IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 10

In questa decima puntata (ed anche  in quella successiva, per motivi di spazio) ci occuperemo degli anni che vanno dal 1862 al 1865. Tratteremo della cospirazione mazziniana, ovvero della sua vasta “trama” anche a livello europeo. Dei trentini Bezzi e Manci che chiedono consiglio sul da farsi a Garibaldi. Ma anche di riluttanze, intese, riunioni, progetti abbandonati. Fino alla scoperta della cospirazione trentina, con processi e condanne. Ci sono ancora elenchi di chi preparava la liberazione del Trentino. Ed un video con i “segreti” del Risorgimento italiano.

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GIUSEPPE MAZZINI

TUTTI I “SEGRETI” DEL RISORGIMENTO: IL VIDEO

a cura di Cornelio Galas

Dopo la conquista definitiva del Regno delle due Sicilie e la proclamazione dell’unità nazionale, la politica italiana, febbrilmente intesa a trovare la via più breve per raggiunger Venezia e Roma, è dominata dal fremito della cospirazione. Cospira Mazzini, cospira Garibaldi, cospira il Governo, cospira il Re, con alternative di fiducia e di diffidenza scambievole, con taciti affiatamenti rotti da clamorosi dissidi.

Garibaldi, che con l’epica impresa meridionale ha suscitato in tutta Italia un entusiasmo delirante, e che da ogni parte ha sentito salire a sé, coi fragorosi interminabili applausi di cento folle, gli incitamenti più caldi a compiere l’ unificazione italiana, appare in questo intervallo signoreggiato dall’ansia nervosa che agita le moltitudini. Messo dal Gabinetto di Bettino Ricasoli a parte del progetto Kossuth di attaccare l’Austria dal lato del Danubio sotto la direzione di Garibaldi stesso, per poi muovere colle truppe italiane alla redenzione del Trentino e del Veneto, l’Eroe lascia supporre di annuire al progetto, ma poi trova più seducente l’idea di far impeto contro l’ Impero sulle Alpi trentine e sul Mincio (1862). Di qui il tentativo di Sarnico, presto smorzato dal fulmineo intervento governativo.

TRESCORRE BALNEARIO

TRESCORRE BALNEARIO

Lo scopo preciso delle mene di Trescorre Balneario, il piano di campagna di Garibaldi, la misura nella quale il progetto suo proprio era, in sulle prime, conosciuto e condiviso dal Ministero Rattazzi, sono tutti dati che non risultano ancora nettamente a chi studi quel periodo di storia. Quel che non s’ignora è che, alla fine di aprile del 1862, Garibaldi, adducendo il bisogno di curarsi della sua vecchia artrite, si ridusse a Trescorre, nella villa di Gabriele Camozzi, ove si dette a preparare un’ invasione di volontari nel Trentino; che il 6 maggio i membri della Emancipatrice, convenuti a Trescorre per festeggiare il secondo anniversario della partenza da Quarto, presero accordi con Garibaldi circa i mezzi da predisporre per la concepita impresa; che Mazzini e i mazziniani si studiarono di dissuadere l’Eroe da quel tentativo che a loro modo di vedere doveva reputarsi fallito al suo nascere, e solo in avvenire, con una più lunga propaganda e con una più seria organizzazione, sarebbe divenuto di meno difficile attuazione; che mentre i più noti luogotenenti garibaldini — compresi i trentini Bezzi, Manci e Martini — giravano senza eccessive cautele di città in città per ordinare armi ed uniformi, per formare depositi di provvigioni e per arruolare volontari, Garibaldi domandava, fin dalla fine di aprile, al governo di Torino tutto o parte di quel milione, che era stato promesso per la Grecia, non preoccupandosi di giustificarne l’impiego.

RATTAZZI

RATTAZZI

Il Rattazzi, che allora reggeva il Gabinetto, non doveva dunque essere del tutto al buio dei propositi dell’Eroe, sebbene questi adducesse, a ragione del tramestio dei suoi fidi, la radunata di due battaglioni di carabinieri per debellare il brigantaggio in Calabria e le pratiche per la istituzione dei tiri a segno. Progetti questi sui quali Garibaldi si era accordato col Rattazzi medesimo. Forse il Governo lasciò fare, nella illusione che il fermento ungherese e l’antagonismo prussiano sarebbero per ridurre ai mali passi l’Austria e che Napoleone III fosse disposto a dare aiuti alle nuove gesta italiane miranti a Venezia.

