DOV’E’ FINITO TUTTO QUELL’ORO RUBATO ? – 6

a cura di Cornelio Galas

Dal luglio 1943 al luglio 1944

Con l’inizio del 1943 il baricentro dei teatri di guerra europei cominciò a spostarsi. All’inizio di febbraio le truppe tedesche capitolarono davanti a Stalingrado; poco prima, alla conferenza di Casablanca, Churchill e Roosevelt avevano deciso lo sbarco degli Alleati in Sicilia e fissato la politica della resa tedesca senza condizioni.

Churchill e Roosevelt

A metà luglio l’avanzata alleata in Italia portò alla caduta di Mussolini e alla formazione di un nuovo governo italiano, presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio. Quando quest’ultimo firmò un armistizio con gli Alleati, cominciarono le contromisure tedesche previste per quell’eventualità: l’Italia settentrionale e centrale, fino a sud di Roma, venne occupata dalla Wehrmacht. Poiché la Germania, insieme all’Italia, nel novembre 1942 aveva invaso la Francia di Vichy, ora per la prima volta il suolo elvetico era interamente accerchiato dall’Asse.

Dapprima la BNS modificò ben poco la sua politica dell’oro nei confronti del Reich. Il volume degli acquisti, che nel 1942 aveva raggiunto i 424 milioni di franchi, l’anno successivo scese a 370 milioni; dopo il primo trimestre 1944 l’istituto limitò ulteriormente il suo traffico di oro con la Germania, ma sino alla fine della guerra si attenne al principio di mettersi a disposizione della Reichsbank.

L’ottica della politica valutaria, che aveva segnato fortemente la condotta della direzione generale nei primi anni di guerra, passò in secondo piano rispetto ai motivi di politica economica per proseguire gli acquisti di metallo. Ma la riduzione quantitativa non eliminò il problema dell’oro depredato: le richieste alleate, anzi, crearono una nuova dimensione che mise alla prova la politica elvetica nei confronti del Reich, determinata da solidi interessi economici.

Dall’inizio del 1943 la Svizzera fu esposta direttamente alle pressioni crescenti degli Alleati. Queste pressioni si riflettevano in una serie di annunci e risoluzioni visibilmente più insistenti, che all’inizio del 1945 sarebbero sfociati nella richiesta d’interrompere completamente i rapporti con la Germania. I moniti fecero seguito, con lievi spostamenti temporali, alle transazioni in oro, straordinariamente cospicue, compiute fra la BNS e la Reichsbank negli anni 1942 e 1943.

Se nel 1942 l’aiuto concesso dall’istituto svizzero a quello tedesco nell’acquisto di divise era stato criticato, il 5 gennaio 1943 si ebbe un primo monito concreto con la dichiarazione interalleata sul bottino proveniente dal territorio in mano ai nazisti; tale dichiarazione, indirizzata in special modo ai paesi neutrali, da parte svizzera rimase senza conseguenze.

La Declaration on Gold Purchases, pubblicata dagli Alleati il 22 febbraio 1944, si espresse direttamente contro l’acquisto, da parte di Stati neutrali, dell’oro depredato; se i moniti precedenti erano di natura piuttosto giuridica, questa dichiarazione rientrava bene nel sistema della guerra economica, perché mirava a bloccare l’oro in quanto uno degli ultimi mezzi a disposizione dell’Asse per procurarsi beni all’estero.

Una reazione diretta della BNS a quel monito non ci fu; solo il 17 maggio la direzione generale ripeté «il desiderio già espresso in precedenza … che la Reichsbank, viste le continue rimostranze e dichiarazioni rivolte dai governi alleati ai neutrali, limiti nella misura del possibile le sue forniture di oro alla Banca nazionale, ove non rientrino in operazioni commerciali con la Svizzera».

I moniti alleati, quindi, non rimasero del tutto senza effetto all’interno della BNS; continuò a restare decisiva, tuttavia, l’opinione che in linea di principio l’istituto non potesse rifiutare di ricevere oro della Reichsbank.

Discussioni nella Banca nazionale svizzera

I moniti alleati, inoltre, ebbero la conseguenza che la BNS si vide costretta a vagliare criticamente i suoi acquisti dalla Reichsbank, perché in caso di vittoria alleata ci sarebbe  stato il rischio di dover restituire oro o pagare una compensazione materiale; l’ipotesi era stata presa in considerazione da un membro del governo elvetico già il 1° maggio 1943. Quel giorno, infatti, il consigliere federale Wetter scrisse nel suo diario, alla fine di un colloquio con uno svizzero ritornato dagli USA:
«Prospettive … non favorevoli, neppure per i nostri averi e il nostro oro dopo la guerra. Forse faranno pagare anche noi.»

