DOV’E’ FINITO TUTTO QUELL’ORO RUBATO? – 8

a cura di Cornelio Galas

Consapevolezza e discorso giustificativo della BNS

Nel corso della guerra l’istituto d’emissione elvetico si trovò esposto a pressioni crescenti perché giustificasse la sua politica in fatto di oro; come abbiamo visto nelle puntate precedenti, i suoi responsabili si videro costretti a creare un dispositivo di argomenti difensivi per garantirsi dai rimproveri alleati.

A tale scopo la direzione generale costruì, in retrospettiva, una propria versione compatta delle operazioni in oro praticate con la Reichsbank; un documento-chiave in questo senso è il rapporto della BNS al Consiglio federale svizzero, datato 16 maggio 1946, in cui nel dopoguerra la banca descrisse il traffico di oro e giustificò il proprio agire nei confronti delle autorità elvetiche.

In quella presa di posizione la direzione generale evidenziò che solo dall’inizio del 1943 gli Alleati avevano accusato la Germania di vendere oro rubato, e illustrò il proprio modo di procedere da allora come segue. Avvisata che più tardi avrebbe dovuto restituire l’oro consegnatole dalla Reichsbank, la direzione della banca aveva adottato misure per scalzare preventivamente le annunciate pretese di restituzione: nei colloqui con la Reichsbank, per esempio, aveva segnalato di voler limitare i futuri acquisti di oro dalla Germania e chiesto che venisse consegnato «solo oro di riserve d’anteguerra».

La questione della limitazione del traffico di oro con l’istituto tedesco aveva avuto, «rispetto alla neutralità della Svizzera e alla situazione militare di allora», una grande «importanza politica»; la BNS, pertanto, si era messa «d’accordo con le autorità federali» e aveva coordinato il suo agire con il Consiglio federale. Erano posti, così, gli argomenti fondamentali della strategia difensiva su cui l’istituto basò la propria giustificazione:
a) acquisto in buona fede di oro della Reichsbank proveniente da riserve d’anteguerra;
b) coincidenza delle operazioni con il principio della neutralità svizzera;
c) fattore della minaccia militare;
d) coordinamento con il governo nazionale.

L’argomento della buona fede

Elemento centrale, nel discorso giustificativo della direzione generale della BNS, era l’argomento della buona fede: stando a tale posizione, nelle sue operazioni in oro l’istituto era potuto partire dal presupposto che la Reichsbank non gli fornisse oro rubato. Questo argomento non comportava che l’appropriazione dell’oro da parte del Terzo Reich fosse stata legale e conforme alla Convenzione dell’Aia del 1907.

All’inizio, in effetti, le riflessioni erano andate in questa direzione; nelle circostanze date, però, sia uno studio dell’ufficio giuridico interno della BNS sia una perizia esterna del professore zurighese Dietrich Schindler avevano sconsigliato di dedurre dalla Convenzione una competenza della Germania ad appropriarsi l’oro di banche centrali delle zone occupate, perché mettevano in dubbio la legittimità degli scopi a cui l’oro era impiegato dai tedeschi. Per confutare i rimproveri degli Alleati, tuttavia, restava la possibilità di appoggiarsi alla buona fede nell’acquisto del metallo.

L’attenzione si diresse quindi su un quesito: era possibile e credibile dire che tutto l’oro acquistato dalla BNS alla Reichsbank provenisse dalle riserve tedesche d’anteguerra o fosse stato acquisito legalmente? A tale domanda il rapporto stilato dalla BNS nel maggio 1946 rispondeva in termini nettamente affermativi: nelle trattative condotte nell’ottobre 1943 col vicepresidente della Reichsbank, Puhl, questi affermò che la Deutsche Reichsbank aveva sempre tenuto cospicui stock di oro non dichiarati pubblicamente.

Questa affermazione trovò conferma in ragguagli provenienti da altre fonti. In generale si stimava che allo scoppio della guerra le riserve auree effettive della Reichsbank fossero di 1,5 miliardi di franchi. Da esponenti di una grande banca svizzera la direzione generale prese conoscenza, nel 1944, dell’elenco di un diplomatico alleato a Lisbona, che valutava le riserve auree della Reichsbank prima della guerra, ivi compreso l’oro dell’Austria e della banca nazionale ceca, perfino a 1,8 miliardi di franchi.

Oralmente, inoltre, la direzione generale aveva «chiesto sempre e di continuo» a Puhl di consegnare alla BNS solo oro d’anteguerra; la buona fede della direzione generale era quindi garantita. In tal modo la BNS promuoveva a teste principale una persona che non era certo al di sopra di ogni sospetto e che si sarebbe rivelata inaffidabile. Dopo la guerra, per esempio, durante un’udienza Puhl fece queste dichiarazioni:
«Q: … You are telling us that the Swiss understood that your assurances as to prewar or German origin of the gold being sent them in no way prevented some of the gold coming to them being actual physical gold taken from the Belgians?
A: Yes.

