del Rosselli, dopo cinque/sei giorni di permanenza a Patrasso, vengono riportati al porto di Pireo; salgono quindi su una nave per Salonicco. A Salonicco i prigionieri italiani vengono impiegati nello scavo di trincee, costruzione di fortini e piazzole per cannoni. Giulio Costa viene tenuto in questa località per circa 2 mesi. “ Il 18 dicembre 1943 invece di portarci come sempre al lavoro ci portarono alla stazione dei treni di Salonicco. Ci fanno salire su una tradotta bestiame. Ogni vagone 50 prigionieri. Il tavolato del vagone era il nostro letto. Sporco di carbone, e una finestra piccola,  non con i vetri ma i reticolati. Un piccolo bidone a un lato, che serviva per i propri bisogni. La tradotta è partita come fosse carica di bestie. Mattina e sera le guardie venivano a farci visita. Aprivano il portone grande, che era chiuso con un catenaccio, ci contavano e andavano… Siamo stati anche due giorni senza mangiare. Si stava a stento in piedi. Il vagone dei momenti mi pareva che girasse attorno… Il giorno 25.12.1943 siamo arrivati nella stazione di Budapest Ungheria. Debole e stanco avevo ancora un pò di voce, per cantare, Tu scendi dalle stelle. A lato della nostra tradotta era fermo un treno passeggieri. Gente che mangiava, seduta, pane bianco. Cosa avrei fatto per averne un pezzetto. Chi non li veniva in mente i Natali trascorsi a casa con i tuoi famigliari”.

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Il viaggio prosegue: “Una notte muore uno dei nostri compagni. Che panico e tanto dolore. Senza luce, buio profondo. Questo poveretto chiamava forte mamma-papà. Cosa si poteva noi fare? Le lacrime di tutti scendevano giù fino all’ultimo respiro. Alla mattina vennero le guardie come sempre, videro il morto ma per loro come fosse morto un cane. Vennero alla sera uguale. Alla mattina del giorno dopo in tanto che la tradotta andava le due guardie, una per la testa e l’altra per le gambe lo buttarono giù per la scarpata. Chissà se qualche persona buona lo ha raccolto e dato una sepoltura…”.

Il convoglio prosegue verso la Lituania, raggiunge Vilnius (“Vilna”), dopo 22 giorni di strada ferrata. Di questo periodo Costa ricorda gli scambi effettuati con i civili locali per ottenere del pane (per questo Costa vende il suo orologio).  Ad un certo punto viene effettuata una selezione e il gruppo di questo protagonista finisce in Polonia (“Zambro”). I prigionieri italiani continuano ad essere impiegati in attività di lavoro (scavo di trincee e fortificazioni), nella fame più assoluta ma con l’aiuto della popolazione locale (“la popolazione polacca era tanto buona”). Descrizione di un violento atto compiuto nei confronti di un compagno di Costa: un maresciallo tedesco spacca una bottiglia di vetro in faccia a un internato, ferendolo gravemente (Costa non ha saputo più nulla di questo prigioniero, di cui peraltro non ricordava nemmeno il nome). Quando i russi stanno avanzando, i carcerieri tedeschi prendono i soldati italiani e arretrano lungo la Polonia (mentre apparecchi sovietici mitragliano le colonne). Avviene quindi l’arrivo in Prussia Orientale; la città cui fa riferimento Costa è “Neidenbur” [?]. Il nostro viene preso in consegna da un contadino che lo impiega in campagna, in particolare nella mungitura di vacche (i suoi compagni si occupano di raccolta di patate, orzo, segale). Oltre alla mungitura Costa deve portare anche le vacche al pascolo. L’alloggiamento è in una baracca attigua alla fattoria. Una sera, scrive Costa, si avvicina alla baracca un figuro mascherato che propone agli internati, con un tedesco stentato, di passare ai partigiani. La minaccia, in caso di delazione ai tedeschi, è di fare saltare in aria nella notte la baracca degli italiani. Spaventati, Costa e compagni vanno dal padrone e riferiscono dell’accaduto; il fattore e altri uomini escono armati e ingaggiano un conflitto a fuoco con il presunto “partigiano”. Dopo il fatto le autorità tedesche trasferiscono Costa e compagni in prossimità di una stazione ferroviaria, dove vengono impiegati nello scarico di merci belliche.

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“Una mattina le guardie ci portarono come sempre per lavorare. Per strada si sentiva lontano dei bombardamenti e qualche granata sopra la testa. Nella notte era caduta mezzo metro di neve, e intanto che si camminava nevicava ancora. Fra di noi si diceva dove ci porteranno. Si capiva che i russi erano vicini. Si camminava per andar dove. Era il giorno 24.1.1945 …”

Le guardie tedesche, che stanno fuggendo dai russi insieme ai prigionieri, lasciano fuggire Costa e compagni. Questi ultimi raggiungono un maso dove si rifocillano e si nascondono, fino all’arrivo di una pattuglia avanzata di soldati russi. A questo punto viene ammazzato un maiale, “fatto a pezzi”, quindi caricato su una slitta: è la scorta di cibo per il viaggio di ritorno. In seguito gli italiani vengono ripresi dai russi e messi in una caserma dove vengono raccolti tutti gli ex prigionieri dei tedeschi, ora sbandati sul territorio germanico.

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Presso questo luogo di raccolta c’é la possibilità di ritagliarsi i primi spazi di svago: “Qui a Lublino abbiamo saputo che la guerra era finita. Contenti aspettavamo il giorno per ritornare a casa. Fuori c’era un bel piazzale … Mi ricordo che uno di questi giocatori, prima di fare il militare, giocava nel Bologna, si chiamava Pagotto, era anche in Nazionale a quei tempi … “.

Da Lublino Costa e compagni vengono condotti in Russia presso “una cittadina chiamata Slucch…”. Nel suo vagare – è l’estate del 1945 – Costa incontra altri ex internati della sua zona di origine, la Vallarsa: in particolare Sottoriva Domenico il quale “prima di partire soldato era direttore della Cooperativa di S.Anna…”. Verso la fine di settembre 1945 Giulio Costa viene caricato su una tradotta la cui destinazione è l’Italia: il viaggio è molto lungo e impegnativo. Gli ex-IMI transitano attraverso Romania, Ungheria, Austria e qui, attraverso il Tarvisio, entrano in Italia. Il gruppo di Costa è formato da ex internati ora vestiti con divise russe: “Io e il mio amico di Avio siamo saliti sul treno passeggeri per il Brennero. Eravamo vestiti da Russo e la gente ci domandava da dove venite. Siamo prigionieri, veniamo dalla Russia. Tutti volevano sapere qualche cosa. Era il giorno 7 ottobre 1945, giorno della Madonna del Rosario. Arrivati ad Avio il mio amico Mario è sceso. Due lacrime e un abbraccio e ci siamo salutati. Si prosegue per Rovereto. Mi venivano in mente la stessa ferrovia che mi portò in Grecia, grazie al Signore era ancora quella che dopo cinque anni mi portò di ritorno…”.