Oggi lo sappiamo: per gli allora responsabili delle decisioni nella BNS, era chiaro che le forniture della Reichsbank contenevano anche oro belga depredato. Hirs dovette ammetterlo durante le trattative di Washington: alla domanda se davvero «non avesse idea» di ricevere oro belga, la sua risposta fu un «naturalmente lo sapevamo». Il fatto di saperlo non fu però motivo d’ostacolo per l’acquisto ulteriore di oro dalla Germania.

Solo dalla metà del 1943, quando il tema era stato toccato dai media, e poco dopo che il governatore della Banque de France, Yves de Boisanger, durante una visita estiva ebbe fatto notare alla BNS la responsabilità derivante dagli acquisti di oro belga della Reichsbank, la problematica dell’oro depredato venne discussa a fondo nel massimo organo dirigente dell’istituto svizzero.

Il confronto decisivo sulla questione se continuare o cessare le operazioni d’acquisto con la Reichsbank ebbe luogo in due sedute del consiglio di banca, avvenute alla fine di luglio e nell’agosto 1943; tale confronto merita di essere riferito un po’ più in dettaglio, perché rivela chiaramente le varie posizioni. Il presidente del consiglio di banca, Bachmann, dapprima aveva domandato se in merito al traffico di oro con la Reichsbank non si dovesse consultare il Consiglio federale, per allinearsi, come la Svezia, «in misura maggiore alle concezioni angloamericane».

Senza circonlocuzioni, poi, egli mise a verbale di non poter condividere «l’opinione di Weber per cui la Svizzera, avendo una valuta legata all’oro, sia costretta ad accettare oro da Stati stranieri». La questione aveva «oggi più che mai un carattere politico. Perciò il Consiglio federale dovrebbe esprimersi su come debba comportarsi la banca rispetto a simili cessioni di oro.»

Lo sforzo di moderare un po’ il traffico di metallo con la Reichsbank trovò consensi, ma nel complesso anche nel comitato di banca la posizione della direzione generale restò incontestata. In particolare venne segnalato che «da parte alleata tutto è bloccato», mentre «da parte tedesca … qualcosa ci viene ancora fornito». Anche la neutralità svizzera si opponeva a una misura unilaterale, argomentò Koechlin, e si poteva «in buona fede sostenere» che un simile gesto l’avrebbe violata; Weber, infine, sottolineò che restava «convincente» il richiamo all’obbligo di accettazione per la Svizzera, in quanto paese con valuta aurea.

A prescindere da ciò, poi, non si poteva sapere da dove venisse l’oro della Reichsbank: «Chi vuole dimostrarci che l’oro, come affermano gli inglesi, sia stato ‘rubato’?» Nella seduta successiva Weber, tornando sul problema, rafforzò il proprio punto di vista. Egli era sì d’accordo «che la questione ha assunto carattere politico; ciò però non cambia il fatto che noi, poiché e finché abbiamo una valuta aurea, siamo tenuti ad accettare oro da altri paesi».

Bachmann fece notare di nuovo che la BNS qui non poteva «rifarsi tranquillamente alla buona fede», ma molto probabilmente poteva rifiutarsi «di accettare oro, senza con ciò rinunciare alla sua posizione di paese con valuta aurea». A questo punto egli operò la distinzione decisiva:
«Il presidente costata che qui vanno distinte due questioni. Da un lato la questione oggettiva se vogliamo o no accettare l’oro, dall’altro la questione soggettiva se possiamo accettare senza esitazione l’oro che ci viene offerto, anche se abbiamo il sospetto che possa trattarsi di oro acquisito in maniera illegale.»

A livello oggettivo, continuò Bachmann, una legge nazionale non bastava a creare un obbligo internazionale all’acquisto di oro, e in tal senso esistevano precedenti: «Durante l’ultima guerra mondiale la Svezia e l’Olanda, per [contrastare] uno smodato ampliamento dei crediti, in generale hanno rifiutato di accettare senz’altro l’oro come pagamento.»

Bachmann riconosceva anche che la portata del problema esulava dal semplice valore legale: «Nel risvolto soggettivo della questione c’è il suo carattere politico, che ci costringe ad agire con particolare vigilanza … .» Rossy approvò «in linea di massima» le vedute del collega, aggiungendo subito dopo come «la Banca nazionale finora non sia stata informata da nessuna parte che i tedeschi abbiano rubato oro. La requisizione di oro è un diritto che in base alle norme del diritto internazionale spetta alla potenza occupante.»

Rossy specificò di aver sentito da Yves de Boisanger «che oro privato finora non è stato confiscato dagli organi tedeschi»; il governatore della Banque de France aveva «consegnato l’oro belga ai tedeschi di propria volontà». Questa obiezione era infondata, allo stato delle conoscenze di allora, e inoltre metteva in forse la giustificazione dello stesso Rossy.