Q: It is your position that the Swiss knew of this value calculation theory of prewar gold and they accepted it?
A: Yes.
Q: Who knew about it in Switzerland? What officials?
A: The second man after Weber. I will give the name to you later.
Q: Who else knew about it?
A: He alone knew about it. And Weber. He is president.»

Che la buona fede della BNS fosse un costrutto introdotto a posteriori per giustificare il proprio agire, emerge anche da questa considerazione: i capi dell’istituto d’emissione elvetico conoscevano bene la prassi dell’acquisizione dell’oro nel Terzo Reich, e ciò molto tempo prima di cominciare a compensare in franchi le cospicue forniture di oro giunte da Berlino.

Oggi non vi sono più dubbi: la direzione generale della BNS seppe già precocemente che la Reichsbank era in possesso di oro delle banche centrali di paesi occupati, e aveva un quadro chiarissimo anche dei metodi di confisca dell’oro usati solitamente dai tedeschi con i privati, prima e durante la guerra. Come mostra con tutta la chiarezza auspicabile lo studio di Michel Fior, fin dall’inizio del 1941 la BNS sapeva «che la Reichsbank era in possesso di un’ingente quantità di oro acquisito illegalmente».

Un segnale netto in questo senso erano le vicende delle riserve auree della banca centrale belga, vicende che i custodi della valuta svizzera, com’è documentato, seguirono con grande attenzione. Il Belgio aveva affidato una parte delle sue riserve valutarie alla Banque de France, che poco prima dell’attacco tedesco fece trasportare l’oro a Dakar, nell’Africa occidentale; dopo l’armistizio con il Reich, la Francia di Vichy lo consegnò, su pressioni tedesche, alla Reichsbank.

Nel febbraio 1941 Schnorf, direttore generale della BNS, informò il comitato di banca che «un importo di 260 milioni di dollari in oro belga, quindi più di 1 miliardo di franchi svizzeri, … è stato ritrasportato in Belgio da Dakar, ove era stato fatto fuggire».

Seguendo la descrizione di Werner Rings, che illustra per esteso il viaggio avventuroso compiuto dal tesoro dell’istituto d’emissione belga da Dakar a Timbouctou e ad Algeri, si viene a sapere che il ritorno dell’oro cominciò nell’autunno 1940 e dapprima ebbe luogo in direzione di Marsiglia. Lì, nel novembre 1940, giunse un primo carico che fu consegnato alle autorità tedesche; sarebbero occorsi ben 18 mesi perché il tesoro arrivasse per intero a Berlino.

Nel settembre 1942 la Germania ritirò ufficialmente l’oro belga offrendo a mo’ di pagamento marchi tedeschi, per conservare un’apparenza di legalità. La banca centrale belga, però, fin dall’inizio si era rifiutata di sancire la razzia dell’oro accettando un pagamento dalla Germania: si atteneva, viceversa, alla posizione secondo cui solo la banca centrale francese era responsabile dell’oro affidatole.

Il governo belga, in esilio a Londra, negli Stati Uniti fece causa alla Banque de France e chiese che quest’ultima indennizzasse il Belgio con oro depositato a New York. L’iter processuale era noto dalla stampa mondiale; dall’estate 1941 lo si poteva leggere anche sui giornali svizzeri. Oltre alle sorti dell’oro belga, la BNS seguiva molto attentamente anche le vicende di quello della banca centrale olandese; sui dettagli, però, a quanto pare non era informata a sufficienza.

Ancora nel settembre 1941 essa partiva dal presupposto che il governo olandese, pure in esilio a Londra, avesse «quasi completamente in suo potere il tesoro aureo della Nederlandsche Bank». Nei mesi precedenti, tuttavia, i responsabili della BNS avevano già osservato che le riserve auree dell’istituto olandese diminuivano costantemente dopo l’entrata della Wehrmacht ad Amsterdam, nonostante i nuovi arrivi dovuti a requisizioni: «Che cosa succeda all’oro, fino a oggi non è stato notificato.»

La confisca di oro nelle zone occupate non era un segreto a quell’epoca; un articolo di stampa particolareggiato sull’argomento, dell’ottobre 1940, oggi si trova nell’archivio della BNS. In un linguaggio di un’asciuttezza insuperabile, nel luglio 1940 Schnorf mise a verbale che le nuove norme introdotte in Olanda sulle divise costringevano alla consegna di oro privato, da cui si credeva di «ottenere una massa di manovra sufficientemente grande».

«Come in Olanda, ora anche in Belgio i privati hanno dovuto indicare i loro averi in oro e divise», venne comunicato in settembre al comitato di banca. Non ci possono essere dubbi, quindi: la direzione della BNS sapeva come venisse procurato il metallo giallo nelle zone dominate dalla Germania, e ciò prima di cominciare, nell’ottobre 1941, a compiere sforzi attivi per acquistare oro dalla Reichsbank. A quell’epoca essa non chiese garanzie, né orali né scritte, sull’origine del metallo da riserve d’anteguerra.

