HITLER vs INGHILTERRA – 1

a cura di Cornelio Galas

Mai, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si è affacciata alla mente di Hitler l’idea di invadere l’Inghilterra. Questo paese è la sua bestia nera, il nemico principale della Germania. Dev’essere isolato e battuto. Ma per ottenere questo risultato il Führer non ritiene che sarà necessario inviare un esercito ad occuparlo. Il 23 maggio 1939, quando ha informato i propri consiglieri militari della decisione di attaccare la Polonia alla prima occasione favorevole, Hitler ha dato anche una prima indicazione della strategia che intende adottare nei riguardi dell’Inghilterra.

Con la sconfitta del Belgio, dell’Olanda e della Francia, «si saranno creati i presupposti indispensabili per una guerra vittoriosa contro l’Inghilterra. Dalle basi della Francia occidentale l’Inghilterra potrà essere ridotta ai ferri corti dalla Luftwaffe, mentre la marina potrà ampliare il raggio d’azione del blocco con i sommergibili». Basterà insomma tagliare i rifornimenti perché le isole britanniche si arrendano. Battuta la Polonia, in Germania si approntano i piani per l’offensiva in Occidente.

La strategia adottata contro l’Inghilterra è sempre la stessa. Scopo dell’offensiva, spiega infatti Hitler il 9 ottobre, è conquistare una zona «da impiegare come base […] per condurre la guerra sul mare e nell’aria contro l’Inghilterra». L’ammiraglio Raeder, comandante in capo della marina tedesca, riassume così la posizione del Führer: «Dobbiamo cercare, mediante l’azione offensiva in Occidente e un’avanzata nella zona costiera francese della Manica, di procurarci buone basi strategiche per una guerra offensiva contro l’Inghilterra, con sommergibili, mine e aerei» (25 novembre). All’invasione si comincia a pensare negli ultimi due mesi del 1939, quando il problema viene affrontato per la prima volta dagli stati maggiori della marina, dell’aviazione e dell’esercito tedeschi.

Le conclusioni sono negative. Per garantire il successo dell’operazione la Luftwaffe pone due condizioni irrinunciabili: l’assoluta superiorità aerea e la sorpresa. Ma le note più dolenti vengono dalla marina che, consapevole del predominio britannico sui mari, appare molto scettica sulla possibilità di proteggere dagli attacchi navali inglesi la flotta destinata all’invasione. Ancorché, alla fine di dicembre, il progetto è giudicato irrealizzabile e la prospettiva di un’invasione rinviata a dati da destinarsi.

Per quasi cinque mesi, dell’Inghilterra non si parlerà più. Solo il 20 maggio 1940, mentre le divisioni corazzate di von Rundstedt raggiungono la costa della Manica, un Hitler «fuori di sé dalla gioia» si rimette a pensare al suo mortale nemico. Hitler vuole l’invasione della Gran Bretagna L’occasione è rappresentata dalla formulazione delle condizioni di armistizio da imporre alla Francia battuta.

«Gli Inglesi», annota Jodl nel suo diario, «potranno ottenere una pace separata subito dopo la restituzione delle colonie». Ma il giorno dopo, forse trascinato dall’entusiasmo per i successi dell’offensiva sul Fronte Occidentale, Hitler accantona provvisoriamente l’idea di una pace separata con l’Inghilterra e prende per la prima volta in seria considerazione quella di un’invasione. Raeder, come si legge nel diario di guerra dello stato maggiore della marina, «discute in privato col Führer la possibilità di un futuro sbarco in Inghilterra».

Tutti sanno che l’ammiraglio non vede di buon occhio tale possibilità. È dunque assai probabile che durante il colloquio con Hitler egli si affretti a gettare un po’ d’acqua sul fuoco del suo entusiasmo. In effetti, le direttive del 24 e del 26 maggio 1940 sono più caute di quanto ci si potrebbe aspettare. Rilevando «l’imminente conclusione delle operazioni in Belgio e nella Francia settentrionale» Hitler autorizza la marina ad intensificare la lotta contro le isole britanniche e garantisce «illimitata libertà d’azione» alla Luftwaffe contro il territorio metropolitano inglese: questo, però, solo quando sarà possibile disporre delle forze impegnate in quel momento sul Fronte Occidentale.