Bachmann, riconoscendo quanto poco convincente fosse l’argomento, replicò che qualche anno prima della guerra la Reichsbank non aveva più esibito oro, pur affermando sempre «di possederne comunque in gran copia». In ogni caso la banca tedesca era «arrivata all’oro più tardi e in tempo di guerra, …, poi tramite provvedimenti del Reich nei confronti di istituti d’emissione esteri. Resta da sperare che alla Banca nazionale non derivino svantaggi dalle operazioni in oro con la Reichsbank.»

Il vicepresidente Daguet si barcamenò: per lui il fatto «che il derubato non reclama» non esonerava da «ogni attenzione», perché quelle operazioni erano «sempre state eseguite più o meno sotto le pressioni della potenza occupante». Il problema, perciò, qui era la mole, non l’illegittimità del traffico. E finché gli acquisti di oro dalla Reichsbank restavano entro dimensioni normali, bisognava approvare la politica della direzione generale; non c’era «ragione … di fare difficoltà».

Nonostante i dubbi del presidente del consiglio di banca, Bachmann, un cambiamento di rotta non ci fu. Fallì così il tentativo di avvicinare – non precocemente, ma ancora tempestivamente – la politica della BNS in materia di oro alla posizione degli Alleati, che per principio non volevano tollerare altri acquisti del metallo. S’impose l’opinione, piuttosto, che la BNS potesse acquisire l’oro della Reichsbank con «la coscienza pulita».

Nei soli mesi di settembre e ottobre 1943 essa comprò dall’istituto d’emissione tedesco lingotti e monete per un valore di circa 70 milioni di franchi. Nonostante una dichiarazione britannico-americana sul nonriconoscimento dei trasferimenti di averi nemici dall’Italia a Stati neutrali, emessa il 21 settembre 1943, il Consiglio federale e la BNS concordarono che agli acquisti di oro dalla Reichsbank non si poteva opporre nulla sul piano legale, ma che in futuro essi dovevano, ove possibile, «muoversi in un ambito un po’ più modesto».

Durante una seduta della direzione generale della BNS con rappresentanti delle autorità, volta a istruire i delegati svizzeri alle trattative economiche con gli Alleati che avvennero a Londra nel 1944, Weber argomentò che per motivi giuridici di neutralità l’acquisto di oro della Reichsbank in cambio di franchi non potesse venire respinto. Senza dubbio gli Alleati non si sarebbero accontentati di questo argomento; in special modo si sarebbe dovuto spiegar loro l’aumento degli acquisti di oro nel periodo 1940–1943, e invalidare la loro affermazione che quello tedesco fosse oro rubato nei paesi occupati.

Robert Kohli, che nel Dipartimento politico federale dirigeva la sezione per il diritto e gli interessi patrimoniali privati all’estero, si mostrò convinto che per giustificare la politica della BNS in fatto di oro sarebbero bastati due argomenti: da un lato l’obbligo, discendente dalla neutralità, di acquistare il metallo a prescindere dall’offerente (obbligo di cui la Germania aveva approfittato in quanto Stato confinante); dall’altro la situazione militare, che avrebbe reso certi servizi al Reich una questione di sopravvivenza per la Svizzera.

Weber sostenne l’opinione, inoltre, che la Germania avesse forti riserve auree risalenti a prima della guerra. In seguito alla mutata situazione bellica ma soprattutto alla pressione politica ed economica degli Alleati, che ora erano in ascesa, la BNS dovette prepararsi una strategia giustificativa poggiante su un fondamento politico e giuridico. Quanto al lato legale, dapprima si fece chiarire in due perizie giuridiche la portata delle conseguenze annunciate e soprattutto la questione della legittimità dell’acquisto, nel caso di oro «che le potenze dell’Asse abbiano confiscato e portato via dalle zone occupate».

Un «appunto sulle operazioni in oro della Banca nazionale svizzera» segnalò, per cominciare, che la competenza giuridica della potenza occupante a prendere possesso delle riserve auree dei singoli istituti d’emissione, ove questi avessero status giuridico di ente privato, non era chiara; per la legittimità e le eventuali conseguenze di simili operazioni in oro, perciò, era di centrale importanza la circostanza dell’acquisto in buona fede.

Ove la BNS volesse davvero proseguire le sue transazioni in oro con la Reichsbank, l’ufficio legale consigliava, visti i rischi connessi con tali transazioni, di chiedere una «dichiarazione scritta generale e vincolante della Deutsche Reichsbank sul suo possesso ineccepibile, eventualmente anche dimostrabile, dell’oro da consegnare alla Banca nazionale»; suggeriva inoltre di limitare «notevolmente» la mole di eventuali ulteriori acquisti e di comprare esclusivamente lingotti tedeschi «con punzonatura e borderò tedeschi».

