IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 15

Siamo alla fine. Quindicesima ed ultima puntata. Con quello che succede dopo il 1866 fino al “lamento” di Giovanni Prati che di fatto chiude, con l’amaro in bocca di quei versi, il periodo del Risorgimento trentino. Parleremo anche dell’ipotesi di cessione del Trentino in un progetto d’alleanza austro-franco italiana (1869), delle ripercussioni in Italia del Congresso di Berlino, del piano d’ invasione nelle terre irredente (1878).

E ancora: di agitazioni e dimostrazioni popolari per l’autonomia, delle persecuzioni contro i patrioti, delle prime campagne contro il pangermanismo. Infine la segregazione politica, il disagio economico, l’esodo degli intellettuali.

Spero di non aver abusato della pazienza di chi legge con testi sicuramente insolitamente lunghi per i siti social. Ma si trattava di non lasciar perdere alcun particolare, alcun dettaglio, per una analisi possibilmente completa (anche se non esaustiva) del Risorgimento in terra trentina. Grazie in ogni caso a tutti coloro che hanno condiviso questi servizi e anche e soprattutto a chi mi ha dato utilissimi consigli. (cornelio galas)

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a cura di Cornelio Galas

Il 25 agosto 1866, quando già si prevedeva in quali termini sarebbe stata conclusa la pace fra l’Austria e l’ Italia, Giuseppe Mazzini rivolgeva ai suoi connazionali, nell’“Unità italiana” un energico appello, eccitandoli a respingere un accordo che suonava “disonore e rovina”:

GIUSEPPE MAZZINI

GIUSEPPE MAZZINI

“È disonore l’abbandonare terre italiane quando s’hanno mezzi per rivendicarle; disonore il riconsegnare alle vendette nemiche paesi nostri ai quali s’è fatto il di prima sventolare la bandiera della libertà, provocandone gli applausi e la fiducia nell’avvenire; disonore il rimandare a casa un esercito di prodi colla leggenda in fronte, battuto due volte, su terra e su mare; disonore il dichiarare proprietà dell’Austria le rupi umide ancora del sangue dei nostri volontari …

É rovina il decretare inevitabile la necessità di una nuova guerra fra due o tre anni, e lasciare anzi tratto al nemico il terreno e le posizioni che devono servirgli di base e dargli le più forti probabilità di vittoria. La religione italiana di Dante è la mia e dovrebbe esser quella di tutti noi. Le Alpi Giulie son nostre come le Carniche delle quali sono appendice. Il litorale istriano è la parte orientale, il compimento del litorale Veneto. Nostro è l’Alto Friuli.

Per condizioni etnografiche, politiche, commerciali, nostra è l’Istria: necessaria all’Italia come sono necessari i porti della Dalmazia agli Slavi meridionali. Nostra è Trieste, nostra è la Postoina o Carsia, or sottoposta amministrativamente a Lubiana … Nostro — se mai terra italiana fu nostra — è il Trentino, nostro fino al dì là di Brunopoli (Brunopoli significa Bruneck, capoluogo della Pusteria. È da notare che su questo punto, prima e dopo la guerra del 1866, le vedute dei patrioti erano divise. Alcuni limitavano le loro aspirazioni al Trentino propriamente detto, cioé alle valli prettamente italiane del  versante meridionale delle Alpi, col confine alla chiusa di San Michele; altri per ragioni geografiche e strategiche, avrebbero voluto occupare tutto il bacino dell’Adige, fino allo Stelvio e al Brennero, comprendendo i territori tedeschi intorno a Bolzano, Bressanone e Bruneck) alla cinta delle Alpi retiche.

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Là sono le Alpi interne o Prealpi; e nostre sono le acque che ne discendono a versarsi, da un lato, nell’Adige, dall’altro, nell’Adda, nell’Oglio, nel Chiese, e tutte poi nel Po e nel Golfo Veneto. E la natura, gli ulivi, gli agrumeti, le frutta meridionali, la temperatura, a contrasto colla valle dell’ Inn, parlano a noi e al viaggiatore straniero d’Italia, ricordano la X Regione italica della geografia romana d’Augusto. E italiane vi sono le tradizioni, le civili abitudini; italiane le relazioni economiche, italiane le linee naturali del sistema di comunicazioni. Italiana è la lingua; su 500 000 abitanti, soli 100 mila sono di stirpe teutonica.

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Ma s’anche foste, o Italiani, incapaci di sentire il vincolo nazionale d’amore che annoda le vostre terre con quelle 246 mila miglia quadrate giacenti al di qua dell’Alpi, s’anche poteste essere immemori dei Trentini che morirono per la causa d’ Italia o combattevano Ieri per essa nelle vostre file, s’anche il cannone che serbate in Alessandria col nome Trento, tra i cento che anni sono il patriottismo del Paese vi dava, non dovesse essere rimorso a voi, ironia per i Trentini, non dimenticate almeno che il Trentino è l’altra Porta d’Italia; non dimenticate che monti, fiumi, valli di quelle Prealpi sino al lago di Garda formano un vasto campo trincerato dalla natura fatto chiave del bacino del Po, che l’Alto Adige taglia tutte le comunicazioni tra il nemico e noi; e ad essere sicuri bisogna averlo.

Che là si concentrano tutte le vie militari conducenti per la valle del Noce e il Tonale a Bergamo e Milano, per il Sarca e per il Chiese a Rocca d’Anfo, per la riva sinistra dell’Adige a Verona, per le sorgenti del Brenta a Bassano; che il Trentino è un cuneo cacciato fra la Lombardia e la Venezia, non concedente che una zona ristretta alle comunicazioni militari dirette fra quelle due ali dell’esercito nazionale; che mentre il nemico, giovandosi dell’ Istria e dei passi dell’Alto Friuli da voi concessi, opererebbe ad Oriente sul Veneto, gli rimarrebbe aperta l’invasione a Occidente pel passo di Colfredo, per la valle d’Ampezzo e per quella d’Agordo; che tutte le grandi autorità militari, fino a Napoleone, statuirono unica valida frontiera all’ Italia esser quella segnata dalla natura sui vertici che separano le acque del Mar Nero e quelle del seno Adriatico!

