IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 5

In questa quinta puntata sul Risorgimento nel Trentino daremo spazio all’interminabile, quanto infruttuosa, “battaglia” dei parlamentari trentini nelle sedi istituzionali tedesche, per ottenere l’agognata autonomia. Quindi tratteremo delle condizioni economiche del Trentino nel 1848. E della situazione dei profughi nel Lombardo-Veneto. Anche questa volta, per chi volesse meglio inquadrare gli eventi di quel periodo storico, allego un video didattico.

a cura di Cornelio Galas

La questione della aggregabilità alla Germania piuttostoché ad una lega di Stati italiani (con o senza l’intervento austriaco) aveva anche un aspetto economico importantissimo che il conte Matteo Thun di Trento, d’accordo coi deputati del suo paese si sforzò di porre in evidenza in un limpido opuscolo del tempo, da lui non firmato. L’idea di costituire una lega doganale fra i vari stati italiani, sorta prima della guerra del 1848 come conseguenza diretta delle idee neoguelfe, e rimessa sul tappeto ancora dopo l’armistizio Salasco, aveva giustamente preoccupato le persone più illuminate del Trentino, convinte che per ragioni di nazionalità e di interesse convenisse al paese di aderirvi, rimanendo invece al di fuori della lega doganale germanica, che era additata come programma minimo della ricostituenda Confederazione. Vi era bensì qualche piccola corrente ostile di interessi: ciò che determinò i deputati a scindere, nella loro azione, la questione politica dalla economica; peraltro i rapporti commerciali fra il Trentino e il resto d’Italia erano assai più vivi ed intensi di quelli che correvano colla monarchia austriaca o colla Germania, ed era facile persuadere di questa verità la maggioranza degli elettori.

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Esaminiamo, dietro la guida dell’opuscolo citato, le condizioni del commercio trentino nel 1848. La quantità di cereali prodotta nel paese non è sufficiente a nutrire la sua popolazione neppure per una metà dell’anno: il resto, ossia circa cento mila some di granturco, di riso, di frumento, sono provvedute nelle altre provincie d’Italia, senza calcolare la maggiore quantità che abbisogna negli anni di fallito raccolto. Nel 1847, annata di carestia, il Trentino si salva dalla fame sol perché il commercio col regno Lombardo-Veneto è libero o quasi. La vicinanza ai centri cerealicoli dell’Italia superiore; la facilità delle comunicazioni coi medesimi; il fatto che il popolo trentino si nutre principalmente con polenta di granturco; che l’uso del riso è comune nelle città e nelle grosse borgate; che tali prodotti sono sovrabbondanti e — data la ricchissima irrigazione — non soggetti a grandi oscillazioni nell’Italia superiore, mentre riescono incompatibili col clima germanico: sono queste condizioni che obbligano il paese a provvedersi verso mezzodi anziché verso settentrione. Si aggiunga, riguardo al frumento, che le provincie tedesche che ne producono per l’esportazione sono troppo a nord e troppo lungi dal Trentino, mentre la Germania meridionale è costretta a ritirarne annualmente dall’Ungheria e dal porto di Trieste. Nello stesso anno 1848, chiusi i passi verso il Lombardo-Veneto dalla guerra, le popolazioni e le truppe debbono ricorrere per frumento alla Germania: ciò che determina una elevazione di prezzi ancor più forte che nell’antecedente anno di carestia.

L’ unione alla lega doganale italiana avrebbe permesso dunque di comperare nell’Italia superiore il granoturco, il frumento e il riso senza alcuna barriera doganale, abbattendo persino quel dazio provinciale di approvvigionamento che aveva suscitato fra gli abitanti delle vallate così vivi lamenti. La libertà di commercio dei grani poteva sussistere di fatto anche colla incorporazione alla Germania; ma nulla avrebbe vietato all’Italia, in un’annata di cattivo raccolto, o per ragioni finanziarie o per semplice rappresaglia di sospendere la libera esportazione dei cereali, misura che i governi antecedenti al 1848 avevano spesso adottato.

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Il Trentino dunque non era in condizioni da garantirsi il buon mercato e la regolarità del suo primo nutrimento che con una aggregazione alla lega doganale italiana.

Di più, molte migliaia di lavoratori trentini si recavano allora durante l’inverno a lavorare nel bassopiano del Po: ora tale emigrazione si trovava esposta ad incagli e a proibizioni nel caso di un qualsiasi atteggiamento ostile fra le due nazioni. E dato che libera non fosse rimasta, come avrebbe la Germania risarcito agli emigranti il mancato lavoro? E il pascolo che i mandriani della Val di Sole, delle Giudicarie, di Folgaria, di Brentonico, di Tesino esercitavano annualmente nella pianura padana sarebbe rimasto libero in caso di una separazione doganale? E vero che il Trentino si provvedeva di buona parte delle sue pecore e dei suoi buoi nel Tirolo tedesco, ma questo a sua volta avendo un ristretto mercato di esportazione, sarebbe sempre stato costretto a smerciare il suo bestiame nel Trentino a qualunque prezzo, quand’anche — previsione del tutto improbabile — la lega doganale italiana avesse imposto un dazio di importazione sui buoi e sulle pecore. Il Tirolo tedesco era infatti obbligato dalle sue stesse condizioni climatiche ed orografiche a dedicarsi a tale produzione e non aveva intorno a sé, in Germania, altri mercati nei quali vendere i propri animali.

Anche il commercio del latte, del burro, del formaggio, dei vitelli lattanti, che le valli dì Rendena e di Sole mantenevano colla Lombardia avrebbe subito forse un grave pregiudizio, se il Trentino avesse gravitato verso un sistema daziario differente da quello suo naturale.

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Più complicata la situazione per la industria della seta; ma la conclusione, secondo il Thun, non si presenta diversa. Il Trentino produce, verso il 1848, circa 400 mila libbre di bozzoli: una metà circa di questo prodotto subisce una prima lavorazione nelle fabbriche di Rovereto e di Valsugana ed è poi venduto in buona parte a Vienna ed in Germania; un’altra metà è spedita allo stato greggio a Milano, Lione e Londra. I filandieri trentini comperano inoltre 100 mila libbre circa di bozzoli nel Veronese, nel Vicentino e nel Bassanese. I bozzoli trentini seguono fino al 1848 le sorti di quelli prodotti nel Lombardo-Veneto, senza alcuna barriera fra il Regno e l’ Impero austriaco propriamente detto: e cioè pagano una tenue tassa di esportazione, ma sono protetti da un grave dazio d’importazione.

Ora — dice il Thun — che accadrà se il Lombardo-Veneto verrà doganalmente diviso dal Trentino? Che la Confederazione germanica, non avendo alcun interesse a proteggere i produttori di bozzoli, limitati al Trentino e al litorale illirico e volendo invece dar incremento alle industrie per la lavorazione della seta, toglierà la protezione accordata dall’Austria, e forse vi aggiungerà un dazio di esportazione. Invece la incorporazione nella lega doganale italiana faciliterà la sericoltura e il commercio tanto interno quanto esterno dei bozzoli, cespite di grandissima importanza per l’economia nazionale; migliorerà in ogni suo ramo l’industria della seta che l’Italia ha tutto l’interesse di promuovere e di agevolare; faciliterà il credito dei capitalisti milanesi.

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Quanto al vino, il Thun riconosce che l’ unione alla lega doganale italiana ammetterebbe a libera concorrenza nel paese tutti i vini piemontesi, emiliani, toscani e meridionali, generalmente superiori di qualità e a miglior mercato, e che ciò avvilirebbe il prezzo dei vini trentini, costringendo gli agricoltori a limitare i vigneti, mentre l’aggregazione alla lega tedesca toglierebbe loro anche la concorrenza dei vini veneti e lombardi e faciliterebbe lo smercio in Germania.