Ben presto queste fallaci speranze svanirono e allora parve al Rattazzi che nella eventualità di una invasione garibaldina nel Trentino, l’esercito regolare si sarebbe visto nella impossibilità di fiancheggiarla con fortuna sul Mincio: di qui il procurato aborto che prende il nome da Sarnico. Il Guerzoni così narra l’episodio che fu causa, certo puramente occasionale, della repressione: ” A Genova una banda di audaci, svaligiato in pieno meriggio il banco Parodi, tenta la fuga sopra una tartana che mesi prima era stata noleggiata a nome di Garibaldi dal colonnello Cattabene, appunto per quella spedizione di Grecia di cui tanto si discorreva e che mai si effettuava. La polizia italiana frattanto, scoperta la via tenuta dai ladri, riesce ad arrestarli in mare sulla tartana medesima; ma qui, trovando fra le carte del Capitano il primo contratto del Cattabene, sospetta questi pure complice del furto, e saputolo a Trescorre presso il Generale, senza badare più che tanto, nella notte del 13 aprile, arresta lui pure e lo traduce come un malfattore ad Alessandria.

IL COLONNELLO CATTABENE

IL COLONNELLO CATTABENE

Proteste del Generale; strida del partito; invano; che al Tribunale soltanto spetta decidere la lite. Se non ché l’autorità, frugando la casa del Cattabene per scoprire maggiori tracce della colpabilità nel furto Parodi, viene inaspettatamente ad avere fra le mani gì’ indizi di un’altra impresa non sospettata fino allora: gli appunti, gli ordini, i piani dell’imminente invasione del Tirolo.

A tal punto anche il Governo si desta, e mentre bandisce illegittimi tutti quegli apparecchi e falsa la vociferata connivenza del Governo, e ferma la risoluzione d’impedire e reprimere quei tentativi, occorrendo anche colla forza, spedisce truppe a sbarrare tutti i passi di Valcamonica e di Valsabbia; ordina che quanti si avviano per quelle valli siano arrestati; pone sotto rigorosa sorveglianza Trescorre stesso e i suoi abitatori”.

Che soltanto il Governo di Torino non fosse a cognizione del vero scopo dei preparativi di Trescorre è ipotesi difficile ad accogliere quando si pensi che dell’ideato colpo di Garibaldi avevano avuto sentore persino i Gabinetti di Parigi e di Vienna, e che per la progettata spedizione erano state raccolte, nel Trentino stesso, seimila lire che Filippo Manci e Nepomuceno Bolognini rimisero, nella villa di Trescorre, nelle mani del Generale. Sembra dunque che il Rattazzi abbia colla sua condotta almeno in parte giustificato gli attacchi dei mazziniani, i quali fecero colpa al Governo di avere incoraggiato e alimentato il tentativo per poi pentirsene e reprimerlo.

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Comunque, gli ordini del Gabinetto furono eseguiti con zelo eccessivo. E lascio di nuovo la parola al Guerzoni: “Il 14 sera, un manipolo di giovani conveniva da ogni parte nei dintorni del lago d’Iseo, manifestamente avviati per la Val Camonica; il 15 il colonnello Nullo e il capitano Ambiveri, seguiti da una più grossa squadra, stavano per raggiungerli; tutto dimostrava che si era alla vigilia di una entrata in campagna. Allora anco i prefetti di Brescia e di Bergamo si riscuotono in sussulto: Nullo, Ambiveri e cinquantacinque dei loro compagni sono presi a Palazzolo. Altri quarantaquattro tra Sarnico ed Alzano Superiore: e i prigionieri, con l’imprudenza che segue sempre le risoluzioni precipitate, sono tradotti parte a Bergamo e parte a Brescia, patria di quasi tutti gli arrestati, le due città più infiammabili d’Italia. E ne apparvero tosto le conseguenze: il popolo bergamasco si accontentò di un tumulto presto sedato; ma il bresciano più sulfureo s’avventa alle prigioni per tentar di liberare i prigionieri. Il picchetto di guardia resiste; spiana l’armi, fa fuoco: un cittadino è ferito, un altro morto, grande lutto e maggior scompiglio in tutta la città”.

GIUSEPPE GARIBALDI

GIUSEPPE GARIBALDI

Gli imprigionati di Palazzolo e di Sarnico, tradotti ad Alessandria, furono ben presto prosciolti; e Garibaldi, che sul principio aveva scagliato le più fiere rampogne contro il Governo, cedette poi al consiglio di inviare al Presidente della Camera una lettera nella quale il divisamento di passar la frontiera era sconfessato e l’azione di Trescorre giustificata con generici fini di educazione militare della gioventù lombarda. L’infelice esito del piano garibaldino del ’62 non scoraggiò i patrioti. Fino a quel punto la propaganda mazziniana non aveva avuto gran presa sugli emigrati trentini. che cercassero di premere sul Governo o che seguissero la popolare bandiera di Garibaldi, essi non pensavano e non miravano che ad un solo scopo : il riscatto del proprio paese. Ma quando alcuno di loro ebbe qualche contezza della trama che Giuseppe Mazzini andava tendendo verso il Veneto, il mandato di coinvolgere in una trama siffatta il Trentino fu da quei benemeriti raccolto, anzi cercato con entusiasmo.