GIUSEPPE MAZZINI

GIUSEPPE MAZZINI

Accettando voi dunque, o Italiani, la pace che v’è minacciata, non solamente porreste un suggello di vergogna sulla fronte della Nazione, non solamente tradireste vilmente i vostri fratelli dell’Istria, del Friuli e del Trentino, non solamente tronchereste per lunghi anni ogni degno futuro all’Italia condannandovi ad essere potenza di terzo rango in Europa, non solamente perdereste ogni fiducia di Popoli, ogni influenza iniziatrice con essi  ma sospendereste voi stessi sulla vostra testa la spada di Damocle dell’ invasione straniera …”.

Mazzini includeva nel Trentino anche il bacino dell’Alto Adige con centro a Bolzano, ove abitano appunto i tedeschi dei quali egli parla. Ma il Trentino, nel senso comunemente inteso, è italiano nella totalità del suo territorio.

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Chi giudica questi apprezzamenti un frutto di fanatismo patriottardo o settario, legga quanto scriveva nel 1870 il generale Franz von Kuhn, celebrato comandante della difesa del Tirolo nei 1866, illustre stratega e più tardi ministro della guerra della monarchia austro-ungarica: «Se un paese montagnoso forma un bastione sul fronte strategico di un teatro di guerra, dividendolo in due campi di operazioni, la conservazione di un tale paese è di tanto maggiore importanza.

Cosi ad esempio !e montagne del Tirolo, in una guerra contro la Germania o contro l’Italia sono per l’Impero austriaco di un incalcolabile valore (von nicht zu berechnenden Werthe). Verso sud esse fiancheggiano la linea di operazione degli italiani rivolta all’Isonzo.

Essi sono costretti a conquistare il Tirolo meridionale fino al Brennero, ovvero a distrarre notevoli forze per paralizzare da quella parte le forze dei difensori, se desiderano difendere Venezia contro un attacco dall’ Isonzo e far procedere vittoriosamente lo loro operazioni contro la Carinzia e la Carniola, senza preoccuparsi delle loro comunicazioni. Per assicurarsi in ogni circostanza del possesso di questi paesi montagnosi fiancheggianti e render possibili e facili le operazioni delle truppe ivi dislocate, è assolutamente necessario di aumentare il valore di tali paesi con fortificazioni permanenti, senza badare a spese».

Questo consiglio che dava il Kuhn nel 1870 è stato poi fedelissimamente seguito dall’Austria. E ora vediamo l’opinione lasciataci pochi anni prima da uno scrittore militare che non era né italiano né austriaco. Il Bande, nella sua “Puissance militaire de l’Autriche en Italie”, così si esprimeva: «Il più gran vantaggio degli austriaci in Italia consiste nel possesso del Tirolo, paese montagnoso che si avanza nella pianura e la domina come una rocca.

Esso non lascia fra la Lombardia e la Venezia, che un’angusta striscia di terra, assottigliata ancora dal lago di Garda e dalle paludi che forma il Mincio prima, della sua confluenza col Po. Il blocco alpino del Tirolo, conficcato nel cuore d” Italia, ha sempre fornito agli imperatori germanici la base d’operazione contro la penisola, ed è stato il grande ostacolo all’ indipendenza di quel paese. Precisamente all’uscita da quelle gole sono ora le fortezze ove l’Austria ha stabilito il centro del suo dominio militare: appunto fra quelle montagne, nella valle superiore dell’Adige, si trova il nodo di tutte le strade militari».

Tornando al Mazzini, con quelle parole, che prevenivano la proclamazione del trattato di Vienna, la nuova fase dell’ irredentismo era aperta. Roma divenne allora la somma aspirazione degli italiani: ma né il popolo né il Governo trascurarono occasioni per promuovere la liberazione delle province ancora occupate dall’Austria, e specialmente del Trentino. Nel 1867 fu nominata una commissione austro-italiana coll’ incarico di verificare sui luoghi il tracciato dei confini stabilito dal trattato del 1866.

Percorrendo il Friuli, i commissari italiani avvertirono l’estrema irregolarità di quella frontiera, e proposero al loro governo di invitare l’Austria a rettificarla. Il Gabinetto di Firenze intavolò infatti trattative in tal senso, ma tostoché a Vienna intuirono che l’Italia mirava a rimetter sul tappeto la questione del Trentino, troncarono bruscamente i negoziati.

Una migliore contingenza per far valere le naturali pretese dell’Italia sul Trentino si offrì nel 1868. Beust, primo ministro austriaco, paventando la sempre crescente potenza della Prussia, tastava il terreno per combinare una seria riconciliazione coll’ Italia, e al tempo stesso una amichevole intesa colla Francia. Al fianco di Vittorio Emanuele stava allora in qualità di aiutante di campo, il generale Stefano Turr, ungherese di nascita, già segnalatosi nelle campagne garibaldine.

I privilegi assicurati alla nazione ungherese dalla costituzione del 1867 avevano riconquistato a Francesco Giuseppe l’animo dell’esule generale, già tre volte condannato a morte  il quale chiese ed ottenne di recarsi a Vienna a presentare omaggi al suo legittimo Re.

L’ imperatore lo accolse assai benevolmente. Rientrato alla corte di Firenze, il Turr riferì il colloquio avuto col sovrano austriaco a Vittorio Emanuele, che a sua volta l’incaricò di esprimere a Francesco Giuseppe il suo desiderio di riallacciare con lui rapporti cordiali.

FRANCESCO GIUSEPPE

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Allorché poi Stefano Tùrr si ripresentò alla Hofburg, il Beust gli confidò le simpatie che nutriva verso l’ Italia e il suo progetto di costituire una triplice alleanza fra Austria, Italia e Francia. Il Re, che in questa offerta intravedeva un mezzo per giungere a Roma e per annettersi il Trentino, fece ripartire il suo aiutante di campo alla volta di Parigi per vedere di concretare l’idea esposta dal Gabinetto di Vienna. Napoleone III — abboccatosi con l’eroe garibaldino l’ultimo giorno dell’anno 1868 — non gli seppe nascondere l’entusiasmo che il proposto accomodamento accendeva in lui.

Senonchè il patriota ungherese aveva, in quel primo colloquio, tralasciato di metterlo a parte delle condizioni che il Governo italiano intendeva porre rispetto ai poteri del Pontefice. Si sviluppò fra le tre corti un intenso scambio di vedute, per stabilire le basi dell’accordo; ma i negoziati rimasero chiusi nel segreto fra i due imperatori, il Re d’Italia, il Nigra e il Metternich (entrambi, in quell’anno, ambasciatori a Parigi) e pochi uomini fidati. I diplomatici francesi di Vienna e di Firenze furono tenuti completamente al buio di siffatte macchinazioni. Il Rouher e il La Vallette redassero finalmente, nel marzo 1869, uno schema di convenzione in dodici articoli.