Il contrario però avverrebbe forse per il legname, articolo importantissimo di esportazione per il Trentino, il quale, data la vicinanza e le molteplici comunicazioni, si trova ad avere nell’Italia il suo mercato naturale. Il sale, in caso di unione all’Italia, sarebbe provveduto con maggior vantaggio presso le saline della Sicilia che non presso le miniere del Tirolo; l’olio si comprerebbe nell’Italia centrale e meridionale piuttostoché sulle coste orientali dell’Adriatico. Passando a un ragionamento d’indole più generale, il Thun vuole dimostrare che il Trentino, non essendo paese industriale, ha tutto l’interesse di procurarsi le merci manifatturate al miglior prezzo e a facilitare lo smercio in Italia e in altri paesi dei suoi prodotti agrari; e che perciò piuttostoché unirsi alla Germania — che tende a proteggere le proprie industrie e a rincararne i prodotti a danno dei consumatori delle campagne — deve entrare nella lega doganale dell’Italia : questa infatti, per essere un paese eminentemente campagnolo, ha convenienza a lasciar libero ingresso ai prodotti della industria estera per facilitare lo smercio dei propri generi agricoli.

Il Thun conclude dunque che la unione alla lega doganale germanica non può essere desiderata che da qualche ricco proprietario di vigneti di Val d’Adige, che preferisce il suo vantaggio individuale all’utile comune. E che ciò in massima fosse vero allora, come vero è adesso, è certo, sebbene qualche argomento economico dei patriottici rappresentanti del Trentino si fondasse su previsioni un po’ immaginarie. Il Thun e i suoi amici vedevano la somiglianza di interessi e la somiglianza di ideali che stringevano il Trentino al resto della Nazione e volevano porre queste due comunanze in perfetta armonia.

IL CONTE MATTEO THUN

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Il ragionamento economico, come quello di carattere militare, andava più in là degli scopi cui diceva di mirare: gli stessi argomenti, con parole quasi identiche, erano e dovevano esser poi impiegati dai patrioti trentini per sostenere una tesi apertamente anti-austriaca.

Lo spirito e la forma della petizione del 5 giugno e dell’opuscolo di propaganda del Thun misero infatti in grave allarme il governo austriaco, il quale sguinzagliò impiegati ed agenti nei collegi dei deputati assenti per intralciare e demolire la loro opera parlamentare. Il capitanato circolare di Rovereto non si peritò di invitare in termini energici la rappresentanza comunale di Rovereto a spedire al Luogotenente di Innsbruck una protesta contro Giovanni a Prato, suo deputato: mentre sottomano poneva in agitazione la classe dei viticoltori di Val d’Adige o dei setaioli di Rovereto e di Valsugana, esagerando i danni che avrebbero subito la viticoltura e l’industria della seta in caso di una unione alla lega doganale italiana e di un conseguente distacco dalla Confederazione germanica. Fra le masse contadine delle valli più ligie alla tradizione austriaca e all’ autorità imperiale gli emissari insinuavano che i deputati a Francoforte erano rivoluzionari e ribelli che avevano sposato la causa lombarda e che avrebbero attirato sul paese il giusto sdegno dell’ Imperatore.

Poste di mezzo fra un interesse che si reputava offeso e la paura delle vendette austriache le rappresentanze comunali di Rovereto (15 giugno) e di Ala (22 giugno), dimenticando di avere senza alcuna restrizione approvato le idee separatiste cui il loro deputato aveva dato la maggiore pubblicità prima di recarsi a Francoforte, presentarono una protesta contro di lui al Luogotenente di Innsbruck, che fu con tutta sollecitudine trasmessa al Parlamento germanico. Questa mossa inopportuna poneva i deputati nel maggior imbarazzo: perché da una parte rompeva la meravigliosa solidarietà del corpo elettorale suscitando incertezze anche negli altri collegi, dall’altra appariva all’Assemblea costituente — anziché lo sforzo artificioso prodotto dall’ arbitrio della burocrazia austriaca — come la manifestazione di una libera opinione degli elettori. È ben vero che dalle Giudicarie, dalla Valsugana, da Mori e anche da Rovereto giunsero al Parlamento numerose attestazioni in senso opposto e che una energica dichiarazione pubblica del Prato ai suoi elettori (3 luglio) accennante a tutta la sua opera passata, induceva i roveretani a desistere da ogni ulteriore passo contrario e a riconfermargli la loro fiducia; ma comunque la posizione dei deputati, prima già ardua, si trovava scossa, e per non pregiudicare del tutto l’avvenire del paese essi furono costretti a presentare, il 25 giugno, una seconda richiesta, nella quale in via subordinata domandavano la semplice autonomia politica ed amministrativa.

Quanto esisteva di vero nelle accuse di rapporti con Carlo Alberto e col governo provvisorio lombardo mosse ai deputati trentini dai loro avversari? Allora questa voce fu smentita, perché non utile allo scopo che i deputati si prefiggevano, e taluno l’ha smentita anche in tempi recenti; nondimeno per la verità storica e per meglio chiarire il significato dell’azione di Giovanni a Prato e dei suoi colleghi, è bene provare che rapporti di tal genere vi furono, e che sebbene indiretti, essi si mantennero vivi, continuati ed intensi.

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I profughi trentini, che avevano costituito una associazione a Brescia, il 1° maggio e cioè prima ancora che fossero avvenute le elezioni pensarono di dirigere all’Assemblea costituente di Francoforte una petizione che in termini energici facesse presente a quell’Assemblea i diritti nazionali della loro regione. La redazione dell’indirizzo fu affidata a Cosimo Salvotti il quale la formulò colla più nuda schiettezza:

“L’Associazione trentina udì con meraviglia e dispiacere il risentimento della Confederazione germanica per l’occupazione del Tirolo italiano fatta dalle armi italiane. Finché le armi italiane, invocate e festeggiate non solo, ma commiste alle armi nazionali trentine, perché in diritto italiane, s’inoltrano sino là dove si parla la lingua italiana, a confini indubbiamente demarcati, sono domestici che entrano nella propria casa, e non si può parlare di lesione di territorio alemanno”.

La progettata petizione dichiarava inoltre di protestare contro la nomina di rappresentanti trentini alla dieta germanica e di volere l’Italia trentina unita alla rimanente Italia. La protesta fu spedita a uno dei fratelli Marchetti (che allora si trovavano a Milano) affinché la rimettesse al Governo provvisorio lombardo, il quale a sua volta la doveva presentare all’Assemblea germanica, ma questo appello fu poi fermato, probabilmente da Giacomo Marchetti, perché redatto in forma tale da intralciare piuttostoché appoggiare l’azione dei deputati a Francoforte, e perché all’astensione che quella protesta sembrava propugnare era stato preferito nel Trentino un battagliero intervento.

GIACOMO MARCHETTI

GIACOMO MARCHETTI

L’Amministrazione insurrezionale di Milano, alla notizia della convocazione della costituente germanica, aveva deciso di mandare per suo conto due plenipotenziari a Francoforte allo scopo di conciliare alla causa italiana le simpatie di quell’assemblea riunita in nome del principio di nazionalità. Le istruzioni che il Casati, il Borromeo e il Guerrieri, come capi del Governo provvisorio, avevano consegnato ad Alessandro Porro e a Giovanni Morelli, inviati a Francoforte, dicevano testualmente:

“La missione che il governo vi affida è della più grande importanza, perché si tratta niente meno che d’essere i pacificatori della Germania coll’Italia. Non è la sfera diplomatica quella in cui dovrete aggirarvi; la vecchia diplomazia non potrebbe che esservi avversa. Non sono né i trattati del 1815 né le tradizioni dell’Impero romano germanico i punti da cui pigliare le mosse; sebbene lo spirito nuovo che informa tutto il movimento germanico, il principio delle nazionalità che tendono a raggrupparsi, a fortificarsi, ad essere rappresentate nel mondo politico, come prima erano conculcate. Considerata la questione sotto questo punto non sarà necessario di spendere molte parole a dimostrare la originaria ingiustizia che affettava la signoria austriaca in Italia”.