Ergisto Bezzi — divenuto più tardi un mazziniano dei più fervidi e dei più rigidi — fu presentato per la prima volta a Giuseppe Mazzini a Lugano verso la fine di ottobre del 1862, chiamatovi da lui stesso per consiglio di Quadrio e di Brusco Omnis, che glielo avevano descritto come il più valoroso fra i giovani trentini legati a Garibaldi. Ergisto Bezzi si senti soggiogato dalla figura severa e pensosa di Giuseppe Mazzini, e il grande agitatore si persuase ben presto che l’ardito montanaro di Cusiano ben meritava un incarico di alta fiducia nella organizzazione del moto europeo che egli mulinava nel suo pensiero.

ERGISTO BEZZI

ERGISTO BEZZI

Tale organizzazione era delineata ad Ergisto Bezzi medesimo in una lettera che il Mazzini gli inviava da Londra nel febbraio 1863. Egli aveva in mente di far insorgere quasi ad un tempo tutti i popoli oppressi dal Baltico all’Adriatico. Aveva perciò stretto rapporti col partito nazionale russo e col partito nazionale polacco, il primo bramoso di abbattere l’assolutismo, il secondo di riacquistare l’indipendenza nazionale. Il comitato di Varsavia aveva un proprio delegato a Londra; il comitato di Pietroburgo era qui rappresentato dai redattori del Kolokol (la Campana): l’uno e gli altri legati intimamente col Mazzini.

Nell’Oriente europeo l’Agitatore vedeva i serbi disposti ad agire, con o senza il loro principe, per emanciparsi dall’Impero turco e redimere i loro fratelli soggetti all’Austria, i montenegrini sempre pronti ad assaltare per primi le truppe mussulmane, i Bulgari solleciti a seguire il moto serbo, i greci numericamente deboli e scoraggiati dal fallimento del moto di Nauplia, ma ansiosi di approfittare di una qualsiasi contingenza per riconquistare le provincie dominate dalla Mezzaluna: tutta questa catena di elementi facile ad essere ricongiunta da una sollevazione ungherese. E Mazzini prevedeva che tale sollevazione scoppierebbe irresistibilmente, quando l’iniziativa di un assalto all’Austria partisse dall’Italia. ” Fu questa l’idea madre del lavoro che avvenne. Fu la speranza — e da parte nostra la quasi promessa — di questo moto iniziatore italiano, che ha fatto progredire i preparativi”. Ma poiché il Governo italiano si rifiutava ostinatamente a seguire i garibaldini e i mazziniani nell’idea di una invasione armata nel Veneto, pareva a Mazzini indispensabile un principio di rivoluzione che, sollevando l’opinione pubblica, forzasse poi il Ministero a un successivo intervento con truppe regolari sul teatro dell’azione. Ora la chiave di questo moto nazionale ed europeo doveva consistere appunto in una guerriglia di bande armate sulle Alpi trentine: di qui la rivolta si sarebbe poi diffusa nel Veneto, mentre Garibaldi sarebbe accorso con un forte nucleo di volontari a sostenere il moto iniziato intorno a Trento.

GIUSEPPE MAZZINI

GIUSEPPE MAZZINI

Quasi contemporaneamente Giuseppe Mazzini esponeva al Bezzi e al Manci (aggregatosi anch’egli all’ impresa) i particolari del piano insurrezionale del Trentino: il quale poi, come vedremo, subì importanti modificazioni. L’Esule intendeva istituire un comitato rivoluzionario regionale a Trento e comitati figliali nelle singole borgate, impiantare nel paese depositi d’armi e preparare già per la fine di marzo la rivolta, la quale sarebbe subito sostenuta da una invasione di corpi volontari dal confine lombardo. Il Bezzi e il Manci accoglievano con entusiasmo l’idea, anzi, il Bezzi si apprestava a recarsi nel Trentino a disporre le file della cospirazione. Ma entrambi ritenevano prematuro il moto per la fine di marzo, e comunque credevano indispensabile di dare all’ impresa il nome di Giuseppe Garibaldi che allora era a Caprera a ristabilirsi della ferita d’Aspromonte.