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Arriva a Rovereto che è notte fonda; ricorda di avere una zia in località San Giorgio. Un passante gli comunica che quei parenti sono ancora vivi, lui decide di raggiungere la loro abitazione: “… Arrivai sotto casa di mia zia, salgo le scale e arrivai sulla porta di cucina. Nella stanza c’era poca luce, bussai e entrai. Mia zia era in camera che dormiva. La zia, sola in cucina, da cinque anni non mi vedeva e vestito da russo non mi ha riconosciuto. Incominciò gridare Gidio Gidio i partigiani. Si spaventò forte. Gridando forte sono il Giulio nella voce mi riconobbe. Abbiamo pianto tutti e due abbracciandoci…”.

Il padre e il fratello di Costa scendono il mattino successivo in bicicletta dal paese e riabbracciano Giulio, che non vedevano ormai da cinque anni. Tutti e tre risalgono in corriera la Vallarsa e raggiungono il paese di Costa: “… La sera la casa mia era piena di gente, tutti volevano sapere della mia vita di prigionia. Viene ora di andare a dormire, mia mamma mi preparò un bel letto morbido. Abituato a dormire per terra mi coricai sul pavimento. Dopo poco tempo viene la mamma per darmi la buona notte. Vedendomi coricato a terra si mise a piangere. Mi faceva pena e per accontentarla mi misi a letto. Dormivo assieme a un fratello. Tante notti lo spaventavo. Gridavo forte i tedeschi i tedeschi mi fucilano. Passò del tempo prima che mi abituassi a una vita normale. Il mio pensiero volava sempre lontano, a ricordare quella vita straziante e ai fatti vergognosi. Anche di giorno per minuti ero assente. Ci è voluto del tempo prima che tornassi a una vita normale. Ormai sono alla fine di questo racconto. Nel descriverlo qualche lacrima mi è caduta sul quaderno. Come posso terminare queste mie righe senza ringraziare il Signore che da tanti pericoli mi salvo! La fede e la preghiera mi era sempre accanto. Grazie Signore Grazie”.

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DEGASPERI GUIDO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento. Titolo: “Come evasi il Lager tedesco raggiungendo la famiglia in 6 giorni”. Tipologia: Memoria autobiografica. Memoria di sei giorni (dal 23 al 29 aprile 1944) scritta nel novembre 1947. In essa Degasperi racconta l’evasione dal lager di Hjeres (Francia), nei pressi di Nizza, l’incontro con i partigiani francesi che lo guidano oltre frontiera, attraverso il Col di Tenda, e il viaggio avventuroso fino a Pergine.

Dedica: “Dedico questo diario alla mia cara Emma e ai due figli Luciano e Sergio i quagli seppero essere sempre forti nelle calamità passate durante la mia assenza; assenza che fu sempre seguita da preghiere… Se qualc’uno avese da leggere questo mio diario non si meravili di qualche errore o qualche racconto messo con poca esattezza, solo posso affermare con tutta sincerità che quel che è qui ò scritto è pura verità. Degasperi Guido. Trento 5-XI-1947”. Il testo è suddiviso in capitoli. Il racconto inizia nell’aprile 1944 quando Degasperi racconta come riuscì ad evadere dal carcere di Ilyeres a Cannes (Francia) dove era imprigionato come IMI, insieme a 4 altri trentini. Il sospetto che qualcuno abbia rivelato ai tedeschi il progetto di fuga deriva dalla decisione dei carcerieri di farli lavorare anche di domenica, cosa del tutto insolita. Tra i compagni di fuga vi sono anche un IMI di Spor [minore? maggiore?], un certo Anesi Vittorio di Piné, un altro noneso e un giudicariese. La fuga consiste nel confondersi nell’andirivieni di prigionieri in uscita verso il lavoro; a distanza di un minuto uno dall’altro i cinque fuggono per la città “con testa alta per non sospettire nessuno che si incontrasse per strada, essendo la città piena di agenti della Chestapo, S.S., ecc”.

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Il progetto di fuga prevede di ritrovarsi tutti in un determinato punto (un bar) dove una guida (un trentino di Lavarone, emigrato trent’anni prima in Francia, “molto dedito al vino”) li condurrà verso la frontiera con l’Italia; lì aspettano il treno e poiché mancano un’ora alla sua partenza si recano a una messa “… che forse poteva essere l’ultima”. La fede nella Provvidenza dell’autore è ben rappresentata nelle righe che descrivono i suoi pensieri durante la celebrazione. Rientro al bar dopo la messa, lo raggiunge Fel(l)er Roberto suo paesano che vuole dargli un ultimo saluto e gli chiede di portare un saluto a sua madre. Ancora il tema della fede: Anesi estrae un piccolo pezzo di stoffa sul quale è raffigurato il Sacro Cuore e suggerisce ai compagni di baciare questo simbolo affinché possa proteggerli in quel viaggio avventuroso. Dopo due ore di treno arrivo a Tolone. Sosta in un bar. Risalgono su altro treno e, insieme a loro, due soldati tedeschi che fanno “sudare freddo” ai fuggitivi. La guida che avrebbe dovuto aiutarli è completamente ubriaca e l’unica cosa che pare interessargli sono i pacchi degli IMI nel caso in cui vengano scoperti dalle guardie presenti sul treno. A quel punto il Degasperi decide di prendersi la responsabilità del gruppo. Va avanti due vagoni: “non l’avessi mai visto!… tre miserabili come noi erano presi per braccio dai gendarmi tedeschi e come bestie spinti verso la coda del treno, cioé dove eravamo noi di posto. Altri gendarmi chiedono a tutti i documenti personali. Durante questo vedo che ai tre se ne aggiungevano degli altri; questa scena non resisto più torno indietro avviso i compagni. Si guardavano abbassavano la testa come se avessero sentito pronunciare da un giudice irremovibile la loro sentenza di morte. Ormai più nulla c’era da fare, saltare dal treno? Aspettarsi quello che hanno provato tanti poveri Italiani nelle mani della Ghestapo dell’SS od altri aguzzini nei diversi Lager”.