Con il numero dei lingotti in arrivo da Berlino, crebbe anche la consapevolezza sulla
provenienza dell’oro da razzie tedesche nelle regioni occupate. In un’ottica odierna, si resta scossi di fronte al modo in cui la banca centrale svizzera reagì al problema nell’estate 1942: in primo piano c’era, per l’istituto, unicamente il rischio di subire restrizioni nel suo potere di disporre dell’oro già acquistato. In concreto la BNS temeva «che certe banche centrali, sottrattesi all’occupazione trasferendo la propria sede altrove, possano allestire cosiddette liste di blocco, col risultato che questi lingotti non possano più valere come oro di buona consegna».

La direzione generale, perciò, cercò una possibilità di velare l’identità dei lingotti consegnati, e vagliò anche l’idea di rifonderli in proprio. A un esame più ravvicinato, però, questa procedura risultò impraticabile: a Berna l’oro si era in gran parte già spostato nei depositi di altre banche centrali, e come al solito i corrispondenti numeri nei lingotti erano stati comunicati agli acquirenti. Poiché senza il consenso dei nuovi proprietari non si poteva semplicemente scambiare lingotti nei depositi, la direzione generale finì col ritenere opportuno rinunciare al piano di rifusione, «finché», come si legge testualmente nel suo verbale, «non emergano reclami».

A metà del 1943 la BNS cominciò a sviluppare la sua strategia difensiva basata sulla buona fede. Particolarmente problematico, in questa prospettiva, era il fatto che le spedizioni tedesche potevano contenere non solo oro di banche centrali ma anche quello proveniente dal saccheggio di privati. Il direttore dell’ufficio giuridico dell’istituto, Max Schwab, descrisse così la situazione:
«Ora è noto che in zone occupate sono stati confiscati anche patrimoni di proprietà privata (per es. di ebrei deportati o di persone colpite da speciali sanzioni ecc.). Non si è saputo se in tale contesto o in altri casi sia stato tolto oro anche a privati, ma la cosa rientra nel novero delle possibilità.»

Qui emerge chiaramente che alla BNS non sfuggiva la sorte delle vittime depredate. Era da escludere che l’istituto d’emissione – l’intermediario di gran lunga più importante della Reichsbank – avesse ricevuto oro frutto di razzie? La domanda era superflua, in fondo, già prima che i responsabili della BNS si rivolgessero per la prima volta alla Reichsbank. Solo quando i moniti alleati fecero balenare i rischi di minacciose richieste di restituzione, l’istituto svizzero cercò di farsi assicurare da Puhl che l’oro fornito da Berlino proveniva da riserve tedesche d’anteguerra; come ha dimostrato Michel Fior, però, nei primi quattro anni del conflitto (fino a metà del 1943) non chiese una sola volta a Puhl da dove provenisse l’oro spedito a Berna.

La BNS, dunque, cominciò a sostenere la propria buona fede solo quando, in fondo, la buona fede l’aveva già persa. Con un’ostinazione che oggi sembra autosuggestiva, i responsabili si confermavano a vicenda che non poteva essere vero ciò che non doveva essere vero:
«Noi non sappiamo da dove venga l’oro. Perciò non possiamo credere che acquistando oro della Reichsbank facciamo qualcosa d’ingiusto. Riteniamo piuttosto che, nella misura registrata finora, anche dalla Germania possiamo ricevere oro per soddisfare i suoi bisogni di franchi svizzeri. Una presa di posizione diversa equivarrebbe ad ammettere che finora abbiamo fatto qualcosa d’ingiusto.»

Quasi tre anni dopo, nella seduta del 23/24 maggio 1946, il comitato di banca discusse il resoconto della direzione generale (già consegnato al Consiglio federale) e appose le ultime modifiche; il presidente del consiglio di banca, Bachmann, si permise allora di «proporre una versione leggermene diversa» per la parte conclusiva del rapporto. Egli era di nuovo dell’avviso «che nelle osservazioni finali riassuntive vadano posti in primo piano soprattutto i motivi economici della nostra politica in fatto di oro e non tanto la questione della buona fede».

Il presidente della direzione generale, Weber, replicò «che di fronte alle richieste alleate non possiamo rinunciare a far valere la nostra buona fede». Dopo un lungo dibattito, il comitato diede la preferenza alla versione della direzione generale. Una volta imboccata la strada della giustificazione fissandosi sull’argomento della buona fede, un dietrofront avrebbe significato per la BNS una perdita di credibilità; prigioniera della propria argomentazione, la banca non poteva più spezzare l’edificio mentale già costruito della buona fede.

All’interno della direzione generale, nel 1946 si giunse a un dissidio fra due membri, dopo che il direttore generale Hirs era stato aspramente criticato da altri delegati svizzeri per il suo comportamento alle trattative di Washington. Il Consiglio federale, inoltre, rimproverò alla BNS di non avere informato a sufficienza la delegazione di Washington sulle transazioni in oro con la Reichsbank.

