IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 2

a cura di Cornelio Galas

Seconda puntata sul Trentino nel periodo del Risorgimento. Sempre facendo riferimento al saggio storico “Il Trentino nel Risorgimento” scritto nel novembre 1912 da Livio Marchetti e pubblicato l’anno seguente con la società editrice Dante Alighieri fondata a Roma da Giovanni Albrighi, Dante Segati ed altri soci nel 1895. Siamo ormai alla fine del Settecento. Per inquadrare meglio comunque le vicende trentine di quel periodo nel contesto italiano ed europeo allego un video didattico. Semplice, schematico. Di facile comprensione.

Il 5 settembre 1796 le truppe vittoriose del generale Napoleone Bonaparte entrarono per la prima volta in Trento. Il vescovo Pietro Vigilio, prevedendo questo pericolo, da vari mesi aveva già portato in salvo le sue vili ossa altrove. La Rivoluzione, vittoriosa sui campi dell’Italia superiore, spirava violento l’alito della purificazione tra il tanfo irrespirabile di quelle valli intristite dal duplice influsso teocratico e straniero. I molti governi che dal 1796 al 1813 si succedettero nel Trentino abbatterono ad una ad una tutte le anticaglie medioevali, debellarono le superstizioni, informarono le istituzioni del paese ai nuovi principi giuridici ed amministrativi. Ma il modo e la vicenda, con cui i francesi, gli austriaci, i bavaresi, gli italici si imposero alla regione non erano tali da poterla rendere persuasa della bontà dei nuovi ordinamenti. Il Trentino fu e rimase infatti dalla prima campagna d’Italia fino alla caduta di Napoleone un campo di battaglia continuamente soggetto alle violenze, alle rapine, ai saccheggi degli eserciti, messo nella impossibilità di parteggiare apertamente per l’ uno o per l’altro in causa dei mutamenti continui di governo. Liberato dal dominio ormai inglorioso dei vescovi, perdette con questo anche ogni traccia di indipendenza e di autonomia.

NAPOLEONE BONAPARTE

In un simile caleidoscopio di sconvolgimenti, il popolo stupefatto e quasi terrorizzato non ebbe modo né tempo di portare le sue preferenze su l’uno piuttosto che su l’altro regime: avrebbe aspirato a riconquistare quella fisionomia di Stato quasi sovrano che gli era rimasta, si può dire, fino alla rivoluzione francese: ma quali armi portare, nel cozzo furioso delle forze di tutta Europa che imperversava fra le sue valli? Quale opinione propugnare, se le prepotenze e le vendette pendevano continuamente sul paese? La bufera che spazzò tanto vecchiume e comunicò al Trentino uno spirito di vita nuova fu dunque per esso, più ancora che per le altre terre d’ Italia, tormentosa e carica di sacrifici. Si ritornava agli antichi tempi, nei quali le porte d’Italia erano il teatro della più insistente e funesta guerriglia.

NAPOLEONE BONAPARTE

Il Bonaparte entra per la prima volta in Trento il 5 settembre 1796, e quivi riunisce le truppe venute nel Trentino per valli diverse; toglie ai cittadini le armi, al castello i cannoni, ruba gli oggetti artistici e le argenterie, fa arrestare e tradurre a Milano quattro consiglieri comunali. Ma due mesi dopo (5 novembre) i francesi si ritirano di fronte alle forze preponderanti degli austriaci, che penetrano in Trento e vi pongono una propria amministrazione in sostituzione del governo provvisorio istituito dai francesi.

IL GENERALE JOUBERT

IL GENERALE JOUBERT

Non passano altri tre mesi che gli austriaci, perduta la battaglia di Rìvoli, sgombrano di nuovo il Trentino dopo avervi portato una terribile epidemia di tifo, e il generale Joubert colle truppe francesi rientra a Trento (29 gennaio 1797). Spintosi egli però troppo oltre per la Val di Pusteria (per raggiungere a Villach Napoleone), gli austriaci, approfittando della sua partenza, discendono per Val d’Adige e rioccupano Trento per la seconda volta (10 aprile 1797).

TRENTO AI PRIMI DELL'OTTOCENTO

TRENTO AI PRIMI DELL’OTTOCENTO

I trentini colgono quest’occasione per restaurare il Consiglio di reggenza lasciato dal vescovo nel partire, e il vescovo stesso ordina per lettera di pubblicare un editto, nel quale si raccomandi a tutti i sindaci delle comunità che nel caso di nuova invasione dei francesi eccitino il popolo a levarsi in massa al tocco della campana “per respingere una razza di gente tanto infesta al genere umano, che rapisce ogni sostanza e rende ogni ceto di persone alla mendicità”. Tale editto, dettato da odio ai principi della Rivoluzione, aveva fors’anche lo scopo di rassicurare l’Austria sui sentimenti del vescovo e del suo governo per scongiurare la definitiva caduta del principato che si riteneva imminente; ma non bastò allo scopo, giacché il 19 aprile arrivò a Trento da Innsbrück il conte Filippo Baroni di Cavalcabò, incaricato dall’Austria di assumere la presidenza del Consiglio amministrativo. La Reggenza trentina resiste, ma inutilmente; invoca l’aiuto del vescovo, ma questi invece di ritornare a Trento, si ritira in una sua villa di Val di Non, ove muore il 17 gennaio 1800; ed Emanuele Maria dei conti Thun, succedutogli al governo della diocesi il 2 aprile dello stesso anno, non può ricuperare i diritti temporali del principato.

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Nel gennaio del 1801 i francesi riescono di nuovo a penetrare in Trento, condotti dal generale Macdonald, il quale ristabilisce un Consiglio superiore composto in maggioranza delle stesse persone che avevano retto il Trentino durante i primi passaggi dell’esercito francese. Macdonald istituí anche a Trento una guardia nazionale, ma nell’aprile, dopo soli tre mesi di soggiorno, fu costretto a ritirarsi in seguito alla conclusione della pace di Lunéville, nella quale, fra l’altro, era stato deciso di secolarizzare gli stati ecclesiastici dell’Impero romano-germanico e di compensare con i territori di quegli stati i principi secolari spodestati dalla Rivoluzione. Il primo progetto messo avanti dalle potenze mediatrici per porre ad esecuzione tale trattato, fu quello di cedere i principati di Trento e di Bressanone come compenso allo spodestato granduca di Toscana; ma siccome l’Austria aveva dovuto rinunciare ai due possessi di Brisgau e di Ortenau in favore del duca di Modena, cosi essa pretese che in cambio le venissero dati in piena signoria i principati di Trento e di Bressanone, che già prima si trovavano sotto il suo protettorato.