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Degasperi si getta dal treno in corsa e riesce a salvarsi con qualche escoriazione. Si reca subito in una chiesa seguendo una donna che poi – come in una sorta di suggestione mistica – scompare alla vista del protagonista. Al principio del capitolo secondo, Degasperi ci indica la sua meta: “Torchio – paesello a 600 m.s.l. che dista a 9 chilometri da Trento (“ove era sfollata la mia famiglia”). Incontra un soldato tedesco: “… Ad una curva vedo un gendarme, mi si gella il sangue, bastò un attimo! Pensai alla mia testa calva, levai il cappello, così ero sicuro di dimostrare un’età più avanzata del normale. Passai da presso, mi guardò con sospetto come nulla fosse lo sorpassai, dicendo fra me e me, sono esseri che sospettano anche di se stessi e senza svolgere lo sguardo via!!”

A 15 km da Nizza vaga per la campagna e viene aiutato da persone del luogo a trovare cibo e rifugio per la notte. Il contadino che lo ospita si offre anche di procurargli una guida di mestiere per raggiungere la frontiera. Viene portato in motocicletta al paese di Belvedere e affidato a un’altra guida che dovrà condurlo oltre al confine. Riesce in modo rocambolesco, fingendosi lavoratore, a superare il posto di controllo di due guardie tedesche ad un ponte in ricostruzione.  Viene accompagnato con la moto in montagna, verso le vette di confine. La persona che lo sta aiutando cerca una guida, intanto il nostro si nasconde in una catasta di legna. Poco dopo arriva una guida locale che cercherà di accompagnarlo verso l’Italia: “… Il più che ti consiglio è di essere deciso al tutto e se per caso sul nostro cammino avessimo a vedere o incontrarci con qualche tedesco, basta salutare così: “Bon giur mon sior” (buongiorno signore) come pappagallo ripetto e ne rimase soddisfatto”.

A Degasperi viene dato un vestito da carbonaio. Il servizio della guida è effettuato per 8.000 franchi, equivalenti a 24.000 lire di allora. L’obiettivo è quello di salire ai 3.650 m. del Col di Tenda. Il San Bernardo che li accompagna ha la funzione di segnalare per tempo eventuali presenze di soldati tedeschi sulla montagna. Ad un certo punto l’accompagnatore lo saluta e nell’indicargli il percorso migliore gli rivela di essere un capo partigiano, così come lo erano i personaggi incontrati dai due durante il cammino. I partigiani francesi stavano collaborando con i resistenti italiani, ai quali portavano anche cibo. Il partigiano suggerisce a Guido di stare attento ai tedeschi ma anche ai ribelli; questi ultimi, qualora lo fermassero, sarebbero costretti a trattenerlo con lui temendo che una volta rilasciato potesse andare a raccontare tutto ai tedeschi. Guido è lasciato solo sui ghiacciai: “… Una lacrima mi solca le guance. Cammino, facio pocchi passi; mi volto; osservo; il cane mi sta ancora guardando; Giorgio non lo vedo più”.

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Nella notte smarrisce la strada, si ripara tra alcuni massi e dorme; vede di lontano i fuochi dei partigiani, ascolta le loro canzoni. Il giorno dopo si incammina verso l’Italia, scendendo la montagna, e continuando a camminare per chilometri e chilometri. Arriva, dopo avere schivato varie insidie, a Borgo San Dalmazzo. Qui è aiutato da un contadino che lo conduce ad un albergo dove la titolare ha già aiutato i partigiani. Il paese è occupato dalle “Brigate nere” fasciste. In quello stesso giorno arriva un altro gruppo di fuggitivi dalla Francia che, nell’entusiasmo del ritorno in patria, festeggiano e danno nell’occhio a tutti. La proprietaria dell’albergo chiede la carta di identità per la notte a Degasperi il quale non vuole saperne. Nasce un battibecco in seguito al quale il nostro viene preso in custodia da un agente di Polizia che lo porta nella caserma vicina alla ferrovia.

Un ufficiale di polizia lo interroga, lo perquisisce. Questi aveva prestato servizio, negli anni precedenti, al comando di Trento e si ricordava di aver già conosciuto il Degasperi. Gli intima in ogni caso di tornare in albergo e di restare a disposizione. Qui c’é la comitiva di fuggitivi italiani, accanto ai quali – nota Guido – vi sono diverse spie in borghese che li osservano e ascoltano. Non può fare nulla per avvisarli, ormai è troppo tardi. Scappa dall’albergo e cerca rifugio su un colle sovrastante.

Il capitolo quarto si intitola: “Dal pollaio di Borgo Sant’Dalmazzo alla lusuosa camera nell’albergo a Torino”. Nel corso della notte brigate nere e tedeschi hanno circondato l’albergo e portati via i giovani in cui il nostro si era imbattuto. Degasperi torna alla caserma di polizia e il maresciallo lo consiglia di andarsene in fretta, di andare a prendere il biglietto ferroviario e poi tornare da lui. Trova grande aiuto nel Podestà del luogo, “dimodochè intuii che non tutti in Italia erano i seguaci alla Repubblica di “Salò””. Torna in caserma e ottiene gli ultimi documenti dal maresciallo. Sale in treno e, dopo diverse peripezie, arriva a Torino. Sosta in un albergo dove viene riconosciuto da un suo ufficiale del periodo di naia (1939), cui era molto affezionato. Le stazioni ferroviarie italiane non rilasciavano biglietto ferroviario per Trento ma fino a Verona. Degasperi lo scopre dal controllore del treno a Torino, che gli confida queste parole: Il Trentino è sotto le dirette dipendenze della Germania, e punto per questo ci vuole un speciale lasciapassare per recarsi in quella zona, per chi non è residente trentino o bolzanino.

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“Tali cose furono di utilità anche per me, però a tutto questo cominciarono i sospetti per me, come pure il non saper da farsi per quella famiglia che viaggiava in mia compagnia, io dopo breve pausa ne dissi che mi arrangerò alla meglio possibile. Così fra un discorso e l’altro si giunse a Milano; ove era pronto il diretto Milano – Venezia”. Salito sul convoglio, in prossimità di Brescia, chiede al controllore se a Verona vi sia la coincidenza per Trento: “Si rispose però mi chiese se avevo il lasciapassare per la zona delle “Prealpi”. A Verona scende dal treno e scopre che i controlli sono severi, allora risale e decide di andare da una conoscente a Rossano Veneto per avere delle delucidazioni. A Cittadella, dove si ferma, arriva un violento bombardamento aereo al quale scampa miracolosamente. Si unisce a una signora che anch’essa va a Rossano Veneto: “Erano le due pomeridiane quando il treno partì per Rossano. Strada facendo dovetti assistere a delle scene poco simpatiche e cioé c’erano degli appartenenti al famoso battaglione “Muti” che con indescrivibile sfrontatezza si portavano da un vagone all’altro facendo della corte scortese o meglio spudorata a delle viaggiatrici, le quali più d’una le vidi piangere, perché vilmente offese nel suo pudore. Rivolto alla mia compagna di viaggio (una signora sui cinquant’anni) le chiesi: “Ma come possono succedere delle cose simili?”. Mi guardò, crollò il capo e disse: “Ora comandano loro; guai serissimi a chi parla, avete capito?”. Tutto questo mi fu detto con un fil di voce. Arrivo a Bassano del Grappa”.