Le direttive, commenta lo stato maggiore della marina, «indicano chiaramente l’obiettivo di questa guerra, l’annientamento del principale nemico, l’Inghilterra. La strada per sconfiggerlo consiste nella distruzione della Francia […], nel ridurre alla fame le isole britanniche e nell’abbattere il suo potenziale economico di lotta». L’impressione è che Hitler, nonostante la soddisfazione per il favorevole andamento della campagna di Francia, o forse proprio per questo, non abbia ancora scartato l’idea di una pace separata con l’Inghilterra.

Il 24 maggio, parlando con von Rundstedt, ha avuto parole di ammirazione per l’Impero britannico e ha sottolineato la «necessità» della sua esistenza. Da Londra vuole una cosa sola: mano libera sul continente. Il dittatore tedesco non ha dubbi: con la Francia fuori combattimento, l’Inghilterra non vedrà l’ora di chiedere la pace. Tanto grande è la sua certezza che, nell’attesa di quel momento, né lui né il suo stato maggiore elaborano piani per il proseguimento della guerra con la Gran Bretagna. Invece di occuparsi degli Inglesi, Hitler guarda a Oriente: la minaccia russa nei Balcani e nel Baltico gli sembra la più pericolosa.

Tutti, d’altronde, si chiedono perché l’Inghilterra, caduta la Francia, dovrebbe continuare a combattere da sola una battaglia che appare disperata. Sia il papa sia il re di Svezia hanno già offerto la loro mediazione per una pace equa e onorevole, mentre a Washington l’ambasciata tedesca moltiplica gli sforzi per appoggiare gli isolazionisti nella loro campagna destinata a tenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto. Al fiorire di queste iniziative reagisce rabbiosamente Winston Churchill, che fin dai giorni dell’evacuazione di Dunkerque non ha perso un’occasione per proclamare la propria «inflessibile decisione di continuare la guerra» contro la Germania. A credergli sono in pochi. A Berlino si è addirittura convinti che la guerra sia quasi finita.

Churchill, invece, fa sul serio, e la storia lo dimostrerà. Ma come si prepara l’Inghilterra all’invasione? Subito dopo lo scoppio della guerra è iniziato lo sfollamento dei bambini da Londra, la città che si ritiene più direttamente minacciata. Fra il 1939 e il 1940 circa due milioni di bambini vengono sistemati, con maestre e vigilatrici, in case di campagna. Ciascuno di essi è munito di targhetta d’identificazione, maschera antigas, spazzolino da denti, asciugamano e un paio di mutande di ricambio. Li seguono numerose donne incinte, vecchi, invalidi. Per paura degli aerei nemici si procede al più rigoroso oscuramento, col risultato di far salire alle stelle il numero degli incidenti stradali.

Per disorientare i Tedeschi in caso d’invasione, si spiantano tutti i paletti delle segnalazioni stradali, col risultato di far perdere la testa agli automobilisti inglesi. Oltre ai soliti mezzi antisbarco – tronconi di rotaia, cavalli di frisia ecc. – si riempiono dei fusti di una miscela di calce, petrolio e catrame: dovranno essere incendiati e fatti rotolare davanti ai carri armati. Tubazioni di petrolio stese lungo le coste spanderanno sull’acqua il carburante che, incendiato, impedirà alle truppe di sbarcare. Tre forti marini su pontoni di cemento, irti di cannoni, vengono affondati davanti a Liverpool, quattro nell’estuario del Tamigi. Londra si prepara.

Per difendersi dalle incursioni aeree si distribuiscono gratuitamente agli abitanti di Londra due milioni di «rifugi Anderson», così chiamati dal nome del ministro dell’interno sir John Anderson. Sono, in pratica, delle capannucce di lamiera ondulata che dovrebbero essere interrate a grande profondità. A vederli non danno grande affidamento. Si è poi dimenticato che quasi tutti i cortili delle case di Londra, specie nei quartieri poveri, sono piccolissimi e coperti di grossi strati di cemento. Anche per questo, durante i bombardamenti, molti londinesi preferiranno rifugiarsi nelle trincee scavate nei parchi, nei rifugi di mattoni e nelle stazioni della metropolitana.