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Cosi l’Austria, anche durante la tempesta napoleonica, sapeva tener ritto il timone verso la méta perseguita dalla sua politica per tanti secoli: rendersi a poco a poco padrona assoluta della porta d’Italia. A perfezionare il suo intento, essa sacrificava altri possessi: ciò non le importava. E nel novembre del 1802 i cittadini di Trento — che nell’anno e mezzo trascorso dopo la pace di Lunéville avevano saputo gelosamente e tenacemente difendere i diritti del principato rimasto senza sovrano, e che si cullavano ancora nell’illusione di avere un principe italiano autonomo se non indipendente — appresero dal maggiore austriaco Birré, arrivato in Trento alla testa delle sue truppe, che egli occupava la città ed il principato a nome di Sua Maestà l’Imperatore e Re dei Romani. L’amministrazione del Trentino veniva completamente fusa con quella del Tirolo, e cosi si consumava l’ultima e più grave sopraffazione austriaca contro l’autonomia e la nazionalità del paese.

FRANCESCO II D'AUSTRIA

FRANCESCO II D’AUSTRIA

Meno di quattro anni dopo la caduta del principato trentino, ossia il 6 agosto 1806, cessava di esistere anche l’ Impero romano-germanico. Francesco II d’Austria rinunziava a tale dignità, e considerando come rotti i legami che lo univano al corpo germanico, scioglieva dal loro omaggio gli stati che lo componevano, e si ritirava al governo dei suoi domini ereditari col titolo d’Imperatore d’Austria. Scomparso l’Impero romano-germanico, rimaneva dunque l’ Impero d’Austria, e con tutta la potenza ed il prestigio che la somma fra le corone aveva comunicato alla casa d’Absburgo in quasi quattro secoli di padronanza ininterrotta. L’Austria, non più distratta da cure esterne di politica germanica, diveniva più rigida e più compatta; compressa, ma non diminuita dallo sconfitte, si preparava già una costituzione idonea al suo prossimo futuro predominio.

I piccoli stati ecclesiastici, e tra questi i principati di Trento e di Bressanone, non erano esistiti che per l’Impero, e l’Impero aveva fondato gran parte del suo ondeggiante e vano potere su essi: cessati gli uni, era destinato a cessare anche l’altro. Era un equilibrio medioevale che la Rivoluzione doveva distruggere. Dalla parte d’ Italia, il sovrano d’Austria aveva già raggiunto il suo scopo annettendosi i due principati ecclesiastici di Val d’Adige: la Baviera glieli aveva poi carpiti; ma non c’era da disperare in una reintegrazione. A che dunque serviva più la corona del sacro romano impero, a che la sua esistenza per la casa d’Austria? Ciò spiega come Francesco II abbia potuto abdicare alla corona romano-germanica, senza opporre serie resistenze alla Francia che tale dignità non voleva più riconoscergli; e spiega pure il perché nel 1815 Francesco non abbia chiesto di riprendersi l’elevatissimo ma inutile titolo perduto.

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Il trattato di Presburgo, concluso il 26 dicembre 1805 dopo la giornata di Austerlitz, aveva frattanto fatto passare il Tirolo e il Trentino dall’Austria alla Baviera. Con questo mutamento Napoleone intendeva isolare completamente l’Austria dall’Italia e dalla Germania e comprimerla verso Oriente.

Per rendere più forte il regno italico, costituito per l’appunto in quell’anno, Napoleone avrebbe voluto annettere a questo Stato il Trentino del quale, da quel maestro che era nell’arte della guerra, non poteva non riconoscere la grande importanza strategica. E infatti in una prima convenzione tra Francia e Baviera la riserva del Trentino a favore del Regno d’Italia era espressamente posta. Senonché poi, per non disgustare il suo alleato gliene fece cessione stipulando una nuova convenzione secondo la quale era vietato alla Baviera di costruire fortificazioni e di stendere cordoni di truppa al disotto di una determinata linea militare, attraversante il Trentino meridionale. Questa linea, partendo da Rovereto, passava per il Monte Stivo su Arco, attraversava Tenno e Ballino, tagliava il gruppo del Monte Tenèra cadendo su Bondo, di qui risaliva a Tione, Pinzolo, Campiglio e Dimaro e per Peio arrivava al Cevedale lasciandosi a sud il passo del Tonale. Nella parte orientale del Trentino la linea militare da Rovereto toccava Mattarello, Vigolo, Calceranica, Caldonazzo, Levico, Borgo, Ospedaletto e Tezze.

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Mentre Napoleone salvaguardava cosi i confini d’ Italia, la Baviera prendeva possesso delle sue provincie ai primi dell’anno 1806. Il regime che il nuovo governo straniero introduceva nel Trentino era in sostanza migliore del regime austriaco che lo aveva preceduto. Il Trentino viene staccato dal Tirolo e costituito in provincia a parte con Trento a capoluogo. Gli Stati provinciali tirolesi sono aboliti, e un fiero affronto è cosi recato ai diritti del Tirolo; ma da una simile istituzione il Trentino non riceveva che del danno — in quanto era troppo scarsamente rappresentato nelle assemblee e perciò si trovava sempre pregiudicato nei suoi interessi materiali e morali dalle deliberazioni che quivi si prendevano —; e quindi non può che restare indifferente di fronte a tale soppressione la quale viene semplicemente a sostituire l’arbitrio del governo di Monaco a quello di una maggioranza tirolese.

Notevoli riforme venivano introdotte nell’amministrazione della giustizia, nella circolazione monetaria, nel commercio, nell’esercizio del culto; ma il governo bavarese non fu abbastanza cauto e per un eccessivo desiderio di accentramento recò una offesa sanguinosa alle autonomie locali e urtò con affrettati provvedimenti le suscettibilità e i pregiudizi delle plebi rurali.

Le valli trentine erano ancora in gran parte governate da istituzioni autonome, elettive, dette regolanìe maggiori e minori: specie di consorzi amministrativi diretti dai rappresentanti dei villaggi interessati. La Baviera pretese di abolire queste antiche istituzioni sostituendo, agli eletti del popolo, ufficiali dello Stato addetti alle giudicature, ed assoggettando i comuni alla più rigorosa tutela. Tale riforma fu impopolarissima, e impopolari furono anche certi provvedimenti coi quali era limitato il numero delle feste religiose, vietato il suono delle campane in certe circostanze e limitato in genere l’esercizio del culto. Il valligiano era vivamente affezionato alle tradizioni religiose, e la loro soppressione improvvisa, violenta, lo urtava, lo feriva. Il clero, ancora numerosissimo, materialmente colpito da siffatte disposizioni, faceva di tutto per ravvivare tale irritazione e fomentare il malcontento.

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A render più antipatico il nuovo regime al clero, e indirettamente al contado, sopravvenne un conflitto tra la Corte di Monaco e il Vescovo, il quale aveva rifiutato di riconoscere e di applicare una nuova legge relativa alle parrocchie vacanti, all’ordinazione dei chierici ed alla direzione del seminario. Il conflitto andò tanto oltre, che il Re di Baviera fece sospendere la pensione al vescovo; e siccome questi invocava l’aiuto del Santo Padre e dell’ Imperatore dei francesi, dichiarò vacante la sede e fece nominare un vicario.

