CEFALONIA 1943, TANTE “VERITÀ” – 21

a cura di Cornelio Galas

Vediamo in sintesi le diverse posizioni sulla vicenda di Cefalonia nella storiografia, non solo italiana.

di Carlo Palumbo

IL DIBATTITO STORIOGRAFICO

Dall’immediato dopoguerra agli anni Novanta

Le tragiche vicende di Cefalonia e Corfù sono presentate all’opinione pubblica italiana grazie a due lavori del 1945: Cefalonia, di Giuseppe Moscardelli, e La tragedia di Cefalonia di Triarius, ovvero il colonnello Ugo Maraldi. Si tratta di due storici militari che utilizzano le testimonianze dirette di alcuni sopravvissuti per fornire una prima parziale ricostruzione dei fatti.

Secondo Moscardelli, «Punto saliente di questa Memoria: l’intimo dramma del generale comandante dell’isola; di un uomo dibattuto da opposte esigenze rese inconciliabili dalla singolarità della situazione: la consapevolezza della sorte che incombeva sui suoi soldati; la rigida coscienza del dovere militare; la lealtà verso l’alleato divenuto nemico».
Ma anche, per contrasto: «Nota acuta per sette giorni: una violenta crisi disciplinare fra le truppe per alti motivi ideali».

Nelle prime ricostruzioni emergono immediatamente quegli elementi di ambiguità che accompagneranno i giudizi su Cefalonia nei decenni a seguire. Nel 1946 viene pubblicato il libro di don Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia, che concentra l’attenzione soprattutto sull’aspetto umano oltre che su quello militare del dramma di Cefalonia. Da testimone diretto dei fatti narrati, amico di molti dei sopravvissuti, il cappellano si pone da subito come interprete dei sentimenti dei reduci e dei familiari dei caduti, contribuisce a creare il mito del generale Gandin, ma anche a calcare i toni sul clima di insubordinazione e di ribellione dei reparti.

Nelle successive edizioni, tra le quali quella del 1969, curata dal fratello, padre Edoardo, si avvia l’opera di raccolta dei nominativi dei caduti, un lavoro purtroppo rimasto ancora oggi incompiuto. Nel 1953 viene pubblicato Storia della Resistenza italiana, di Roberto Battaglia, che dedica due capitoli alla «Resistenza delle Forze Armate nel territorio nazionale» e «all’estero» dopo l’8 settembre 1943. Alcune pagine particolarmente significative sono dedicate proprio alla sorte della Acqui.

Nella sua ricostruzione storica si dà più peso ai processi che portano allo sviluppo delle forze partigiane in Italia, dall’8 settembre alla costituzione del Corpo volontari della libertà, alla fine del 1944, all’insurrezione finale dell’aprile 1945. La resistenza militare al tedesco costituiva piuttosto una premessa necessaria allo sviluppo successivo. Considerando però che si tratta della prima opera generale sulla Resistenza italiana, non si può dire che vi sia stata una sottovalutazione dell’evento.

Anche don Luigi Ghilardini, l’unico dei cappellani militari contrari alla resa e presente sull’isola fino al novembre 1944, dà il suo contributo con i volumi I martiri di Cefalonia. Esumazione dei caduti in Grecia, del 1952, e Sull’arma si cade ma non si cede, del 1963; egli non solo ricostruisce le vicende militari, la strage della divisione ma affronta anche il periodo successivo, in particolare la sorte dei sopravvissuti nell’anno in cui Cefalonia rimane sotto occupazione tedesca, e l’opera di esumazione dei caduti, a cui il cappellano dedica tutto il suo impegno, prima nei mesi tra settembre 1943 e novembre 1944, poi nel corso della missione del 1952.

Nel 1963 viene stampato un romanzo che ha «valore di testimonianza”, secondo quanto recita la prefazione scritta da Sandro Pertini, Bandiera bianca a Cefalonia, di Marcello Venturi. L’autore si avvale della collaborazione di Amos Pampaloni e può utilizzare le memorie e la documentazione allora disponibile. Il romanzo rompe «il silenzio che, se era comprensibile in Germania, era colpevole in Italia».