Prende il biglietto per Primolano. Consigliato da una signora decide di fermarsi a Bassano da un ufficiale suo conoscente. A Rossano Veneto incontra per caso la sua madrina di guerra, la quale lo ospita. Nell’abitazione si concentrano poi numerosi parenti di IMI di Rossano che cercano notizie dei loro cari. La donna che lo ospita cerca di mandare un telegramma alla moglie di Degasperi per annunciarne l’arrivo, tuttavia scopre che non è permesso mandare telegrammi oltre Primolano. Grazie a un commerciante di maiali della val di Non il nostro scopre che “basta essere in possesso di carta di identità che dichiari di essere residenti di Trento o Provincia”. “A tale dichiarazione mi si gonfiò il cuore; però sempre sospettavo di qualche brutto inconveniente…”.

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La mattina del 29 aprile 1944 decide di partire in bicicletta verso Primolano insieme alla madrina. Il treno parte, passa da Bassano, si avvicina sempre più a Primolano; pochi minuti prima di arrivare in questa località dei contrabbandieri presenti sul treno avvisano la presenza sul treno di un ispettore doganale germanico. Il controllo passa ma la signora viene bloccata con un “nicht Tirol” dai gendarmi. Il nostro riesce, in ogni caso, a raggiungere Pergine, Ciré di Pergine.

Ecco l’incontro con i suoi figli: “Varco la porta, entrai in cucina, nessuno!! Scendo le scale, vidi due testine bionde, mi guardavano, il sangue non mentiva, li riconosco uno era mio figlio Luciano e l’altro Sergio; presi Sergio senza parlare sul braccio lo bacciai, bacciai pure Luciano, chiesi se mi conoscevano, si asserì Luciano e Sergio non era sicuro chi fossi, finalmente, mentre facevo le scale mi disse: “Sei el papà” bastò questo, perché più non fossi capace di resistere e piansi di santo gusto e con me pianse pure anche Luciano…”.

L’incontro con la moglie: “La campagna [sic] maggiore del campanille di Seregnano segnava mezzo giorno, sentii un passo frettoloso salire le scale, viene Emma! affermò mia suocera, il cuore aumentava i suoi battiti mi faccio appresso alla porta, ma me la vidi aprire, eccoci! Siamo di fronte uno all’altro!!! temo un collasso per mia moglie, ma per fortuna non ci fu, aprì le braccia, mi guardò e come miracolosamente guarita da cecità le sembrava di vedere quello che in vita sua mai aveva visto. Un pianto dirotto di gioia per tutti e due, poche parole, però bastò quel breve istante perché ci capissimo. Ne fu per circa un’ora di cose emozionanti, di grande gioia, che posso affemare fu per me quel giorno, il più bello della mia vita. Seduto in cucina mi vidi circondato dalla moglie, figli, papà, suocera, parenti e amici; la notizia si era sparsa per tutto il paese”.

In un riepilogo finale il protagonista ci rivela che pochi giorni dopo fecero ritorno a casa anche gli altri quattro compagni di fuga. Un’ultima annotazione/riflessione finale di Guido Degasperi: “… Ne sia questo un perenne monito a tutti, indistintamente, quegli che della parola “reduce di guerra o prigionia” se ne fanno beffa non volendo digerire i giusti provvedimenti di legge emanati da un governo democratico, provvedimenti che sentono l’umano, sincero e sacrosanto obbligo di preferire al lavoro quegli individui che la guerra li spiantò e rovinò; alla differenza di quegli che dalla guerra non hanno che speculato e guadagnato, mentre come avete letto in questo mio malcomposto ma sincero diario, scrissi quello che in soli 6 giorni soffersi, dico sei giorni dei miei quattro anni di militare fra guerra e prigionia. Soffersi, si, ma m’inchino e chiedo scusa a quei molti Italiani che nei diversi campi di concentramento e di anientamento soffersero, e, ne sono certo più di mè per una guerra da noi Reduci e Combattenti, mai voluta”.

DELAITI IVO Luogo di conservazione dei documenti: Archivio Museo della Guerra, Rovereto. Data di nascita: 17/3/1919; Luogo: Rovereto; Occupazione: Ingegnere. Tipologia: diario. Descrizione: due taccuini manoscritti; trascrizione dattiloscritta dell’autore, con revisioni e integrazioni Nel fascicolo sono conservati due taccuini originali: uno (agenda azzurra) che copre il periodo 8.9.1943-31.12.1944, l’altro (notes arancione) che copre il periodo 1.1.1945-4.8.1945. C’è inoltre una trascrizione dattiloscritta consegnata dall’autore al Museo, assieme agli originali. La trascrizione presenta alcune variazioni rispetto all’originale ed è accompagnata da nuove note dell’autore, introdotte ciascuna dalla sigla N.B. Il testo è un mosaico di piccole annotazioni che Delaiti, nella lettera di donazione (20 marzo 2000), definisce come “descrizione telegrafica”. Riportiamo il testo della premessa alla trascrizione, datata 17 marzo 2000. “Se solo ora mi sono deciso a trascrivere i miei appunti di prigionia é anche perché la mia memoria si é un po’ assopita rispetto a quei tristi momenti. Lo ritengo inoltre un dovere verso quei compagni, meno fortunati, che travolti dalla fame, dagli stenti e dalle angherie ci hanno rimesso la vita e sono tanti. Se la guerra é una calamità (voluta da alcuni) che non rispetta niente e nessuno e tutto distrugge, la prigionia (specie se costretta in spregio ai trattati internazionali) diventa una assillante angoscia che non ti lascia, sotto sotto, neanche nei momenti meno tristi. A 22 anni mi sono trovato in divisa e sottoposto ad una disciplina assai dura ( p.e. ricordo che da soldato si consumava il rancio in piedi, nel cortile ed in pieno inverno);ciò non ostante, con l’entusiasmo di quella età, si sopportava abbastanza bene; ovviamente era niente rispetto a quello che sarebbe successo dopo. La guerra é orrenda, ma la prigionia ti porta ad uno stato mentale deprimente tutto speciale.- In prigionia la fame e gli stenti hanno messo a dura prova l’uomo, costringendolo a rivelare la sua vera natura! Questo mio diario, che semplicemente segna lo scadere del tempo della prigionia, credo che tuttavia sia in grado di evidenziare i vari momenti di vita nel Lager, con i suoi timori, le sue tragedie e le sue speranze. L’inserimento dei “N.B.” ha lo scopo di chiarire fatti e situazioni altrimenti non decifrabili dalle mie telegrafiche notazioni. Spero con queste mie note di dare un pur minimo contributo al diffondersi ed al radicarsi nei giovani dell’idea della pace. Per questo ritengo che il naturale depositario ne sia il Museo storico italiano della guerra che, con la custodia delle memorie, delle documentazioni e degli strumenti di morte, sempre ricordi alle future generazioni cosa significhi la guerra e le sue conseguenze”.