Per essere preparato meglio a eventuali pretese giuridiche degli Alleati, il 26 aprile 1946 (quindi ancor prima che finissero le trattative di Washington) il governo elvetico dispose che il Tribunale federale svizzero ascoltasse come testi i membri della direzione generale. Oggetto di quest’assunzione di prove furono, fra l’altro, le consultazioni avute dalla BNS durante la guerra col vicepresidente della Reichsbank, Puhl, in cui era stato affrontato il quesito della fornitura alla BNS di oro depredato.

Ebbene, nel giugno 1946 due direttori generali, Rossy e Hirs, si rinfacciarono a vicenda di aver saputo che l’oro acquistato era, in origine, di proprietà belga; Rossy definì impossibile collaborare ancora con Hirs e minacciò di dimettersi.
«Comme je vous l’ai dit, il ne m’est pas possible d’envisager une collaboration avec M. Hirs au-delà de la fin de l’année, en raison de son attitude générale à Washington et surtout en raison du fait qu’il a, en 1943 et 1944, acheté de la Reichsbank l’or belge volé en connaissant la provenance et la nature de cet or. J’estime que le Conseil fédéral ne peut tolérer, après une telle conduite, que M. Hirs reste à la Direction générale.»

Hirs ribatté che non lui ma Rossy era stato responsabile dei vari acquisti di oro da parte della BNS. Senza affrontare per esteso i retroscena personali e l’andamento della lite, notiamo qui unicamente il suo esito: sotto la sorveglianza di una commissione d’inchiesta del comitato di banca, alla fine ebbe luogo una procedura orale che portò a un appianamento fra i membri in lotta della direzione. Tutti e tre i direttori generali rimasero in carica.

Il crac nell’organo direttivo dell’istituto evidenzia due fatti. A posteriori i responsabili delle decisioni nella BNS negarono ognuno la buona fede dell’altro, per il periodo a partire dal 1943, negli acquisti dell’oro tedesco depredato; cercarono, inoltre, di distogliere le accuse dalla propria persona e di deviarle sugli altri direttori generali.

L’argomento della neutralità

Oltre alla buona fede, un secondo pilastro nel discorso giustificativo della BNS era costituito dalla neutralità. Nel 1946, quando presero posizione sull’oro comprato durante il conflitto, i responsabili della BNS sottolinearono di aver sempre badato ad assumere «un atteggiamento assolutamente neutrale».

La «parità di trattamento delle due parti belligeranti, che forzatamente ne derivava, proprio non le [alla BNS] lasciava altra scelta che … accettare l’oro offerto da entrambe le parti. Sarebbe stato impensabile accettare oro (anzi perfino oro bloccato) dagli Alleati, ma rifiutare alla Germania l’acquisto di oro che veniva rimesso alla Banca nazionale e di cui essa poteva disporre liberamente.»

Ma in questi termini si tracciava un quadro che non corrispondeva alla realtà, nascondendo che dalla metà del 1943, all’interno della BNS, venne discusso molto bene il problema dell’ammissibilità per la Svizzera, in quanto paese neutrale, di rifiutare gli acquisti di oro tedesco; ci fu inoltre un’intesa con gli organi amministrativi competenti, che appoggiarono la linea della BNS. Già a quel punto si era capita l’importanza della neutralità come argomento giustificativo: «Possiamo in buona fede sostenere che violeremmo la nostra neutralità se volessimo ricevere oro soltanto da un gruppo di Stati.»

Viceversa Bachmann stesso, presidente del consiglio di banca, aveva segnalato che, anche se le autorità valutarie fossero state tenute per legge all’acquisto di oro, «non [era] ancora fissato un obbligo internazionale a comprare oro per il paese o la banca centrale in questione», e che del resto il rifiuto di ulteriori acquisti del metallo aveva precedenti. A questi scrupoli aderì espressamente, subito dopo la guerra, il direttore dell’amministrazione federale delle finanze, Eberhard Reinhardt:
«La mera neutralità e il mero meccanismo dell’oro non obbligano certo nessun istituto d’emissione a comprare oro anche da una parte come dall’altra, ove debba temere che quell’oro sia rubato e che se ne potrebbe chiedere la restituzione.»

Ma la BNS non volle «avventurarsi, in questo campo, sul ghiaccio politico», e decise consapevolmente contro qualsiasi misura di difesa: «Avremmo sì il mezzo per toglierci di dosso le operazioni indesiderate con l’oro», ma «sarebbe pericoloso se volessimo adottare misure di difesa».