Il successo del libro riporta infatti l’attenzione dei media tedeschi e italiani su Cefalonia; nel 1964 il cacciatore di nazisti, Simon Wiesenthal, si interessa della questione e comincia a raccogliere materiali per intentare un’azione legale. Nel novembre 1964 la Procura di Stato di Dortmund avvia finalmente un procedimento istruttorio sull’eccidio di Cefalonia. Fino ad allora per la giustizia tedesca quanto avvenuto sull’isola era assolutamente sconosciuto.

Nei vent’anni che seguono non appaiono riletture complessive, a parte il volume di Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, a cura dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, stampato nel 1975, che tuttavia ricalca su tutti i punti più controversi le convinzioni che ormai si sono stabilizzate dall’immediato dopoguerra, giustificando le scelte tattiche di Gandin all’interno delle trattative in corso.

Nel 1981 viene pubblicato ad Atene il lavoro di Spyros Loukàtos, Gli anni dell’occupazione italiana e tedesca e della Resistenza nazionale a Cefalonia e Itaca, che presenta il punto di vista greco su quello che lui chiama «lo scontro italo-tedesco», e mette in evidenza il contributo greco e il conflitto interno alla divisione tra fascisti e antifascisti.

Nel 1985 vengono pubblicate due opere di storici militari, il primo ancora dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito curato dal colonnello Vincenzo Palmieri, Quelli delle Jonie e del Pindo, l’altro del generale Renzo Apollonio, allora presidente dell’Associazione nazionale superstiti reduci e famiglie caduti divisione Acqui, La Divisione da Montagna Acqui a Cefalonia e Corfù 1943. La novità maggiore sta negli allegati al lavoro di Apollonio, che negli anni precedenti aveva fatto ricerche negli archivi tedeschi ritrovando il diario di guerra del 22° corpo d’armata, quello di Lanz.

La lettura dei documenti permette di dare nuova luce alle trattative condotte tra Gandin e Barge. Inoltre, tra i materiali pubblicati vi è il testo originale della «notifica» di Gandin del 14 settembre, quella che secondo l’autore potrebbe spiegare la scelta tedesca di non fare prigionieri a Cefalonia. Tuttavia, Apollonio continua a essere assai prudente nei giudizi su Gandin e, per quanto riguarda le scelte operative del generale, si limita a formulare osservazioni sul piano strettamente tecnico-militare.

Nel 1993 appare il volume collettivo curato da Giorgio Rochat e Marcello Venturi, La divisione Acqui a Cefalonia, che approfondisce il contesto della presenza italiana nei Balcani, la storia della divisione e i differenti punti di vista italiano e tedesco. Le vicende militari sono trattate dagli storici Mario Montanari e Gerhard Schreiber, che ricostruiscono rispettivamente la documentazione italiana e quella tedesca.

Da una lettura attenta dei diversi contributi emergono ipotesi contrastanti su molti dei particolari della vicenda di Cefalonia. Soprattutto la lettura dei documenti tedeschi permetterebbe di rivedere alcune delle convinzioni che si sono tramandate a partire dalle ricostruzioni dell’immediato dopoguerra, quando, mancando gran parte delle fonti italiane, perché distrutte a Cefalonia nel corso dei combattimenti, si è dovuto fare ricorso
ai contributi non sempre attendibili dei testimoni sopravvissuti.

Ma il libro lascia aperte le questioni poste. Interessante anche il contributo di Christoph Schminck-Gustavus, che ripercorre l’isola alla ricerca dei luoghi della memoria di Amos Pampaloni, uno dei protagonisti della lotta antitedesca. Nel 1989 il ministro della Difesa dà vita a una Commissione per lo studio della Resistenza dei militari italiani all’estero (CO.RE.M.IT.E.), che termina i lavori nel 1995 con una relazione finale, La resistenza dei militari italiani all’estero, affidata a Giovanni Giraudi, allora onorevole e tra i rappresentanti della Federazione italiana volontari della libertà in seno alla Commissione. La storia della Acqui è trattata nel secondo volume dedicato a Grecia continentale e isole dello Jonio.