METTERNICH

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La triplice austro-franco-italiana ivi progettata aveva scopi strettamente difensivi. Quando una delle parti contraenti ricevesse una dichiarazione di guerra, alle altre spettava di far causa con la potenza attaccata. In tal caso, la Francia e l’Austria dovevano entrare in campagna con tutte le loro forze e a proprio carico, l’Italia con ‘200 mila uomini e coir indennizzo delle spese sostenute. Di più, come compenso eventuale nel caso di una guerra vittoriosa contro la Prussia, l’Italia avrebbe arrotondato la sua frontiera col Trentino, mentre la casa d’Absburgo si sarebbe rifatta nella Slesia o altrove.

EUGENE ROUHER

EUGENE ROUHER

Le trattative fra Austria e Francia si sarebbero in realtà intavolate già qualche mese prima. Il 2 settembre 1868 fra il Rouher, ministro dell’ Impero francese e il Metternich, ambasciatore a Parigi era già stato concertato un primo progetto di duplice franco-austriaca: senonché l’arciduca Alberto intervenne per osservare che data la laboriosa trasformazione che l’esercito austriaco stava subendo dopo il 1866 e dati i molteplici pericoli che la monarchia avrebbe dovuto parare in caso di guerra, Francesco Giuseppe non avrebbe potuto fornire al suo alleato che 130 mila uomini in dodici settimane di mobilitazione.

Apparve allora l’opportunità di conciliare alla disegnata lega l’appoggio dell’ Italia, che avrebbe notevolmente ingrossato le forze da opporre alla Prussia o almeno garantito il beneficio della neutralità propria.

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 Ma in Italia alcunché di queste mene clandestine aveva finito per trapelare. La stampa nazionale cominciò a discutere la convenienza di una possibile alleanza coli’ Impero francese, criticandola con aspre parole. La Prussia rimase bruscamente colpita da tali indiscrezioni, e non prestò fede alle smentite della diplomazia italiana. Ad onta di questo le trattative proseguirono con alacrità. Se la progettata convenzione andò a monte, lo si deve invece alla insufficienza degli affidamenti che Napoleone offriva per la questione romana.

Il Governo italiano pretendeva che il sovrano francese ritirasse le sue truppe e lasciasse il Re, il Papa e i romani del tutto liberi di risolvere la questione senza l’ intervento straniero, mentre l’Imperatore si era dichiarato disposto solo a notificare verbalmente all’inviato italiano la sua risoluzione di ordinare, entro un breve termine, il richiamo della guarnigione di Civitavecchia. Le richieste del Gabinetto di Firenze (4 luglio 1869) furono respinte dalla Corte di Parigi, mentre Francesco Giuseppe aveva assentito alla cessione condizionata del Trentino.

In realtà, secondo alcuni storici,  una delie ragioni principali che impedirono la conclusione del patto — oltre alla divergenza di apprezzamenti e di propositi sul potere temporale dei papi — fa appunto la domanda, che l’Austria rivolse all’ Italia, di una esplicita, definitiva e irrevocabile rinuncia al Trentino e a Trieste, e il rifiuto di Vittorio Emanuele a cedere ad una sì odiosa pretesa.

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Chiaritosi un cosi sostanziale disaccordo tra Francia e Italia, fu giocoforza interrompere i negoziati: in mancanza di meglio, i tre sovrani si scambiarono qualche lettera personale di amicizia. Svaniva in tal modo ogni immediata probabilità di riscatto del Trentino, e per di più era rimandata la soluzione della questione romana che in quel momento assorbiva, e a ragione, i pensieri di tutti i patrioti. Ad onta del ravvicinamento fra l’Italia e l’Austria — che non cessò neppure dopo il 1870 — il popolo italiano, specie nell’ambiente dei partiti democratici, si agitò ripetutamente ancora a ricordo dei fratelli irredenti. Anzi, dopo la breccia di Porta Pia lo sguardo degli uomini d’azione si volse più intenso verso le Alpi e l’Adriatico.

Da allora data appunto la costituzione, in molti centri della penisola, dei comitati e delle associazioni pro Italia irredenta che facevano capo al generale Avezzana e a Matteo Renato Imbriani e tenevano a loro ispiratore e condottiero supremo Giuseppe Garibaldi.

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Nel 1878, intanto che a Berlino si dibatte fra i delegati delle potenze la questione balcanica, il lavorio di questi Comitati si ravviva e si moltiplica. II Governo italiano, rappresentato al Congresso, si dichiara lieto di non pretendere un bicchier d’acqua: i partiti si agitano per ottener colla forza quel che l’inesperta diplomazia è incapace ad ottenere colla persuasione. La sera del 28 giugno 1878, e cioè due giorni prima che fosse pubblicata la notizia che l’occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina era stata ufficialmente riconosciuta da tutte le potenze, compresa l’Italia, una vivace dimostrazione irredentistica ebbe luogo a Venezia.

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Il mattino seguente doveva arrivare una comitiva di triestini sul battello a vapore Arciduca Massimiliano del Lloyd austriaco e i veneziani si erano preparati a muover loro incontro a suon di musiche, con apposito piroscafo. Poche ore prima fu invece annunciato che la gita era sospesa d’ordine dell’imperial regio governo. Fu allora inscenata una violenta manifestazione irredentistica: il popolo si affollò sotto la redazione del giornale “Il Rinnovamento” acclamando a Trieste, all’ Istria, al Trentino.Po accorse al consolato austriaco, ne abbatté lo stemma e lo scaraventò nel canale.

Del resto, molti giornali del tempo si resero interpreti del malcontento suscitato in una parte della opinione pubblica italiana dalla supina acquiescenza del plenipotenziario Corti al Congresso di Berlino: la Ragione, la Riforma e il Rinnovamento avevano messo in luce l’opportunità di pretendere come compenso il Trentino e lamentarono poi che tale questione si fosse posta nel dimenticatoio.

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Ma la storia di quell’anno non è una storia di semplici recriminazioni. Ancora nel gennaio Garibaldi aveva interpellato a Caprera G. Nuvolari sulla possibilità di invadere il Trentino e l’ Istria con schiere di volontari per iniziarvi una guerriglia rivoluzionaria, e guadagnare un titolo a favore dell’Italia nel prossimo congresso. il Nuvolari a sua volta interrogava Attilio Zanolli, trentino dei Mille di Marsala, allora residente a Cividale del Friuli.

Lo Zanolli rispose favorevolmente. Garibaldi allora consegnò al Nuvolari, il 17 febbraio, un biglietto cosi concepito: “L’amico Nuvolari è da me incaricato promuovere in ogni città e terra italiana soccorsi morali e materiali ove occorrano per la liberazione dei nostri fratelli di Trieste e di Trento. G. Garibaldi.”

Il Nuvolari ne dà l’annuncio all’amico di Cividale (19 febbraio) e dalla Maddalena s’imbarca per Genova: va a Napoli a prendere accordi con Giuseppe Avezzana, presidente dell’Associazione generale delle provincie del Mezzogiorno in pro dell’Italia irredenta fondata appunto in quel mese, a Milano per parlare col trentino Ergisto Bezzi; e gira di città in città promuovendo sottoscrizioni e arruolamenti.

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Lo statuto dell’Associazione era approvato il 13 febbraio 1878. Suo scopo era «redimere le terre italiane tuttora soggette allo straniero, e specialmente Trento e Trieste». L’Associazione si avvaleva “di tutti i mezzi legali indispensabili perché la volontà della Nazione debba determinare gli atti del Governo”. Era retta da un comitato centrale di 13 membri, con sede a Napoli, e ne dipendevano parecchi comitati ausiliari istituiti in varie città d’ Italia con scopi di propaganda, e in seno ai quali si formarono poi comitati segreti di azione (27 settembre). Questi ultimi badavano soprattutto ad arruolare volontari per i progettati colpi di mano ai confini.

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Frattanto lo Zanolli prepara un piano di massima per l’ insurrezione della regione e l’ invasione delle bande armate e lo trasmette a Garibaldi, facendolo poi seguire da una carta topografica del paese ad esplicazione del progetto. Si trattava, secondo la sua espressione, di una marcia-manovra per occupare i punti più forti del Trentino e di li sorprendere le truppe austriache. La posizione di base per la guerriglia doveva essere la conca di Primiero, donde mille e cinquecento uomini, armati di carabina e di dinamite si sarebbero spinti, da una parte su Strigno per val di Tesino,  dall’altra sulla valle di Fiemme per il passo di Rolle, e di lì avrebbero assalito di sorpresa Trento.

Appassionatosi al suo disegno, il patriota di Nago, sebbene esiliato dall’Austria e gravemente sospetto alla i. r. polizia, si recò di nascosto nel Trentino, ne percorse instancabile le montagne, studiando le accidentalità del suolo e le posizioni più atte ad essere occupate, presidiate e fortificate dalle bande in guerriglia.

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Il piano di campagna, peraltro, venne dopo questa ricognizione ad assumere proporzioni più ampie. Il contingente di truppa previsto necessario alla conquista saliva da mille e cinquecento a sedici mila uomini: dei quali cinquemila dovevano occupare il circolo di Primiero e la val di Tesino, mirando da una parte all’invasione di Val di Fiemme e alla rottura del tronco ferroviario Trento-Bolzano, dall’altra a sbarrare una eventuale marcia austriaca per la Valsugana; altri cinquemila dovevano puntare da Vicenza su Folgaria e San Sebastiano minacciando la linea di Val d’Adige a nord di Rovereto; mentre le restanti schiere di volontari da occidente avrebbero accennato una semplice dimostrazione offensiva a ponte Caffaro e al Tonale, nell’ intento di nascondere i reali obbiettivi della manovra.

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A centro direttivo delle operazioni fu scelta la città di Napoli, perché sede dei più attivi e dei più autorevoli campioni dell’azione irredentista: Giuseppe Avezzana e Matteo Renato Imbriani, il quale ultimo riuniva nelle sue mani tutte le fila della cospirazione.

L’ Imbriani si poneva anche in relazione diretta con Attilio Zanolli, che era gran parte di tutto questo movimento ed anima del Comitato segreto d’azione del Friuli occidentale . Ma i due nutrivano disegni alquanto divergenti, li dissenso si manifestò chiaro in una riunione che ebbe luogo il 19 ottobre a Forlì fra i principali agitatori del partito repubblicano.

Matteo Renato Imbriani sostenne in quella adunanza che per il momento fosse necessario sospendere la progettata invasione del Trentino per rivolgere tutte le forze verso Trieste. Era necessario a suo avviso che anche quella città si conquistasse un titolo di sangue alla propria redenzione, e che l’Italia affermasse vigorosamente il proprio diritto al dominio dell’Adriatico: non occorreva perder tempo, data la malattia di Garibaldi, giacche un tentativo non poteva riuscire che mentre egli era ancor vivo.

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Lo Zanolli invece si dichiarò per l’opportunità di rivolgere tutte le forze al Trentino, e in questo senso scrisse subito dopo il convegno al Nuvolari, perché ne riferisse a Garibaldi. Fatta la constatazione che il Governo italiano era avverso e che avrebbe con tutti i mezzi impedito ai volontari di addensarsi al confine, soggiungeva:

“La posizione di Trieste, avendo un mare di fronte e con Pola vicino e circondata da un territorio orribilmente slavo e tedesco (sic) disposto a prendere l’offensiva alle spalle nostre o per lo meno ad impedirci una ritirata (perché basta che al governo austriaco venga l’intenzione di distribuire l’armi ai paesani), forma per me un grave pensiero … Quando non si hanno fortificazioni o posizioni di difesa e per di più è sbarrata ogni via di ritirata, bisogna aver forza da opporre alla forza … E poi, sei tu sicuro di ritrovare 4000 per questa destinazione?

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Io, francamente, non lo credo, come non credo che il Generale Garibaldi lo possa in massima permettere, senza che l’Austria sia prima impegnata in una guerra colla Prussia o colla Turchia … Tranne che l’Austria non si trovasse imbarazzata (sic) il mio piano su Trento, effettuabile in giugno fino a tutto ottobre sarebbe il migliore, perché non daremmo l’esempio alle popolazioni irredente di un inutile spargimento di sangue … D’altronde, anche se il Generale si facesse portare alla frontiera o dentro a Trieste, credi tu che la città ed i contorni { (sic) lo difenderebbero contro le forze austriache che in due giorni potrebbero piombare su Trieste, chiuderci la ritirata e scavarci la fossa per un’ecatombe comune?”

Quasi contemporaneamente a questa lettera lo Zanolli spediva il piano particolareggiato della spedizione: Garibaldi, messo al corrente dal Nuvolari e dell’una e dell’altro, chiamava a Caprera l’Imbriani e con lui aveva un lungo colloquio (novembre). Che cosa si siano detti l’Eroe dei due mondi e il Campione dell’irredentismo non è noto: certo è che la spedizione su Trieste fu sospesa, e che mancò l’occasione di mandare ad effetto anche quella verso il Trentino, cui il Zanolli aveva dedicato sì amoroso studio e si lunga fatica.

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Una lettera di Garibaldi in data 18 aprile 1879 (da Roma, Camera dei deputati) ci dice pure che lo Zanolli non si era fermato al suo paese, ma aveva continuato i suoi studi al confine orientale:

“Egregio sign. Zanolli — Cividale. Ho ricevuto il vostro piano di occupazione temporanea da Gorizia a Caporetto. Non appena potrò lo esaminerò. Gradite intanto un mio affettuoso saluto. Vostro G. Garibaldi”.

Anche dopo la campagna del 1866, i prodi soldati del Trentino avevano continuato le loro tradizioni d’eroismo. Nel 1867 circa 16 trentini seguivano Garibaldi (Leonardo Anderle, Ergisto Bezzi, Luigi Brunelli, Giambattista Cattarozzi, Francesco Chiesa, Augusto Chimelli, Fortunato Collini, Benedetto Condotti, Ilario Gonfalonieri, Filotimo Danieli, Luigi Fontana, Giuseppe Manfroni, Luigi Marcabruni, Fedele Michelotti, Pietro Pederzolli, Giuseppe Pollini) nella sfortunata ma ammonitrice impresa dell’Agro romano. Ergisto Bezzi vi restò gravemente ferito; Giuseppe Pollini e Luigi Brunelli lasciarono sul campo di Mentana le loro giovani vite, accrescendo la schiera dei martiri trentini dell’Indipendenza.

Né mancarono soldati del Trentino nella breve campagna del 1870: Achille Andreis, Oreste Baratieri, Bartolomeo Berti, Luigi Cappelletti, Luigi Cristoffolini, Federico Martini, Vigilio Righi, Giovanni Tiboni .All’interno del paese, frattanto, non cessava l’atteggiamento di disdegnosa protesta contro la continua violazione del diritto di nazionalità, come non mancavano le dimostrazioni e i complotti per l’unione all’Italia.

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La lotta per l’autonomia, iniziata, come s’è visto, nel 1848, si prolunga per un altro mezzo secolo. Nel 1866, nel 1867, nel 1868, nel 1869 sono convocati, e sempre inutilmente, i collegi per la nomina dei deputati ad Innsbruck: il partito dell’astensione ottiene maggioranze schiaccianti, mentre i due o tre interventisti si presentano alla Dieta unicamente per chiedere una separata amministrazione del paese.

La notizia della occupazione di Roma da parte delle truppe italiane, dette luogo nel Trentino a dimostrazioni di vivo giubilo. A Trento e a Rovereto le bande comunali percorsero le vie della città seguite dal popolo che gridava: Viva Roma ! Viva l’Italia ! Viva il Re in Campidoglio ! Si chiusero i negozi in segno di festa, si accesero fuochi di bengala, si improvvisarono cortei con palloncini multicolori. Né mancarono incidenti e colluttazioni fra la truppa austriaca e la popolazione.

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La presa di Roma, e le manifestazioni seguite per festeggiarla, irritarono profondamente il partito clericale trentino, che da tale avvenimento trasse nuovi pretesti per combattere l’elemento liberale. Le campagne per le elezioni indette negli anni susseguenti assunsero un tono aspro ed aggressivo, quale non s’era mai avuto: e a poco a poco, in quasi tutti i collegi di campagna, i cattolici militanti, aiutati dal Governo austriaco, guadagnarono terreno e pervennero a sloggiarne i liberali fautori dell’astensione, i quali videro ristretto il loro potere appena alle città e alle principali borgate.

Ciò nonostante la lotta per l’autonomia si protrasse vivacissima — con periodi di diserzione dalla dieta, seguiti da pause d’intervento — sino alla fine del secolo: ed ebbe clamorose manifestazioni anche al Parlamento di Vienna.

Una meschina parvenza di soddisfazione all’antico postulato nazionale si ebbe quando una commissione parlamentare presentò al Reichstag la proposta di estendere le attribuzioni amministrative della sezione di luogotenenza di Trento: ma il progetto risultò respinto in seduta plenaria (15 maggio 1875) con 95 voti favorevoli e 96 contrari.

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La lunghissima guerra per l’autonomia non andò a scapito di altre manifestazioni anche più ardite. Il 24 maggio 1863 si riuniscono a convegno in Rovereto le società operaie delle due maggiori città della regione. Velate allusioni degli oratori agli ideali sempre dominanti, e più espressive grida eterodosse provocano l’intervento della polizia: Benedetto Covi direttore e Giovanni Prato presidente onorario della società operaia di Trento sono entrambi colpiti da multe di 100 fiorini. Il Covi non paga; l’autorità gli sequestra 121 sacelli di farina; al Municipio di Trento è intimato di vendere i sacchi all’incanto. Senonché gli amministratori del Comune, d’accordo col condannato, stabiliscono che l’avanzo della vendita sia devoluto a beneficio della società operaia incriminata.

Veramente notevole è la biblioteca del convento situata in un'ampia sala foderata di legno e ricca di oltre 30 mila volumi, compresi pergamene, codici e incunaboli di valore inestimabile

A tale notizia, i cittadini accorrono in folla ed impegnano una gara magnifica; la farina sale a prezzi favolosi; il popolo gioisce, applaude e tumultua; la polizia vuole interrompere l’asta, ma il delegato municipale si rifiuta: allora la sospensione è imposta colla forza. La truppa sopraggiunta ricaccia la folla sovreccitata e fra due siepi di popolo minaccioso scorta la farina all’ufficio di polizia. Il commissario del Comune, il banditore ed altri tre cittadini sono processati e condannati, nonostante le proteste del Podestà di Trento.

Negli anni successivi, il riavvicinamento italo-austriaco calma la vivacità politica dei cittadini e pone una remora alle repressioni della polizia. Ma fra il 1874 e il 1875 il fermento ricomincia. Le società ginnastiche e le associazioni di mutuo soccorso raccolgono gli elementi più patriottici del paese, lo mantengono in contatto con l’Italia redenta mediante gite e congressi, promuovono manifestazioni nazionali.