Anche la perizia esterna commissionata poco dopo a Dietrich Schindler, professore zurighese di diritto internazionale, costatò che l’appropriazione di oro, stando alla Convenzione dell’Aia sulle leggi della guerra continentale (1907), era possibile legalmente solo in condizioni preliminari strettamente definite, il cui adempimento però in questo caso era dubbio; diversamente dagli esperti svizzeri, i giuristi della Reichsbank ritenevano nettamente «inammissibile … una requisizione dell’oro in base alla Convenzione dell’Aia».

Così come la perizia interna, anche quella di Schindler costatò che per la BNS era «d’importanza decisiva la buona fede»; per proteggere l’istituto dall’accusa di acquisto in mala fede, essa gli consigliava di chiedere in futuro, prendendo in consegna altro metallo dalla Reichsbank, «un’espressa dichiarazione» da cui risultasse «che l’oro non è stato acquisito … in contrasto coi principi del diritto internazionale», o «da cui discenda con certezza che l’oro proviene da una fonte inoppugnabile sul piano del diritto internazionale (per esempio da riserve d’anteguerra della Reichsbank)».

Insistere su simili dichiarazioni divenne ancor più necessario perché l’effetto diretto dei moniti alleati consisteva nel distruggere l’eccezione della buona fede, addotta dai paesi neutrali, in merito all’acquisto di oro proveniente dalla Reichsbank. Benché le due perizie sottolineassero chiaramente i rischi connessi con tale acquisto, esse mostravano però una modalità con cui la BNS avrebbe potuto continuare a compierli conservandosi in buona fede; l’istituto, di conseguenza, si concentrò sullo sviluppare a sua difesa l’argomento della buona fede.

La BNS si basò quindi – in malafede, come sappiamo oggi – su queste assicurazioni di Puhl: che l’oro della Reichsbank non proveniva dai paesi occupati; che l’istituto tedesco disponeva di forti riserve auree d’anteguerra e aveva pagato l’oro acquisito in seguito; che l’oro belga era «ancora nella sua totalità depositato in tribunale». Già nell’estate 1943, inoltre, la BNS sapeva che in materia di acquisti di oro dalla Reichsbank non si sarebbe potuta, nei confronti degli USA, richiamare alla buona fede; anche questo monito dalle sue stesse file, però, risultò del tutto inutile.

Le richieste alleate, che ben presto sfociarono in un «divieto tout court di qualsiasi operazione in oro con le potenze dell’Asse», offrirono alla BNS un’occasione favorevole per dichiarare la questione dell’oro un problema principalmente politico e quindi sgravarsi della relativa responsabilità. Quest’ultima sarebbe stata, in futuro, del Consiglio federale:

«Bisogna rendersi conto che il ‘monito’ precedente dei governi inglese e americano sulle operazioni in oro fra neutrali e potenze dell’Asse, in cui si parlava solo di oro razziato, fondamentalmente non sono sullo stesso piano delle ultime richieste alleate. I ‘moniti’ … significavano un avviso che per l’oro razziato dai tedeschi non potremmo far valere la ‘buona fede’. Si trattava quindi di un provvedimento d’importanza giuridica per il nostro traffico di oro. L’ultima richiesta degli Alleati, invece, è un provvedimento di blocco, quindi una pura misura bellica alleata. Se a questa richiesta dobbiamo aderire oppure no, è una questione politica della Confederazione.»

Ora nel comitato di banca si diffuse una notevole agitazione, benché in generale sulla faccenda si fosse sicuri. Ma Weber, invece di cedere, s’irrigidì in un’argomentazione: il vicepresidente della Reichsbank, Puhl, discorrendo con lui aveva «dichiarato che l’oro spedito in Svizzera non viene da altri paesi [cioè da quelli occupati dai nazisti]. Prima della guerra la Germania aveva notevoli riserve di oro proprio.» Dalle affermazioni di Puhl, pertanto, si deduceva che la BNS aveva acquisito il suo oro «sempre legittimamente», cioè che aveva «agito assolutamente in buona fede».

L’esposizione di Rossy sull’oro belga e francese appoggiò questa opinione, mentre Hirs ritenne comunque «ozioso, a posteriori, volersi rompere la testa sulle precedenti transazioni in oro con l’Asse. Non dobbiamo essere troppo paurosi. Allora abbiamo agito con pieno senso di responsabilità, senza aver mai l’impressione di agevolare la vendita di oro rubato. Se gli Alleati ci vorranno mettere sotto processo, allora ci faranno pagare cari i servizi da noi compiuti per la Germania nel traffico finanziario internazionale, anche se le nostre operazioni sono giuridicamente ineccepibili.»