Giraudi riprende alcune delle critiche di Apollonio alla conduzione delle operazioni da parte di Gandin e sottolinea i dubbi sulle ragioni delle trattative con i tedeschi. In sostanza appare come una presa di distanza dalle valutazioni che fino ad allora erano state fatte sull’operato del generale, un giudizio particolarmente significativo proprio per l’autorevolezza dell’autore e per il compito istituzionale svolto dalla commissione di studio.

Intorno al Sessantesimo anniversario della strage, tra celebrazioni e spettacolarizzazione della memoria Per molti anni si è parlato di Cefalonia solo episodicamente. Qualche servizio televisivo in occasione del decennale non riusciva a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica. Tra la fine del 2000 e il 2001 si assiste a una svolta, perché fatti diversi concorrono a richiamare l’attenzione dei media.

Innanzitutto, in ottobre, la pubblicazione del bel libro di Alfio Caruso: Italiani dovete morire, che propone una ricostruzione d’insieme delle settimane del settembre 1943, inserendo le molteplici vicende individuali in una narrazione complessiva degli eventi, anche se le fonti utilizzate non sono indicate. Poi, in marzo, il viaggio e il discorso del presidente Carlo Azeglio Ciampi a Cefalonia, che apre un dibattito sulla stampa nazionale durato qualche settimana con l’intervento di editorialisti e storici, in particolare su «il Corriere della Sera» (Galli della Loggia) e su «la Repubblica» (Bocca, Scalfari, Pirani, Villari).

Sempre nel 2001 vedono la luce due film su Cefalonia: l’italiano I giorni dell’amore e dell’odio – Cefalonia, di Claver Salizzato, e l’americano Il mandolino del Capitano Corelli, del regista John Madden, tratto dal romanzo dell’inglese Louis de Bernières, pubblicato nel 1994. Solo il secondo film riesce a catalizzare l’attenzione dei media e del pubblico, mentre quello italiano passa quasi inosservato.

Quello di Madden è, a mio avviso, un film brutto per molti versi e sfiora il razzismo nei confronti del soldato italiano, presentato come inadatto per natura al combattimento ma sempre pronto al corteggiamento e al canto lirico, con sequenze dove spesso si supera il comune senso del ridicolo. Il capitano Amos Pampaloni, sopravvissuto alla strage di Cefalonia e ispiratore della vicenda del protagonista, si è molto risentito quando si è visto trasformato nel personaggio del capitano Corelli.

La sceneggiatura del film di Salizzato è costruita sull’amore di due fratelli altoatesini innamorati della stessa donna, che si ritrovano a Cefalonia, nel settembre 1943, su due fronti contrapposti: uno combatte tra i soldati della Acqui, l’altro tra le truppe da montagna austriache che partecipano alla rappresaglia. Lo spunto potrebbe essere verosimile perché molti soldati inquadrati nei reparti tedeschi erano di origine sudtirolese
e tra gli ufficiali italiani sopravvissuti una decina era originaria dell’Alto Adige. Rispetto al film americano appare certamente più controllato, meno romanzato, con una recitazione quasi teatrale, non naturale, che a volte può sembrare fuori registro, ma che è interessante.

Forse lo scontro tra i due fratelli appare solo in parte giustificato, ma assume una connotazione metaforica che rinvia alla guerra «fratricida». Si nota l’alternanza tra scene descrittive e narrative e altre dal valore dichiaratamente simbolico ed evocativo, a tratti il montaggio e lo stile della ripresa richiamano quelli dei fratelli Taviani.

Se fino a questo momento l’episodio della Acqui non si costituiva come evento paradigmatico rispetto alla nascita della Resistenza e alla costruzione della nuova Italia, nel discorso del presidente Ciampi tenuto il 1° marzo 2001 sui luoghi della strage, i soldati della Acqui avrebbero compiuto «il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo».
Rivolto ai sopravvissuti presenti:
«Decideste consapevolmente il vostro destino, e dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione ne riaffermaste l’esistenza».

Su queste frasi sono arrivate contestazioni da molte parti. È sembrato, infatti, che fosse fuori luogo collegare così strettamente la scelta fatta dagli uomini della Acqui e da tanti altri militari nei giorni seguiti all’8 settembre 1943, con il fenomeno storico denominato «Resistenza».

In realtà, separare i diversi aspetti della lotta antitedesca e antifascista, la lotta dei militari da quella dei civili, la resistenza armata, ovviamente rappresentata da gruppi più ristretti di patrioti, e quella più vasta degli uomini e delle donne che nei mesi di occupazione riscoprono nuove forme di solidarietà e di partecipazione che si intrecciano con le esigenze dettate dalla necessità di sopravvivere, serve solo a sminuire il significato storico e democratico della Resistenza, accentuandone ora l’aspetto ideologico-politico, ora quello militare, con l’obiettivo di limitarne la portata.

Una Resistenza, cioè, ridotta a fenomeno minoritario rispetto all’insieme del Paese, da una parte i «partigiani» ma senza più un Paese alle spalle contro l’altra minoranza di fedeli alla Repubblica sociale italiana. Il nuovo interesse per queste vicende si concretizza nell’impegno produttivo della Rai che nel 2005 trasmette in televisione le due parti dello sceneggiato Cefalonia, poi rimontato per il passaggio nei cinema in una versione più breve dei duecentodieci minuti dell’originale. Il regista è Riccardo Milani.

Il protagonista, il sergente Saverio Blasco, è interpretato dall’attore Luca Zingaretti. Si tratta, ovviamente, di una storia romanzata: il sergente vive gli avvenimenti di Cefalonia a partire dalla notizia dell’armistizio fino alla sconfitta e al massacro dei compagni. Sopravvissuto nell’isola durante l’occupazione tedesca, rientrerà in Italia assieme alla donna cefaliota che ama. Il successo anche di pubblico della produzione televisiva rilancia su scala più ampia l’interesse per una storia che secondo molti dei testimoni e degli addetti ai lavori sarebbe stata ormai dimenticata.

Le nuove fonti documentarie e il dibattito attuale: interpretazioni a confronto

Come abbiamo visto, le maggiori novità circa la documentazione e la rilettura critica dei fatti di Cefalonia risalgono alle ricerche d’archivio di Renzo Apollonio e agli studi di storici come Gerhard Schreiber, che riportano alla luce e interpretano soprattutto i fondi conservati negli archivi tedeschi. Oggi è disponible una documentazione imponente distribuita in archivi diversi, in Italia, in Germania, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Sarebbe necessario un lavoro sistematico e collettivo per fare progressi decisivi nella soluzione dei problemi ancora aperti. In Italia il più importante archivio sui fatti di Cefalonia e Corfù è quello dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito a Roma, dov’è stato costituito il Fondo Divisione Acqui, che comprende oltre alla documentazione già in possesso dell’Archivio storico, in particolare il Carteggio del Comando Supremo dello Stato maggiore generale e gli allegati ai diari storici del Comando Supremo, i tre faldoni con oltre duecento fascicoli delle carte della Commissione ministeriale per lo studio della resistenza dei militari italiani nella Grecia continentale e sulle Isole Ionie (cosiddette carte CO.RE.M.IT.E.), che ha terminato i suoi lavori a metà degli anni Novanta; vi sono poi le duecentodieci testimonianze tedesche agli atti della procura di Dortmund e Monaco; i diari di guerra germanici; le carte dei servizi segreti inglesi e americani, compresi i documenti originali della missione militare alleata del 1944; i documenti tedeschi sono presenti in copia.

Presso l’Archivio storico della Camera dei Deputati è depositata la documentazione raccolta dalla Commissione bicamerale istituita nel 2003 per chiarire le responsabilità dell’occultamento dei fascicoli relativi ai crimini di guerra nazifascisti (l’Armadio della vergogna). Vi si trovano le audizioni, i documenti provenienti da svariati uffici ministeriali e istituzioni diverse, tra i quali il Consiglio della magistratura militare e il Sismi, ma anche acquisiti presso gli archivi stranieri.