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Quanto alle trasformazioni del testo dall’originale alla trascrizione dell’autore, si nota che alcuni termini dialettali del taccuino vengono resi in italiano; sono introdotti sinonimi e modifiche della punteggiatura. Termini in italiano sono tradotti in tedesco e viceversa (“maresciallo” diventa “Feldwebel”, “zu arbeiten?” diventa “Al lavoro?” ); vengono corrette alcune scelte ortografiche. Riprendiamo dal testo l’elenco delle “peregrinazioni” di Delaiti: 11/9/43 Mühlberg – IV B – 24/9/43 Pikulice (Przemils) in Polonia – 15/1/44 Kustrin – III° C – 8/8/44 Sandbostel -X B – 14/12/44 Witzendorf – 5/1/44 Lager di Pallmaile – Altona –  Amburgo- 3/5/45 Lager di Stadpark – Amburgo – 9/6/45 Campo di Passmoohrveg – Amburgo -31/7/45 Campo di Mittewald (Baviera).

DE PEDRI AGOSTINO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento. Diario della prigionia, dal 9 settembre 1943 al 30 luglio 1945. Catturato a Bressanone, De Pedri viene inviato ai confini con la Russia, dove lavora in una fattoria. Successivamente è trasferito a Berlino dove viene impiegato a ripulire le strade dalle macerie delle case bombardate. Con un nuovo trasferimento si trova alla fine della guerra in Boemia in una fabbrica di benzina. Si tratta di una fotocopia del testo originale. L’autore, la sera dell’8 settembre, si trova in qualità di piantone presso un panificio militare di Bressanone: “… dove da poco più di un mese prestavo servizio militare dopo essere rientrato in patria dalla Gregia [sic]”. Ad un certo punto l’armistizio venne annunciato alla radio dal capo del Governo Pietro Badolio. Ci fu grida di entusiasmo e di gioia, ma nessuno pensava a quello che poteva succeder dopo. Noi al panificio si fece un pò di baldoria con alcuni fiaschi di vino assieme ai panettieri che erano anche loro militari…”. Come truppa il gruppo di De Pedri resta a Bressanone tre giorni, mentre gli ufficiali vengono caricati in treno e trasferiti verso nord ancora il 9 settembre. Poi la partenza: “… ci fecero montar su un treno carro bestiame 50-55-60 per carro che sembrava di essere sardelline in scatola. Verso l’una di notte fnalmente il treno partì, chiusero tutte le porte che se uno avesse dovuto fare un bisogno in fretta avrebbe dovuto farlo dove si trovava o parlando con licenza farla nelle mutande”.

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Attraversamento della Germania e poi ad est, negli ex-territori russi: “… ci fermammo in un grandioso campo di concentramento prigionieri dove ci sono prigionieri Francesi, Belgi, Polacchi, Russi, e ci buttarono dentro qua due notti in uno stallone, la mattina seguente ci diedero del pane sempre nero e acido, e patate bollite che è il pasto quotidiano e un pezzettino di margarina che sapeva di grasso di candela”.

Ancora:  “… Come briganti ci fecero il numero di matricola da attaccare al collo e in ultima anche la fotografia per tre con una tabeletta in mano con scritto il proprio numero di matricola. Stiano per certi che non ci scappa. Poi ci metterono dentro una baraccha dove cerano le cucette a tre piani senza le assi da montarci sopra perciò abbiamo dovuto metterci per terra”.  La cena del 20 settembre 1943 per De Pedri e altri sei compagni è composta da 2 kg. di pane acido e nero.

L’arruolamento al lavoro: “… Questa mattina ci sveliammo come sempre ma poco dopo ci fecero adunata nello piazzale vicino alla baraccha e incominciarono a cercare quelli che anno una professione o un mestiere io li dissi che faccio il contadino perché pensai che sarà più facile mangiare come del reso dicono i più tanti, ci metterono tutti in riga e ci dissero che la mattina del giorno dopo ci mandano via di qui in un altro campo di prigionieri più piccolo e di lì ci mandano a lavorare dai contadini, e così passo il giorno brutto e nuvoloso”.

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Verso la fine di settembre ’43 trasferimento verso un altro lager: “… Ci inquadrarono di nuovo e via per una strada buia come l’inferno… Ma presto si arrivò dove si videro delle luci, era un cortile tutto pieno di cavalli attaccati ai rispettivi carri, si vide ufficiali soldati tedeschi. Si capì che li era il mercato cioè dove si doveva dividersi pochi da un contadino e pochi da un altro, e quelli erano i cari che ci portavano via, c’erano i padroni. Certi facevano buona impressione, ma tanti dalla faccia incutevano un non so che di poco rassicurante per la nostra situazione. Incominciarono a mandarne via, chi 5, chi 8-10-15 per carro ma dopo un’ora pressapoco arrivò pure il mio turno assieme ad altri sette compagni tutti trentini e tutti allegri compagni”.

Arrivati alla casa del fattore “… Ci assegnò una stanza a piano terra dove c’erano delle cuccette doppie già preparate e ci disse di dormire quanto si aveva voglia giacché oggi è festa (Domenica) e ci promise che alle sette ci portava la colazione, si dormi ma poco perché cera la fame che rodeva nello stomaco, ma alle sette e mezza un mio compagno andò a prendere del buon caffelatte e del pane a sazietà. Si mangiò con appetito da lupi”.

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Il contadino spiega loro che gli internati verranno impiegati in combattimento al fronte: “… si può immaginarsi con che slancio che si va a combattere per lo straniero, e forse può darsi contro i nostri fratelli.  Io prego sempre che non sia vero, perché non se ne sa mai una di giuste. Questa sarebbe la più brutta infamia che possano commettere, mandare i prigionieri a combattere per quelli che gli tengono prigionieri. Poi il giorno 10 c.m. abbiamo fatto banchetto abbiamo mangiato un vitello appena nato che il padrone aveva fatto buttare sulla (grassa) lettame, ma era tanto bello e grande che sembrava avesse un mese abbiamo mangiato carne buona due giorni essendo anche il compleanno di un mio caro collega e il giorno appresso della sua piccola che tiene a casa…”. Successivi trasferimenti in altri campi. Interessante testimonianza su Berlino, dove è impiegato a sgombrare macerie: “Qui si incominciò ad andare a lavorare a sgomberare case e vie bombardate che Berlino ne ha molto bisogno, ma col mangiare va melio di prima perché del pane si può trovare nelle macerie o qualche donna ce lo da, o ci da la tessera per comperarlo e si trova pure anche da mangiarci vicino. Oggi è giorno 27 ed è festa ho mangiato abbastanza bene. Però ho dovuto assistere a bombardamenti molto brutti e tanti”.