Un altro membro del consiglio di banca, Ernst Laur (per molti anni direttore della Lega svizzera dei contadini, in quel periodo delegato permanente della Lega stessa), aveva letto la perizia di Schindler «non senza preoccupazione». Egli avrebbe preferito non discutere «troppe questioni giuridiche»; il suo parere era «di non analizzare più per il momento la questione legale … , finché non saremo imputati».

Il vicepresidente, Léon Daguet, concordò con lui e ammonì di non «perdere la testa» già in base alle «semplici allusioni nella stampa e ai passi compiuti finora dagli organi americani»; anche lui riteneva «piuttosto infelice voler fare, per così dire, un processo su questa faccenda dell’oro tedesco, prima che un simile processo sia stato avviato nei nostri confronti».

Come suggerito dalla perizia interna della BNS, a mo’ di misura prudenziale suppletiva venne sollevata con Puhl la questione se la Reichsbank in futuro non potesse cedere il suo oro sotto forma di pezzi da 20 marchi. Puhl rispose che, a quanto ne sapeva, la Reichsbank disponeva «ancora di un quantitativo ragguardevole di simili monete d’oro»; egli però sperava che per una parte delle transazioni la BNS avrebbe continuato ad accettare lingotti, e per il resto esprimeva l’insistente desiderio «che la Banca nazionale venisse incontro alla Reichsbank procurandole franchi in cambio di oro, in qualunque forma le fosse possibile».

All’inizio dell’aprile 1944 la BNS accettò dalla banca tedesca un’ultima consegna di monete «Lator», per un controvalore di 5 milioni di franchi; in seguito comprò esclusivamente monete coniate in Germania.

Politica dilatoria e tattica temporeggiatrice

Ben presto si sarebbe visto che abbellire così le cose non bastava a risolvere i problemi. L’aide-mémoire del 23 agosto 1944 e la dichiarazione di Bretton Woods comportarono altri chiari moniti alla Svizzera. Tre giorni prima che truppe alleate raggiungessero il confine romando, al paese venne chiesto, facendo riferimento alle trattative economiche che nello stesso periodo stava svolgendo a Londra con la Gran Bretagna e gli USA, di rinunciare in futuro, «nel proprio interesse», a ogni ulteriore transazione in oro con la Germania e i suoi alleati.

La risoluzione 6 degli accordi di Bretton Woods consigliò agli Stati neutrali di adottare misure concrete – cioè il blocco, la certificazione e la restituzione – contro la disposizione o il trasferimento di oro, divise, oggetti d’arte e altri beni depredati dalle potenze nemiche. La direzione generale della BNS osservò che una parte di queste richieste era «già realizzata» e che non voleva esprimersi sui punti restanti, squisitamente politici; una presa di posizione in proposito da parte del Dipartimento politico federale, però, venne solo all’inizio del 1945.

Viste quelle richieste, la BNS decise di far pervenire al Dipartimento una nuova domanda, con suggerimenti su come rispondere ai «desideri» alleati. «È certo che gli Alleati sopravvalutano l’importanza delle esportazioni tedesche di oro», costatò il comitato di banca; le cessioni dirette all’istituto negli ultimi due mesi e mezzo erano state «trascurabili» secondo la direzione generale, che le stimava a 30 milioni di franchi. La BNS, inoltre, non poteva «costatare movimenti di capitali di nessun genere dalla Germania alla Svizzera».

Un divieto generale all’importazione di oro era sì stato discusso, per motivi di lotta all’inflazione, ma vi si era «rinunciato, perché in tal modo anche le operazioni di pagamento con gli Alleati sarebbero divenute notevolmente più difficoltose». Per il resto la BNS aveva inasprito la prassi delle autorizzazioni per le cessioni di oro e «chiesto ripetute volte» alla Reichsbank «di non svolgere, se possibile, il suo traffico di pagamenti tramite la Svizzera, di ridurre fortemente le cessioni di oro alla Svizzera e di fornire una giustificazione per ogni altro trasporto di oro che si rendesse ancora necessario».

Anche alle banche commerciali elvetiche, già due anni prima, era stato «raccomandato insistentemente di limitare o addirittura cessare del tutto gli acquisti di divise a favore della Germania», e un’«analoga raccomandazione» era giunta loro per le aperture di crediti documentari. Perfino col «totale rifiuto di ulteriori cessioni di oro della Reichsbank», comunque, «lo scopo fissato dagli Alleati non potrebbe … essere raggiunto», perché l’istituto tedesco si poteva procurare averi in franchi per altri canali e riceveva, occasionalmente, «versamenti cospicui da Stati stranieri (Ungheria, Spagna)».