L’esposizione fatta dalla BNS nel 1946 non convince, anche perché quasi due anni prima l’istituto si era rifiutato espressamente di vincolare gli acquisti di oro tedesco a «considerazioni politiche»: in un simile contesto, l’impiego dell’argomento nella forma del 1946 appare poco credibile. C’era poi l’esempio della Svezia, che dall’agosto 1944 aveva rinunciato a comprare oro dalla Germania: Stoccolma, che si dichiarò pronta a rispettare le raccomandazioni alleate di Bretton Woods, alla fine dell’ottobre 1944 impose – oltre a norme più aspre sulle divise – un divieto ufficiale per le importazioni di oro.

Questo fatto era noto alla direzione generale della BNS, e anche oggetto di discussioni interne; nel rapporto del maggio 1946 per il Consiglio federale, tuttavia, non se ne trova alcuna traccia. La giustificazione degli acquisti di oro tedesco con presunti obblighi di neutralità si rivelò politicamente insostenibile già nel 1943; insistendo su questo argomento anche dopo il 1945, la BNS dimostrò il suo sforzo di continuare, nonostante le critiche crescenti, a difendere la politica seguita durante la guerra.

L’argomento della dissuasione

Il concetto di dissuasione si riferisce, in genere, a sforzi di difesa militari: contrapposta alla capacità di condurre una guerra, la dissuasione consiste nell’indurre l’avversario a non attaccare. Effetti dissuasivi oggi sono oggetto di analisi nel quadro di un’ampia politica della sicurezza, il che suggerisce di coinvolgere nelle riflessioni anche aspetti economici; di qui il quesito se e in quale misura la cooperazione economica con la Germania abbia evitato alla Svizzera il coinvolgimento diretto negli scontri militari della seconda guerra mondiale, ma soprattutto ridotto il rischio di un’aggressione militare ad opera della Wehrmacht.

In tale quesito si parte dall’idea che il Terzo Reich, in quanto potenziale aggressore, valutasse l’importanza della piazza finanziaria elvetica, del polo di scambio dell’oro e di una valuta convertibile su scala mondiale, riflettendo in termini di utilità; per un’analisi orientata alle questioni poste dall’economia di guerra, un simile calcolo del rapporto costo/utilità risulta plausibile e anche precisabile. Lo storico economico Willi A. Boelcke, per esempio, costatò come a Berlino si fosse perfettamente consapevoli degli alti costi, in termini di ammanchi, che avrebbe comportato una rovina del franco per l’economia tedesca degli armamenti.

«Vista la funzione indispensabile della Svizzera nella conversione in liquidità delle riserve auree tedesche, indubbiamente si pone la domanda provocatoria se a garantire la sicurezza esterna della Svizzera, nella seconda guerra mondiale, siano stati i suoi preparativi militari di difesa o piuttosto il ruolo delle efficientissime banche elvetiche nel ‘fatturare’ le operazioni in oro e divise compiute dalla Reichsbank.»

L’argomento per cui il franco poteva servire come arma di dissuasione e quindi assicurare l’integrità territoriale del paese, tuttavia, rivela un doppio punto debole. Anzitutto proprio l’aggressione della Wehrmacht all’Unione Sovietica, nel giugno 1941, mostra che la condotta hitleriana della guerra-lampo non era guidata principalmente da considerazioni definibili, all’insegna della tesi di una dissuasione economica, razionali per lo scopo da raggiungere: in quel caso il calcolo di Stalin – aumentare la sicurezza del suo paese tramite una stretta collaborazione economica col Reich – non funzionò.

Quanto alla Svizzera, in secondo luogo, l’aspetto della dissuasione risultò prestarsi anche come argomento giustificativo, con cui l’allineamento economico e la cooperazione a fini di lucro con le potenze dell’Asse potevano venire reinterpretati come azione di difesa nazionale e rivalutati sul piano morale. La storiografia si trova quindi alle prese con un difficile problema d’interpretazione, perché il fatto che la Svizzera non fu attaccata militarmente si può collegare a diverse ipotesi di dissuasione.

Quale che sia l’ipotesi proposta (militare o economica), in entrambi i casi si pone il quesito di come instaurare un nesso logico fra l’argomento dissuasivo e l’effetto osservabile di dissuasione; risulta, inoltre, che gli «effetti» sono sempre vicende interpretate.

Gli attori coinvolti nei processi decisionali devono avere chiara l’importanza delle prestazioni economiche o l’intensità degli sforzi militari di difesa, affinché un effetto dissuasivo possa realizzarsi. Proprio su questo punto l’ottica interna (svizzera) e la percezione esterna (tedesca) potevano divergere notevolmente; come si può mostrare con l’esempio del divieto di esportazione di armi, varato il 29 settembre 1944, l’opinione svizzera per cui quelle forniture erano di grande rilievo per il Reich non garantiva che anche la parte tedesca vedesse le cose nello stesso modo.