Anche i provvedimenti relativi alla circolazione monetaria, sebbene suggeriti da criteri di equità e di ordine economico, cosi improvvisi come furono, vennero a compromettere gli interessi di gran parte della popolazione. Le monete di rame e i biglietti in corso forzoso lasciati dall’Austria, già deprezzati in causa della loro abbondanza, furono dal Governo bavaro ridotti ufficialmente fino alla metà del loro valore nominale: disposizione certamente saggia, ma odiosa, che riversò sul nuovo governo le colpe dell’antico.

ANDREAS HOFER

ANDREAS HOFER

Con tali sistemi il nuovo regime si alienava gli animi della parte più conservatrice della popolazione, già diffidente di fronte ad uno Stato che aveva stretto alleanza coi rivoluzionari. Non è dunque difficile spiegarsi il perché, quando le popolazioni tedesche dell’Alto Adige insorsero e seguirono Andrea Hofer nella guerra contro l’ereditario nemico del Tirolo (1809), l’ eroe tirolese abbia potuto trovare appoggio e séguito anche nel contado trentino. Questo appoggio alle bande di Hofer non fu certo determinato da entusiasmo per la causa austriaca né da spirito di colleganza coi tirolesi, ma dal co-mune odio contro gli arbitri e le sopraffazioni della Baviera.

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Allorché, nel 1809, scoppiò la guerra tra Francia e Austria, il Tirolo ne approfittò per insorgere in armi contro la Baviera, alleata della Francia. Le bande agli ordini di Andrea Hofer scesero nel Trentino, appoggiate dalle truppe austriache del generale Chasteler. Tutti i Tirolesi e i Trentini dai 18 ai 60 anni furono chiamati alle armi; un consiglio di guerra fu istituito a Bressanone; gli emissari tirolesi percorsero le valli trentine eccitando i giovani ad arruolarsi con promesse di danaro e di ricompense. Il clero, memore delle offese patite, predicava la resistenza; numerosi fuorusciti dal regno italico e avventurieri piovuti da ogni parte correvano ad ingrossare le file delle compagnie trentine; molti valligiani erano indotti ad arruolarsi dalle minacce e dalle imposizioni delle bande tirolesi, dalle esortazioni dei preti, o dalla speranza di far bottino ; infine il generale Chasteler, per nutrire i contingenti alquanto scarsi, li riempiva in parte con truppe regolari e mandava ufficiali dell’ esercito a dirigerli. E se dapprincipio la causa per la quale combatteva Hofer poté incontrare qualche adesione, più che vero entusiasmo, fra le popolazioni del Trentino, ben presto le sue masnade se ne attirarono l’avversione cogli atti di saccheggio cui si abbandonarono.

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La città di Trento, particolarmente, si distinse per un contegno di diffidenza e di inimicizia verso gli insorti, qualificandoli per briganti e affibbiando al loro condottiero il nomignolo di general Barbone. La guardia nazionale trentina ristabilita dal governo bavarese, dette una prova di singolare dignità e coraggio. Il generale austriaco Chasteler, penetrato il 24 aprile in Trento, ordinava che la guardia civica trentina “si schierasse in armi in piazza del Duomo, col pretesto di passarla in rivista, indi, fattala circondare dalle sue truppe, ordinava al comandante Malfatti di condurla, al seguito degli austriaci, a Volano, ove si era ritirato l’esercito francese”. Ma il Malfatti protestò sentitamente contro questa sopraffazione, e il Chasteler dovette accontentarsi di disarmare e sciogliere la guardia.

IL GENERALE CHASTELER

IL GENERALE CHASTELER

La città di Trento, che non poteva perdonare al governo austriaco di aver soppresso ogni autonomia al paese, e che d’altronde riconosceva la bontà e l’ equità di molti provvedimenti introdotti dal governo bavaro, fu trattata dagli austriaci con particolari segni di diffidenza durante la lunga e varia guerriglia combattuta in val d’Adige. Vittima principale di questa guerriglia fu appunto Trento, presa e ripresa da austro-tirolesi e da franco-italiani ben sei volte in pochi mesi. Alla fine, il generale francese Vial, assicuratosi definitivamente del possesso del paese, vi crea una provvisoria commissione amministrativa (dicembre 1809); successivamente il Trentino coll’Alto Adige viene staccato dal Tirolo e aggregato al Regno d’ Italia.

Il 10 giugno 1810 il nuovo regime era ufficialmente proclamato dal barone Smancini, inviato dal governo italico ad ordinare il nuovo dipartimento:

“Abitanti del Tirolo meridionale! Oggi siete riuniti al Regno d’Italia. Lo vuole il massimo dei monarchi. Ve lo annuncia l’atto solenne di cui siete testimoni. Il grande che regge la sorte di Europa vi chiama a far parte della felicità dei suoi popoli. Egli unisce i vostri agli alti destini cui l’incomparabile suo genio innalza il nome italiano … Italiani per uniformità di costumi e di linguaggio, voi lo divenite oggi realmente per tutti i rapporti sociali”.

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Era la prima volta che un atto ufficiale rivolto ai trentini faceva appello alla loro nazionalità,. E questa invocazione non doveva rimanere senza effetto sulla parte migliore della popolazione del paese. Il conte Benedetto Giovanelli, profondo studioso di scienze storiche ed archeologiche, pubblicava poco appresso un suo “ragionamento istorico„ intitolato: “Trento città dell’ Italia per origine, per lingua e per costumi”. In esso l’autore passava in rassegna le vicende del Trentino dall epoca preromana fino ai tempi suoi per convincere gli italiani di una verità «che da lungo tempo cercavano di nascondere coloro, che Trento non città d’Italia, ma di Germania, o del Tirolo francamente dichiaravano”. E concludeva: “Fu la pace di Lunéville, che per pochi mesi bensì conferi il dominio assoluto del Trentino all’Imperatore d’Austria, che poi lo volle aggregato alla Contea del Tirolo; fu quella di Presburgo, che lo fece cedere alla corona di Baviera; ma la soggezione d’un popolo ad un eventuale dominio non dee confondersi colla natural ed originaria sua condizione. Il Massimo che regge i destini dei popoli, ci restituí alla cara Madre, e sanzionò gli antichi nostri diritti all’onor della sua grandezza, al godimento delle sue felicità”.

FRANCESCO VIGILIO BARBACOVI

FRANCESCO VIGILIO BARBACOVI

Ancora più vivace sgorga il sentimento di italianità da un. opuscolo di Francesco Vigilio Barbacovi, l’insigne giurista che aveva compilato il nuovo codice per il cessato principato tridentino. L’opuscolo era intitolato: “Considerazioni sulla futura prosperità dei popoli del Trentino ora riuniti al Regno d’Italia”.  Nel nuovo avvenimento egli vedeva inaugurata un’éra di prosperità politica ed economica, e annoverava tutte le fortune che sarebbero toccate al paese, fra le quali l’introduzione di una saggia legislazione, l’abolizione dei dazi sui grani, l’incremento nel commercio del legname, del bestiame e delle sete, premettendo queste considerazioni:

“La natura ci ha fatti italiani, e italiani noi fummo in tutti i tempi, e fino dalle più remote età; ma gli avvenimenti delle guerre, e le transazioni politiche assoggettati ci avevano a domini, a governi tedeschi, e con ciò a leggi, a regolamenti e ad usi non sempre conformi al genio, all’indole, ed ai costumi italiani. Nulla dunque di più lieto e giocondo per noi che divenir figli di una si gran madre qual è l’Italia, ed il vederci col nome di dipartimento dell’Alto Adige associati d’ora innanzi alla sua grandezza, alla sua gloria, ed ai suoi alti destini. Quali grazie noi dobbiamo dunque rendere all’Augustissimo Monarca, che ha in mano la sorte delle Nazioni, e regge i destini de’ popoli, per averci ora chiamati a fare nuovamente parte del Regno italico, col non permettere che sia fatto o divenga tedesco un paese che la natura ha fatto italiano e perciò suo?”