Le istruzioni lasciavano alla sagacia e al tatto degli inviati la scelta del tempo e del modo per trattare circa la ricostruzione politica d’Italia e per risolvere le varie questioni territoriali, e solo specificavano riguardo alla questione del Trentino e di Trieste, colle seguenti parole:

“Per verità la Confederazione germanica vanta antichi e nuovi diritti su alcune parti del territorio italiano, come sono il Tirolo e Trieste, ma la ricostituzione della Germania, se vorrà partire dalla verità e dalla giustizia non potrà non tener conto dei tempi attuali e non modificare in proposito le sue pretese. Ad ogni modo bisognerà rispettare le suscettività germaniche su questo punto, e non procedere che gradatamente e per modo che gli interlocutori debbano piuttosto estendere a quelle parti le conseguenze dei propri ragionamenti come una necessità logica, anziché come una pretesa politica dal canto nostro”.

Evidentemente il Governo di Milano ricordava ancora i mali trattamenti ricevuti a Monaco dall’Arese, che appunto pochi giorni prima aveva abbandonato la capitale della Baviera in seguito ai clamori suscitati dalla spedizione dei corpi franchi nel Trentino. Pertanto raccomandava su tale questione un contegno assai prudente e riservato. Però il Porro e il Morelli erano animati, rispetto ai postulati trentini, della miglior volontà e misero tutto il loro impegno per sventare il destino che ad essi era serbato.

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Grande amico di Alessandro Porro era il dott. Prospero Marchetti, trentino, il quale allora lavorava in qualità di vicesegretario presso il Comitato di pubblica sicurezza di Milano e che appunto dal Porro era stato chiamato il 14 aprile a far parte, come rappresentante del Trentino, della commissione incaricata degli studi relativi alla nuova legge elettorale.

D’intesa coi compagni emigrati a Milano, con Alessandro Porro e con Anselmo Guerrieri Gonzaga, Prospero Marchetti chiese licenza e in semplice forma privata partì per Francoforte cogli inviati lombardi, allo scopo di servire da tramite fra loro e i deputati trentini, e fra questi e i profughi trentini di Lombardia per svolgere presso la Costituente, presso i suoi singoli membri, presso i vari governi germanici, ed anche presso i governi esteri rappresentati a Francoforte, una azione decisa e concorde a favore della causa del suo paese. E gli incitamenti che per suo mezzo vennero ai deputati trentini dai loro conterranei emigrati a Brescia e dagli uomini migliori del governo lombardo furono non ultima ragione dell’atteggiamento risoluto ed energico che il Prato e i suoi compagni seppero serbare in un ambiente sfavorevole, anche quando i tentennamenti degli elettori sembravano dover consigliar loro una condotta più dimessa e circospetta.

Ed infatti Prospero Marchetti era latore di un appello degli esuli suoi conterranei ai cittadini trentini inviati alla Confederazione germanica che cominciava con queste parole: “Quei fatali avvenimenti che costrinsero ad esulare dalla patria i più cari suoi figli, condussero voi pure forzatamente in riva al Meno ad una dieta straniera. Vittime infelici di una dura necessità abbiatevi il saluto dei vostri fratelli che a voi dirigiamo fedeli e liberi interpreti della nostra terra schiava ed oppressa”. “Dite a quell’onorevole Dieta – continuava – che la legge marziale pubblicata, i fatti ostaggi, i profughi, le barricate contrade, il militare comando al libero municipio sostituito, le minacce di morte e di prigione ben possono soffocare, ma non distruggere negli animi nostri il grido di viva l’ Italia unita, voluto da Dio, sancito dal popolo, benedetto da Roma”.

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A questo appello dei profughi di Milano faceva riscontro una vibrata lettera indirizzata a Prospero Marchetti dall’Associazione trentina di Brescia, la quale, plaudéndo alla sua iniziativa, gli raccomandava di far presente ai deputati “la somma responsabilità cui si esporrebbero nel proporre una qualunque idea, che distacchi minimamente il Trentino dalla famiglia italiana” e “il tradimento di cui verrebbero essi tacciati non solo dai presenti e dai posteri, i quali vedrebbero per loro colpa sottratta al Trentino ogni risorsa di vita sociale e civile, ma dalla storia eziandio, che tramanderebbe i loro nomi col marchio d’infamia”. Espressioni, come appare, eminentemente quarantottesche, ma non prive di efficacia rispetto al loro scopo.

A Strasburgo il Marchetti otteneva dal professore Bergmann, insegnante nella facoltà filosofica di quella Università, una lettera di presentazione per il deputato tedesco Dahlmann, la quale doveva servire per sé e per il Porro; e a Francoforte visitava vari deputati germanici noti per la generosità dei loro sentimenti e ad essi esponeva la questione della separazione dal nesso germanico nei suoi veri termini, e cioè senza la riserva dei diritti dell’Austria, buona solo per il pubblico. Menando vita comune coi deputati trentini, il Marchetti li coadiuvava in tutte le pratiche, mentre agevolava al Porro e al Morelli la missione loro affidata dal Governo lombardo; d’accordo interessavano con visite, con lettere, con conversazioni i membri più influenti dell’assemblea germanica, mirando a convincerli della bontà della propugnata causa e rivelando ai più le proprie aspirazioni di indipendenza dall’Austria, avversa per principio ad ogni postulato nazionale.

Venne un momento nel quale il Marchetti credette opportuno un formale indirizzo ai deputati tedeschi da parte dei trentini residenti nel Lombardo-Veneto: nel quale indirizzo oltre alle ragioni addotte per il distacco dalla Germania fossero espressi chiaramente anche i motivi che spingevano a sollecitare una emancipazione dal dominio austriaco, e ricordate le manifestazioni che il Trentino aveva già dato di tale suo desiderio. Ma fra i profughi di Brescia prevalse invece l’idea di non dar corso a tale indirizzo collettivo, e di proseguire nell’azione individuale presso i singoli deputati.

La discussione sulla petizione dei trentini, che doveva avvenire il 7 luglio, era rinviata a tempo indeterminato; ma i nostri, anziché disanimarsi per l’indugio, ne approfittavano per condurre nuove pratiche a favore dei loro postulati. Alessandro Porro, anche per incitamento di Prospero Marchetti e dei suoi amici, era verso la metà di giugno ripartito per l’ Italia nell’intento di interessare il governo di Carlo Alberto, retto allora dal Pareto, ad intervenire nella questione; e recatosi a Torino alla fine del mese, ne otteneva promessa che a Francoforte s’ invierebbe il deputato Radice, uomo di opinioni assai avanzate.

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L’Austria frattanto non ristava dall’ostentare la protezione della Germania contro una possibile invasione delle truppe italiane, e per dar maggior colore di neutralità al territorio trentino surrogava le bandiere germaniche alle austriache sui confini del Lombardo-Veneto e vi esponeva tabelle portanti la scritta : Suolo della Con federazione germanica. Questo atteggiamento dell’Austria era incoraggiato da un clamoroso voto della Costituente. Il 20 giugno, su proposta del deputato Kohlparzer, e a proposito delle operazioni della flotta sarda verso Trieste, l’Assemblea approvò fra gli applausi un ordine del giorno secondo il quale un attacco a Trieste o a qualsiasi altro porto della Confederazione sarebbe stato interpretato come una dichiarazione di guerra contro la Germania. È chiaro che per semplice analogia — data la quasi identità di rapporti politici di Trieste e del Trentino rispetto al corpo federale — un attacco contro il Trentino non sarebbe stato diversamente considerato e ciò risultò dalla discussione stessa che precedette il voto, e nella quale si fece notare che non solo Trieste ma tutti i territori inclusi nella Confederazione dovevano essere rispettati dai nemici dell’Austria.