In linea di massima, perciò, è senz’altro possibile che il franco fosse utile in forte misura per la Germania e quindi avesse un effetto dissuasivo, senza che ciò si riflettesse nel discorso politico interno della Svizzera; è possibile, viceversa, che un simile effetto dissuasivo fosse addotto da responsabili svizzeri per legittimare vicende problematiche, senza che l’effetto si potesse dimostrare. Va preso in considerazione, infine, anche l’uso di un effetto di difesa davvero esistente per giustificare, più tardi, le corrispondenti transazioni in oro e divise.

Memori di questi complessi problemi interpretativi, possiamo anzitutto osservare che l’argomento degli acquisti di oro compiuti a fini dissuasivi non venne addotto negli anni in cui tali acquisti furono più cospicui: le fonti lasciateci dal processo decisionale nella BNS non presentano accenni in tal senso. Lo studio di Michel Fior relativizza questa assenza: «Non si trovano tracce di una simile strategia, ma ciò non significa che non esistesse.»

Un indizio che simili riflessioni si posero davvero si può scorgere nelle già citate affermazioni di Emil J. Puhl: frasi del genere, dette nel novembre 1940 al consulente della Banca dei regolamenti internazionali, Per Jacobsson, in effetti vennero riferite anche alla (e dalla) BNS. Già nel giugno 1940 il ministro tedesco dell’economia aveva richiamato l’attenzione sulla BRI e costatato che quell’istituzione era troppo preziosa per poter essere distrutta.

Fra i membri del governo svizzero furono Marcel Pilet-Golaz ed Ernst Wetter a sottolineare, menzionando il ritiro dell’esercito nel «ridotto nazionale», l’importanza della piazza finanziaria e di un’economia ben funzionante. Alla fine del 1942 il consigliere federale Walter Stampfli, capo del Dipartimento federale dell’economia pubblica, disse che dal punto di vista economico il Terzo Reich non si sarebbe comportato in modo ostile verso la Svizzera.

«La Germania mostra anche grande interesse alla valuta svizzera, che a livello internazionale è l’unica a godere ancora di una certa libertà. Tutto ciò non sta certo a indicare che attualmente si abbia intenzione di attaccare la Svizzera.»

Le fonti non consentono di ricostruire in che misura queste idee fossero coltivate anche nella direzione generale della BNS. Quest’ultima però, nel suo rapporto del 16 maggio 1946, retrospettivamente sottolineò con molto vigore il punto della dissuasione, dandone in genere tre definizioni distinte. Anzitutto, «negli anni in cui la Germania nei nostri confronti faceva sentire la costante minaccia della sua potenza militare», si era trattato di non irritare l’avversario: era «assolutamente impensabile, rispetto alla Germania, rifiutare di accettare oro».

Per la Svizzera un tale rifiuto avrebbe «potuto facilmente comportare un conflitto di grandissima portata, magari perfino la guerra». C’era poi un accenno, anche se molto contenuto, al fatto che quanto più diventava importante «l’oro come mezzo per regolare pagamenti internazionali», tanto più durava la guerra; in questo senso, peraltro, non si citava mai isolatamente il vantaggio che la Germania poteva trarre dalle vendite di oro alla Svizzera, ma si tracciava sempre il parallelo per cui «il fabbisogno di franchi svizzeri diventava quindi sempre maggiore per entrambi i belligeranti».

In un contesto più ampio, infine, veniva posta in primo piano la rilevanza degli acquisti di oro per l’approvvigionamento del paese e quindi per tenere viva la volontà svizzera di resistenza:
«Solo grazie al fatto che la Svizzera era riuscita, nonostante tutte le difficoltà, a tenersi aperte possibilità d’importazione ed esportazione su diversi lati, in ultima analisi abbiamo potuto trovare la forza militare e spirituale di resistere, per affermarci nella bufera degli eventi bellici.»

Vista la discrepanza fra l’argomentazione della BNS negli anni di guerra e la sua presa di posizione dopo la fine del conflitto, è naturale concludere che la tesi della dissuasione fu strumentalizzata per giustificare la politica dell’oro nei confronti del regime nazista. Sia affermazioni dell’epoca sia ricerche empiriche, d’altra parte, corroborano l’ipotesi che l’utilità del polo di scambio dell’oro fosse tanto grande da esplicare un effetto dissuasivo nei rapporti elvetico-tedeschi.

Esponenti di spicco del Terzo Reich e osservatori neutrali menzionarono di continuo l’importanza eminente che aveva il franco per l’economia bellica germanica. Il maggiore Gäfgen, capo della commissione industriale tedesca a Berna, in un documento del 1° aprile 1944 sulle «prestazioni della Svizzera a favore della Germania» osservò che, «grazie al valore internazionale unico del franco svizzero, il Reich è in grado di comprare in paesi terzi materie prime importanti per la guerra, ad esempio tungsteno in Spagna e in Portogallo»; citò poi «la disponibilità della Svizzera ad acquistare ancora oggi oro dal Reich».