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La tendenza a congiungere le proprie sorti con quelle degli altri italiani non si manifestava del resto per la prima volta allora, fra i trentini. Già nel 1802 un certo Antonio Turrini di Avio aveva “umiliato alli sapientissimi ottimi ministri della municipalità del Popolo veronese un Progetto o sia maniera di conservar la repubblica italiana istituita due anni prima”. Da notare che nel 1802 il Trentino era occupato dalle armi austriache in attesa di essere annesso ai domini della casa d’Absburgo; ciò nonostante il Turrini scriveva:

“Non saprei in qual miglior maniera risolvere il progetto di conservar la repubblica italiana indipendente, che colla deliberazione una volta presa in Roma dai cardinali per conservar la fede cattolica, che fu appunto quella di ampliarla per conservarla; e perciò subito in ordine al decreto stabilirono un collegio de amplianda fide; cosi a me sembra medesimamente, che il miglior partito per conservar la Repubblica italiana sia quello di procurar di ampliarla. Infatti la sua estensione presente, coi confini da cui par che sia circoscritta, ognuno vede che non può vantar tanta forza, che basti per conservarsi”.

E dopo aver detto che la Francia si è fortificata col raggiungere i confini del suo linguaggio nativo, obietta:

“Ma e perché non sarebbe forte egualmente anche l’italiana repubblica, se i suoi confini fossero estesi fin dove comunemente si parla la italiana favella ? Ma siccome il vederla cosi da lunga estesa non è si facile, se prima non si levano le difficoltà principali che contrastano, né ora è mio instituto lo estender cosi da lunge il mio spirito repubblicano, mi sia lecito restringermi succintamente alla mia patria, che per essere situata nel Tirolo meridionale sarò anche compatito, se farò qualche sforzo politico per ridurla a quel segno di attinenza e comunicazione colla repubblica italiana come esiga la natura della sua organica costituzione”.

E dopo una dissertazione sui naturali e necessari rapporti tra la pianura e la montagna e sugli scambi continui di uomini e di prodotti fra il Trentino e il bassopiano del Po, il Turrini si afferma tanto convinto della propria idea da dichiararsi disposto a recarsi fino a Parigi a piedi per ottenere dal Bonaparte un’adesione al suo progetto. “Non mi sgomentano né l’altezza delle Alpi né la lunghezza del cammino. Non la povertà, non il calore eccessivo dell’imminente stagione della state. Chi sa — egli conclude — che il Bonaparte non sia per disporsi, non solo a pr¬stare il suo consenso, ma ancora a dar gli aiuti per formar del Tirolo una frontiera o vanguardia della repubblica italiana?”

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NAPOLEONE BONAPARTE

Ora Napoleone, per aspirare al Trentino, non sentiva davvero il bisogno di simili consigli. Egli aveva più e più volte spinto i suoi eserciti per quelle valli fin dalla prima e più gloriosa campagna d’Italia del 1796-97, e non era riuscito a conquistarle perché il suo generale Joubert, muovendosi verso la Carinzia, si era lasciato prendere alle spalle. Nel 1806 si era dapprima riservato il possesso del Trentino e poi, come vedemmo, si era accontentato provvisoriamente di lasciarli disarmati in potere di un sovrano da lui protetto. Nel 1810 finalmente se ne impossessava a favore del regno italico, rafforzandone cosi i confini contro l’Austria e contro la Baviera. Avrebbe voluto estendere il regno d’Italia fino al passo del Brennero, e fargli cosi toccare i limiti dell’Italia geografica, per uniformarsi ai concetti della rivoluzione e più ancora ai suoi interessi militari, ma gli bastò poi di porre il confine alla chiusa di Bressanone, comprendendo cosi nello Stato italico, oltre al Trentino, anche il territorio di Bolzano coll’alta valle dell’Adige. La nuova provincia prese appunto il nome di dipartimento dell’Alto Adige e ad essa furono ben presto estesi gli ordinamenti e le leggi del Regno: giustizia, amministrazione, circolazione, istruzione furono completamente rinnovate, e fu stabilito l’obbligo del servizio militare quinquennale per tutti i cittadini salvo le eccezioni espressamente contemplate dalla legge. Le istituzioni municipali e le autonomie amministrative, compresse dalla Baviera, ebbero invece notevole impulso dal nuovo governo, che intraprese con grande energia anche la sistemazione idraulica, stradale e forestale del paese. E questa trasformazione recò un grande beneficio ad una regione che, come il Trentino, era ancora in gran parte dominata da norme antiquate e tradizionali.

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A sede del nuovo dipartimento fu posta la città di Trento, la quale sì vide cosi con gran soddisfazione sollevata nella sua dignità e liberata dalle imposizioni e soperchierie che le venivano dal governo del Tirolo. Nei primi tempi il regime italico dette di sé una impressione cosi favorevole, che persino l’obbligo del servizio militare venne sopportato dal paese con rassegnazione: con maggiore rassegnazione che negli altri dipartimenti del Regno. Scriveva infatti il Giornale Italiano del 6 marzo 1811:

“Il dipartimento dell’Alto Adige ha dato un bellissimo esempio e degno di esser citato. I coscritti di questo reggimento, informati che erano destinati a entrare nel primo reggimento di linea italiana e ricordandosi che questo reggimento, il quale è stato lungamente in Tirolo, vi si era meritato, colla sua condotta, la stima degli abitanti, hanno avuto la loro destinazione per una fortuna, e niuno ha voluto farsi rimpiazzare”.

Ma questa acquiescenza spari ben presto quando il Trentino, come le altre regioni d’Italia, dovette dare il fiore della gioventù in olocausto alle ultime disastrose imprese di Napoleone. Se le guerre di Spagna, di Russia e di Germania fossero riuscite vittoriose, i soldati trentini, tornando anche decimati, avrebbero portato ai loro paesi dell’entusiasmo per i trionfi del Signore d’Europa. Ma l’eco delle carneficine alle quali andarono soggetti i tremila coscritti dati dalla regione, fra il 1811 e il 1813, agli eserciti napoleonici, sparsero nelle valli l’odio per il Mostro che ingoiava senza pietà tante vite umane. Le buone leggi, le massime di uguaglianza e di libertà personale, i principi di nazionalità posti in auge dal nuovo regime nulla più contavano di fronte alle plebi della penisola e del Trentino che si vedevano orbate della loro gioventù migliore.