Le richieste alleate, del resto, andavano respinte anche perché accettarle avrebbe comportato la violazione della neutralità elvetica e l’interruzione completa del traffico commerciale con la Germania, comunque già molto ridotto: «Le conseguenze economiche per il nostro paese sarebbero imprevedibili. Del resto la situazione attuale della Svizzera non consente di adottare nei confronti della Germania una misura evidentemente ostile alla neutralità.»

In quel momento il blocco tedesco era già stato forzato; da ciò si vede chiaramente che dal
Reich non poteva più partire una minaccia militare da prendere sul serio, e che anche le conseguenze economiche erano indubbiamente sopravvalutate. Che fosse in primo luogo una questione di principio e non di necessità economiche o militari, neppure la banca centrale svizzera lo contestava: «benché operazioni in oro con la Reichsbank, per i citati motivi [prassi più severa di autorizzazione da parte della BNS, minore fabbisogno di franchi da parte della Reichsbank], non vengano praticamente più considerate in quantità degne di nota», la BNS riteneva si dovesse «tenere conto in una certa misura dei desideri americani», evidenziando così la «buona volontà» della Svizzera.

Già il 25 agosto 1944 il Dipartimento politico federale aveva preso posizione con un promemoria intitolato «Richieste alleate sulle operazioni svizzere in oro con la Germania» e deciso una politica dilatoria, pur rendendosi conto dei rischi connessi: «Bisognerà però badare a non creare l’impressione del rinvio. Difficilmente si può supporre che ci venga tolta ancora la quota di prodotti alimentari per il nostro atteggiamento sulla questione dell’oro; non sarebbe estranea al campo delle possibilità, viceversa, una polemica virulenta nella stampa.»

La BNS e alcuni rappresentanti della delegazione svizzera alle trattative economiche di Londra con gli Alleati concordarono, nella loro discussione del 17 novembre 1944, di non rispondere al promemoria alleato di agosto, perché quasi con certezza si poteva partire dall’ipotesi che la risposta prevista non avrebbe soddisfatto gli Alleati. A questo passo essi si decisero benché il 2 ottobre fosse stata consegnata al governo svizzero la risoluzione 6 di Bretton Woods, che tornava sul problema del commercio di oro fra potenze dell’Asse e paesi neutrali.

Nel frattempo la BNS aveva sfruttato la presenza in Svizzera di Puhl per esporgli la propria
difficile situazione e la necessità di procedere con cautela nelle transazioni in oro, nonché per assicurarsi nuovamente che il metallo fornito dai tedeschi fosse di origine legale. In un
colloquio avuto il 18 settembre 1944, Puhl dichiarò alla BNS che in quel momento l’istituto
d’emissione tedesco disponeva in Svizzera di mezzi sufficienti per un periodo piuttosto lungo, ma in ottobre voleva eventualmente, a titolo precauzionale, convertire una parte del suo deposito presso la BNS a Berna, «perché la Reichsbank … conta, nel dopoguerra, di poter tornare a disporre soprattutto delle sue riserve valutarie presenti in Svizzera».

Hirs gli assicurò «che su questo punto non faremo difficoltà, ma che per motivi comprensibili saremo ben lieti se in futuro queste cessioni resteranno ridotte a un minimo e se il controvalore troverà impiego per bisogni urgenti della Svizzera. Su sua espressa domanda, assicuro a Puhl che non siamo contrari a ricevere anche nuove spedizioni di oro e a convertirle in misura modesta.»

Puhl colse l’occasione «per sottolineare ancora una volta che la Reichsbank non possiede oro rubato e mai ha ceduto oro simile alla Banca nazionale. Quanto all’oro affluitole da istituti d’emissione, tale oro è stato portato a Berlino dal personale della banca centrale in questione e lì è stato contato e pesato, con accredito del controvalore su un conto in marchi!»

Questa presa di posizione, benché corretta alla lettera, era priva di significato pratico, perché la Germania nazista non aveva affatto intenzione di compiere quei pagamenti di rimborso. In una lettera interna delle autorità del Piano quadriennale, per esempio, si legge che il pagamento «di tutti questi conti» sarebbe stato addossato ai paesi occupati; perciò «un simile accredito significa praticamente pochissimo[:] alla fin fine l’oro non sarà certo pagato da noi».