GARIBALDI

GARIBALDI

A lui Filippo Manci scrisse, verso la fine di febbraio del 1863, la seguente lettera:

“Generale, Non mi sarei mai permesso di scrivere a voi se la cosa, che sono por esporvi, non me lo avesse prescritto. Mazzini scrisse con molta istanza a Bezzi e a me, alfine d’animarci a preparare e mandare ad effetto un movimento nel Trentino, ed a ciò volle persuaderci mettendoci sott’occhio l’opportunità, e la necessità di fare e tosto perché il movimento ha da essere europeo, e termina promettendoci che Garibaldi raggiungerebbe. Bezzi ed io abbiamo accolto di buon animo tale proposta, come quella che ne porge occasione di operare per il bene del nostro paese, ma non con pari avviso abbiamo osservato al modo e al tempo che Mazzini ne prescrive all’impresa. Egli vuole: 1° Istituire in Trento un comitato regionale, e comitati figliali nelle borgate dipendenti da quella città; 2° Preparare la via perché possano entrare nel paese armi d’ogni genere per le quali s’ hanno da piantarvi depositi; 3° Disporre ed affrettare le cose in modo che verso la fine del prossimo marzo siamo pronti a buttarci nell’ impresa che verrebbe ad essere un’ invasione come quella che doveva aver luogo al tempo di Sarnico.

Prima di tutto occorreva un nome da presentarsi davanti gli occhi di chi primo avrebbe dovuto operare per indurlo con l’autorità ed animarlo con la fiducia. E Mazzini mandò il proprio a tale proposito, quantunque replicatamente noi l’avessimo di già avvertito che il suo nome non servirebbe che di spauracchio; anzi ieridì gli abbiamo scritto dicendogli che non potevamo valerci del suo nome; ma che avremmo scritto a Garibaldi, perché aderisse a firmare col proprio nome un proclama da diffondersi per tutti i paesi del Trentino onde animare quella gente all’impresa. E noi, generale, abbiamo creduto opportuno, anzi necessario di esporvi la faccenda come sta, e di chiedervi il nome per accreditare e per dar vita a tale operazione, perché noi, che ben addentro conosciamo il nostro paese e sappiamo come, dove, e quando si possa operare, siamo certi che, senza il vostro nome, il Trentino sarebbe sordo a qualsiasi chiamata. E tutte queste ragioni le abbiamo per disteso esposte anche a Mazzini.

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Noi siamo adunque risoluti di metterci all’opera con tutta l’anima, ma desideriamo di saper, prima, se voi ne accordate e la vostra approvazione e il vostro sostegno; se fosse altrimenti non solo noi non avremmo animo di fare, ma né il paese risponderebbe per nessun modo e noi, facendo, saremmo abbandonati. Domani Bezzi — avendo ottenuto il passaporto — si reca a Trento con le istruzioni predette, e con l’animo di effettuarle. Ivi attende da me la risposta che avrei ottenuto da voi. Il tempo che Mazzini ci addita come il più conveniente occorrerebbe in sullo scorcio del prossimo marzo. Ma siccome in simili faccende non si può stare col cronometro alla mano, cosi non ci prendiamo affanni per il tempo, il quale sappiamo per esperienza che suole venire da sé stesso. Accogliete, o generale, un nostro saluto che a voi mandiamo con affetto e devozione facendo i più vivi voti per la preziosa vostra salute”.  Filippo Manci

Giuseppe Garibaldi, che a ragione era designato come il solo uomo in nome del quale si potesse promuovere una effervescenza nel Trentino, non rimase indifferente all’invito dei patrioti; ebbe anzi a dichiarare più tardi che ovunque sorgesse una iniziativa, egli vi si farebbe portare in lettiga.

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Il 27 febbraio il Bezzi penetrò nel Trentino per prendervi accordi coi consenzienti e per tendere le prime fila della cospirazione ideata da Giuseppe Mazzini. Adducendo ragioni di famiglia ottenne a Peschiera il rilascio di un passaporto per quindici giorni, salvo l’obbligo di presentarsi, appena a Trento, alla polizia: ciò che si guardò bene dal fare. A Rovereto sostò per organizzarvi un comitato segreto che compose con Emilio Candelpergher, Giuseppe Canella. Alfonso Foradori ed altri amici; indi prosegui per Trento ove dette in pugno al negoziante Giambattista Rossi la direzione di tutto il movimento interno; deviò a Pergine trovandovi Pompeo Panizza inclinato a secondarlo; penetrò poi nelle valli di Non e di Sole, per mettere a parte della cospirazione mazziniana Luigi Moggio di Cles, Giovanni Sassudelli di Malé e Riccardo Devarda di Mezzolombardo e porli tutti in comunicazione col comitato di Trento, ove fece ritorno dopo circa dodici giorni di peregrinazioni. Meditava di diramare il complotto anche verso Riva e Arco e verso la valle delle Giudicarie che si riteneva più delle altre propensa a dare impulso al moto e che toccando il confine lombardo era destinata a rompere l’ insurrezione per la prima.