Secondo Karl Clodius, nel giugno 1943 il ministro tedesco dell’economia, Funk, dichiarò «di non poter rinunciare neppure per due mesi alla possibilità di compiere in Svizzera … transazioni in divise». Si può dire, riassumendo, che gli argomenti integrati a posteriori dalla direzione generale della BNS nel suo discorso giustificativo corrispondevano senz’altro a contesti causali effettivi; ciò non toglie però che quelle costatazioni, nella cornice del dopoguerra e della critica alleata alla Svizzera, cambiarono la loro funzione e in parte divennero una strategia di discolpa.

Coordinamento col governo elvetico

I rapporti fra la BNS e le autorità federali durante la seconda guerra mondiale offrono un quadro contraddittorio. Da un lato essi sono caratterizzati da una stretta collaborazione; dall’altro, però, nel maggio 1946 il Dipartimento federale delle finanze accusò la BNS di avere occultato al governo importanti ragguagli sulle transazioni in oro con la Reichsbank, provocando ripercussioni negative sul decorso delle trattative di Washington.

Anche se il Consiglio federale coprì la BNS verso l’esterno, nel consiglio di banca si disse apertamente che fra le massime autorità del paese e l’istituto d’emissione andava ripristinato «il necessario rapporto di fiducia». Il governo elvetico, inoltre, affermò con chiarezza che si rifiutava di rispondere per eventuali danni derivanti alla banca dai suoi acquisti di oro; la BNS respinse la critica osservando che il Dipartimento delle finanze era stato informato delle operazioni in oro con la Germania già prima dei moniti alleati dell’ottobre 1943.

L’allora capo del dicastero, il consigliere federale Ernst Wetter, si era però «sempre strettamente astenuto dal dare qualsiasi istruzione alla Banca nazionale». Il nascere di queste tensioni si può spiegare anzitutto con il contesto istituzionale. La BNS era stata fondata come istituto d’emissione indipendente; difendere il franco era visto dalla banca come il suo autentico compito principale, per cui prodigarsi anche a costo di mettersi «contro il proprio Stato».

Nella situazione economica della seconda guerra mondiale, questa posizione doveva entrare forzatamente in conflitto con le esigenze dell’economia svizzera di guerra, la cui gestione spettava alle autorità. Quando, in seguito a una promessa fatta dal capo della Legazione svizzera a Washington (quella di mettere a disposizione degli USA franchi in cambio di oro), si accese una controversia fra la BNS e il Dipartimento politico, Rossy, direttore generale della banca, parlando col consigliere federale Nobs osservò: «Sarebbe ora che a Palazzo federale si tornasse a prendere le distanze dalla valuta e la si lasciasse all’istituto d’emissione».

Quest’affermazione decisa non deve far supporre, tuttavia, che la BNS cercasse coerentemente di evitare una consultazione delle autorità politiche: essa invece era assolutamente consapevole dell’importanza del contesto politico complessivo per la propria politica valutaria. Nel 1940, per esempio, l’istituto vagliò l’ipotesi di creare un deposito presso la Reichsbank a Berlino, come «gesto politico» all’insegna di un adattamento attivo al nuovo ordine europeo; sue iniziative per cooperare attivamente alla nascita del mondo nuovo postbellico o anche solo il tentativo di prendere le distanze dalla Reichsbank, non sono però dimostrabili.

La BNS scelse visibilmente di stare sulla difensiva; anche verso la fine della guerra non riuscì a decidersi a respingere l’offerta di Puhl per ulteriori cessioni di oro, ma stabilì di lasciar decidere al Consiglio federale. A ciò va aggiunto il fatto che la banca non era inserita regolarmente nel processo di politica interna con cui si concepiva e si attuava la politica del commercio con l’estero.

Solo dal 1942 essa partecipò alla commissione per l’economia di guerra nel Dipartimento federale dell’economia pubblica; solo in qualche caso venne coinvolta nell’autorevole «delegazione permanente per la direzione delle trattative economiche con l’estero», oppure – per esempio nel 1941, quando venne concesso il credito di clearing alla Germania – non fu neppure consultata.

L’idea di rendere la disponibilità dell’istituto a ulteriori acquisti di oro della Reichsbank un oggetto negoziabile nelle trattative economiche con la Germania – idea naturale, a posteriori – diventa documentabile solo poco prima della fine della guerra; alla domanda perché simili riflessioni non fossero state fatte prima, in base allo stato attuale delle conoscenze non si può dare una risposta conclusiva. Si può pensare che la BNS e le autorità federali si astenessero da un coordinamento più intenso, anche perché ciò avrebbe comportato un danno per la loro specifica autonomia decisionale.

Il pensiero della banca centrale, secondo cui si poteva restare sani e salvi con un ritiro sulla posizione del business as usual, doveva rivelarsi un’illusione; questo atteggiamento, piuttosto, limitò visibilmente la capacità di sviluppare azioni alternative e quindi il margine interno di manovra. L’istituto divenne più che mai oggetto di conflitti politici; questo processo culminò nelle trattative di Washington, ove con il suo comportamento la banca si ritrovò in mezzo a fortissimi scontri politici e dovette cedere del tutto l’iniziativa.