La BNS era alle prese con un conflitto interno. Da un lato c’era il desiderio della Reichsbank di continuare le operazioni in oro e di conservare nel deposito di Berna una certa riserva, anche per il dopoguerra; dall’altro premeva il disagio per i moniti alleati, disagio che neppure le assicurazioni di Puhl potevano affatto cambiare. Bachmann se ne rendeva ben conto: dire che l’istituto d’emissione tedesco non possedeva oro rubato non avrebbe potuto «dimostrare la buona fede e la legittimità dell’oro acquisito dalla Reichsbank. Le misure varate in Svezia mostrano chiaramente che lì ci si oppone a simili consegne di oro.»

Benché il rifiuto della banca centrale svedese ad accettare oro da quella tedesca, giunto a conoscenza della BNS nel luglio 1943, si basasse su una notizia falsa, quell’esempio mostrava all’istituto elvetico un comportamento alternativo e le possibili prospettive connesse; e sebbene anche il comitato di banca segnalasse con tutta chiarezza i pericoli di ulteriori acquisti di oro dalla Germania, la direzione generale della BNS omise di trarne adeguate conseguenze.

Contesto economico e politico mutato

Non solo in seguito ai moniti alleati, ma anche a causa di mutamenti incisivi nella realtà della politica commerciale, dalla metà del 1944 la situazione cambiò notevolmente. Con l’avanzata delle truppe alleate fino al confine romando (fine agosto 1944), il controblocco (con l’eccezione delle forniture su territorio tedesco) diventava nullo; i tedeschi dovettero ammettere, inoltre, di non poter più fare promesse di consegna per carbone, ferro e combustibili. Il sistema dei trasferimenti contingentati, basato sulla reciprocità, ora veniva a cadere, perché «così al traffico economico con la Germania veniva meno il fondamento su cui era stato in piedi per tutta la guerra. L’edificio un tempo così superbo del traffico economico elveticotedesco crollò interamente in brevissimo tempo.»

«Per la Svizzera ne derivavano prospettive di approvvigionamento ben poco allegre; d’altra parte ciò dava ai negoziatori svizzeri l’occasione, nell’ambito della reciprocità, di smantellare ulteriomente le forniture alla Germania. E si trattava dell’unica via che la Svizzera poteva imboccare, in quanto Stato indipendente e neutrale, se voleva allentare i rapporti economici con la Germania per tornare a stringere quelli con gli Alleati.»

Questa posizione negoziale rientrava interamente nella logica con cui il Consiglio federale aveva valutato la sua posizione all’inizio dell’anno. Allora il presidente della Confederazione, Stampfli, aveva osservato espressamente «che è assolutamente falsa ogni idea secondo cui la Svizzera parta dal presupposto che con la Germania sia finita e non si debbano più avere riguardi. Il Consiglio federale, al contrario, ritiene molto importante restare in buoni rapporti con la Germania non solo politicamente ma anche economicamente … . Non soltanto è stato così ma resterà così anche in futuro, quale che sia la sorte della Germania. Dagli Alleati noi non ci facciamo distogliere dalla linea neutrale. Il Consiglio federale non fa una politica che dipenda dalla sfortuna bellica o dalla fortuna bellica.»

La delegazione negoziale svizzera, di conseguenza, si limitò ad adattare i contingenti dell’export alle forniture tedesche. Con richiamo al fatto che «le forniture svizzere di materiale bellico alla Germania durante la guerra si erano gonfiate fortemente e che la Svizzera ormai da molto tempo favoriva unilateralmente la Germania con forniture di materiale bellico», in prima linea vennero ridotti i contingenti di esportazione per materiale bellico e prodotti similari.

Le esportazioni mensili protette dalla garanzia-trasferimenti scesero così dai 31 milioni di franchi del primo semestre 1944 a 23 milioni. In questi accordi aveva importanza decisiva la suddetta garanzia, perché, nonostante la stretta reciprocità nel fissare i contingenti da trasferire, senza garanzia federale «il traffico economico con la Germania [sarebbe] crollato»; l’ulteriore concessione della garanzia-trasferimenti, peraltro, non era dovuta solo alla volontà del Consiglio federale di non far cessare, per motivi di politica della neutralità, il traffico economico con il Reich. Per la Svizzera era di notevole importanza anche perché contribuiva in misura decisiva ad alimentare il fondo-trasferimenti, che serviva a saldare i pagamenti «invisibili»:

«Senza queste richieste dovute a esportazioni invisibili, concedere un credito alla Germania non sarebbe necessario. Nessun paese, fra l’altro, [è] interessato come la Svizzera a questi introiti da esportazioni invisibili [per circa 200 milioni di franchi annui, nota della Commissione]. … La Germania, dal canto suo, non ha interesse.»

Da parte tedesca le promesse consistevano nelle note forniture di carbone, ferro e prodotti agricoli nonché in alleggerimenti del controblocco; l’unico elemento nuovo del contratto era una clausola imposta dalla parte elvetica, che consentiva a quest’ultima di recedere anticipatamente dall’accordo in caso di condizioni mutate.