Preti, contadini e generali a riposo affluiscono nella Home Guard. Nell’agosto del 1940 questa forza difensiva ausiliaria annovera più di un milione di persone. Alcune vengono addestrate a correre su pattini a rotelle là dove sembra che stia per atterrare un paracadutista tedesco allo scopo di farlo prigioniero, altre a mettere i motori fuori uso versando dello zucchero nel serbatoio o a confezionare rudimentali bombe molotov col cherosene normalmente usato in cucina. Le donne partecipano attivamente allo sforzo bellico britannico. Fanno le staffette in motocicletta, le portalettere, le operaie nelle fabbriche di munizioni, le autiste di ambulanze. Raccolgono ossa, rottami metallici e tutti i rifiuti che prima si bruciavano per risparmiare sulle spese della nettezza urbana.

Migliaia di massaie portano migliaia di pignatte e casseruole d’alluminio che serviranno alla costruzione di nuovi aerei. Un pari d’Inghilterra offre la carrozzeria della sua Rolls-Royce e trasforma il resto del veicolo in una specie di mensa semovente. Nel mese di maggio, con l’avvicinarsi dei Tedeschi alla Manica, dilaga in Gran Bretagna la paura delle spie e dei sabotatori. Comincia una «caccia alle streghe», forse inevitabile ma sempre deplorevole.

Il 12 maggio, due giorni dopo l’invasione nazista dei Paesi Bassi, si procede al fermo di 2000 forestieri, per lo più di origine austriaca e tedesca, le cui abitazioni sorgono a meno di venti miglia dalla costa. Molti altri sono presi in custodia dalla polizia nei giorni seguenti. Infine, il 27 maggio, nell’infuriare di una violenta campagna di stampa, tutti gli altri uomini e donne nati in paesi ostili all’Inghilterra vengono arrestati e internati in campi di concentramento ricavati da ippodromi, fabbriche abbandonate ed eleganti tenute di campagna. Di lì a poco vanno a raggiungerli 4000 Italiani, arrestati dopo l’entrata in guerra dell’Italia.

Nell’estate del 1940 dietro il filo spinato dei campi inglesi ci sono quasi 50.000 persone. L’ondata xenofoba suscita la reazione di una parte dell’opinione pubblica, che fa notare come tra gli internati vi siano molti profughi e molti antinazisti. Piano piano cominciano i rilasci e, in due anni, nei campi rimarranno solo 5000 persone. Hitler, intanto, appare perplesso e incerto. Il 14 giugno 1940 decide di smobilitare parzialmente l’esercito, portandolo da 160 a 120 divisioni.

Tre giorni dopo il generale Warlimont, dello stato maggiore di Jodl, informa il comando della Marina che il Führer non ha ancora espresso l’intenzione di compiere uno sbarco in Inghilterra «poiché valuta perfettamente le eccezionali difficoltà di una simile operazione». Per questo, fino ad allora, l’alto comando delle forze armate non ha preparato alcun piano. Il 18 giugno Hitler incontra Mussolini a Monaco per discutere con lui le condizioni dell’armistizio da imporre alla Francia.

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Al ministro degli esteri italiano, presente all’incontro, il Führer appare piuttosto riluttante a prendere in considerazione la possibilità di uno smembramento dell’Impero britannico, «che considera ancora oggi un grosso fattore d’equilibrio nel mondo». Hitler, dice Ribbentrop al conte Ciano, «non desidera la distruzione dell’Impero britannico. Egli chiede che l’Inghilterra rinunci ad alcune sue posizioni e riconosca il fatto compiuto. A tali condizioni Hitler sarebbe disposto a giungere ad un’intesa». Inquietudini del Führer

Sempre convinto che Churchill bluffi e che l’Inghilterra stia per venire a patti, anche perché nel frattempo gli è giunta all’orecchio la notizia che alcuni autorevoli circoli londinesi sarebbero disposti a trattare, Hitler attende per tutta la seconda metà di giugno che il governo britannico ammetta la sconfitta e si dichiari pronto alla pace. L’attesa non dà alcun frutto. Il 1° luglio, durante una conversazione con Dino Alfieri, Hitler manifesta il suo stupore: non capiva, dirà l’Italiano, «come ci fosse ancora qualcuno in Inghilterra capace di credere seriamente alla vittoria».