Hillingford_-_Napoleon_with_His_Troops_at_the_Battle_of_Borodino,_1812

Vari trentini militarono negli eserciti napoleonici come ufficiali o come semplici volontari, prima ancora della formazione del dipartimento dell’Alto Adige; fra questi il già ricordato Francesco Filos, che prese parte alla prima campagna d’Italia e vi si distinse con atti di grande valore; Pietro e Arcangelo Salvadori di Pergine, Francesco Baldessari di Riva, poi passato all’esercito austriaco, Antonio Foresti di Trento, Giuseppe Maffei, nato a Rovereto nel 1775, entrato come volontario nei zappatori lombardi nel 1796, poi promosso capitano del genio e professore di fortificazioni a Modena, notabile ai comizi di Lione, capo battaglione nel 1308, passato poi all’esercito austriaco, morto nel 1859; e vari altri. Alla guerra di Spagna (spedizione del 1811) presero parte tre battaglioni composti di soldati del dipartimento dell’Alto Adige; molti rimasero morti o feriti. Quasi tutti i contingenti di leva dell’Alto Adige parteciparono poi alle campagne di Russia e di Germania, sparsi fra il 10 e il 40 reggimento di linea, le guardie d’onore, i veliti, i coscritti della guardia reale, i cacciatori a cavallo, i dragoni della guardia e gli artiglieri: numerosissimi i morti, i feriti e i dispersi.

I canti popolari che si levano lamentosi per ogni “piaggia” d’Italia, testimoniano dell’odio che il Conquistatore ha mietuto fra i conquistati. E quando, la sera del 15 ottobre 1813 le truppe austriache rioccuparono Trento, il paese si credette liberato da un incubo:

Serrate ben le porte

Che no entra pu nessun

Serrate ben le porte

Che no entra el battaglion.

El battaglion l’é ‘n Franza

Con tutti i so’ soldati;

Noi siam deliberati

Da questa schiavitù

Cosi cantavano quei valligiani unendo le proprie alle imprecazioni di tutta Italia. Ma la fugace dominazione napoleonica, la troppo breve unione al bello italo regno non era stata senza effetti sui sentimenti nazionali del popolo trentino. Esso aveva forse accolto le prime manifestazioni di italianità dei suoi uomini migliori colla stessa indifferenza che l’intera nazione aveva tributato per secoli alle affermazioni di patriottismo dei sommi suoi poeti. Né migliore era l’Italia di quei tempi, se passivamente lasciava cadere i propositi unitari di Gioacchino Murat e accoglieva con festa la restaurazione del governo austriaco. Non solo il Trentino, non solo l’Italia, ma tutta Europa era colta da una grande stanchezza e lasciò docilmente che ogni cosa fosse regolata a Vienna nell’interesse dei monarchi, pur che i popoli fossero liberati dalla persecuzione delle guerre.

RIVOLI VERONESE

RIVOLI VERONESE

Senonché l’èra napoleonica aveva fatto sorgere due sentimenti e un’idea: l’amore alla libertà. e l’odio contro il governo straniero; il concetto della Nazione. Quell’amore e quell’odio congiunti in uno stesso fuoco maturarono questo concetto in coscienza; e la coscienza d’ Italia rifinì nelle sue valli estreme, di sé ravvivandole pur sotto la più opprimente stretta del vecchio Artiglio.

Già per un articolo del trattato segreto di Toeplitz (9 settembre 1813) si era convenuto fra le potenze di ricostituire la monarchia austriaca, come a press’a poco esisteva prima della guerra del 1805. Gli articoli 53 e 93 dell’atto finale del congresso di Vienna enumerarono poi distintamente tutte le provincie restituite all’Austria, ossia l’Istria, la Dalmazia, la Venezia, i ducati di Milano e di Mantova, il principato di Trento e quello di Bressanone, la contea del Tirolo, e tutte le altre provincie delle quali Napoleone aveva privato l’Impero.

Ma gli articoli suddetti nulla dicevano sull’ordinamento che l’Austria avrebbe dato a tali provincie: essa perciò restò libera di disporne a piacimento l’amministrazione, come gli aggruppamenti, e lo fece nella maniera più consentanea ai propri interessi dinastici, calpestando i più elementari diritti dei popoli. Così il provvedimento arbitrario del 1803, col quale il Trentino era stato fuso col Tirolo fu rimesso in vigore nella sua brutale integrità,. Ma il doppio vincolo che veniva così a legare il Trentino al Tirolo e all’Impero d’Austria non dava ancora agli Absburgo una sufficiente sicurezza. Occorreva che il cuneo confitto nel cuore della pianura padana non potesse esser rimosso né smosso da alcuno. E il Trentino, nonostante la sua italianità, fu aggregato alla Confederazione germanica istituita appunto col trattato di Vienna: il che significava che tutti gli stati germanici confederati si impegnavano a difender colle armi il territorio trentino, qualora all’Austria ne fosse stato disputato il possesso.

Tale inclusione, come quella di Trieste, del Friuli, e di molte provincie austriache di nazionalità diversa dalla germanica, avvenne quasi di soppiatto rispetto alle potenze firmatarie del trattato di Vienna.

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Ricordiamo infatti brevemente la genesi della nuova Confederazione germanica. All’articolo sesto del trattato di Parigi del 30 maggio 1814, concluso tra la Francia da una parte e l’Austria per sé e per le potenze alleate dall’altra era detto: “Gli stati della Germania saranno indipendenti e uniti da un legame federale”. Apertosi a Vienna il Congresso, vi presero parte i rappresentanti di tutti i governi tedeschi, i quali formarono un Comitato per gli affari di Germania, incaricato appunto di provvedere alla costituzione di una confederazione fra i vari stati germanici. Dopo lunghi dibattiti, fu definitivamente compilato l’elenco di tutti gli stati che dovevano prender parte alla Confederazione. Quanto alla Prussia e all’Austria le decisioni del Comitato furono molto generiche e l’articolo primo del patto federale, ripetuto con le stesse parole nell’art. 53 del patto finale di Vienna, si restrinse a dichiarare che l’ Imperatore d’Austria e il Re di Prussia sarebbero entrati nella Confederazione “con tutti quelli fra i loro possedimenti che avevano anticamente appartenuto all’ Impero germanico”.

Poteva questa formula legittimare l’inclusione del Trentino, di Trieste e del Friuli nella Confederazione germanica, fatta poi dall’Austria nel proprio interesse? Aveva il Trentino effettivamente appartenuto all’Impero germanico? Rispondeva tale annessione allo scopo dichiarato della Confederazione: quello cioè di riunire in un solo corpo tutte le sparse membra della nazionalità germanica?

La risposta rimane, per ciascun quesito, negativa. Il Trentino aveva fatto parte dell’ Impero romano ricostituito da Carlo Magno, aveva avuto anzi una parte importante nella storia del sacro romano impero, aveva, peggio ancora, servito ai monarchi tedeschi cinti della corona di Augusto per tenersi avvinta l’Italia, ma non era mai entrato, in stretto senso, in un impero germanico.