In retrospettiva va osservato che la Svizzera non esaurì del tutto i suoi margini di manovra: Hitler e il suo ministro degli esteri, infatti, avevano istruito la loro delegazione di «condurre i negoziati in modo tale che non si giunga alla rottura e quindi alla guerra economica». Il ministero tedesco per l’armamento e la produzione bellica, inoltre, aveva dichiarato che «in caso di bisogno [poteva] rinunciare a importazioni dalla Svizzera e ad altre forniture, ove la situazione politica lo rendesse necessario». Quand’anche si dovesse giungere a disegnare un contratto che «in fatto di merci sia magari anche peggiore per la Germania che nessun contratto», il ministero era disposto, in linea di massima, a onorare un patto commerciale tanto legato a considerazioni politiche.

Del resto le istruzioni al ministro Karl Schnurre, capo della delegazione negoziale tedesca, erano inequivocabili:
«Per motivi economici riteniamo molto importante, in ogni caso, un’intesa con la Svizzera sul nuovo accordo per le merci. … La delegazione è autorizzata ad acconsentire a una riduzione del volume nella misura che diventi necessaria. … Poiché la questione di come ripartire le riduzioni sulle varie categorie di merci non è d’importanza fondamentale, da Berlino non riteniamo necessaria una decisione al riguardo.»

È chiaro quindi che la parte svizzera sopravvalutò nettamente l’importanza delle esportazioni di materiale bellico per la Germania: a quell’epoca il Reich avrebbe evidentemente accettato una cancellazione delle categorie merceologiche classificate come materiale di guerra. In un’ottica odierna ci si deve domandare se da parte elvetica non si adducesse in primo luogo l’argomento della neutralità per poter tenere in piedi un commercio il più vasto possibile con la Germania, allo scopo di alimentare il fondo-trasferimenti (oltre alle forniture di ferro e carbone).

Gli interessi tedeschi alle trattative economiche stavano in altri campi, meno importanti per la delegazione svizzera: il traffico di transito da e per l’Italia, il «libero surplus della Reichsbank» e il traffico di oro e di divise. Specialmente sull’ultimo punto, alla Germania stava a cuore «mantenere l’accomodamento favorevole ottenuto poco fa dal vicepresidente Puhl rispetto alle pressioni esercitate sulla Svizzera dalle potenze nemiche». Solo riguardo alle transazioni in oro della Reichsbank si registrò, da parte elvetica, un certo ripensamento rispetto alle ultime trattative.

Benché infatti, dal punto di vista tedesco, accordo sulle merci e possibilità di transazioni in oro non fossero collegati e quindi lo scambio fra oro e divise dovesse restare temporalmente illimitato, adesso Homberger – che ancora pochi mesi prima «poneva in primo piano come motivo per autorizzare le transazioni in oro della Reichsbank l’interesse specifico elvetico a mantenere in piedi il libero mercato dell’oro in Svizzera, e rifiutava di collegare queste transazioni a riguardi verso le potenze belligeranti [cioè verso gli Alleati]» – significò alla delegazione tedesca che la Svizzera considerava «il suo aiuto in questo campo … come una delle prestazioni più essenziali … nei nostri confronti, che la Svizzera per proprio interesse preferirebbe assolutamente smantellare, ma tiene in piedi solo per causa nostra».

La caduta del controblocco fu motivo sufficiente per la denuncia anticipata dell’accordo di giugno da parte della Svizzera; perciò quest’ultima nelle trattative successive, tenute a Berna dal 20 al 29 settembre, si trovò in posizione di partenza molto più forte, come dovette ammettere a denti stretti anche la parte tedesca. Per «non mettere in pericolo» i punti negoziali considerati dal Reich «d’importanza decisiva per la guerra», ossia «le nostre possibilità di commercio di oro, il … libero surplus-divise della Reichsbank, il transito e simili», la delegazione tedesca lasciò cadere la richiesta di armonizzare ulteriormente le esportazioni svizzere con il controblocco tedesco.

Poiché alla fine di settembre la garanzia-trasferimenti scadeva e il debito effettivo del clearing superava il miliardo di franchi («comunque un bel prezzo per un’amicizia»), vennero concessi nuovi contingenti solo in forma retroattiva, ossia a seconda delle effettive importazioni compiute. Questa aggiunta fu importante perché, dato il forte calo delle esportazioni tedesche verso la Svizzera (verso la fine dell’anno le forniture di carbone scesero a meno del 10% della quantità pattuita), essa fece sì che gli importi di clearing disponibili venissero presi quasi esclusivamente dai pagamenti invisibili, ove questi ultimi
rientrassero nel clearing.

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