Il giorno seguente si registra un brusco cambiamento di rotta. «Il Führer ha deciso che uno sbarco in Inghilterra è possibile», leggiamo nelle prime direttive dell’OKW, «purché si consegua la superiorità aerea». La data dell’attacco non è ancora stata fissata, ma i preparativi devono essere iniziati, immediatamente. Per riservarsi la possibilità di un’eventuale marcia indietro, l’alto comando della Wehrmacht aggiunge però che «l’invasione è ancora allo stato di progetto e non è stata ancora decisa».

L’incertezza domina i Tedeschi. Il 7 luglio Ciano vede Hitler a Berlino. Lo trova inquieto, nervoso. Vorrebbe, scriverà, «scatenare una bufera d’ira e di ferro sugli Inglesi. Ma la decisione finale non è stata ancora presa… ». Cominciano i sondaggi dei capi delle tre armi. L’11 luglio Raeder è da Hitler. Consiglia d’impegnarsi immediatamente contro la Gran Bretagna, approfittando della sua impreparazione militare, ma l’invasione lo lascia freddo. La si tenti, se è proprio necessario, solo come strumento di pressione, come «mezzo estremo» per costringere il nemico a chiedere la pace. Ma questo scopo, insiste l’ammiraglio, può essere raggiunto senza ricorrere all’invasione. Basterà bloccare le importazioni con i sommergibili e attaccare con gli aerei i convogli e i centri principali.

Due giorni dopo Hitler riceve i generali. Quella sera Halder annoterà nel suo diario: «Il Führer è ossessionato dalla domanda: perché l’Inghilterra non vuole ancora prendere la via della pace?» Lo stesso giorno, il 13 luglio, Hitler scrive a Mussolini declinando la sua offerta di truppe e aerei italiani per l’invasione dell’Inghilterra. Il suo tono è sdegnato e deluso: “Ho fatto all’Inghilterra tante proposte per un accordo, addirittura per una collaborazione, e sono stato trattato in modo così ignobile che ormai sono convinto che ogni nuovo appello alla ragione«Ho verrebbe da essa egualmente respinto. Perché, in quel paese, oggi a regnare non è la ragione… ».

Passano ancora tre giorni e, il 16 luglio, Hitler ha deciso. Viene diramata la direttiva numero 16 per la preparazione di operazioni di sbarco contro l’Inghilterra. «Poiché l’Inghilterra, a dispetto della sua situazione militare disperata, non mostra ancora di voler venire a patti, ho deciso di preparare un’operazione di sbarco contro di essa e, se necessario, di eseguirla. Scopo di tale operazione sarà l’eliminazione del territorio metropolitano inglese come base militare di operazioni contro la Germania e, qualora dovesse risultare necessario, la completa occupazione di esso».

È nata l’«Unternehmen Seelöwe» (Operazione Leone Marino). La sua preparazione dovrà essere portata a termine entro la prima metà di agosto. I piani di «Leone Marino» Il 17 luglio si designano le forze destinate all’operazione e si completa il piano di sbarco. Tredici divisioni scelte saranno concentrate sulla Manica per la prima ondata: sei s’imbarcheranno a Calais per raggiungere la costa inglese tra Ramsgate e Bexhill; quattro prenderanno il mare a Le Havre per sbarcare nella zona tra Brighton e l’isola di Wight; tre lasceranno il porto di Cherbourg per la baia di Lyme.

In tre giorni il comando tedesco prevede di sbarcare in Inghilterra 260.000 uomini, coadiuvati da forze paracadutate e seguiti da una seconda ondata di mezzi corazzati (non meno di sei divisioni di carri armati appoggiate da tre divisioni motorizzate). Tutte queste operazioni, afferma von Brauchitsch, saranno condotte a termine in un mese. Il piano della Wehrmacht lascia scettico Raeder. La Marina non ha il naviglio necessario e il fronte (più di duecento miglia da Ramsgate alla baia di Lyme) è troppo vasto. Quando s’incontra con Hitler, che vorrebbe cominciare il 31 luglio, l’ammiraglio dice subito che è impossibile: l’ideale, meteorologicamente parlando, sarebbe preventivare il tutto per il maggio dell’anno seguente; in ogni caso, se proprio si deve fare qualcosa, il via non potrà essere dato prima del 15 settembre. Il Führer accetta.

Churchill

Si deciderà se l’operazione dovrà essere effettuata in settembre, o rinviata al maggio 1941, «dopo che l’Aviazione avrà compiuto attacchi concentrati contro l’Inghilterra per un’intera settimana». L’ampiezza del fronte, però, provoca un grave dissidio tra Esercito e Marina. Mentre il primo, sopravvalutando le forze britanniche, conta proprio nella creazione di numerose teste di ponte per non essere ricacciato in mare, la seconda insiste per ridurlo: altrimenti, si obietta, nello sforzo di proteggere un fronte troppo vasto, la Marina potrebbe perdere anche tutte le sue navi.

Quando, il 7 agosto, il capo di stato maggiore dell’Esercito incontra il capo di stato maggiore della Marina, la situazione raggiunge un punto morto. Accorciare il fronte di sbarco, dice Halder a Schniewind, sarebbe per l’Esercito «un vero suicidio». Mantenere un fronte così ampio, ribatte il vice di Raeder, sarebbe, data la superiorità navale britannica, «parimenti un suicidio». Tra le due posizioni, Hitler, poco esperto di cose di mare e forse per questo più propenso a farsi consigliare, tende ad aderire a quella della Marina.

Verso la metà di agosto, senza spostare la data d’inizio dell’operazione, decide infatti di rinunciare allo sbarco nella baia di Lyme, accorciando notevolmente il fronte. Raeder è soddisfatto, ma Halder commenta il 23 agosto, in una nota stenografica, del suo diario: «Su tali basi, un attacco quest’anno non ha la minima probabilità di successo». Intanto, il 19 luglio, Hitler aveva fatto l’ultima proposta di pace all’Inghilterra. Parlando al Reichstag, si era scagliato contro Churchill e la sua «cricca», che volevano continuare la guerra, e aveva invitato il popolo inglese a riflettere sulle conseguenze alle quali, in tal caso, sarebbe andato incontro.

I capi scapperanno in Canada, predice il Führer in tale occasione, ma «per milioni di altri cominceranno grandi sofferenze». Così «un grande impero sarà distrutto, un impero che», precisa l’oratore, «non è mai stata mia intenzione distruggere e neanche danneggiare… » Con un appello «alla ragione e al buonsenso della Gran Bretagna» si conclude il discorso di Hitler, il quale ripete ancora una volta, come incredulo: «Non riesco a vedere un solo motivo per la continuazione di questa guerra». La doccia fredda arriva appena un’ora dopo.

Mentre al Reichstag c’è molta euforia, dando per scontato che gli Inglesi accetteranno la proposta tedesca, una trasmissione radio in tedesco da Londra, diramata spontaneamente dalla BBC, ribadisce il «no» britannico. Tanta ostinazione è considerata, in Germania, una follia. Ma gli Inglesi sono tutt’altro che pazzi. Conoscono i loro polli e sanno di non potersi fidare. Così, il 22 luglio, quando lord Halifax, nel corso di un’altra trasmissione radio, respinge ufficialmente l’offerta di pace di Hitler, nella Wilhelmstrasse il portavoce ufficiale del governo dichiara ai giornalisti: «Signori, è la guerra!».

Per fare la guerra bisogna avere maturato a lungo dei piani strategici validi. Ma nessuno, in Germania, ha mai veramente pensato a «come» fare la guerra con la Gran Bretagna. Accade così, in quell’estate del 1940, che un paese al colmo della sua potenza militare, con l’esercito schierato dai Pirenei al Circolo Polare, dall’Atlantico alla Vistola, riposato e pronto a nuove operazioni, non abbia la minima idea della strada da seguire. È stato, ha scritto William L. Shirer, uno dei più grandi paradossi del Terzo Reich. E ha condotto alla prima grande svolta della Seconda Guerra Mondiale.

Il 28 agosto, applicando le direttive di Hitler, lo stato maggiore tedesco fissa il piano definitivo degli sbarchi in quattro punti della costa meridionale britannica, tra Folkestone e Selsey Bill, a est di Portsmouth. Contemporaneamente agli sbarchi sarà effettuata una manovra diversiva detta «Herbstreise» (Viaggio autunnale): una finta di navi vuote davanti alle coste orientali della Gran Bretagna, proprio nel punto in cui a causa delle inesatte informazioni raccolte dal controspionaggio inglese Churchill si aspetta l’attacco principale (e dove, fino a settembre, resta concentrato il grosso delle forze terrestri britanniche). Il 30 agosto von Brauchitsch emana le istruzioni per gli sbarchi.