La BNS, per riassumere, col suo rapporto giustificativo del 16 maggio 1946 espose un insieme di argomenti che in un’ottica interna elvetica presentava un alto grado di coerenza ed era adatto a sostenere il dispositivo difensivo della Svizzera nei confronti delle richieste alleate.

Vista da oggi, in una prospettiva internazionale e in base allo stato attuale delle ricerche, la sua argomentazione non era valida per quanto riguarda i suoi primi due punti.
1. All’epoca degli acquisti di oro dalla Reichsbank, la BNS non poteva partire dal presupposto di ricevere solo oro monetario delle riserve tedesche d’anteguerra.
2. A quelle operazioni non era vincolata dalla politica di neutralità.

Quanto ai due punti successivi, i suoi argomenti richiedono una valutazione differenziata.
3. Le transazioni in oro servirono sia alla Svizzera sia, in forte misura, alla Germania; anche se questo fattore è difficile da ponderare, bisogna partire dall’ipotesi che ciò ridusse la probabilità di un attacco tedesco alla Svizzera. Ma fino all’inizio del 1943, cioè fino a quando la BNS, viste le minacciose richieste di restituzione alleate, si vide obbligata a ridurre gli acquisti, è difficile dimostrare che i responsabili della banca, con un calcolo voluto, puntassero sull’effetto dissuasivo degli acquisti di oro.
4. La direzione generale della BNS ebbe contatti regolari con le autorità politiche, ma preferì ridurre entro limiti ristretti le intese sulla sua politica dell’oro con il Consiglio federale, mantenendo quindi la propria autonomia in campo valutario; solo su massicce pressioni esterne cercò un sostegno più sicuro nel governo elvetico, che a sua volta appoggiò la politica valutaria dell’istituto con le «sterilizzazioni dell’oro».

Acquisti di oro e utili della BNS

Nel dibattito sulle transazioni in oro fra i due istituti d’emissione si è posto anche questo quesito: quanto fruttarono alla BNS i suoi servizi per la Reichsbank? Certo la prima, in quanto banca centrale soggetta a vigilanza federale, in linea di principio non è orientata a conseguire un lucro; in quanto società per azioni organizzata secondo il diritto privato, però, essa si sforza sì di ottenere un risultato d’esercizio positivo.

Nel periodo della seconda guerra mondiale gli introiti derivanti dal traffico di oro e di divise furono determinanti, anzi, perché la banca registrasse un profitto: la quota corrispondente nell’utile lordo salì dal 49% del 1939 al 67% del 1942, aggirandosi in media sul 55% negli anni 1939–1945. Durante il conflitto l’istituto conseguì forti guadagni vendendo monete d’oro al mercato interno. Nel 1943 e nel 1944 queste vendite interessarono in prevalenza monete estere fornite dalla Reichsbank; oggi si sa che si trattava, in massima parte, di oro depredato.

Un esame complessivo degli anni di guerra mostra che l’utile lordo della BNS, stando ai rendiconti annuali, ammontò a un totale di 86,1 milioni di franchi, di cui il 56% circa (48,2 milioni) relativo alla voce «oro e divise»; da quei rendiconti, peraltro, non si può dire come tale importo si ripartisse fra le due diverse componenti. Nel corso del conflitto, stando alla sua contabilità dell’oro, la BNS ottenne dai traffici di metallo prezioso con la Reichsbank un profitto di circa 18,4 milioni di franchi (4,3 milioni di dollari).

Nelle discussioni sull’atteggiamento della BNS subito dopo la guerra, si parlò soprattutto dell’utile complessivo proveniente dal commercio di oro e divise. L’importo indicato dai rendiconti annuali – 48,2 milioni di franchi – è molto prossimo a una stima nota da tempo, emersa nel 1946 fra i membri della delegazione svizzera per l’accordo di Washington: a quell’epoca Alfred Hirs, direttore generale della BNS, parlò di «50 milioni di franchi che sarebbero stati guadagnati così».

In effetti può darsi che la cifra menzionata oralmente da Hirs si basasse sui dati presenti nei rendiconti annuali; in questo senso la formulazione nella fonte del 1946 ora citata non si presta a un’interpretazione univoca. È anche possibile che Hirs si riferisse a una fonte interna, quella dei cosiddetti rapporti trimestrali; tali rapporti indicano per il solo commercio di oro un profitto di circa 51 milioni di franchi, purché si detraggano gli utili contabili straordinari del 1939/40 e si prenda in considerazione solo il periodo fra la metà del 1939 e la metà del 1945.

Il conseguimento di utili non può essere ritenuto un movente primario per gli acquisti di oro della Germania da parte della BNS; il profitto ebbe senz’altro un ruolo, viceversa, nelle cessioni di metallo al mercato e in particolare nelle vendite di monete d’oro.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento