DE GASPERI CONTRO GUARESCHI – 1

a cura di Cornelio Galas

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Alcide De Gasperi contro Giovannino Guareschi: sì, proprio quello che inventò la tragicomica sfida tra Peppone e don Camillo. Vediamo allora nei dettagli questa storia tutt’altro che cabarettistica. Giovannino Guareschi (Fontanelle di Roccabianca, 1º maggio 1908 – Cervia, 22 luglio 1968) è stato uno scrittore, giornalista,umorista e caricaturista italiano.

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È uno degli scrittori italiani più venduti nel mondo: oltre 20 milioni di copie,nonché lo scrittore italiano più tradotto in assoluto.

La sua creazione più nota, anche per le trasposizioni cinematografiche, è don Camillo, il “robusto” parroco che parla col Cristo dell’altare maggiore, che ha come antagonista l’agguerrito sindaco Peppone nel paesino di Brescello, bassa padana emiliana, fra il Po e la via Emilia.

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Nel 1950 Guareschi fu condannato con la condizionale a otto mesi di carcere nel processo per vilipendio al Capo dello Stato, Luigi Einaudi. Alcune vignette sul «Candido» avevano messo in risalto che Einaudi, sulle etichette del vino di sua produzione (un Nebbiolo), permetteva che venisse messa in evidenza la sua carica pubblica di “senatore”.

Guareschi non era l’autore materiale della vignetta (l’autore fu Carletto Manzoni), ma fu condannato in quanto direttore responsabile del periodico. All’epoca il diritto alla satira era molto limitato.

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Nel 1954 Guareschi venne condannato per diffamazione su denuncia di Alcide De Gasperi (De Gasperi era stato a capo del governo ininterrottamente dal dicembre 1945 al 1953). Guareschi era venuto in possesso di due lettere del politico trentino risalenti al 1944. In una di esse il futuro presidente del Consiglio, che all’epoca viveva a Roma, avrebbe chiesto agli Alleati anglo-americani di bombardare la periferia della città allo scopo di demoralizzare i collaborazionisti dei tedeschi.

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Secondo Guareschi le missive erano autentiche. Prima di pubblicarle, aveva sottoposto le lettere addirittura a una perizia calligrafica affidandosi a un’autorità in materia, il dottor Umberto Focaccia.

Al processo affermò di aver agito in buona fede. Focaccia, perito dello stesso Tribunale di Milano, affermò in aula di avere effettuato un “lungo, attento e scrupoloso esame di confronto con molti altri scritti sicuramente autentici del De Gasperi…”, per poi dichiarare “in piena coscienza, di riconoscere per autentiche del De Gasperi la scrittura del testo e la firma di cui sopra, con riguardo alla seconda lettera, e di riconoscere per autentica anche la firma apposta in calce alla prima.

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Sul piano probatorio, mentre la prima lettera era dattiloscritta e risultava autografa solamente nella firma, la seconda era integralmente autografa, risultava di pochi giorni successiva alla prima e ad essa strettamente connessa, anche sotto il profilo contenutistico.

Il fatto dunque che, a differenza del primo documento, fosse qui peritabile non solo una firma, ma un manoscritto interamente vergato a mano, avrebbe potuto potentemente comprovare, o al contrario demolire, le tesi di Guareschi.

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Da parte sua, lo statista trentino, che aveva dapprima concesso la più ampia facoltà di prova in ordine alla genuinità dei documenti in contestazione, in seguito si smentì a più riprese attraverso il proprio difensore, l’avvocato Delitala. A giudizio del penalista, non aveva infatti senso – questa la chiave di volta del processo – effettuare perizie sui documenti.

Delitala fece il possibile per eludere ogni verifica sulle lettere: ben più del giudizio di altri periti, affermò l’avvocato, rilevavano, sul piano processuale, il giuramento dello stesso De Gasperi e le prove – di cui una chiara, l’altra, di contro, equivocabile – fornite dai graduati inglesi che avevano sostenuto la tesi dell’onorevole democristiano.

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Se il Tribunale proprio ritiene di non poterne fare a meno, faccia pure, ma una perizia – perorò Delitala, appellandosi “alla coscienza” dei magistrati milanesi –sconta pur sempre il rischio di un errore peritale, ma soprattutto l’avvocato di De Gasperi si oppose alla perizia per evitare ritardi nel processo che si svolgeva per direttissima.

Guareschi, di contro, mise argomentatamente in dubbio l’attendibilità delle dichiarazioni di provenienza britannica, facendo presente di essere sgradito al Governo inglese per la sua polemica sulla contesa di Trieste fra l’Italia e la Jugoslavia di Tito; evidenziò, ex adverso, che De Gasperi era un vecchio, fedele alleato degli angloamericani.

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Il Tribunale di Milano non diede alcun peso a queste deduzioni ed accogliendo senz’altro le richieste formulate dal difensore di De Gasperi non mostrò neppure alcuna curiosità per i documenti agli atti: negò a Guareschi l’effettuazione della perizia calligrafica e della perizia chimica; negò persino la possibilità di escutere le testimonianze potenzialmente favorevoli allo scrittore in ordine alla provenienza e all’attendibilità dei documenti attribuiti a De Gasperi, tra cui anche quelle di persone vicine allo stesso De Gasperi, come Giulio Andreotti.

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La motivazione del Collegio giudicante in ordine alle perizie, fu la seguente: «le richieste perizie chimiche e grafiche si appalesano del tutto inutili, essendo la causa sufficientemente istruita ai fini del decidere». Il 15 aprile Guareschi fu condannato in primo grado a dodici mesi di carcere. Non presentò ricorso in appello poiché ritenne di avere subito un’ingiustizia:

« No, niente Appello. Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. (…) Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente.»

azxPrese la via della galera, così come, è lui stesso a dirlo, aveva preso quella del lager per non avere voluto collaborare con il fascismo ed il nazionalsocialismo[. Commentando la condanna, il padre di don Camillo e Peppone si affidò ad una citazione di dantesca memoria, “E il modo ancor mi offende”.

Dopo il primo processo, un altro collegio, che doveva pronunciarsi per il reato di “falso”, decise la distruzione del corpo del reato, cioè delle lettere originali[2. Divenuta esecutiva la sentenza, alla pena fu accumulata anche la precedente condanna ricevuta nel 1950 per vilipendio al Capo dello Stato.

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Nel 2014, studiando i documenti rimasti con l’esperta Nicole Ciacco, lo storico Mimmo Franzinelli ha concluso che le lettere furono sicuramente dei falsi (anche se probabilmente Guareschi ne fu completamente ingannato, così come Focaccia).

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Lo confermano la presenza di errori grossolani: il protocollo indicato nella lettera del 12 gennaio 1944 (297/4/55) non corrispondeva ai criteri di protocollo della Segreteria di Stato Vaticana; il colonnello inglese Bonham Carter e il ministro della difesa britannico Harold Alexander avevano escluso categoricamente che quelle presunte lettere fossero mai pervenute agli inglesi; infine De Gasperi non lavorava più alla Segreteria Vaticana dal luglio 1943 ed è dunque impossibile che abbia protocollato lettere nel 1944.

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Già successivamente al processo l’ideatore della campagna diffamatoria verso De Gasperi e della produzione delle false lettere fu individuato nel tenente Enrico De Toma, di simpatie neofasciste, che riuscì a sfuggire all’arresto nel novembre 1954, scappando in sud America dall’aeroporto parigino di Orly. De Gasperi era ormai morto lo stesso anno, poco dopo la fine del processo.

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Guareschi venne recluso nel carcere di San Francesco del Prato a Parma, dove rimase per 409 giorni, più altri sei mesi di libertà vigilata ottenuta per buona condotta, ma con l’obbligo di risiedere presso la sua abitazione di Roncole. Sempre per coerenza, rifiutò in ogni momento di chiedere la grazia.

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Guareschi è stato il primo e unico giornalista della Repubblica Italiana a scontare interamente una pena detentiva in carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa.

Nel 1956 la sua condizione fisica si era deteriorata e iniziò a trascorrere lunghi periodi a Cademario in Svizzera per motivi di salute.

« Arrivato sul finire del 1963, tiro le somme e mi accorgo che, mentre io continuo ad avere soltanto due anni in meno di mia moglie, mio figlio e mia figlia sono arrivati ad avere rispettivamente 32 e 35 anni meno di me. Cosa che, anche solo dieci anni fa, era profondamente diversa. »
(Giovannino Guareschi)

Nel 1957 si ritirò da direttore del «Candido», rimanendo tuttavia un collaboratore della rivista.

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Nel giugno 1961 Guareschi fu colto da un infarto, da cui si riprese con fatica. Il 7 ottobre dello stesso anno uscì il quarto film della famosa saga di don Camillo: Don Camillo monsignore … ma non troppo. La storia era tratta dai romanzi di Guareschi; il film era prodotto dalla Cineriz di Angelo Rizzoli, che era anche editore del «Candido».

Lo scrittore sconfessò la sceneggiatura, giudicandola lontanissima dallo spirito del romanzo. Ne nacque una dura discussione con Rizzoli. Il dissidio non si ricompose: pertanto Guareschi decise di interrompere definitivamente la collaborazione al «Candido». Successivamente Rizzoli chiuse il settimanale.

Negli stessi anni Papa Giovanni XXIII chiese a Guareschi di collaborare alla stesura del nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica. Guareschi declinò cortesemente l’invito non ritenendosi degno di tale onore.

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Prese una radicale posizione di contrarietà verso i governi di centrosinistra, ovvero verso quell’alleanza tra DC e PSI detta Centro-sinistra “organico” che, a partire dalla metà degli anni sessanta, doveva improntare per oltre un ventennio la politica italiana.

Guareschi ricevette l’invito da parte di Nino Nutrizio a collaborare col suo quotidiano, il milanese «La Notte». Guareschi rispose favorevolmente:

« Ritengo «La Notte» l’ultima isola di resistenza rimasta in campo nemico e mi auguro, come italiano, come giornalista e come amico, che tu possa ancora resistere ai «liberatori» di Milano. »

Continuò a collaborare a vari periodici con disegni e racconti. Tenne inoltre, per quattro anni e fino al 1966, una rubrica di critica televisiva intitolata Telecorrierino delle famiglie su «Oggi Illustrato».

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Nel 1968 gli fu riproposta la direzione del «Candido» da parte di Giorgio Pisanò, ma morì prima di poter ricominciare a causa di un attacco cardiaco. I suoi funerali, svoltisi sotto la bandiera con lo stemma sabaudo, furono disertati da tutte le autorità. Unici personaggi di rilievo presenti per l’estremo saluto furono Nino Nutrizio, Enzo Biagi ed Enzo Ferrari.

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Guareschi è stato sepolto nel piccolo cimitero di Roncole Verdi.

Il vivace rapporto di Guareschi con il potere costituito ha sempre dato adito a controversie. Quello che è certo è che il suo carattere irriverente, irruente e sanguigno gli abbia procurato sovente dei guai con le istituzioni.

Non c’è dubbio che egli dovette sopportare da un lato l’ostracismo prevedibile della sinistra, data la sua dichiarata ostilità alle idee e alla visione politica del partito comunista; dall’altro è evidente l’assoluta mancanza di riconoscenza da parte di chi la sua penna aveva numerose volte enormemente favorito, ovvero il centrismo cattolico rappresentato in Italia dalla DC.

I rapporti con il fascismo furono ugualmente alternanti e dibattuti. Probabilmente, gestire uno spazio satirico sotto un regime autoritario avrebbe in ogni caso richiesto un sottile gioco di compromessi per sopravvivere.

Nel periodo delle vicende giudiziarie del primissimo secondo dopoguerra, Azione giovanile, rivista della Gioventù italiana di Azione Cattolica, titolò un’intera pagina con: “Guareschi ovvero lo scarafaggio”.

A corredo dell’articolo la foto di una mano con uno scarafaggio con la didascalia: Quando certi individui ti danno la mano ti succede di provare un senso di ribrezzo.

Umberto II di Savoia dall’esilio lo insignì dell’onorificenza di Grand’Ufficiale della Corona d’Italia.

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