Come è noto, il Sacro Romano Impero si divideva, fin dai primi tempi, in due parti, e cioè il Regno d’Italia ed il Regno o Impero di Germania. Il Trentino, appunto perché posto all’ingresso d’Italia, faceva parte del regno d’Italia, e molti principi tridentini ebbero, in una forma o in un’altra, l’incarico di custodire e di garantire la sovranità dell’imperatore in Italia. Quando questa sovranità a poco a poco si perdette, non per questo cessò il Regno d’Italia e il titolo che vi corrispondeva, né vi è alcun documento il quale comprovi che quegli stati dell’ Impero che a tale regno avevano appartenuto ab antiquo siano stati aggregati al Regno di Germania. Anzi, la permanenza effettiva di alcune provincie più settentrionali italiane nell’Impero e la partecipazione dei loro rappresentanti alle diete dell’Impero (il vescovo di Trento vi intervenne regolarmente fino agli ultimi tempi) era la sola ragione di fatto che potesse giustificare la conservazione del titolo di re d’Italia agli imperatori romani di nazionalità germanica.

Solo per errore o per inesattezza poté dunque esser confuso e identificato talvolta, negli ultimi tempi della sua esistenza, l’impero romano di nazione germanica coll’impero o regno germanico, e tale inesattezza fu ripetuta intenzionalmente dall’Austria nella formula del trattato di Vienna, per attrarre di straforo una parte dell’ Italia ad essa soggetta nel recinto della Germania.

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A questo proposito austriaco non erano mancate obbiezioni : quando infatti, nel 1814 il principe di Hardenberg presentò in Baden presso Vienna un primo disegno di confederazione, che comprendeva anche il Trentino, il principe di Wreda, plenipotenziario bavarese, fece notare che l’inclusione di quel territorio, e di altri territori non germanici, “poteva agevolmente trascinare la Germania in una guerra contraria ai suoi interessi, ed era importante di non ammettere degli stati che potessero compromettere la Confederazione”.

Ma l’Austria, oltreché meglio garantirsi l’ingresso in Italia, voleva entrare nella Confederazione con un territorio molto esteso per assicurarsi la preminenza nel consesso degli stati tedeschi: intento questo che era appoggiato dai minori principi germanici, timorosi della egemonia prussiana e fidenti nell’aiuto che l’influenza austriaca avrebbe potuto loro porgere nel reprimere le velleità liberali dei propri sudditi. L’Austria, richiamandosi agli antichi diritti che l’Impero aveva sull’Italia superiore, avrebbe voluto porre nella Confederazione germanica anche il Regno lombardo-veneto, ma non lo fece per non suscitare le opposizioni della Prussia, che paventava di una eccessiva preponderanza austriaca, e per non risvegliare troppo bruscamente l’attenzione delle potenze firmatarie del trattato di Vienna: le quali, se potevano lasciar correre sull’aggregazione di provincie di limitata estensione, avrebbero clamorosamente protestato quando la Germania avesse preteso mangiarsi i due terzi dell’Italia superiore.

Comunque, l’inclusione del Trentino e di altre provincie austriache nella Confederazione germanica, si compì con procedura sommaria e clandestina. Senza alcun preavviso alle potenze, senza chieder il parere dei paesi che si trattava di federare, o delle loro legali rappresentanze; senza mettere in discussione l’argomento fra gli stessi stati federati, l’ambasciatore dell’ Imperatore di Austria dichiarò il 6 aprile 1818, alla dieta germanica di Francoforte, che l’Austria intendeva entrare nella Confederazione col Friuli austriaco, col circondario della città di Trieste, colla contea principesca del Tirolo, compresi i domini di Trento e di Bressanone e con molte provincie di nazionalità slava che col nuovo aggruppamento germanico non avrebbero dovuto avere alcuna attinenza.

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La dieta mise lo spolvero su questa decisione unilaterale dell’Austria; ma tale atto non fu mai neppur notificato alle potenze firmatarie del trattato di Vienna, che avrebbero avuto il diritto non solo di venirne a conoscenza, ma anche di discuterlo e, all’occorrenza, di respingerlo. Quanto al Trentino e alle altre provincie arbitrariamente annesse alla Germania, esse non ebbero né prima né poi comunicazione di questo deliberato che direttamente le interessava: e solo due anni più tardi, ossia il 2 marzo 1820, in una patente imperiale riguardante la esenzione dalle tasse di emigrazione a favore di coloro che passavano dall’uno all’altro stato del corpo federale tedesco, fu ufficialmente pubblicato l’elenco delle provincie e distretti dell’Impero austriaco appartenenti alla Confederazione germanica.

La riunione del Trentino alle terre tedesche ebbe dunque, e nella sostanza, e nella procedura, tutti i caratteri di un atto di arbitrio. È però forza riconoscere che quest’atto si uniformava in modo irreprensibile coll’indirizzo seguito dalla Germania e dall’Austria in più di otto secoli di politica italiana: era una violenza del tutto conseguente alla serie di violenze e di sopraffazioni antiche e recenti meditate e poste ad effetto per tenere in pugno le chiavi della penisola. Ancora una volta, la politica delle porte d’Italia era distintamente considerata dalla politica italiana. Un paese, come il Trentino, tenuto per sì lungo lasso di tempo in una dipendenza sempre più stretta da un impero transalpino, doveva un giorno o l’altro, nonostante la incorrotta italianità sua, e i segni già palesi di patriottiche aspirazioni, essere cancellato dalla carta politica d’Italia e mentito ai suoi stessi connazionali.

E le conseguenze di quest’atto si resero ben palesi durante tutto il periodo del Risorgimento. Il Trentino, considerato come terra della Confederazione, come parte integrante dell’Austria anziché come una colonia dell’Austria stessa, fu dalla diplomazia e dagli eserciti conteso assai più aspramente che non le altre provincie italiane.

Il Lombardo-Veneto era riguardato come una semplice accessione; ma il Trentino, il Goriziano, l’Istria, Trieste furono detti, sebbene a torto, antichi possessi ereditari di casa d’Austria, membri della grande famiglia germanica, e il lasciarli svellere dalla monarchia e dalla Confederazione poté sembrare agli statisti nostri avversari una amputazione, un irreparabile smembramento. In realtà, però, più forte di simili concetti tradizionali, rimaneva la riserva mentale che aveva guidato per tanti secoli la politica del sacro romano impero, e dell’Austria che ne aveva assunto il retaggio: tener sempre fermo un piede in Italia per avere in ogni momento aperta una politica di espansione morale e materiale verso le terre italiane. Come fu poi detto e ripetuto in tutto il periodo del Risorgimento, il possesso del Trentino non ha alcun valore difensivo per l’Austria; giacché a difendere le provincie tedesche, assai più che le molteplici valli che fanno o direttamente o indirettamente capo a Trento, vale la chiusa di Salorno o quella di Bressanone, poste più a nord: il Trentino ha un valore puramente offensivo per una potenza transalpina, e un valore puramente difensivo per l’Italia, E a ciò si pensò indubbiamente quando nel 1818, interpretando artificiosamente una frase ambigua dei trattati del 1815, si volle includere il Trentino, come il territorio di Gorizia e Trieste, nella Confederazione germanica, dando cosi all’Austria, per la difesa di queste provincie, le armi di tutti gli stati alleati germanici. Alla sua politica italiana voleva cosi l’Austria costituire una base geografica incrollabile, sotto il pretesto di un diritto storico inesistente.

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Anche l’ordinamento interno dato dall’Austria al paese obbedì rigorosamente a simili direttive. Dapprima parve che il nuovo governo volesse serbare al Trentino qualche traccia di autonomia amministrativa e qualche libertà. Trento fu dichiarata sede di reggenza per la direzione degli affari amministrativi del Tirolo italiano con tre vice-prefetture in Rovereto, Riva e Cles; fu istituita una guardia civica dipendente dal Municipio; l’ intendenza centrale di finanza e l’ ufficio centrale del bollo furono mantenuti in Trento; fu lasciata all’iniziativa privata la coltivazione del tabacco; fu conservata ogni libertà di traffico e abolito ogni dazio fra il Trentino e la Lombardia.

Ma quando l’Austria fu sicura che l’astro di Napoleone era definitivamente tramontato e che essa poteva reggere i popoli a suo piacimento, applicò senza limitazioni e senza attenuazioni di sorta quella politica di rigorosa concentrazione che si era prefissa. La reggenza amministrativa di Trento era soppressa e fusa col governo provinciale di Innsbrück, e in suo luogo venivano costituiti due capitanati circolari a Trento e a Rovereto, i quali non avevano in fondo altro ufficio che quello di passar le carte oltre Brennero. Con patente del 24 marzo 1816 il Trentino era incorporato ufficialmente nella provincia del Tirolo, e questo ibrido corpo era graziato di una dieta avente l’incarico di rivedere, ripartire ed incassare l’imposta fondiaria, e di umiliare al Trono indirizzi, preghiere e rimostranze. È interessante esaminare la costituzione di questo antiquato consiglio amministrativo. La dieta provinciale era composta di 52 deputati, 13 per ciascuna delle quattro caste in cui era divisa la cittadinanza: e cioè il clero, la nobiltà, la popolazione delle città e quella del contado. Le circoscrizioni elettorali erano congegnate per modo, che dei 52 deputati appena 10 appartenevano alla parte italiana della provincia, ossia al Trentino, e 42 alla tedesca, ossia al Tirolo in proprio senso: il che significa che il Trentino, pur comprendendo più del quaranta per cento della popolazione della provincia, era rappresentato nella dieta per meno del venti per cento.

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Con successive determinazioni sovrane, quasi tutti gli uffici amministrativi furono tolti a Trento e concentrati ad Innsbrück; gli uffici finanziari e contabili, la direzione delle fabbriche, la direzione delle poste, la direzione montanistica, la direzione di polizia, l’ufficio di censura: tutto fu portato oltralpe. La casa provinciale di pena, l’istituto di correzione, gli ospizi dei sordomuti e dei ciechi e il manicomio furono messi in comune fra italiani e tedeschi forzando i ricoverati trentini a subire una lingua che non era la loro. Perfino il vescovado di Trento fu menomato, e posto sotto la tutela del Metropolita di Salisburgo. L’autonomia municipale fu ridotta ad una larva rispetto a quel che era nel secolo antecedente; la coltivazione del tabacco di nuovo assoggettata a monopolio; introdotta ancora l’ imposta generale di consumo, e ad essa assoggettati anche i piccoli borghi. Trento, che entro le sue mura non contava allora che novemila abitanti circa e che non era nemmeno capoluogo di provincia, dovette soggiacere al dazio di consumo murato di prima classe.

Ma certo la riforma più impopolare introdotta dall’Austria fu il dazio provinciale sui grani, il quale inceppò e menomò la libertà di commercio — che nei primi anni della restaurazione era rimasta integra — fra il Lombardo-Veneto ed il Trentino.

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È noto che le popolazioni del Trentino si cibavano e si cibano quasi esclusivamente di polenta, alimento del quale i tedeschi non fanno uso. Non bastando la produzione granaria del paese a soddisfare il bisogno dei valligiani trentini, era introdotta annualmente una forte quantità di granoturco dal Lombardo-Veneto. La nuova barriera doganale era dunque odiosa al popolo per una doppia ragione: anzitutto perché colpiva il suo principale alimento, in secondo luogo perché i trentini si sentivano iniquamente gravati in confronto dei tirolesi. Il provento di questo dazio, introdotto nel 1817 e raddoppiato nel 1829, doveva in origine servire a costituire un fondo di approvvigionamento in caso di carestia ed anche a contribuire al mantenimento delle truppe tirolesi: poi fu impiegato nell’ammortamento dei debiti provinciali e specialmente nella costruzione di strade, eseguite in gran parte a beneficio del Tirolo tedesco. L’ iniquità di ripartizione che era connaturata al carattere dell’ imposta diventava dunque più grave per la mala distribuzione del fondo riscosso.

Le lagnanze alla dieta non mancarono da parte dei deputati trentini, ma l’esiguo numero dei rappresentanti italiani toglieva a simili proteste gran parte del loro valore.  Né migliore era l’amministrazione austriaca nei rapporti intellettuali e morali. Il regolamento per le scuole elementari era tratto dall’antica costituzione scolastica degli stati austriaci e la istruzione vi era informata ad un indirizzo rigorosamente clericale. Nel ginnasio e nel liceo si dava gran sviluppo allo studio del latino, trascurando nel peggior modo l’insegnamento della lingua italiana. I testi delle scuole erano redatti in una forma compassionevole: generalmente si trattava di manuali tedeschi tradotti. La più terribile censura dominava non solo nella scuola, ma in tutta la vita intellettuale del paese: la libertà della stampa e della parola ridotta a zero, ostacolata in ogni modo la importazione di libri e di giornali dalle altre provincie italiane.

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Soprattutto l’Austria badava ad allevare nel Trentino dei buoni sudditi austriaci, e a questo tendeva con tutti i mezzi nella scuola, nella caserma, nella chiesa. I libri di testo per i ragazzi cercavano di confondere in ogni modo le tradizioni del Tirolo con quelle del Trentino, esaltavano Andrea Hofer come l’eroe popolare, rappresentavano l’ Imperatore come un Dio. Coscritti trentini e tirolesi venivano commisti insieme in uno stesso reggimento, detto dei cacciatori Imperatore, al quale si voleva dare uno speciale spirito di corpo col distinguerlo per una speciale devozione alla Casa regnante.

Occorre dire per la verità che a mantener alta l’idea imperiale nelle plebi rurali giovava anche la tradizione del sacro romano Impero ereditata dagli Absburgo. L’Impero romano-germanico che altrove — e in Italia e in Germania e nel resto di Europa — si era indebolito e avvilito nella considerazione dei popoli e ridotto a un « nome vano senza soggetto », aveva nel Trentino mantenuto gran parte della sua autorità e conservato la sua veneranda e quasi divina aureola. Le strette relazioni di dipendenza che in ogni tempo erano esistite fra l’ Impero e l’episcopato di Trento avevano imposto al clero la missione di tenere alta e temuta nelle valli la figura dell’Imperatore: tanto più che gli Absburgo esercitavano nel paese, anche prima della Rivoluzione, un dominio effettivo, e come eredi di Augusto e come conti del Tirolo. L’ Impero d’Austria dunque ereditò di fronte agli spiriti conservatori di quei Montanari il prestigio quasi sovrumano che il Santo Impero aveva avuto ancora ai tempi di Ottone il grande e di Carlo Magno: un riflesso del nome di Roma nel medio evo. È questa una idea storica che non occorre dimenticare nello studio delle cause che talora sembrarono recare un’ombra nell’atteggiamento patriottico della popolazione trentina nel secolo decimonono.

ANTONIO SALVOTTI

ANTONIO SALVOTTI

Separare le sorti dei sudditi trentini da quelle dei lombardo-veneti; porre gli uni e gli altri in antagonismo per impedirne la colleganza ; suscitare a Milano e a Venezia delle diffidenze contro Trento confondendo le idee negli equivoci termini di Tirolo e di tirolesi: ecco un piano di politica che l’Austria applicò o meglio continuò ad applicare dal 1815 in poi. Questo piano si riassumeva nel motto: divide et impera. Uno dei mezzi che più servi all’Austria per ottenere il suo intento fu quello di spedire a Milano e a Venezia i magistrati e commissari trentini più fedeli e più valenti. Antonio Salvotti, Paride Zajotti, Antonio Mazzetti, Luigi de Roner, Francesco Pizzini, Giuseppe de Menghin, Carlo Giusto Torresani, il Rosmini e il Marinelli, e vari altri magistrati e commissari di polizia trentini divennero tristemente famosi per il loro soverchio zelo e il loro accanimento nei famosi processi del ventuno e dello Spielberg. Il Salvotti, il Mazzetti, il Rosmini e lo Zajotti furono uomini di valore non comune. I due primi si distinsero come colti e profondi giuristi; il secondo ebbe fama di purgato ed elegante scrittore e collaborò con Vincenzo Monti nella austriacante Biblioteca italiana che si pubblicava a Milano.

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Dato l’indirizzo della politica austriaca, se quegli inquisitori fossero stati d’altra provincia o d’altra nazionalità, il loro contegno non sarebbe stato diverso. Ma il Trentino, paese di montagna e perciò ligio ai precetti autoritari, paese sul quale l’Austria aveva da secoli potuto stendere la sua influenza diretta o indiretta, era stato preso di mira dagli Absburgo come un deposito di allevamento di impiegati fedeli. I funzionari trentini designati nel Lombardo-Veneto come tirolesi erano in virtù di questa stessa denominazione calcolati quasi come stranieri, sebbene il loro linguaggio e i loro costumi fossero più che italiani: ed anche per questa ragione era molto naturale che l’Austria si servisse dei più fidati per incarichi, ai quali condizioni utili erano sia il non aver legami di sorta col resto della popolazione, sia il conoscere bene tanto la lingua italiana quanto la tedesca. Quest’ ultima era necessaria ai giudici per la redazione dei rapporti che sui processi politici più importanti dovevano essere inviati a Vienna; e molti trentini sapevano usarne con proprietà per aver fatto i loro studi nelle università tedesche.

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Del resto questi inconsci diffamatori del nome trentino non erano numerosi. Essi coprivano di solito le cariche più in vista della magistratura e della polizia politica e cosi rendevano tristemente noti sé stessi e il proprio paese, ma la più gran parte degli impieghi era coperta da funzionari veneti e lombardi. E se i pochi inquisitori trentini attiravano sulla loro brillante carriera le gelosie dei loro colleghi d’altre provincie e sulla loro opera, inspirata ai dettami di Francesco l’odio del pubblico, molti erano in compenso i rinnegati di Milano, di Venezia o di altre città dell’alta Italia che protetti dall’ombra servivano l’Austria come spie. Fra quei magistrati che più si distinsero per la loro inflessibilità si contarono molti non trentini: ad esempio il senato lombardo-veneto, che normalmente rincarava la dose della pena nelle sue proposte all’ Imperatore, era composto quasi tutto di veneti e lombardi. Né mancavano nel Trentino funzionari e gendarmi di altre parti d’ Italia. La più astuta spia dell’Austria al tempo della irruzione dei corpi franchi nelle Giudicarie (1848) fa appunto un Mericci, sergente dei gendarmi nativo di Milano.

Quando gli italiani di quei tempi riguardavano i tirolesi come loro nemici, evidentemente ignoravano che l’Austria nutriva verso i suoi sudditi trentini un senso di diffidenza non minore che verso i sudditi del Lombardo-Veneto. Le due sole leggi amministrative che l’Austria infatti applicò in comune al Lombardo-Veneto e al Trentino furono quelle relative alla organizzazione della gendarmeria e al porto d’armi: mentre è noto che nei paesi tedeschi la licenza per il porto delle armi non era e non è richiesta. Il governo affidava — è vero — ad impiegati trentini scelti individualmente nella massa le cariche che avevano maggiore importanza politica nell’amministrazione e nella polizia del Lombardo-Veneto, ma al tempo stesso collocava nei posti di fiducia del Trentino funzionari tedeschi poiché non si teneva sicuro di quelli del luogo.

Nel 1848, ad esempio, erano tedeschi entrambi i capitani circolari (Trento e Rovereto), che è quanto dire i più elevati rappresentanti del Governo nel Trentino, tedeschi i presidenti dei due tribunali, tedeschi la metà degli impiegati politici delle due sedi. E questo difetto di confidenza era perfettamente giustificato. Vedremo infatti, nel 1848, alcuni funzionari trentini difendere calorosamente, come deputati, i diritti della nazionalità della loro regione, ne vedremo altri arruolarsi addirittura fra i volontari italiani per combattere contro l’Austria. Né mancavano buoni patrioti fra quegli stessi trentini che percorrevano la carriera governativa nelle città del regno Lombardo-Veneto.

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Neppure sull’opera dei Salvotti e dei Torresani avrebbe l’Austria potuto contare nel Trentino: infatti quegli stessi terribili inquisitori che d’ordine superiore perseguitavano accanitamente i rivoluzionari lombardi, erano pronti a interporre la loro autorità per salvare un loro conterraneo. Fra coloro che si rivolsero con buon esito ad Antonio Salvotti per liberarsi da processi politici furono Antonio Gazzoletti (1848) e Tommaso Gar (1861). E anche prima del 1848 più di un trentino sotto l’accusa di cospirazione l’aveva passata liscia grazie alla protezione di qualche influente magistrato della sua regione.

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