Nel 2007 l’Archivio dell’Associazione nazionale superstiti reduci e famiglie caduti divisione Acqui, oggi Anda, quello proveniente dalla famiglia Apollonio e quelli degli eredi di don Formato e don Ghilardini, trasferiti provvisoriamente presso l’Ufficio storico dello Stato maggiore di Roma nel 2001, sono stato consegnati all’Archivio dell’Istituto storico autonomo della resistenza dei militari italiani all’estero di Arezzo e qui inventariati. Per quanto riguarda i militari internati, si veda l’Archivio Imi riordinato da Claudio Sommaruga e oggi acquisito dall’Istituto di Storia contemporanea Pier Amato Perretta di Como.

Particolarmente importanti sono, poi, gli archivi tedeschi, il Bundesarchiv di Berlino, dove sono confluiti i documenti del ministero degli Affari esteri relativi alla punizione dei criminali di guerra, alla prescrizione dei crimini nazisti e ai contatti con le autorità diplomatiche, il Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, per la documentazione militare, il Bundesarchiv di Coblenza, in particolare per i materiali fotografici, il Bundesarchiv di Ludwigsburg, dove nel 1957 era stata istituita la Procura centrale delle amministrazioni federali di giustizia per le indagini preliminari sui crimini nazisti, l’Imperial War Museum
London e il National Archives Washington D.C. dell’ultimo decennio la discussione ha prodotto, a grandi linee, tre differenti orientamenti, a partire dai giudizi sul comportamento del generale Gandin e dei giovani ufficiali che hanno guidato il fronte antitedesco.

Federico Filippini

Sulla base delle differenti scelte possiamo distinguere, su un versante, l’interpretazione di Sergio Romano e di Massimo Filippini, che prendono le distanze dalle spinte antitedesche all’interno della divisione che costringono il generale allo scontro. All’opposto si pone, invece, un ricercatore che ha dedicato ben cinque libri a questo tema negli ultimi anni, Paolo Paoletti, su posizioni radicalmente contrarie alle scelte di Gandin.

Tra questi estremi si pongono gli studiosi, soprattutto accademici, che mantengono un equilibrio nel giudizio sul generale e sui giovani ufficiali antitedeschi che in passato ha caratterizzato l’interpretazione degli storici militari e dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito dal 1945: Elena Aga Rossi, Gian Enrico Rusconi e Giorgio Rochat.

Massimo Filippini è il figlio del maggiore Federico, fucilato dai tedeschi il 25 settembre 1943 per rappresaglia assieme ad altri 6 ufficiali prelevati dal 37° ospedale da campo di Argostoli. Filippini è autore di La vera storia dell’eccidio di Cefalonia, pubblicato nel 1998, poi ristampato nel 2004 come La tragedia di Cefalonia. Una verità scomoda. Il libro è diviso in due parti: la prima è dedicata ad una ricostruzione degli eventi dall’8 al 25 settembre 1943, la seconda al processo penale che si è svolto nel 1957, a partire dalla denuncia di Giuseppe Triolo, padre del sottotenente Lelio, fucilato con Federico Filippini.

L’autore considera ben più gravi le responsabilità italiane su quelle tedesche, in particolare quelle del Comando Supremo e accusa apertamente gli ufficiali antitedeschi e gli ordini tardivi provenienti da Brindisi di aver provocato il massacro della divisione. Per Filippini quegli ufficiali sono «cospiratori» e «rivoltosi» e come tali avrebbero dovuto essere trattati dallo Stato Italiano. Per questo recupera i contenuti della requisitoria del pubblico ministero nel processo del 1957 dove erano presentate queste accuse, nonostante la successiva sentenza del giudice istruttore di proscioglimento perché l’attività degli imputati non costituiva reato.