Il Governo provvisorio lombardo comprendeva tutta l’importanza di simili manifestazioni e, spronato dal Porro, sollecitava il Gabinetto sardo perché si decidesse a intervenire a Francoforte per mezzo di un suo rappresentante, facendogli presenti gli effetti disastrosi che un siffatto ostacolo poteva avere sugli stessi eventi della guerra.

Il Ministero piemontese, non fiutando ancora Custoza, sembrava in quei giorni propenso a uscire dal suo contegno di timido riserbo, e il Porro a sua volta esortava i suoi amici trentini all’ intransigenza, scrivendo al Marchetti (8 luglio) :

“Tanto dal campo, quanto da Torino abbiamo seria lusinga di buon successo. Si ritiene per nulla pregiudicata la questione del Tirolo, ma limitata a Trieste. Fa quindi di spingere gli amici perché non abbiano ad abbandonare la posizione di protestanti, protestanti in nome della nazionalità. L’esito finale dipenderà dai risultati della guerra; ma essi non saranno in qualunque caso abbandonati fosse almeno nel conservare intatta la scintilla della nazionalità in quel paese. Io credo che tutto forse compromettendo nulla guadagnerebbero nel transigere. Le lusinghe che forse ora fossero loro sporte per farli remissivi nel punto principale in seguito svanirebbero: mentre invece la loro insistenza quand’anche senza effetto innanzi alla sistematica usurpazione del Parlamento darà titolo a sostenerli ci fosse anche contraria la fortuna nell’ottenere per loro quello che ora indarno implorano dal Parlamento”.

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Verso la metà di luglio il deputato piemontese Radice arrivava a Francoforte e si metteva subito in contatto col Marchetti e coi deputati trentini, per uno dei quali (il Marsilli) Alessandro Porro gli aveva dato una lettera di presentazione. Egli continuava per conto di Carlo Alberto le pratiche avviate con scarsa fortuna dai delegati milanesi: conciliare alla rivoluzione italiana le simpatie della Germania, ed indurla a desistere dall’incorporazione dei paesi italiani nella Confederazione. Per influire in questo senso sui governi e sull’opinione pubblica della Germania non mancarono pratiche neppure presso i rappresentanti della repubblica francese; i giornali meno avversi vennero interessati a pubblicare articoli favorevoli, i deputati tedeschi più amici incitati a prender la parola in pro dell’ Italia e del Trentino, esortazione alla quale non tutti rimasero sordi.

Ma nonostante tutta questa concentrazione ed organizzazione di sforzi nobilissimi, nonostante le speranze che i patrioti riponevano nell’effetto morale delle prime vittorie italiane e della sempre imminente bancarotta finanziaria dell’Austria, gli avvenimenti precipitarono. Alle simpatie calde e sincere che una minoranza di deputati dimostrava per gli ideali italiani, faceva riscontro, nella maggioranza, una mal celata avversione. Quegli uomini che si erano riuniti sotto l’apparenza di voler ricostituire la nazione alemanna secondo i principi di equità non si rassegnavano a rinunziare a certi pretesi diritti storici sul territorio di altre nazioni. L’invido rancore contro l’ Italia prossima a libertà non la cedeva alla schietta antipatia dei più contro l’Austria reazionaria. La quale con ogni arte badava ad esagerare i pericoli che un’Italia ricostituita avrebbe rappresentato per la nazione tedesca, in ispecie quando le si fossero chiusi i suoi naturali sbocchi verso il sud: Trento per terra e Trieste per mare.

E la causa si appalesò ben presto come perduta. Il Comitato degli affari internazionali, viste le contro-proteste pervenute dai deputati del Tirolo, del Salisburghese e della Stiria (28 maggio e 9 giugno), mal impressionato dalle dichiarazioni che il governo austriaco aveva carpito ad alcuni gruppi di elettori a Rovereto, ad Ala, in Valsugana e a Mezzo lombardo, dopo non lunga discussione votò all’unanimità il rigetto puro e semplice della domanda di svincolo dalla Confederazione. La domanda di autonomia regionale fu invece dichiarata di competenza dell’Austria e ai deputati trentini si consigliò di far valere di fronte al loro governo una precedente deliberazione dell’Assemblea che garantiva a ciascuna nazionalità non tedesca il proprio sviluppo.

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Il rapporto del Comitato all’Assemblea cosi motivava le sue proposte:

“Benché ai nostri giorni si dia la massima importanza a stabilire i limiti politici secondo la nazionalità e la lingua, pure non possono i tedeschi con intempestiva generosità lasciare restringere i propri confini in ogni parte, mentre nessun altro popolo si adatta a simili concessioni di territorio. L’Alsazia, la Lorena, la Curlandia, la Livonia rimangono, a tenor dei trattati, in potere straniero, e la Svizzera e l’ Olanda, che sono pure i principali baluardi della Germania, non fecero conoscere finora di volere spontaneamente unirsi alla grande Confederazione alemanna. È un sacro dovere quello della propria conservazione, e sarebbe onta e follia se un popolo avesse a rinunziarvi. Ragioni di strategia richiedono che il versante meridionale delle Alpi tirolesi rimanga unito alla Germania. Questa non può aprire le porte ai suoi nemici per poi tardi pentirsene. I deputati del Tirolo italiano propongono che i distretti di Trento e Rovereto abbiano a rimanere stabilmente sotto il dominio austriaco: ma in tal caso sembrerebbe mancar loro una delle principali ragioni per essere esclusi dalla Germania. Né questa può sottrarsi al dovere di assistere l’Austria, quand’essa si vedesse obbligata a difendere quei paesi”.

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Cosi istruita, la questione venne posta all’ordine del giorno della seduta del 12 agosto, quando cioè le speranze dei patrioti italiani si trovavano già compromesse e pressoché annientate dalla ritirata dell’esercito sardo e dall’armistizio Salasco. Purtuttavia il contegno dei rappresentanti trentini e particolarmente del loro capo, il Prato, fu in quella seduta pieno di dignità, di coraggio, e quasi di eroismo.

Il deputato italofobo Beda Weber aveva quel giorno inviato alla presidenza dell’ Assemblea una nuova protesta con firme racimolate in vari paesi del Trentino dagli emissari del Governo, nella quale si dichiarava di non riconoscere l’operato dei deputati: ma questi vi contrapponevano vari indirizzi con sottoscrizioni numerosissime, favorevoli ai postulati da loro difesi. Su queste basi si iniziò la discussione, che fu lunga e fierissima.

Tre deputati tirolesi (il Flir, lo Schuler e il Kerer) si intrattennero con minute e sofistiche disquisizioni a mentire la storia, autentici precursori dei pangermanisti dei nostri tempi. “Non serbava forse la nazione tedesca diritti imprescrittibili sul Tirolo meridionale? Di 52 vescovi di Trento — dicevano — ben 30 erano stati tedeschi; tedeschi molti degli antichi feudatari del Trentino; tedesco in gran parte il capitolo della cattedrale di Trento, per una vecchia convenzione con Roma; tedeschi vari comuni, per storiche immigrazioni, tedesche mura le Alpi, tedesca fortezza il Tirolo, tedesco presidio il popolo tirolese!” Argomenti che altro non provavano fuorché i tentativi, per un millennio vani, della politica imperiale d’infiltrazione germanica alle porte d’ Italia, e la vittoriosa compattezza etnica del Trentino. Ma essi bastavano a convincere chi era ormai più che prevenuto in tal senso. Le minacce dell’ Italia e le tendenze separatiste dei trentini erano, secondo quegli oratori, tali da sconsigliare persino, come un gravissimo pericolo, la concessione dell’autonomia amministrativa. Non solo quindi la petizione di Prato e consorti, ma anche la proposta del Comitato internazionale doveva respingersi, come troppo mite. Il Flir, lo Schuler e il Kerer proponevano invece “che il potere centrale si adoperasse senza indugio presso il governo austriaco per la conservazione dell’originario elemento tedesco nel Tirolo italiano e protestasse al tempo stesso, presso il medesimo governo, contro un eventuale smembramento della provincia del Tirolo, perché dannoso agli interessi della Germania”.

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Rispondeva con robusta efficacia di argomenti e con mirabile coraggio il Prato, affermando la pura italianità della sua terra, le glorie letterarie italiche, le storiche libertà municipali, l’autonomia dell’antico principato, la trascurabilissima importanza delle cosiddette oasi tedesche, comprendenti poche centinaia di contadini sopra una popolazione di più che trecento mila abitanti, il valore, bensì offensivo contro l’Italia, non già difensivo per la Germania delle montagne del Trentino, l’artificiosità delle proteste pervenute contro la tesi della separazione dai comuni trentini e le influenze che su tali manifestazioni aveva esercitato la mala fede altrui; infine il diritto attuale delle nazioni, demolitore dei passati arbitri della Santa Alleanza e distruttore dei rancidi trattati del quindici.

La chiara eloquenza e le valide ragioni del Prato inducevano alcuni generosi tedeschi ad aderire almeno parzialmente ai postulati degli italiani : il Wiesner di Vienna, il Nauwerk di Berlino, il Vogt di Giessen si levavano a propugnare i principi ai quali gli italiani avevano inspirato la loro proposta. Senonché troppo ardita sembrava a costoro stessi la tesi del distacco dalla Confederazione: il Tirolo meridionale rappresentava la fortezza avanzata, l’antemurale della Germania verso il sud! “Signori miei -diceva il Nauwerk – il Tirolo italiano deve rimaner unito alla Germania, perché non possiamo aprirci in quel punto una piaga sul vivo”. “Io non voglio  – rincalzava il Vogt, l’oratore più amico degli italiani –  “che venga alienata una cosiddetta  fortezza di confine, fosse pure una fortezza dell’ultramontanismo, se ne debba poi scaturire un  pericolo per la patria comune. Ma — aggiungeva il Vogt, d’accordo in questo col Wiesner e col Nauwerk — se noi sinceramente vogliamo che gli abitanti di quelle provincie siano nostri buoni amici e si uniscano a noi intimamente, concediamo loro ciò che domandano, cioè una rappresentanza nazionale e una nazionale amministrazione”.

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Purtroppo la buona volontà e la buona fede di alcuni oratori era completamente annullata dallo spirito violento e tirannico di altri. Il Kolhparzer di Neuhaus scattava con queste parole: “Io porto occhiali tedeschi, e perciò vedo il mondo alla tedesca … Io dico solo: Beati possidentes! Noi possediamo il Tirolo meridionale, e perciò ce lo teniamo: cosi io intendo il diritto delle genti! Né penso di chieder troppo, se vi propongo di cacciare codesti deputati, i quali han pronunziato la propria condanna di morte …”.

Vedendo che il dibattito prendeva una cattiva piega per gli italiani, il Prato, per tentare un ultimo salvataggio, d’accordo coi suoi colleghi aveva presentato alla seduta due nuove proposte che invitavano l’Assemblea a rimettere la prima richiesta (separazione dalla Germania) ed una decisione del potere centrale e a dichiarare la convenienza e la bontà della seconda (separazione dal Tirolo), pur lasciando su questa l’ultima parola all’Austria. Ma anche il tentato accomodamento fu respinto, e passò invece, a grande maggioranza, la formula del Comitato degli affari internazionali: rigetto puro e semplice della prima domanda, dichiarazione d’incompetenza rispetto alla seconda.

Visto l’esito infelicissimo della loro missione, ai deputati italiani doveva venir fatto di ritirarsi dal loro posto di combattimento in quell’Assemblea. Ma mentre il Prato, come già il Depretis e il Festi, accorreva alla Costituente di Vienna per ottenere che il Trentino fosse almeno ordinato in provincia a parte, rimanevano imperterriti a Francoforte Carlo Esterle e Francesco Antonio Marsilli, cui si aggiunse ai primi del 1849, per volere degli elettori di Rovereto, Antonio Gazzoletti : tutti e tre entusiasti della causa per la quale combattevano, tutti e tre e prima e poi ardenti cospiratori contro il dominio austriaco.

ANTONIO GAZZOLETTI

ANTONIO GAZZOLETTI

L’ambiente di Francoforte e quello dell’Assemblea si faceva di giorno in giorno più difficile: le violenze dei demagoghi, le intimidazioni dei governi austriaco e prussiano, i contrasti fra i deputati del nord e quelli del sud, gli odi fra la destra e la sinistra, ponevano la Costituente in uno stato di eccitazione e di orgasmo incompatibile con qualsiasi alacrità di lavoro.

Tuttavia il 18 ottobre era già pronta per la approvazione dell’Assemblea la nuova costituzione federale. Il paragrafo primo attribuiva all’impero germanico tutte le provincie della cessata Confederazione. L’ Esterle coglieva questa occasione per associarsi, in nome del suo gruppo, al deputato Liebelt nel proporre un emendamento che voleva compresi nel nuovo Stato germanico soltanto popoli tedeschi, ovvero non tedeschi, ma solo in quanto essi ne avessero fatto espressa domanda. Respinta la variante, i trentini si astennero dal voto.  Al paragrafo 47 l’ Esterle chiede ancora, e sempre invano, che ai popoli non tedeschi sia concesso di esercitare in forma autonoma, entro il proprio territorio, tutti i diritti politici, morali e religiosi.

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Alla seconda lettura della costituzione (23 marzo 1849) Esterle, Gazzoletti e Marsilli ancora protestano contro il primo paragrafo, ed esigono che la loro protesta sia inserita a verbale. Un deputato tedesco si alza per chiedere di nuovo la loro espulsione dall’assemblea, ma i nostri non si sgomentano. E il 13 aprile l’ Esterle pronunzia ancora un elevatissimo e vigoroso discorso nel quale, dopo aver descritto i sistemi del governo austriaco del Lombardo-Veneto, fa appello al popolo tedesco perché riconosca all’Italia il diritto a un indipendente sviluppo. Ma anche questo appello incontrò la generale indifferenza: e poco appresso i deputati trentini, dietro una formale imposizione dell’Austria che negava ormai ogni riconoscimento all’Assemblea di Francoforte, furono costretti a ritornarsene ai loro paesi.

Perseguitato dai governi e ridotto ad un pugno di sovversivi, quel Parlamento fini poco tempo dopo la sua ingloriosa vita a Stoccarda, e ritornò cosi in vigore il regime assoluto con quello stesso ordinamento federale che era nato dai trattati del 1815. Né migliore successo ottenne l’azione dei deputati italiani all’Assemblea costituente di Vienna. Il 25 aprile 1848 l’ Imperatore Ferdinando aveva promulgato l’annunziata costituzione, istituendo una Camera composta di 383 deputati da eleggersi col voto diretto dei cittadini, e con patente del 9 maggio aveva bandito le elezioni per la prima assemblea, che avrebbe dovuto gettar le basi del nuovo regime costituzionale. In giugno si tengono i comizi: Giovanni a Prato, Giovanni de Pretis, Giuseppe Festi, Pietro Bernardelli, già deputati a Francoforte escono vittoriosi dalle urne; il barone Turco, il giudice Carlo Clementi, il cav. Maffei, il dottor Tommaso Salvadori, tutti favorevoli ad una separazione dal Tirolo, completano la rappresentanza trentina. Nel frattempo Vienna malcontenta insorge (15 maggio) ; l’ Imperatore Ferdinando ripara ad Innsbruck, tra i fedelissimi tirolesi. Ma il 22 luglio si inaugura ugualmente l’Assemblea costituente a Vienna; i deputati trentini vi si accordano cogli altri italiani dell’ Impero per interpellare il Governo sulla sua condotta nel Lombardo-Veneto, ed ottengono una amnistia per tutti i reati di indole politica attribuiti ai loro connazionali durante la guerra.