Ad appena quindici giorni dall’inizio dell’operazione, si direbbe che il dado sia tratto. Invece no. Le istruzioni del comandante in capo dell’esercito contengono una clausola dubitativa: «L’ordine per l’esecuzione dipende dalla situazione politica». Forse il Führer crede ancora di poter convincere in extremis la Gran Bretagna ad uscire dalla guerra. Il 1° settembre le navi tedesche cominciano a spostarsi dai porti del Mare del Nord a quelli della Manica.

Due giorni dopo arrivano le direttive dell’OKW: la flotta d’invasione partirà il 20 settembre; lo sbarco avrà luogo il 21. Il 6 settembre, dopo l’ennesimo colloquio con Hitler, Raeder annota sul suo diario: «Il Führer è ancora ben lontano dall’idea di sbarcare in Inghilterra, essendo profondamente convinto che la Gran Bretagna sarà sconfitta anche senza uno sbarco». Stranamente, durante l’incontro, si è parlato di tutto tranne che di Seelöwe. Se Churchill lo sapesse, tirerebbe un respiro di sollievo.

Forse lo tirerebbe anche sapendo che il giorno dopo, sabato 7 settembre, i Tedeschi scateneranno il primo massiccio bombardamento su Londra, il più grave che un centro abitato abbia mai subito fino ad allora. Il passaggio dai bombardamenti delle fabbriche e dei centri industriali della Gran Bretagna (iniziati nel giugno) ai bombardamenti terroristici su Londra segna infatti una svolta decisiva nella Battaglia d’Inghilterra. Anche se proprio quel giorno il paese piomba nel caos in seguito alla diffusione della parola d’ordine «Cromwell», che significa: «L’invasione è imminente», il cambiamento di obiettivo della Luftwaffe ha due effetti importanti: permettere ai piloti da caccia inglese, stremati dalle continue incursioni dei bombardieri tedeschi, di riprendersi e contrattaccare; e spingere l’alto comando della Wehrmacht a credere che l’Inghilterra, minata nel fisico e nel morale dai bombardamenti della capitale, cederà senza invasione.

Di conseguenza, la data d’inizio dell’«Operazione Leone Marino» slitta ancora. Non sono estranee al rinvio le difficoltà per la Marina tedesca di reperire il naviglio necessario e le azioni degli aerei e delle artiglierie britanniche contro le navi nemiche e i porti belgi e francesi sulla Manica. Hitler rinuncia all’invasione Il 13 settembre, a Berlino, Hitler fa colazione con i capi delle tre armi. È allegro. Gli sembra che la guerra aerea vada nel migliore dei modi e dichiara di non voler correre il rischio di uno sbarco in Inghilterra. Dalle sue parole, Jodl ricaverà l’impressione che il Führer abbia deciso di rinunciare definitivamente all’ “Operazione Leone Marino».

Il giorno dopo, improvviso cambiamento d’umore. Hitler appare depresso e incerto. Continua a pensare che uno sbarco riuscito porrebbe fine alla guerra in brevissimo tempo. Sarebbe la soluzione migliore. La vittoria, infatti, è a portata di mano. «Abbiamo», dice il Führer ai generali, «le migliori probabilità di mettere in ginocchio l’Inghilterra». Perché, allora, non si passa all’azione? Perché, risponde Hitler, «il nemico si riprende continuamente. I caccia nemici non sono stati ancora del tutto eliminati». Non si è, insomma, ancora conseguita quella famosa superiorità aerea che costituiva uno dei requisiti essenziali per la realizzazione dell’operazione.

L’aviazione tedesca è un Moloch di distruzioni ma Hitler, reso inquieto da quel grillo parlante di Raeder, non si fida. Non si fida e non si rassegna. Se la prende col cattivo tempo. Spera nella sua buona stella. Si augura che gli Inglesi, sottoposti come sono a spaventosi attacchi aerei, «siano colti da una crisi d’isterismo collettivo». Purtroppo ha la sfortuna di avere come avversario, sull’altra sponda della Manica, un uomo, Churchill, e un paese che l’isterismo non sanno nemmeno dove stia di casa. Conclusione: l’inizio dell’operazione è di nuovo rimandato. Hitler si riserva d’impartire nuovi ordini il 17 settembre. In pratica, si concedono pochi giorni alla Luftwaffe affinché, con un ultimo sforzo, riduca all’impotenza la RAF e, con le sue massicce incursioni su Londra, riesca finalmente a demoralizzare gli Inglesi. Obbediente, Göring ci dà dentro.

Entra in scena la RAF, mentre l’aviazione tedesca si fa in quattro, senza riuscirci, per cancellare quella inglese dal cielo delle isole britanniche, la marina continua a mugugnare. Il 17 settembre lo stato maggiore della Marina comunica: «Finora la Royal Air Force non è stata affatto debellata; al contrario, essa dà prova di una crescente attività con attacchi contro i porti della Manica e moltiplica i suoi interventi contro i movimenti di concentramento delle nostre forze». «Così», annota sotto la stessa data il diario di guerra della marina, «il Führer ha deciso di rinviare a tempo indeterminato l’Operazione Leone Marino». Quattro giorni dopo si verrà a sapere che il 12% del totale dei mezzi navali raccolti dai Tedeschi per l’invasione è stato perduto o danneggiato.

Per un mese, ai vertici della Germania, ci si ostina a credere che l’invasione potrà svolgersi in autunno. Ma è solo un’illusione. Il 19 settembre Hitler ordina formalmente la sospensione di tutte le operazioni di raduno della flotta e lo spostamento del naviglio già raccolto per ridurre al minimo le perdite causate dalla RAF. Il 4 ottobre, dopo avere incontrato Hitler al Brennero, Ciano annota nel suo diario che «non si parla più di sbarco nelle isole britanniche». Mussolini, spirito meschino, si rallegra per lo smacco dell’alleato. «Poche volte», riferisce suo genero, «ho visto il duce così di buonumore come oggi». Da quel momento dovrà passare solo una settimana perché il «Leone», che non ha mai ruggito, venga definitivamente sepolto. Il 12 ottobre Hitler annulla il piano e, come voleva Raeder, rinvia l’invasione alla primavera dell’anno seguente. Ma nell’estate del 1941 molte cose saranno cambiate.

L’«Operazione Leone Marino» fu un piano serio? Si pensò seriamente di attuarlo? Si fece davvero di tutto per metterlo in pratica? I generali tedeschi, dopo la guerra, diranno di no. Interrogato nel 1945, Rundstedt definisce la progettata invasione «un’assurdità», «una specie di gioco», sostenendo di essere sempre stato «assai scettico». «Tra noi se ne parlava come di un bluff», dirà Blumentritt allo storico inglese Liddell Hart. La stessa impressione ebbe Shirer il 15 agosto, visitando la costa della Manica, tra Calais e Cap Gris-Nez, dove i trasporti e i mezzi da sbarco brillavano per la loro assenza. Ma i generali tedeschi, dopo la guerra, tiravano l’acqua al loro mulino, e queste dichiarazioni vanno prese con le molle.

Quanto ai giornalisti americani, nell’estate del 1940 e nella Francia occupata, potevano vedere solo ciò che i Tedeschi volevano far vedere loro. In realtà, commenterà Shirer molti anni più tardi, il piano «era una cosa terribilmente seria» e Hitler «pensava davvero di attuarlo». Se ciò non avvenne, non fu certo per sua iniziativa ma per l’ostinata resistenza britannica che impedì il sopravvento alla Luftwaffe. Non era la prima volta che un paese cercava di occupare l’Inghilterra.

Ma il problema dell’invasione, nota lo storico Ronald Wheatley, «si rivelò insolubile come per il passato. I tentativi precedenti erano falliti grazie alla potenza navale inglese. Nei primi anni della Seconda Guerra Mondiale la superiorità navale dell’Inghilterra non era più così decisiva, e in questo caso il tentativo tedesco fallì, apparentemente, soprattutto a causa della sua aviazione. Ma la potenza navale britannica rimase, in questa come in altre occasioni, un elemento di importanza determinante. Prescindendo dalla superiorità della sua flotta, dotata di ottimi equipaggi, non vanno dimenticati gli elementi geografici della potenza sul mare. Se l’Inghilterra non fosse stata un’isola, avrebbe fatto senza dubbio la stessa fine della Polonia e della Francia». Con quali conseguenze per l’Europa, è facile immaginare.

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