GIUSEPPE CANELLA

GIUSEPPE CANELLA

Se non ché a Trento i compagni di fede lo prevennero che la polizia era sulle sue tracce e già gli perquisiva le valigie all’albergo. Citato a comparire presso il commissario, esibì il passaporto e giustificò i suoi viaggi coll’intenzione di visitare i parenti, ma la spiegazione non soddisfece. Gli fu invece intimato lo sfratto a tempo indeterminato, e la gendarmeria ne prese sopra di sé la immediata esecuzione, traducendolo sotto buona scorta a Limone sul Garda. Il contrattempo non raffreddò i suoi entusiasmi, che anzi a Limone stesso — ove si trattenne qualche giorno e tornò anche poi — fu per suo merito spinto innanzi con ardore il lavorio di preparazione. Convennero qui con lui alcuni consenzienti della bassa Val Sarca e delle Giudicarie, e cioè Andrea Zaniboni, Vincenzo Andreis e Giuseppe Cattoi di Riva, Giacomo Tamanini dimorante a Tione e probabilmente Ignazio Buffi di Saone. A costoro dette incarico di predisporre l’insurrezione nelle valli rispettive e prese accordi collo speditore Risatti di Limone per l’introduzione nel Trentino della corrispondenza, del vestiario, delle armi, delle munizioni e di tutto il materiale necessario all’impresa.

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Al Bezzi era stata affidata non solo l’orditura del complotto trentino, ma anche una ingerenza su quello veneto, che si voleva far scoppiare quasi contemporaneamente. Per rendere più attiva l’organizzazione della rivolta, egli prescelse a Milano nuovi collaboratori fra i suoi più cari compagni d’armi della spedizione di Sicilia e del Napoletano, e cioè, oltre al Manci, Filippo Tranquillini, il conte Francesco Martini, Attilio Bonapace, Camillo Zancani, Giuseppe Fontana. Antonio Mattei aveva analogamente adunato congreghe di cospiratori e attivato scambi di corrispondenza in tutto il Cadore e nei sette comuni, con centro a Treviso , e il dott. Andreuzzi, medico di San Daniele, impiantava in Udine un Comitato friulano. I fondi richiesti per queste preliminari operazioni di tessitura rivoluzionaria erano somministrati esclusivamente da Giuseppe Mazzini che li raccoglieva mediante sottoscrizioni fra i patrioti più generosi.

Il piano della sollevazione andava intanto meglio delineandosi nella mente del grande genovese, ed egli lo spiegava in tutti i particolari nelle istruzioni che di continuo inviava ad Ergisto Bezzi. Sua prima idea era stata quella di impiantare depositi di armi di qua e di là del confine perché i volontari potessero servirsene al momento opportuno; aveva anzi fatto acquistare a questo scopo a Londra seicento carabine Enfield, commettendone la compera all’ingegner Muller che si trovava appunto nella capitale inglese ad acquistare fucili per la guardia nazionale, d’ incarico dello Stato italiano. Quando però poté essere meglio informato circa la vigilanza che il Governo manteneva al confine, cambiò pensiero. E scrivendo al Bezzi si dichiarò contrario a formare depositi di armi che avrebbero potuto essere facilmente scoperti. Piuttosto che inviare fucili oltre il confine, era preferibile che gli affiliati veneti e trentini si procurassero direttamente ed individualmente le armi nel Tirolo tedesco, ove si vendevano buoni moschetti in abbondanza. Attesa poi la sorveglianza che le truppe regie esercitavano presso il Caffaro ed il Tonale e sul Mincio dopo il fatto di Sarnico, non era prevedibile che gli ausiliari cui incombeva gettarsi nel paese allo scoppio della rivolta potessero riunirsi prima di valicare la frontiera. Conveniva piuttosto studiare i possibili punti di convegno al di là del confine ove, per viottoli non vigilati, dovessero alla chetichella recarsi i volontari a due o tre per volta, celandosi inoperosi in un bosco o in qualche nascondiglio per dar tempo ai compagni di convergere nello stesso punto da sentieri diversi.

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L’ Esule incitava infine il patriota trentino a informarsi di tutti i luoghi della Bresciana ove fossero adunate armi, (depositi di guardie nazionali, di municipi), affinché, al momento di invadere il territorio austriaco, le bande potessero impadronirsene; e ad informarsi parimenti, nelle provincie irredente, sui piccoli nuclei di truppa isolati in località accessibili, sui minuscoli presidi delle città di terz’ordine e sui posti di dogana, per modo che a un segnale convenuto i drappelli di insorti, muniti di armi bianche e di bombe alla Orsini, avessero a piombare su quei gruppi di soldati, disarmarli, e ritirarsi poi rapidamente sui monti.

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“Queste sorprese esigono coraggio, studio minuto delle località ed esattezza d’esecuzione, ma sono più che possibili, e i polacchi, nell’ ultima insurrezione, se ne valsero in più luoghi. Hanno il vantaggio di cominciare una banda con una impresa che pone fuor di combattimento un certo numero di nemici e agita il paese”.