Dal canto suo, il governo austriaco rimette in vigore gli antichi sistemi. La società operaia Unione e Progresso di Trento è disciolta al principio del 1876, per aver promosso alcune conferenze storico-geografìche nelle quali l’autorità ha ravvisato una nota troppo spiccatamente italiana.

GIUSEPPE CANELLA

GIUSEPPE CANELLA

Pochi mesi appresso la società ginnastica di Rovereto e la società di mutuo soccorso degli artieri di Riva parteciparono coi propri delegati Antonio Baruffaldi e Giuseppe Canella, alle feste del settimo centenario della vittoria di Legnano. Al loro rimpatrio li colse un mandato di cattura, mentre un decreto governativo sopprimeva le due società.

ANTONIO BARUFFALDI

ANTONIO BARUFFALDI

Non si contavano intanto e le multe e i sequestri contro il giornale liberale “Il Trentino”. Il 19 settembre 1876 alcuni patrioti spedirono alla tipografia dell’Arena di Verona l’originale di un proclama da stamparsi per una larga distribuzione nel Trentino. Il manifesto ricordava il dovere di agitarsi per l’annessione all’Italia. La polizia, non si sa come, poté intercettare il manoscritto e indicarne gli autori in Vigilio Zatelli direttore del Trentino e in Giovanni Scotoni, professore secondario. Il 20 settembre entrambi furono arrestati e gli uffici del giornale perquisiti; seguirono catture e persecuzioni poliziesche in tutto il paese.

Fra gli imprigionati, Pietro Serafini di Rovereto, Giovanni Dallarosa di Tarcento e il barone Scipio Salvotti, figlio del celebre inquisitore. Quest’ultimo fu processato sotto vari capi d’imputazione: nella sua abitazione erano stati trovati sonetti irredentisti scritti di suo pugno e lettere nelle quali il Salvotti stesso incitava la Società nazionale del Trentino a promuovere una azione nettamente e schiettamente avversa al dominio austriaco.

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L’atto d’accusa (1° maggio 1877) lo dipinse fra tutti i rei quale il più pericoloso; e infatti il tribunale di Innsbruck condannò lui a quindici mesi di carcere, mentre ne inflisse tredici al dott. Zatelli, otto al prof. Scotoni e tre a Pietro Serafini (13 giugno 1877). Incarcerati redattori e collaboratori, anche il giornale fu subitamente ridotto ai silenzio. In seguito, per lo sforzo di qualche volonteroso, le pubblicazioni furono riprese; ma nel settembre del 1878, dopo due lustri di lotte infaticabili e gloriose, esso mori per non più risorgere. L’anno seguente il prof. Giovanni Canestrini, già deputato del Regno d’Italia, per un brindisi da lui pronunciato in un banchetto della Società operaia di Rovereto, fu espulso dall’Impero.

Da quel tempo la tattica del governo austriaco per cementare l’ unione del Trentino alla provincia del Tirolo e allo Stato assume una più decisa fisionomia.

Già in varie riprese si erano manifestate nel passato recrudescenze di azione germanizzatrice. Però a cominciare dal 1877 il germanismo tirolese e governativo appare più vivace che mai. Nel 1878 lo Stato fonda a Trento la prima scuola elementare tedesca con a lato un giardino infantile; nel 1879 vi istituisce un ginnasio tedesco, e lo mantiene nonostante numerose e vibrate proteste della stampa e della rappresentanza comunale.

Le società scolastiche e alpine tedesche d’Austria e di Germania incominciano allora appunto la loro azione d’infiltrazione, disseminando scuole elementari e popolari tedesche, fabbricando rifugi alpini, diffondendo la propaganda anti-italiana per le valli. A queste mene i patrioti, messi in sospetto, comprendono che un’opera più urgente ancora della propaganda unitaria s’impone alle loro preoccupazioni: e cioè la difesa della lingua e dello spirito italiano del Paese.

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Di qui la fondazione della Società Alpina del Trentino (8 luglio 1877) e — a pochi anni di distanza — della Pro Patria (1886), poi disciolta ma sostituita dalla Lega nazionale (1890). La Pro Patria e la Lega nazionale segnano una nuova fase nella storia politica delle regioni trentina, triestina e dalmata. Come esse esplicano l’intento immediato di proteggere il minacciato patrimonio nazionale di quelle province, cosi riuniscono tutte le terre italiane ancor soggette all’Austria in un solo ideale e stringono Trento e Trieste con vincoli che durante il periodo del Risorgimento, data la lontananza e la divergenza di vita, di storia e di tradizioni, non si erano che molto debolmente rivelati.

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Già fin dal 1848 il conte Matteo Thun in un coraggioso opuscolo di cui abbiamo già esposto i contenuti in precedenti puntate, già i patrioti trentini del Risorgimento in tutti gli appelli, in tutte le proteste, in tutti gli articoli, in tutti i discorsi, e persino i diplomatici italiani nelle loro note avevano spiegato e dimostrato la identità di interessi economici che univa il Trentino al resto d’ Italia e i danni che sarebbero derivati alle industrie di quella regione qualora essa avesse dovuto sottostare ad un regime politico e doganale diverso da quello della Lombardia e del Veneto.

Volgiamo ora un rapido sguardo alla trasformazione subita dal Trentino dopo il 1859 e dopo il 1866, per verificare se il corso degli eventi abbia reso giustizia a quelle antiche apprensioni. Giova rilevare che il Risorgimento italiano si era maturato in un periodo di profondo rivolgimento industriale.

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Il passaggio dalla piccola alla grande manifattura avveniva allora, per taluni rami della produzione, con una relativa rapidità. Ma dal primitivo laboratorio patriarcale non poteva nascere lo stabilimento moderno se non a patto di uno stretto ravvicinamento, di una fervida comunione dei singoli focolari di attività produttrice coi propri centri di spaccio e di provvista della materia prima e dei capitali.

Ora, proprio nel momento in cui una intensificazione di scambi e di comunicazioni fecondatrici fra il Trentino e le piazze della Lombardia e del Veneto sarebbe stata indispensabile per promuovere la inevitabile rinnovazione del piccolo ambiente economico del paese, sopravvennero le barriere doganali a troncare ogni promettente avvenire alle industrie trentine.

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La ricchezza di forza idraulica, la distanza non grande dalla capitale lombarda, lo stesso sviluppo preso dalle fabbriche nelle finitime provincie di Brescia e di Vicenza, ci dicono che questo avvenire, non che probabile, sarebbe stato sicuro. Invece, quando nel 1859, coll’annessione della Lombardia al Piemonte, incominciò la segregazione, si notò un rapidissimo deperimento, che dopo il 1866 volse per quasi tutti i rami di attività manifatturiera in completa rovina. Il dazio austriaco d’importazione sulle materie prime, cui si aggiungeva il dazio del Regno sui prodotti fabbricati, toglieva agli stabilimenti trentini ogni possibilità di gareggiare vantaggiosamente cogli analoghi articoli dell’Italia unificata.

D’altra parte, i maggiori centri di produzione e di consumo dell’Austria distavano troppo per poter subentrare con qualche vantaggio ai mercati che gli eventi politici avevano distolto. Il rapporto statistico che la Camera di Commercio di Rovereto ebbe a pubblicare nel 1871, ossia pochi anni dopo la separazione delle sorti del Trentino da quelle della Lombardia e del Veneto, è in proposito abbastanza eloquente.

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Quel rapporto rilevava come l’industria vetraria, che costituiva una fonte di reddito significante per i comuni di Tione, Pinzolo e Stenico, avesse subito un terribile rovescio in seguito allo spostamento della linea di confine. Il dazio austriaco colpì infatti gli articoli di fusione importati, e il dazio italiano caricò il costo dei prodotti esportati di lire 5 per ogni 100 chilogrammi. Sicché la fabbrica di Tione, che prima del 1866 lavorava tutto l’anno con due forni, dovette poi ridursi ad un solo forno, in accensione per quattro mesi dell’anno appena, e finì per chiudere.

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Ugual sorte toccò alle due vetrerie di Algone (Stenico) e di Carisolo (Pinzolo), Nei distretti di Malé e di Cavalese, ma specialmente in quelli di Tione e Condino si mantennero fino al 1861 vari stabilimenti per la lavorazione del ferro. Dopo il 1859 l’Austria decreta un gravoso dazio sulla ghisa: l’Italia, a sua volta, ricorre a misure protettive a favore del ferro lavorato. Il citato documento del 1871 constatava il fallimento della principale officina, esistente a Greto (Giudicarle) e il rapido deperimento (che poi doveva condurre a completa rovina) di tutte le altre.

Del pari le manifatture di chiodi di Valle di Ledro, che prima del distacco dalla Venezia tenevano occupati 400 lavoranti e davano un prodotto di quasi 2000 quintali all’anno, appena un lustro dopo avevano ristretto la produzione a 600 quintali ed avevano licenziato gran parte dei loro operai.

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Varie industrie col nuovo regime daziario trovarono convenienza ad emigrare in Lombardia o nel Veneto: cosi la grandiosa distilleria di olio di ricino di Trento. E sorte eguale o simile toccò ai cappellifici e alle fabbriche di magnesia in val di Ledro, di biacca a Lavis, dei tubi di pietra per acquedotti ad Arco, alle fonderie di campane, alle cererie, ecc.  Ma anche più dannoso e più evidente fu il rapido declinare del più notevole ramo di attività trentina, e cioè il setificio.

Si ricordi che nel 1848 alcuni industriali di Rovereto, sobillati dalle mene governative si erano pronunciati, ad onta di una antitetica azione dei loro deputati, per l’aggregazione alla progettata lega doganale germanica a preferenza della italiana.

MATTEO THUN

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Ebbene: quel che seguì dopo la separazione politica ed economica dal rimanente d’Italia doveva dar piena ragione a Matteo Thun e ai deputati della Costituente quarantottesca, e torto a quei non lungimiranti industriali. La filatura della seta — che già aveva sopportato una crisi violenta al tempo della epidemia dei bachi (1856-1857) — non si riebbe più.

La decadenza fu meno precipitosa che nelle altre industrie, ma pur continua e irrefrenabile. Nel 1860 si calcolavano circa 10 mila gli operai occupati in questo ramo della produzione serica. Nel 1870 non vi lavorano più di ottomila persone, nel 1875 meno di settemila, nel 1880 appena cinquemila, nel 1885 sotto a quattromila, nel 1892 sì e no duemila.

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Le bacinelle impiegate, in trent’anni si riducono da 5000 a 1600 circa; gli stabilimenti attivi da più di cento a undici. Né i premi ai filatori, accordati in seguito dal governo austriaco, valsero a risollevare le tristi sorti di tale industria. La torcitura della seta, che ancora nel 1870 occupava 1400 persone, era sparita del tutto circa venti anni dopo.

La sorte dei principali cespiti di guadagno dell’agricoltura della regione non sarebbe stata meno infelice, se per i più notevoli articoli della esportazione trentina (bachi da seta, legname, bestiame) l’Italia non avesse sentito la convenienza di adottare un sistema di completa franchigia. Soli a non esser danneggiati dal nuovo stato di cose furono i viticoltori, i quali peraltro, se riuscirono a mettersi al riparo contro la concorrenza dei vini piemontesi, toscani e meridionali, furono da ciò spinti a dare alla coltivazione della vite un impulso esagerato che si ripercosse sovente in annate di sovrapproduzione disastrosa.

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Ma non ad una semplice segregazione politica ed economica si limitavano gli effetti della non raggiunta annessione all’Italia. L’affluenza annuale dei lavoratori verso la penisola si riduceva progressivamente, ed aumentava invece l’emigrazione verso l’America e verso i paesi tedeschi d’Europa. Cosi, oltre ai rapporti d’interesse, si illanguidivano anche le relazioni morali ed intellettuali colla gran patria italiana. Cessata la secolare tradizione dei goliardi trentini alle Università di Padova e di Pavia, la gioventù, per conseguire una laurea, era costretta a succhiare la cultura in una lingua diversa dalla propria, negli esotici atenei di Innsbruck, di Graz, di Vienna.

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Mentre non era possibile una comunione di vita e di aspirazioni colle popolazioni di diversa nazionalità dell’ impero austriaco, alte barriere si erano d’ un tratto sollevate fra il Trentino e le altre terre della penisola : un forzato isolamento lo colpiva proprio nel momento in cui il progresso più rapidamente che mai andava aprendo nuove comunicazioni in ogni campo della vita.

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Cosi la provincia che aveva dato alle campagne dell’indipendenza mille e duecento volontari, che aveva immolato a decine i suoi figli sull’altare della patria, che per diciotto anni, sempre dimenticata, sovente disconosciuta, a volte persino calunniata, si era battuta con tutte le forze — colle sue forze sole — per divincolarsi da una stretta inesorabile e schiacciante, per guadagnar titoli alla causa del suo riscatto: il paese che era corso a gridare la sua italianità nelle assemblee di Francoforte e di Vienna e a sussurrarlo nelle società segrete e nelle cospirazioni, non solo si sentiva cacciato dalla comunione della gran famiglia italiana, ma vedeva questa sospirata comunione maturarsi e compiersi a intero scapito della sua produzione, del suo traffico, della sua coltura, del suo sentimento, di tutto il suo essere.

ANTONIO GAZZOLETTI

ANTONIO GAZZOLETTI

Le più elette personalità, che emigrando avevano portato le proprie energie a servigio della causa unitaria, prolungarono o forzatamente o volontariamente l’esilio dalla terra natia. Era morto a Milano prima ancora della pace, il 21 agosto 1866, l’ infaticabile eroico agitatore Antonio Gazzoletti. Nonostante la malattia cardiaca che da anni lo insidiava, egli aveva continuato fino alla fine dei suoi giorni a scrivere articoli per la causa del suo paese, e forse egli si spense ignorando il fatale” Obbedisco” che Garibaldi aveva pochi giorni innanzi pronunciato nell’abbandonare il suo Trentino: forse egli mori nella speranza che lo scopo più alto della sua nobile esistenza fosse conseguito.

Gaetano Manci, già podestà di Trento, bandito nel 1860, poi presidente del Comitato nazionale trentino a Milano, fu nel dicembre 1866 eletto deputato di Bassano Veneto, e deputato in due collegi  fu eletto pure Angelo Ducati, esiliato nel 1866, da allora in avanti professore dell’Università di Padova e poi di Bologna.

ERGISTO BEZZI

ERGISTO BEZZI

Anche Ergisto Bezzi ebbe, nelle elezioni del 1890, la rappresentanza di un collegio politico (Ravenna) alla Camera: ma non credette di accettare, in omaggio ai suoi principi repubblicani. Giovanni Prati, l’ inesauribile cantore delle speranze, delle delusioni, delle vittorie, delle sconfitte, dei fasti, delle sventure del nostro Risorgimento, prosegui nelle sue meste peregrinazioni dall’una all’altra città, dall’una all’altra terra d’Italia.

GIOVANNI PRATI

GIOVANNI PRATI

E una nota di sconforto e di avvilimento era nei suoi versi: il Trentino abbandonato e lontano, dal quale aveva pur gridato, nel 1848, la prima ebbrezza della rivoluzione, gli dava accenti di amaro rimpianto e di nostalgia infinita:

Ha una patria ciascun presso al suo nido

Presso al suo monte ed a la sua fontana

Ed io, quantunque la querela è vana,

Senza patria rimango e senza nido.

Sparse pietre è la casa: ortica e dumi

L’antico campo: i miei stan nella fossa

E tutto il resto intorno a me si schianta:

Ond’ io sopra i diversi itali fiumi

Porto la tenda e questo fascio d’ossa,

Zingaro afflitto che ricorda e canta.

Erano i suoi ultimi versi prima della morte; ma la speranza non era pur bandita dal suo animo prostrato e fedele:

Sin che al mio verde Tirolo è tolto

Veder l’arrivo delle sue squadre

E con letizia di figlio in volto,

Mia dolce Italia, baciar la madre;

Sin ch’ io non odo le mute squille

Suonare a gloria per le mie ville.

Né la tua spada, né il tuo pavese

Protegge i varchi del mio paese;

No, non son pago. Chiedo e richiedo

Da mane a vespro la patria mia:

E il suo bel giorno sin ch’ io non vedo

Clamor di feste non so che sia.

Cantai di gloria, cantai di guerra.

Cantar credendo per la mia terra,

Quanta ne corre da Spartivento

All’ardue chiuse di là da Trento.

L’han pur veduta la festa loro

L’altre del Lazio città reine !

E tu, gran Madre, del proprio alloro

Tu ne hai vestito l’augusto crine:

Ma la mia terra negletta e sola

Geme nell’ombra. Chi la consola ?

Dai ceppi amari chi la disgrava?

Chi l’aura e il lume rende alla schiava?

BIBLIOGRAFIA

Brentari Ottone, Bibliografia della campagna trentina del 1866, unita alla pubblicazione: Il secondo battaglione bersaglieri volontari di Garibaldi nella campagna del 1866, Milano, Agnelli, 1908.

Castellini Gualtiero, Saggio bibliografico in Pagine garibaldine, Torino, Bocca, 1909.

Emmert Bruno, Il Trentino e l’Alto Adige nel 1796-97, saggio bibliografico — L”Alto Adige (escluso il territorio bolzanino) negli anni 1806- 1813, saggio bibliografico nell’Archivio per l’Alto Adige (Trento, Zippel), anno 1911- — Il dipartimento dell’Alto Adige del Regno Italico (1810-1813), saggio bibliografico nell’Archivio per l’Alto Adige (Trento, Zippel), anno 1909 — Saggio d’una bibliografia trentina degli anni 1848, 1859 e 1866, nella Tridentum (Trento, soc. tipografico-editrice trentina), anno 1910 – Documenti sul Trentino nella storia del Risorgimento in archivi, milanesi, nella Tridentum, anno 1910 – Imoti del Friuli nel 1864 — Le cospirazioni trentine negli anni 1862 e  1864, saggio bibliografico, estratto dalla rivista storica II Risorgimento italiano (Torino, Bocca), anno 1910 – I fratelli Bronzetti, saggio bibliografico nella rivista Garibaldi e i garibaldini (Como, Gagliardi), anno 1910 – Antonio Gazzoletti (20 marzo 1818-21 agosto 1866), saggio bibliografico nella Pro Cultura (Trento, Scotoni e Vitti), anno 1910.  – Giovanni Prati (27 gennaio 1814-9 maggio 1884), saggio bibliografico negli Atti dell’Accademia di scienze, lettere ed arti degli Agiati di Rovereto (Rovereto, Grandi), anno 1912. — Gustavo Modena, saggio bibliografico

Largaiolli Filippo – Bbliografia del Trentino (1475 – 1903), Trento, Zippel, 1904 (seconda edizione), per cura della Società degli Alpinisti Tridentini.

Sandonà Augusto, Saggio bibliografico sulla campagna del 1866, nella Tridentum, anno 1910.

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