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Difficile capire la datazione delle ultime pagine; è tuttavia evidente un salto a pié pari da gennaio 1944 a gennaio 1945 (dove il diario si interrompe quasi subito). Apprendiamo da queste ultime pagine il trasferimento del protagonista, avvenuto nel luglio 1944, da Berlino alla Boemia.

DOFF SOTTA ALBINO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento. Data di nascita: 24/09/1920; Luogo: Imer (Primiero); Occupazione: Artigiano. Tipologia: Epistolario. Descrizione: lettere 146; cartoline postali 53; cartoline illustrate 22.  Lettere e cartoline (1940-1945) indirizzate alla famiglia dai luoghi della guerra e della prigionia: dal confine francese (1940); dall’Albania (1940-1941); dalla Grecia (1941-1943); da Oberhausen, luogo della prigionia in Germania (1943-1945). L’epistolario rivela la forte e originale religiosità di Doff Sotta e il suo interesse per le culture locali (le lettere contengono belle descrizioni degli usi e costumi delle popolazioni albanesi e greche). Offre inoltre qualche informazione sulla vita quotidiana dei reparti italiani di occupazione in Grecia nonché qualche aspetto della situazione economica e sociale del paese. Meno numerose le lettere dalla Germania: si segnala una del 14 maggio 1944 che narra gli eventi successi dopo l’armistizio. Allegati: lettera del fratello Domenico (1944) indirizzata ad Albino; lettera di una sorella (1944) indirizzata ad Albino; foglio volante dattiloscritto con l’ Inno degli Internati; certificato rilasciato dal comando americano datato Dinslaken (Essen), 29 agosto 1945; fotocopia in formato A3 di una carta geografica della regione di Dusseldorf; Duisburg, Dortmund, Wuppertal; riproduzione della mappa Pianta campo prigg. Italiani russi francesi; fotografie scattate per lo più durante la permanenza in Grecia. Prendiamo in considerazione la corrispondenza 1943 e le lettere dalla prigionia ’43-’45. Nel periodo 1.1.1943 – 8 settembre 1943 sosta in Grecia; al principio di aprile 1943 si trova in Istria in un campo contumaciale. In tutto questo periodo scrive alla famiglia, ad Imer, oppure ai fratelli, anch’ essi soldati sui vari fronti di guerra.

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L’ultima lettera prima dell’armistizio è del 5 settembre 1943: Doff Sotta descrive le usanze locali del paese in cui si trova (Albania) e comunica ai famigliari la complessiva tranquillità della situazione: “Fino a ora non c’è nessun ordine di partenza, anzi sembra che ci stabiliscano qui. Sarebbe per tutti una cuccagna, essendo fuori da quasi ogni pericolo. Oggi per la seconda volta Toni e io ci siamo recati qui a 2 km. dal nostro accantonamento ad assistere alla S. Messa e fare la Comunione dai missionari di don Orione. Anche il conforto spirituale non manca per chi lo cerca. Gli abitanti di questo paese, Sciach, hanno cominciato il mese di penitenza come gli fu comandato da Maometto…”

La prima comunicazione da prigioniero è del 28.9.1943: si tratta di una lettera spedita in data 28.9.1943 da Trieste e inserita in una busta intestata “Croce Rossa Italiana. Comitato provinciale di Venezia. Ufficio prigionieri ricerche e servizi connessi”: “Carissimi!! Sia ringraziato il Signore. Sono giunto felicemente in Patria – non so ancora la mia destinazione. Coraggio !!! Aff.mo Albino”

Il giorno seguente Doff Sotta scrive una seconda lettera (un timbro prestampato specifica “Dal vostro congiunto diretto in Germania abbiamo raccolto l’unito messaggio, vi saluta, vi farà avere notizie al più presto”): Venezia 29-9-1943. ” Carissimi da Trieste mi hanno trasferito qui a Venezia dove sto in attesa di partenza. Io e tutti i paesani stiamo benissimo. Il viaggio sul mare andò bene. Ora penserà la provvidenza a farmi tornare presto a casa. Salutissimi!! Albino”.

Vi è poi una lettera spedita da Udine Ferrovia il 5.10.1943 alla famiglia di Doff Sotta. A scriverla è tale Resi Sabatto, Vicolo del Cucco 6, Udine: Udine, 4.10.1943. “Spett. Famiglia – Certamente questa lettera, dopo esser stata letta, porterà tanta tristezza. Presto servizio nella locale stazione e quindi assisto quasi giornalmente al transito delle tradotte militari. In uno di questi treni si trovava il giorno 1 ottobre pure un vostro congiunto il quale partiva internato verso la Germania. Egli mi ha dato il Vostro indirizzo affinché vi scrivessi, Vi informa delle sue attuali condizioni, vi assicura che sta bene e che appena  possibile vi scriverà, vi darà sue nuove. Non aggiungo parole di conforto perché in casi simili non hanno alcun valore. Confidate nel signore e siate fiduciosi nel domani. Distinti saluti. Resi Sabatto”.

Vi è poi una missiva di difficile interpretazione. E’ stata inviata alla famiglia di Doff Sotta in data 5.10.1943. Sembrerebbe spedita dall’Albania, forse da un civile locale che informa in un italiano stentato della partenza di Albino per la prigionia in Germania: “Stimatisimi Signori, Vi porto ha conosenza che parlai con vostro figlio, partente per la germania, vi assikuro che sta benisimo. Come ristorazione ho pensato io è mia moglio, ha mangiato è bevuto di cio che si aveva, solo mi racomanda di notificarvi al più presto posibile del suo statto danimo in ckui si trova in difetto da parte sua di non pensare, di darvi coragio, che non sarà tanto lontano il suo ritorno, in notesa di una vostra solecitatto risposto, proseguo seben non conoscendovi i miei distinti saluti è auguri famigliari”. Segue un indirizzo illeggibile e la nota “Vi prego di darmi subito Vostre nuove al più presto posibile”. Segue una Postkarte per Kriegsgefangenenpost inviata da Albino alla famiglia, datata 9.4.1944, in cui sono presenti delle righe prestampate: “Carissimo, a datare dall’arrivo della presente mi è proibito di ricevere lettere o cartoline che non siano quelle distribuite dal comando tedesco agli internati militari italiani. Per cui se volete che la vostra corrispondenza mi pervenga, scrivetemi la risposta sui moduli allegati. Inoltre vi prego di scrivere chiaramente e soltanto sulle righe per rendere più sollecito il recapito. Ti abbraccio affettuosamente, tuo Albino”.