Questi ed altrettanti consigli però non erano sufficienti a stimolare l’opera degli affiliati trentini. Acquistare armi nel Tirolo tedesco non era cosi agevole pratica come se la raffigurava il Mazzini; egli stesso d’altronde stentava a raggranellare i mezzi pecuniari indispensabili a dare un principio di solidità all’impresa; molti fra gli amici dell’ Esule si mostravano sfiduciati nei destini d’Italia e anziché operare in patria, andavano cercando avventure in terra straniera: d’altra parte, alcuni dei capi più autorevoli delle disciolte associazioni democratiche mal tolleravano di essere stati esclusi dall’esecuzione della vasta trama ideata dall’Agitatore.

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Ma — quel che è più — i trentini, compreso il Bezzi, non si stimavano da tanto di scuotere il popolo e di promuovere con garanzia di buon successo la sollevazione, se Garibaldi non si fosse esplicitamente impegnato ad assumerne la paternità. Il Generale, che languiva a Caprera non ancora risanato della ferita d’Aspromonte, il 14 maggio scriveva a Mazzini che dopo Sarnico ed Aspromonte non aveva più fede si volesse operare sul serio sulle Alpi o nel Veneto, che se fosse venuto prima del moto o il moto fosse abortito, egli avrebbe raccolto un terzo fiasco, che perciò non si sentiva di passare nel Continente: ma che quando gli venisse mostrato alcunché di seriamente intrapreso, griderebbe a tutta possa e si farebbe portare dove la sua opera potesse riuscire di qualche utilità.

Ai cospiratori veneti e trentini simili dichiarazioni sembravano insufficienti, e il Bezzi di rimando scriveva all’Esule: “Ve lo abbiamo detto e ve lo ripetiamo: senza Garibaldi non si può far niente, a meno che non si mova l’Ungheria”.  Al che il Mazzini, più di tutti bramoso di venire a una risoluzione, replicava:” Se s’ intende d’azione diretta da Garibaldi, siccome egli è ferito e non può darla, è finita per ogni cosa.  Se l Ungheria deve muovere prima di noi, siccome nol farà, anche per questo verso è finita … Ora è necessario intenderci seriamente. Se gli uomini dell’ interno vogliono più, se per fare esigono Garibaldi in azione o l’Ungheria insorta anteriormente, è chiaro che non dobbiamo fare … Deploro altamente questa idolatria che fa dipendere dalla salute d’ un uomo, qualunque siasi, l’adempimento di un dovere patrio, ma se esiste bisogna rassegnarsi …  Allora intendete che, tenendo sempre Trento e Venezia per obbiettivo e continuando il lavoro, avremmo il tempo di collocare il materiale quando nessuno ci pensa e senza rischio, e avremmo — dacché le truppe finiranno per andarsene — agio di pigliare i nostri punti …

VITTORIO EMANUELE

VITTORIO EMANUELE

In aprile del 1863 Giuseppe Mazzini era venuto a Lugano, ove aveva in quello stesso mese iniziato per mezzo del Mùller e del Pastore segrete trattative con Vittorio Emanuele per indurlo ad entrare nel suo ordine di idee rispetto alla questione veneta. Frattanto l’accordo con Garibaldi si andò maturando, e dopo varie visite a Lugano delle più eminenti personalità dei partiti democratici, e dopo numerose corrispondenze con Caprera fu stabilito che fosse nominato un Comitato centrale unitario composto di un presidente e di sette membri, dei quali quattro proposti dal Generale e tre da Mazzini. I nominati furono: Cairoli presidente, Corte, Guastalla, Guerzoni, Missori, Manci, Bezzi e Lemmi. Fu convenuto, per condizione posta dallo stesso Mazzini, che il lavoro di organizzazione nei territori ancora dominati dall’Austria, e le corrispondenze dei comitati veneti e trentini rimanessero nelle mani del Bezzi e del Manci, come intermediari fra i medesimi e il Comitato, mentre a questo sarebbero spettati il consiglio e la direzione morale dell’agitazione, la propaganda agitatrice e l’apprestamento, nell’Italia libera, dei mezzi di cooperazione e di aiuto alle Provincie non ancora unificate.

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L’ ufficio dell’ Unità italiana divenne il locale di convegno degli iniziati al grande progetto, il focolare domestico, per cosi dire, della cospirazione nazionale. In corrispondenza coi comitati costituiti fuori del Regno altri se ne formarono nelle città lombarde vicine alla frontiera: a Brescia, a Desenzano, a Castiglione delle Stiviere. Per provvedere il denaro indispensabile all’opera del Comitato furono distribuiti bollettari, venduti a migliaia di copie per tutta Italia ritratti del ferito d’Aspromonte e dell’esule genovese, aperti al pubblico bazar e fiere patriottiche con oggetti donati, invitate le donne italiane a privarsi di un anello d’oro e ad offrirlo a Garibaldi per la santa causa.