GIOVANNI A PRATO

GIOVANNI A PRATO

Giovanni a Prato, che dopo le non libere proteste dei suoi elettori roveretani e dopo l’insuccesso del 12 agosto a Francoforte si sente diminuito, si dimette da deputato, ma è rieletto (5 settembre) nonostante la viva opposizione del Governo. Una grande maggioranza di elettori (83 su 93) gli presenta un indirizzo di piena adesione ai suoi principi, incitandolo a propugnare a Vienna la separazione del Trentino dal Tirolo e i postulati nazionali del Paese.

Il Governo austriaco allora apre una inchiesta sullo stato dell’opinione pubblica nel Trentino, e a compierla invia in qualità di commissario ministeriale il dott. Luigi Fischer, il quale arriva a Trento il 24 settembre. Qui il Fischer riceve numerose deputazioni reclamanti l’autonomia del Paese, e della necessità di questa autonomia egli stesso si convince. Tornando a Vienna sente il bisogno di consigliare non solo una separazione amministrativa e giudiziaria, ma anche qualche concessione in rapporto alla dieta provinciale: “per mezzo di forti guarnigioni tedesche nel paese e coll’occupazione dei passi montagnosi e dei punti strategici più importanti si sarebbe poi potuto provvedere in tempo a reprimere qualsiasi eventuale tentativo di secessione”.

A Vienna il 6 ottobre è scoppiata di nuovo, con maggiore violenza, l’insurrezione provocata dalla impopolarità del Ministero: l’Imperatore si è rifugiato ad Olmútz ; i deputati del Tirolo tedesco, in omaggio al sovrano, si sono ritirati protestando ad Innsbruck, ove il presidente della dieta, facendo appello ai sentimenti di lealtà dinastica dei “cari patrioti del Tirolo e del Vorarlberg”, riconvoca arbitrariamente, per il 26 ottobre, l’Assemblea provinciale. Ma rimangono a Vienna, fedeli ai principi liberali, i deputati trentini, e in seno alla Costituente protestano contro la nuova riunione della dieta tirolese, illegale finché al Parlamento non piaccia stabilire le norme della sua composizione e del suo funzionamento.

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Le città di Trento e di Rovereto respingevano una proposta di autonomia limitata, ad esse sottoposta dall’avvocato Widmann di Innsbruck, inviando alla Costituente indirizzi di protesta contro la Dieta del Tirolo; e l’Assemblea li accoglieva con applausi. La Dieta di Innsbruck reagiva violentemente, ammonendo il governo austriaco e il vicario imperiale a Francoforte a proteggere i confini dell’Austria e della Confederazione, minacciati dai patrioti trentini; ma il 18 novembre l’Imperatore era costretto a scioglierla.

(Questo atto imperiale provocò a Trento, fra gli studenti, una singolare manifestazione di giubilo. nel cortile del ginnasio (in via Calepina) fu improvvisato un corteo funebre rappresentante la morte della Dieta. Sopra un cataletto ricoperto di nero fu posta una sella d’asino , e tutti gli stu denti s’ incolonnarono dietro la bara per via Macello vecchio, via San Pietro, via Lunga e via della Portella fino al ponte dell’Adige. Popolo e studenti cantavano : I me dis che ‘l diaol sia morto.Ma frattanto no l’è vera. Che lo visto ieri sera Che portava un gabanotto. Gabanotto, come è noto, era il soprannome affibbiato ai bersaglieri provinciali del Tirolo. Giunti al fiume, gli improvvisati becchini gettarono la bara nell’Adige fra gli urli della popolazione. Il capitano del Circolo avviò un processo contro i professori del ginnasio, ritenendoli responsabili di questa dimostrazione ; ma la cosa fini in nulla [dal racconto di un superstite)

I deputati trentini, grazie alla loro attività e al loro entusiasmo, riuscirono a guadagnare una posizione influente nell’Assemblea di Vienna. Il Prato, il Clementi. il de Pretis rappresentavano spesso il Parlamento in commissioni inviate a trattare coll’Imperatore, col bano di Croazia, col Governo, e disimpegnavano tali mandati, sovente ardui, con tatto e con ardire. Quegli stessi fra loro che non ponevano limiti alle loro aspirazioni nazionali, visto il cattivo esito della guerra italiana, vista l’importanza sostanziale e pregiudiziale del programma minimo, consistente nella semplice autonomia, si erano risolti a rimanere negli stretti confini della legalità e a non lasciar scorgere il loro desiderio di essere emancipati dall’Austria per non distruggere ogni speranza.

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Ed anche nel Trentino questa specie di tattica sembrava ineluttabile: Antonio Gazzoletti ed Angelo Ducati, già profughi e cospiratori in Lombardia e futuri deputati del Parlamento italiano, vi aderivano completamente; il Ducati, che pochi mesi prima aveva avuto parte attivissima nelle pratiche col governo provvisorio lombardo e con Carlo Alberto, veniva ora incaricato della preparazione di un indirizzo all’Imperatore Ferdinando, al quale era chiesta l’autonomia del Trentino non senza qualche indispensabile frase di lealismo dinastico ed austriaco.

Vienna intanto è assediata dalle truppe imperiali congiunte con quelle del bano di Croazia e il 30 ottobre è costretta ad arrendersi. Pochi giorni prima (25 ottobre) l’Imperatore sospendeva le adunanze del Parlamento, riconvocandolo per il 15 novembre a Kremsier.

I deputati trentini approfittano della sospensione per recarsi a Trento a interrogare i loro elettori. I quali in solenne comizio proclamano la necessità di una piena autonomia e disapprovano violentemente i deputati Clementi e Maffei perché disposti ad accogliere anche una separazione amministrativa parziale. I due patrii comitati formatisi a Trento e a Rovereto per dirigere l’agitazione promuovono una nuova protesta in senso autonomista che è ricoperta da ben 45.987 firme e trasmessa poco tempo appresso alla Costituente.

Il 2 dicembre 1848 Ferdinando I abdicava in favore di Francesco Giuseppe, e i trentini coglievano questa nuova occasione per inviare al giovane imperatore una commissione dì quattro membri (due per Trento e due per Rovereto) per insistere sulla domanda di autonomia. Francesco Giuseppe li riceveva il 28 dicembre a Olmutz, ma dopo aver loro semplicemente richiesto se il paese fosse tranquillo rispondeva all’indirizzo con queste parole: “Sarà costante cara del mio governo di promuovere tutti quei provvedimenti che possono convenire agli interessi della Monarchia non meno che a quelli della provincia del Tirolo”.

FRANCESCO GIUSEPPE

FRANCESCO GIUSEPPE

Mentre nel Trentino le autorità perseguitano i comitati patriottici e la stampa tirolese li addita al sospetto dei concittadini, a Kremsier il conflitto fra Governo e Parlamento si fa sempre più aspro e violento. La Sinistra elabora una costituzione in base alla quale l’Austria dovrebbe trasformarsi in una federazione di cinque stati rispondenti alle varie nazionalità, ma il Gabinetto si dichiara avverso a tale riforma. I trentini approfittano della opposizione contro il Ministero per ottenere dalla Camera un responso favorevole ai loro postulati. Infatti la Giunta costituzionale, alla quale era stata inviata la domanda di separazione dal Tirolo con un nutrito e lucido memoriale elaborato dal deputato Clementi, nella riunione del 14 febbraio si pronunciava favorevolmente con 22 voti contro 7.