Testo di una lettera non datata: “Carissimi non potete immaginare con quale gioia appresi le notizie di Sabina dopo 9 mesi di assoluto silenzio! Io ormai pensavo peggio ma invece si vede che la Provvidenza non manca nemmeno per voi. Interessante è che tutti stiate bene e che Minico sia a casa. Ciro poveretto speriamo che stia meglio di me. Ho tentato in tanti modi di farvi avere mie notizie cominciando appena giunto in Italia, a mezzo + rossa, Ettore, operai italiani borghesi. Fra 10 giorni ve ne spedirò una più ampia che il fratello del mio capo la bucherà a Fiume (la parte in corsivo è cancellata sulla missiva ma leggibile, ndr) appena rientrerà al corpo… Con la salute grazie a Dio va sempre bene basta che almeno continui così anche col vitto. Il lavoro continua aumentando specie nelle case borghesi colpite. In generale son tutte famiglie che capiscono le nostre condizioni e malgrado la forte sorveglianza della polizia si (la parte in corsivo è cancellata sulla missiva ma leggibile, ndr) sporgono sempre qualche cosa… Molti sono fuggiti (la parte in corsivo è cancellata sulla missiva ma leggibile, ndr) bene, ma troppi poveretti non hanno potuto raggiungere la propria casa. Verrà anche per me l’ora della liberazione segnata dal destino di Dio. Intanto coraggio! Stiamo uniti nella reciproca preghiera, solo Dio ci può salvare e farci tornare presto alle nostre famiglie…”.

Una seconda lettera non datata: “Carissimi, colgo la straordinaria occasione per darvi ampie notizie di me. Cominciamo dall’Albania. Appena successa la capitolazione fummo sottoposti ai più duri e trepidanti momenti della vita militare. Per circa cinque giorni fummo manipolati dalle varie forze armate le quali volevano le armi, un miscuglio di partigiani, banditi discordi tra loro coi quali, grazie al prestigio dei nostri ufficiali, abbiamo salvato vittime, restando fino all’ultimo giorno concordi …  Il giorno 25 settembre ci hanno disarmati e imbarcati a Durazzo. Anche durante il viaggio fummo disturbati dai ribelli che dalla costa di Spalato ci puntarono coi loro obici, per fortuna i colpi andarono falliti. Dopo 4 giorni ci sbarcarono a Venezia. Tanti cominciarono la fuga favoriti dall’ardimento dei barcaroli veneziani che, tentando la vita, si prodigarono eroicamente per i loro compatriotti. A Padova passammo un giorno più brutto che mai. Cominciando con la morte dell’attendente del Cappellano, Rezzaghi, che in un colpo di esaltazione tentava di scappare ma che fu colpito a morte e doppo pochi minuti spirava. La guardia annientava, terrorizzandoci con le frequenti sparatorie. Vedendo ciò ci passò la voglia di pensare alla casa vicina e ci rassegnamo al destino comune. Molti famigliari vennero a trovare i propri, che scene pietose! Meglio non rammentarle. Il vescovo di Padova venne a visitarci portando la sua dolce parola confortatrice. La popolazione italiana per tutto il tragitto fino al confine dimostrò l’affetto e la vera carità fraterna gettando sui vagoni di ogni genere di cibi. Prima di giungere al confine la maggior parte dei nostri ufficiali compreso il cappellano sono fuggiti. Tutti hanno fatto bene, ma il sacerdote no. Qui cominciava la sua missione e lo abbandonò. Fu uno scandalo grave che una persona come lui non doveva mai fare. Ora siamo qui senza nessun conforto spirituale e chissà per quanto tempo ancora… Dopo 15 giorni di appelli, traslochi, matricolazioni, sistemazioni, ecc. cominciò il lavoro che per la maggior parte è duro. Ferro, ferro e ferro, e basta fino qui… Io i primi due mesi mi trovavo nelle condizioni più comuni poi (tutto il mal non vien per nuocere) già ve lo raccontai nella prima lettera, fui assunto presso la ditta Baubetrieb – Zillichen quale specialista falegname. Le condizioni cambiarono come il giorno e la notte. Trovai mezzo di campare meglio col vitto, specie ora che lavoro nella casa civili colpita dalle incursioni, non c’è famiglia operaia che non sporga sempre qualcosa comprendendo le nostre condizioni. Corrono in pericolo di severissima pena se prese dalla pulizia, poiché la legge proibisce l’aiutare il prigioniero in qualsiasi modo. In questo luogo ci sono operai di tutte le nazioni…” . (in calce alla pagina presente – sebbene non si tratti dell’ultima pagina della lettera – vi è l’annotazione “14 maggio 1944 Oberhausen”).

La fede ha un ruolo determinante nell’esperienza di Albino:”Ogni sera qui in baraccha recitiamo insieme il S. Rosario. Quasi tutti intervengono spinti anche dalla fifa dei bombardamenti. Anche il più duro e incredulo crede e spera la salvezza soltanto da Dio…”. Lettera (non datata) di Albino alla famiglia: “Ogni giorno aumenta il desiderio di una felice fine e di un ritorno a casa, ma, quando, sta nelle mani di Dio. Quindi sia fatta la volontà sua; questi lunghi anni serviranno ad espiare le mie colpe e a rendermi meno indegno agli occhi di Dio. Vi invito a pregare tanto per me e per Ciso, che speriamo stia meglio di me, affinché rimanga intatta in noi la Fede che è la sola a sotenerci in questi duri tempi. Io non manco al mio dovere verso di voi, e prego anche al Signore per potervi essere utile materialmente dopo il mio ritorno. Ettore e fiamazzi [?] sono sempre qui con me, tutti stanno bene. Termino assicurandovi il mio perenne ricordo nel Signore. Aff.mo Albino”.

Cartolina dal Lager del 4 agosto 1944: “Carissimi! Ho ricevuto 3 pacchi, con cartoline e lettere cont. indirizzi. Rimasi soddisfatto. Giorni fa fui obbligato ad inviare biglietto stampato. Continuate pure solita merce – non più acqua ragia ma alcool e carta disegno a matita – Salute e morale grazie a Dio ottimi – Abbiamo fede e speranza in Dio – nulla è perduto! aff.mo Albino”. Lettera alla famiglia del 23.8.1944: “Col primo di sett. saremo civili anche se qualch’uno non vuole. Speriamo che le condizioni migliorino anche per noi, se non… Io sarei contento continuare così, almeno sono più sicuro di un più sollecito ritorno a casa. Col vito mi posso arrangiare con pitture e ingrandimenti a cartone (in generale di soldati caduti al fronte). Perciò anche se i pacchi non possono viaggiare la Provvidenza vede per me e per qualcun altro lo stesso. Importante è di aver pascienza e saper valorizzare tutto per il nostro maggior bene. Vi abbraccio fraternamente, Albino”.