Cosi l’attività rivoluzionaria, dopo un periodo di penose esitanze, si risvegliava e sembrava promettere buoni risultati: purtuttavia, dato il tempo perduto nelle trattative e gli ostacoli incontrati, e anche in considerazione dello stato di salute di Garibaldi e di Mazzini — quest’ultimo colpito durante l’estate da grave infermità a Lugano — il colpo studiato non poté ormai esser mandato ad esecuzione né nella primavera del 1863, secondo il primo progetto di Mazzini, né per tutto quell’anno. Sempre in attesa del momento propizio, i preparativi fervevano. La fornitura delle armi per l’ insurrezione, che l’Agitatore genovese aveva consigliato di acquistare individualmente nell’interno dell’Austria senza costituire depositi, risultava nella pratica tutt’altro che facile: cosicché egli dovette riprendere il suo anteriore progetto di introdurre i fucili di contrabbando dalla Lombardia. Per traghettare dall’una all’altra sponda del Garda questi fucili, come pure le baionette, le bombe alla Orsini, le cartucce, le camicie rosse, la corrispondenza, i manifestini di propaganda, si formò a Limone una conventicola della quale facevano parte Massimiliano Bazzanella di Riva, l’avvocato Guarnieri di Fonzaso ed il dottor Bordignoni di Feltre; si fissò a Riva, in stretta intelligenza con costoro, l’emigrato conte Francesco Martini, fermandovisi una prima volta dal 1° aprile 1863 a tutto giugno, ed una seconda volta per due settimane lungo il mese di agosto. Questa seconda volta, dopo 15 giorni di permanenza, fu messo al confine dalla polizia.

ERGISTO BEZZI

ERGISTO BEZZI

Più tardi (dicembre) un altro emigrato, Attilio Bonapace, intraprese un viaggio di esplorazione dall’una all’altra vallata col preciso scopo — sembra — di cercare un collocamento al materiale trafugato. Prime ad essere introdotte furono le bombe: portate a Limone in borse da viaggio dallo Zancani e dal Bezzi, esse penetrarono in tre riprese e in numero di venti o trenta, fra il giugno ed il luglio 1863, e furono spartite fra Trento, Pergine, la Valle di Non e la Valle di Sole. In quel tempo gli speculatori facevano incetta di pezzi da cinque centesimi austriaci per spedirli nel Veneto, e i doganieri lasciavano passare quelle borse senza neppure guardarvi dentro, supponendole piene di quella moneta.

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Nel gergo dei cospiratori le bombe si chiamavano cotoni e bambagia. Tutta la corrispondenza era del resto metaforica o cifrata. Si scriveva, ad esempio, E. Muller e Comp., Ersilia Brasavola, Verzegnasi, Bonacina Dionisio per designare Ergisto Bezzi, Boschetti per Ignazio Buffi, Giacomo Ferri per Andrea Zaniboni, Foglia per Giacomo Tamanini, Tranquilli per Vincenzo Andreis, Matteo Pederzolli per Matteo Futten, Antonio Ebner per Emilio Candelpergher, Adolfo Keppener per Giuseppe Canella, Brennero e Luigi Fiori per Giovanni Battista Rossi, Moscherisio per Pompeo Panizza, Bellini per Massimiliano Bazzanella, Bazzica per Carlo Sega, amico Checco per Francesco Martini, amico di Mori per Giambattista Briccio, Vitto Keller per Moggio, Antonio Cuen per Eduino Chimelli, ecc. Il refe e le sementi erano i proclami, i filatori i giovani da arruolarsi per la sommossa, il vecchio, Garibaldi. Fra le cifre notiamo il numero 3 per volontari, il 14 per confini, il 38 e 39 per Friuli e Cadore, il 51 per Governo italiano, il 52 per Garibaldi, l’81 per Comitato.

Per risvegliare bruscamente l’attenzione dell’opinione pubblica italiana su Trento, Ergisto Bezzi scrisse al Rossi che in occasione delle feste centenarie del Concilio che dovevano tenersi in quella città alla fine di giugno, e si annunziavano come una dimostrazione papista ed anti-italiana, ne fosse lanciata qualcuna in quella congrega di prelati.

Il suggerimento fanatico dettato da un accesso di ardore patriottico non fu però seguito dai trentini, i quali si preoccuparono della fosca luce che quell’atto incendiario avrebbe gettato sulla loro terra. Si pensava altresì a predisporre l’animo delle popolazioni alla riscossa, e in vista di ciò si diffondevano in varie riprese proclami, lettere di Garibaldi e di Mazzini riprodotte in litografìa, inviti del Comitato d’azione veneto ad armarsi per la redenzione della patria. Contemporaneamente erano acquistati e spediti fucili: a preferenza moschetti di cacciatori austriaci, per la comodità di rifornirli di munizioni. Giberne, scarpe, camicie rosse si andavano qua e là apprestando, e specialmente a Brescia, ove si formò una specie di magazzino militare, donde muoveva tutto l’occorrente per l’equipaggiamento dei volontari di oltre il confine. Una prima spedizione d’armi fu eseguita direttamente su carri di fieno da Milano a Lonato e di là per cura di un fratello di Carlo Antongini, a Limone; altre armi furono mandate a destinazione entro balle di stracci, avendo accettato di cooperare all’ uopo i fratelli Andreoli di Milano, proprietari di una cartiera a Toscolano sul lago di Garda. A Riva il materiale era recapitato a Vincenzo Andreis e ad altri compagni, che poi ne curavano la prima custodia. Nel novembre però, in seguito alla presa determinazione di localizzare il primo atto insurrezionale verso Tione e le Giudicarie, il comitato di importazione si trasferì da Limone a Bagolino. Di qui una partita di almeno centocinquanta fucili fu trafugata nel dicembre da Ignazio Buffi e da Giacomo Tamanini attraverso la valle di Daone e nascosta in una legnaia presso lo stabilimento balneario di Comano, donde Valeriano Vianini che l’aveva ricettata, nella tema che i funzionari inviati a visitare lo stabilimento la scoprissero, la fece nascondere dentro una grotta della montagna di Saone.

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Questa grotta si trovava alla cosiddetta piazza dell’orso sul monte Predazzo, presso Saone. Qui la polizia rinvenne il 21 agosto 147 fucili, 147 baionette, 64 foderi di pelle per baionette, 63 camicie rosse alla garibaldina, 19 paia di calzoni e 74 sacchi per pane e munizioni. Vi erano state trasportate dallo stabilimento di Comano alla fine di maggio. Un piccolo deposito di armi si trovava anche nel sottotetto della chiesetta di Pra di Bondo ((Giudicarie), donde passò poi alla grotta del Monte Predazzo. Molti carrettieri e contadini che cooperarono al trasporto dei fucili, delle munizioni e delle camicie rosse nelle Giudicarie e presso Riva furono poi coinvolti in un processo.

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Indumenti, proclami, pistole, fucili, bombe circolarono impunemente per più di un anno senza che la polizia austriaca se ne avvedesse : segno non dubbio delle disposizioni patriottiche della popolazione.’ Molti alpigiani, segnatamente giudicariesi, si prenotavano presso i singoli comitati locali per prendere le armi a un segnale convenuto, mentre nella Lombardia, nella Liguria e in altre regioni d’ Italia centinaia di giovani attendevano da Garibaldi e da Mazzini la parola d’ordine per ricostituire le schiere. Ma il Governo italiano che, deciso ad evitare complicazioni, spiava ogni batter di ciglia dei rivoluzionari, riuscì un giorno a sorprendere e sequestrare un carico d’armi diretto al confine. L’Antongini, indiziato quale responsabile del trafugamento, fu processato e assolto poi dai giurati di Milano, plaudente tutta Italia: ed Ergisto Bezzi, ricercato per ogni dove dalla questura, dovette starsene rimpiattato tre mesi per sottrarsi al mandato di cattura.

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Ad onta di questo e di altri disappunti, si sperava ugualmente di poter dar fuoco alle mine a primavera del 1864. Il Zaniboni che già si era abboccato con Ergisto Bezzi a Limone nell’estate del 1863, si recò, fra la fine di dicembre e i primi di gennaio, a Brescia, ove prese importanti accordi col Bezzi, col Tranquillini e con altri membri del partito d’azione. Di ritorno indisse un convegno a Rovereto, ove si fecero trovare con lui Emilio Candelpergher, Giosuè Pavani, Agosto Marsilli e Giambattista Rossi. Da Rovereto i cospiratori passarono ad Isera, nell’abitazione di Cesare Cavalieri. Categoricamente interrogati dal Comitato di Milano, se i trentini contassero su centocinquanta giovani a tutta prova coi quali impegnare la rivolta avrebbero voluto rispondere senza esitazioni, ma la difficoltà dell’impresa li lasciava titubanti.

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Filippo Tranquillini, che di sfuggita era ritornato a Mori sua patria, riunì qui nuovamente il 31 gennaio il Zaniboni, il Pavani, il Rossi, il Canella e il Briccio e ottenne da loro, nonostante qualche riserva, giustificata dallo scarso appoggio dal quale i patrioti si ritenevano secondati nel Regno, una risposta favorevole sull’esito sperabile degli arruolamenti.

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