Ma queste buone disposizioni durarono poco: e il deputato de Pretis, che il 20 gennaio 1849 era stato eletto vicepresidente dell’Assemblea, non fu riconfermato nella sua carica nella votazione del 23 febbraio, Il primo marzo, venuta di nuovo in discussione nella Giunta per la costituzione la proposta di autonomia del Trentino, questa venne respinta con 12 voti contro 11. L’Assemblea avrebbe dovuto discuterne in seduta plenaria il 15 maggio; ma il 4 marzo il governo imperiale scioglieva la Camera, il 7 faceva sgombrare dalle truppe l’aula del Parlamento e imprigionava molti deputati, fra i quali Giovanni a Prato, capo della deputazione trentina. A svelare le sue intenzioni reazionarie il Ministro dell’Interno conte Stadion fin dal 14 febbraio aveva emanato un decreto, nel quale ogni tentativo di separazione dal Tirolo era dichiarato un tradimento alla patria tirolese ed erano invitate le autorità a procedere a norma delle leggi penali contro chiunque avesse osato fomentare con finti pretesti e mezzi indegni la popolazione ad un chimerico smembramento della provincia, e ad informare i sudditi per mezzo di persone ben intenzionate ed assennate della inopportunità della pretesa separazione e delle mire dei promotori della medesima. Contro questo decreto non mancarono da parte dei municipi trentini formali proteste, che coraggiosamente ma inutilmente si richiamavano al diritto di petizione e al principio di nazionalità.

CARLO ALBERTO

CARLO ALBERTO

L’Imperatore, all’atto di sciogliere il Parlamento, aveva promulgato una nuova costituzione, che non andò mai in vigore. E cosi anche la modesta domanda di autonomia presentata dal Trentino, anche il programma minimo nella realizzazione del quale i patrioti trentini e i loro rappresentanti avevano concentrato tutti gli sforzi, era travolto nella generale rovina delle rivendicazioni del quarantotto.

Amareggiati e delusi, i fuggiaschi della Val di Sole e delle Giudicarie giungevano fra il 23 e il 24 aprile a Brescia, ove erano raggiunti da altri patrioti compromessi nei moti di Trento e di Riva. Altri ancora, ma in minor numero, riparavano a Venezia. Apparivano proprio in quei giorni i primi sinistri sintomi della terribile impreparazione quarantottesca. L’esercito di Carlo Alberto dopo il passaggio del Mincio (8-11 aprile) sostava perplesso, accontentandosi di soddisfare il suo amor proprio in qualche parziale scontro; i volontari dell’Allemandi, che primi avevano subito il cozzo contro la dura realtà, rientravano sbandati, laceri, avviliti, inveleniti a Brescia, a Bergamo, a Cremona, a Milano; il Nugent coll’esercito di soccorso passava l’ Isonzo, respingeva a Visco il Zucchi, lo assediava in Palmanova, prendeva Udine (21 aprile); Pio nono, nome, bandiera, idolo della rivoluzione preparava la dolorosa smentita alle speranze degli italiani, chiudendosi in un isolamento sospetto di fronte ai suoi ministri e studiando l’allocuzione del 29 aprile, e Ferdinando II di Napoli vedeva già delinearsi nella condotta pontificia il pretesto alla meditata defezione propria.

La discordia, la diffidenza, la maldicenza imperversavano più che mai; le accuse di tradimento piovevano fitte. Traditore dei suoi soldati l’Allemandi ; traditori del popolo il Casati, il Cattaneo, il Guerrieri e gli altri reggitori del Governo provvisorio di Milano; traditore dei lombardi Carlo Alberto; traditori dei loro fratelli italiani i tirolesi.

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Quest’ultima accusa serviva da giustificazione e da sfogo al primo grave insuccesso patito: molti fra i dispersi volontari la propalavano per le città della Lombardia, qualche giornale se ne assumeva la paternità con parole di fuoco. Il Crociato ad esempio scriveva: “Il paese é tanto ostile ai nostri, quanto potrebbe esserlo l’inospite Croazi”, e cadendo in uno strano equivoco pur cosi comune a quei tempi chiamava i tirolesi “dimentichi dell’ingratitudine con che l’Austria in altri tempi sacrificò la vita di Hofer alla speranza di un trattato !” Riferiva poi su insidie che i contadini del Trentino avrebbero teso ai corpi franchi a Cles, a Stenico e in Valle di Ledro, e scagliava contro quelle popolazioni i più atroci e sanguinosi insulti.

Certo, quei valligiani ingenui ed ignoranti avevano talora prestato fede alle insinuazioni degli agenti dell’Austria, secondo le quali gli italiani venivano per predare gli averi, profanare le chiese, violare le donne; e dove qualche uomo più illuminato non aveva dissipato tali calunnie, non era mancato fra il contado qualche sintomo di ostilità contro i corpi franchi. L’esperienza non tardò a rivelare che simili fenomeni di avversione contro la causa italiana, e specialmente contro i volontari garibaldini, erano assai comuni fra le plebi contadine d’Italia. Le stesse truppe di Carlo Alberto, se dobbiamo credere agli scrittori del tempo, ebbero nei villaggi fra il Mincio e l’Adige una accoglienza peggio che fredda; né sul contegno della popolazione del Friuli verso il generale Zucchi mancarono aneddoti somiglianti a quelli riferiti a proposito della spedizione dei corpi franchi nel Trentino.

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Comunque, un tale momento di incertezza, di orgasmo e di passionalità politica non era fatto per consigliare riflessioni e distinzioni; e i trentini che riparavano in Lombardia vittime della causa italiana furono nei primi giorni guardati quasi in cagnesco e fatti segno a mormorii e persino a minacce. Senonché il Governo provvisorio di Brescia, meglio informato sul modo nel quale si erano svolti gli avvenimenti, interveniva a loro favore col seguente manifesto:

Bresciani!

Non è un atto di generosità che vi si domanda: è un atto di giustizia. I cuori dei nostri vicini del Tirolo, appena intesero la nostra chiamata, palpitarono come i nostri cuori. Quando le nostre bandiere penetrarono nelle loro valli, essi le salutarono nell’esultanza: essi abbracciarono la causa nostra, che è la causa loro. Se alcuno era alquanto più dubitoso, si perdoni al timore, nato da minor confidenza nei propri mezzi, in realtà anche minori. Il miglior consiglio era di rinfrancare quegli animi colla mostra della disciplina e del valore, che qui fu sempre tanto solenne e generosa. Or che inevitabili necessità hanno obbligato ad abbandonare alle loro sole forze, e perciò alla balia del nemico per breve tempo quelle popolazioni, mentre molti colà or sono sotto il flagello del barbaro perché primi ci apersero le braccia, e parecchie famiglie vanno in fuga e cercano asilo tra noi, mentre ogni animo gentile è per questi casi in angosciosa trepidazione, reca dolore acerbissimo a tutti i buoni il sentire che qualche labbro mormora ingiuste accuse, e da taluno pur levansi minacciose grida.

Bresciani! Chi semina iniqui sospetti, chi fomenta la discordia dei fratelli, è ministro dell’Austria. Evvi alcuno tra voi, al quale le vili arti e le mene di quella non siano note?

Brescia, 24 aprile 1848. 11 Presidente Lechi

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Questo proclama rasserenò e confortò i nostri profughi. Passato il primo abbattimento, essi non si limitarono a sospirare il loro ritorno al tetto natio. Tenaci in quel sentimento che li aveva fatti esuli, essi si riunirono e si concertarono sui mezzi per conseguire la liberazione del loro paese dall’Austria. I più influenti, come il dott. Giacomo Marchetti, l’avv. Angelo Ducati, don Giovanni Zanella, l’avv. Giovanni Danieli, corsero a Milano a ricordare a quel Governo il dovere di riconquistare il Trentino abbandonato; gli altri, adunatisi in Brescia il 1″ maggio, stesero un atto nel quale deliberarono di “costituirsi in corpo morale rappresentante il Trentino (Tirolo italiano) all’oggetto di promuovere ogni possibile disposizione, e misura per il benessere del proprio paese, e specialmente per liberarsi per sempre dal tenebroso e tirannico governo austriaco”.

(L’atto porta queste precise sottoscrizioni: <Luigi Catterina di Storo, Ferdinando Cortella di Storo, avv. Vigilio Cortella di Storo, Cosimo Salvini di Riva; Dr. Alessandro Boni di Tione, Dr. Antonio Nicolini di Condino, Eugenio Floriani di Tione, Bortolo Glisenti di Creto, Pietro Martini di Trento, Andriolli Luigi di Brentonico, Angelo Marini di Darzo, Agostino Canella di Tione, Cortella Francesco di Storo, Andrea Dei Fanti di Vezzano, Romanelli Fernando di Pieve di Bono, Bertolini Pietro di Preore, Francesco Alimonta di Condino, Matteo Poli di Storo, Emilio Alimonta di Condino, Pietro Serafini di Preore, Giovanni Degasperi di Sardagna, Pietro Bernardi di Pieve in Val di Ledro, Gerolamo Stefanini di Tione, Leopoldo Martini di Tione, Giovanni Girardi di Mori, dott. Carlo Sartori della Valle di Ledro, Salvotti (da Riva) cons. munic., Dr. Alf. Ciolli di Val di Sole, Giacomo Catterina di Storo, Clemente Baroni di Valle di Ledro, Gio. Batta Catterina di Storo, Francesco Vedovelli di Storo, Bernardi Domenico di Storo, Pietro Buffi di Saone, Nicolò Maroni di Riva, Buffio Buffi (Saone), Bondi Giacomo di Saone, Francesco Armani da Riva, Giacomo Montagni di Riva, dott. Pietro Bolognini di Riva, Luigi Antonio Baruffaldi dottore in leggi da Riva, Giuseppe Tommasi, Ant.° Serafini di Preore, Vincenzo Dr. Colò di Biaeesa in Val di Ledro anche facente funzioni di segretario)

In quei giorni il Municipio di Brescia, prevenendo tutte le altre città dell’alta Italia, aveva (28 aprile) aveva bandito nella provincia una sottoscrizione per la fusione della provincia di Bre scia e del resto della Lombardia col Piemonte sotto il governo di Carlo Alberto. L’Associazione trentina, all’atto stesso della sua costituzione (1° maggio) deliberò di preparare analogo indirizzo e di farlo firmare a tutti gli aderenti e a tutti gli emigrati sparsi nelle altre città, della Lombardia, per poi rimetterlo a Carlo Alberto a tempo opportuno.

L’Associazione tridentina, fissata la sua sede nella casa del dott. Bortolo Glisenti, si pone in comunicazione coi trentini residenti a Milano e a Venezia, invita la Congregazione provinciale di Brescia a inviar rappresentanti alle sue riunioni, elegge una giunta incaricata di rivedere tutti gli articoli ed indirizzi preparati dai singoli membri dell’Associazione ed emana ai bresciani un proclama, il quale riprende il motivo del famoso sonetto di Clementino Vannetti, per respingere sdegnosamente l’abusiva denominazione di Tirolo e di tirolesi fino allora usata dagli stessi patrioti:

“Profughi dal natio nostro Paese, onde sfuggire all’artiglio dell’Aquila, al cui cospetto é delitto l’essere e il sentirsi italiani, in questa vostra città noi trovammo un asilo sicuro, e gentile. E l’animo nostro non può a meno di attestarvene la maggiore riconoscenza, la quale quanta sia potrà conoscere quegli, che costretto ad abbandonare la patria alla prepotente balia dell’austriaco soldato, vedesi riconosciuto come fratello alla testimonianza della lingua comune, e del cuore che batte in un’armonia perfettissima di sentimenti. Dei quali vi faceste interpreti gentili, quando con pubblico editto ne avete difesi contro la malevolenza di alcuni, che, emissari del comune nemico, per togliere quella confidenza che tutte lega le italiane provincie dalle Alpi al Faro, diffondevano sinistre voci sulla fede della patria nostra, la quale sempre fu Italia vera, nè fu appellata Tirolo se non dietro quelle stesse disposizioni del Congresso di Vienna, il quale decretava pure la servitù di queste belle contrade, e che usurpandosi cosi il diritto il più ripugnante all’eterne leggi della natura, stoltamente presunse di permutare e distruggere le nazionalità. E noi reclamiamo la nostra con tutta l’effusione dell’anima, e protestiamo contro un nome nazionalmente e geograficamente assurdo. Siano Tirolesi quelli che parlano la favella di Hofer; la nostra lingua è la lingua di Dante, la lingua che ci fa intendere, ed essere intesi in tutto questo giardino del mondo: noi siamo italiani, e vogliamo esserlo, né ci chiameremo se non Tridentini, come si appellano Bresciani tutti quelli che vivono nel territorio di Brescia.

Ammiratori pertanto dell’animo vostro generoso, e della fermezza dei vostri propositi, noi ci uniamo a voi, lieti di dividere con voi quei voti coi quali, nella politica sapienza de’ nazionali vostri intendimenti vi dichiaraste in favore del Regno costituzionale dell’Alta Italia, fidandone le sorti al Magnanimo Discendente di Emanuele Filiberto. E nella speranza confortante che abbia presto a risplendere in tutta Italia pienamente sicuro l’astro della indipendenza, gridiamo con entusiasmo di gratitudine:

EVVIVA I BRESCIANI!

Brescia, 4 maggio 1845.

Contemporaneamente l’ingegner Virginio Meneghelli, quello stesso che aveva preso parte collo Scotti e col Ciolli alla spedizione di Valle di Sole, aveva emanato a Milano (2 maggio) un altro proclama di simile intonazione; a nome “dei profughi tirolesi „, ma senza autorizzazione loro. Il che gli fruttava, da parte dell’Associazione tridentina di Brescia, un energico richiamo alla disciplina.

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Il dott. Giacomo Marchetti, che era allora a Milano, avuta notizia della costituzione dell’Associazione tridentina, si rivolse al Governo provvisorio di Milano per ottenerne il riconoscimento. Le notizie allarmanti pervenute in quei giorni dalla Germania avevano però talmente impensierito il Gabinetto lombardo sulle possibili complicazioni diplomatiche cui avrebbe dato luogo una nuova invasione del Trentino, che esso dichiarò semplicemente di non opporsi alla formazione del Comitato tridentino, e lo esortò a prendere il titolo di Comitato per il soccorso ai profughi tirolesi, come quello che non poteva dar ombra agli stati tedeschi. L’etichetta, più filantropica che patriottica, non piacque ai trentini e il nome definitivo, d’accordo col governo lombardo, divenne Comitato dei profughi trentini a favore del loro paese, o più brevemente Comitato trentino. Per la stessa ragione il Governo di Milano pregava il Comitato “di non fare pubblicamente atto di esistenza”, al che i profughi rispondevano che il legame che univa il loro paese alla Confederazione germanica era “un nodo da sciogliere, non già da celare o da evadere”, e che ciò era voluto dall’interesse di tutta Italia. Del resto, all’infuori di tali questioni di forma, l’Amministrazione insurrezionale ascoltò i consigli e soddisfece i desideri degli emigrati che si erano recati a Milano a tale scopo. Promise che il Comitato tridentino sarebbe stato ammesso con voto consultivo ed in certi casi anche deliberativo alle adunanze nelle quali si sarebbe trattato di una nuova spedizione nel Trentino, versò al Comitato mille e cinquecento lire per le spese di prima istituzione e duemila lire per distribuirle nelle valli tra quelle famiglie che avevano risentito danni dalla spedizione dei corpi franchi e per riacquistare cosi la fiducia di quei contadini; e quel che è più, accettò il progetto, caldeggiato da Giacomo Marchetti, di istituire una legione di volontari tridentini allo scopo di fiancheggiare e guidare le truppe che si sarebbero spedite in quella regione.

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