Cartolina civile, inviata sempre da Oberhausen, il 15.1.1945, inoltrata al fratello sacerdote Don Pietro Doff Sotta (Tonadico): “Soffro sopra tutto la mancanza assoluta di una parola di conforto cristiano. Ancora quanti anni attenderò prima di riabbracciare le mie pratiche di una vita normale cristiana? Riflettendo alla mia situazione talvolta mi avvilisco profondamente! Pazientiamo confidando ciecamente in Dio. Verrà anche il sole! Mi raccomando alle tue preghiere, aff. mo Albino”.

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Lunga lettera da Osterfeld (22.2.1945) con allegata una fotografia in cui viene ritratta la panoramica di una zona industriale, forse estrattiva. La veduta propone – in primo piano – un’ area estesa al centro della quale vi sono alcuni binari (su uno di essi sostano alcuni vagoni merci scoperti). Sullo sfondo alcuni caseggiati e un’edificio attrezzato con impalcature diagonali in acciaio (impiegato – con molta probabilità – per la raccolta e lavorazione di materiale minerario). Il testo della missiva inizia così: “Finalmente si è presentata un’occasione per inviarvi due righe più del solito a mezzo un licenziante soldato tedesco ripartente per l’Italia. Conosco bene la sua famiglia per lavori fattigli perciò volentieri si esibì a farmi questo grande favore. Anzitutto vi posso assicurare della mia ottima salute, anche durante tutta la mia permanenza qui in Germania non mi toccò nulla di male nonostante tutta la fame, il forte lavoro pesante, il maltrattamento ecc. dei primi giorni. Ora mi sono messo a posto, o meglio, abituato a tutto. Il lavoro è diminuito e con più facilità mi rimane il tempo per fare  qualche lavoretto per mio conto al fine di guadagnarmi un pezzo di pane. Insomma un pò lavorando, un pò con l’aiuto di Ettore e di qualche altra persona buona si tiracampà. Ma come vi dissi nella mia ultima, che spero vi arrivi, ormai sono cinque anni che continua questo ritmo di vita e se ancora supporto le sofferenze materiali non lo è così di quelle spirituali. Il vitto per il corpo non manca ma purtroppo manca quello dello spirito. A rammentare le condizioni che mi trovo, abituato come ero a tutte le pratiche cristiane a casa mi sento avilire. L’unico conforto lo trovo la domenica ascoltando la S. Messa e ricevendo Gesù nel cuore ma tutto ciò non mi è sufficiente per tener il contraccolpo all’eccessiva indifferenza dell’ambiente. Manca l’assistenza di un sacerdote, di un padre spirituale. Avevo Bassi, ma anche lui mi fu rapito. Di lui non mi rimane che l’esempio eroico di un vero confessore di Cristo. A proposito vi faccio sapere qualche cosa di più ampio in suo riguardo che merita farvelo sapere. Rimase con me circa due mesi, poi fu trasferito in un’altra fabbrica, così non ci vedemmo più fino a quando ci fecero civili. Durante la sua assenza ne ebbi sempre sue notizie, attraverso compagni di lavoro, le quali erano piene di sentimenti che mi sollevavano dalla monotonia della dura realtà. Sofferse materialmente e spiritualmente. Era sogetto a un padrone che avendolo conosciuto per vero cattolico lo cominciò a burlare, dandoli i lavori più duri e umilianti finendo poi col perseguitarlo. Quando poi divenemmo civili terminò col farlo denunziare come persona sospetta e così fu rapidamente trasferito a una compagnia di disciplina. Tengo le sue lettere molto a caro e qualvolta le ripasso per attingervi sublimi insegnamenti. Di lui personalmente non ne ebbi più nuova, seppi da altri che si trova presso la capitale sottoposto ai lavori forzati con un vitto quasi insufficiente. Queste sono le ricompense che il Signore serba alle anime predilette. Quando io gli chiedevo quale effetto gli faceva tutte le ingiustizie e malvaggità degli uomini mi rispondeva: Mi fanno ridere! Non c’era pericolo che venisse contaminato, anzi più la cattiveria umana lo pressava tanto più aumentava la sua convinzione, la sua Fede. Al mondo le anime buone sono sempre trattate così, come allora si può sperare in un’era di pace quando vengono sottratti gli stessi principi? E’ meglio non pensarci a ciò che il mondo compie con le sue teorie altrimenti si va a finire che si perde la testa. Piuttosto pensiamo a ciò che la Fede ci detta. Non lasciamoci sedurre dai falsi profeti (come dice il Vangelo) e nemmeno impressionare dai molteplici disordini, ma perseveriamo fino alla fine se vogliamo la salvezza. Carissimi! Questa è l’ora nostra se non ci possiamo aiutare direttamente facciamolo attraverso la preghiera. Dio non nega la salvezza a coloro che lo cercano perciò coraggio. Sono certo che la vostra preghiera sarà esaudita dal Signore e allora non avrò più nulla a temere. Quando ricevete questa mia avvertite la famiglia di Camillo Dellagiacoma quello di Croce e di [?] assicurando il loro ottimo stato di salute. Di novità quà ancora nessuna, però se ne attende di giorno in giorno… Unisco alcune foto fatte qui al lager. Porgete i miei saluti a tutti quanti chiedono di me. Ricevete un forte abbraccio dal vostro aff.mo fratello Albino”.

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Vi è poi una fotocartolina del 16.8.1945 che ritrae un gruppo di 30 persone davanti ad un edificio che si presume essere una chiesa; si tratta forse di un gruppo di ex internati in attesa del rimpatrio? Ad accompagnare il gruppo vi sono due sacerdoti. Il retro della fotografia, in formato cartolina, riporta un timbro (“Gioventù italiana di AC Centro Diocesano – Telefono 17-54 Trento Via Borsieri, 5”). Essa è indirizzata alla famiglia Doff. Sotta di Imer; scrive Albino: “Dinslaken (Essen) 16/8/1945 Attendetemi! Albino”. Segue la nota “Saluti, Ettore”. Vi è anche un certificato in inglese, stilato dall’Italian Liaison Officer a Dinslaken in data “29 Aug. 1945”: “This is to certify that Doff Sotta Albino has, in property, spares pieces of a wire received  like a reward by his factory when he worked as a P.W.’s”.

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