Nella prefazione si legge:
«La storiografia ufficiale, infatti, ha sistematicamente travisato gli avvenimenti per darne una visione distorta, in sintonia con gli indirizzi politici dell’Italia “nata dalla Resistenza”, additando, pertanto, nei Tedeschi, i soli responsabili dei fatti, laddove invece una analisi obiettiva degli stessi fa emergere responsabilità italiane ben più gravi, rispetto alle quali quelle tedesche costituiscono solo l’ultimo anello della catena».

Sergio Romano si inserisce, invece, nella discussione avviatasi a fine 2000 e che coinvolge intellettuali e storici di vario orientamento, a partire dall’articolo di Mario Pirani su «la Repubblica» del 21 agosto 2000. In un suo breve intervento sul n. 1/2001 di Nuova Storia contemporanea, dal titolo esplicito, Cefalonia, un pagina nera della storia militare italiana, dopo avere criticato quella che appariva la riscoperta tardiva da parte di una sinistra che avrebbe così voluto contrastare la sostanziale riabilitazione del fascismo di Salò, ricorda l’obiettivo di Gandin di evitare una prova di forza:
«Vuole evitare la prova di forza e respingere probabilmente, nella sua coscienza, la prospettiva di uno scontro con i suoi vecchi compagni d’arme. Ma intende uscire dalla vicenda a testa alta, con onore. Comincia così un difficile negoziato durante il quale Gandin scopre improvvisamente che la divisione gli sta sfuggendo di mano. 

Alcuni ufficiali non vogliono cedimenti, rifiutano qualsiasi compromesso e non esitano ad agitare la truppa contro il loro comandante. Ciò che accade nei giorni seguenti è probabilmente, sotto il profilo della disciplina, una delle più brutte pagine della storia militare italiana».

Sergio Romano

Riguardo al cosiddetto «referendum»:
«Mi sembra di comprendere che qualcuno ha visto in questo referendum una espressione di democrazia. Ma se crede davvero che le azioni di guerra debbano decidersi con un voto, mi auguro che non debba mai comandare una formazione militare».

Quanto al giudizio sulla scelta di Gandin di combattere, egli «vi fu drammaticamente costretto dalle circostanze e finì come quei pastori che rincorrono il gregge, per non abbandonarlo, sino a precipitare, con esso in un dirupo. Fu un eroe? Senza dubbio, ma non di quelli, sfortunatamente che un Paese può innalzare come modello da imitare sugli altari del sentimento nazionale».

Nel 2003 Elena Aga Rossi ripubblica l’edizione aggiornata e ampliata del 1993 di Una nazione allo sbando. Nella trattazione sulle conseguenze dell’armistizio sull’esercito italiano, l’autrice dedica alcune pagine ai fatti di Cefalonia e Corfù, in cui sostanzialmente ricupera gran parte delle convinzioni comuni alle ricostruzioni dei decenni precedenti, senza tenere in conto la documentazione tedesca e gli spunti che pure provenivano da Apollonio, da Giraudi e da Schreiber.

In particolare vengono riconfermati i giudizi sul generale Gandin, sulla conduzione della trattativa e poi della battaglia, viene ribadito il ritardo fino al 12 o al 13 settembre degli ordini del Comando Supremo, si evita così di mettere a fuoco le contraddizioni e le debolezze delle scelte del comandante italiano, mentre viene esagerato il ruolo avuto dai capitani Amos Pampaloni e Renzo Apollonio nel rifiuto della resa e nel portare allo scontro una parte consistente della truppa, così come si pone l’accento sugli episodi anche gravi di insubordinazione e sugli atti di violenza nei confronti degli ufficiali accusati di voler cedere ai tedeschi. Circa le cause della scelta tedesca di non fare prigionieri tra i soldati, l’autrice non coglie il rapporto con la “notifica”  di Gandin a Barge.

Nel 2004 appare una nuova ricostruzione-interpretazione della vicenda, Cefalonia. Quando gli italiani si battono, di Gian Enrico Rusconi. L’autore, che continua l’indagine avviata da qualche anno con Se cessiamo di essere una nazione e Resistenza e postfascismo, colloca il caso Cefalonia all’interno della sua riflessione sulla «questione dell’identità nazionale italiana» e sulla «ricostruzione della memoria di una nazione democratica».

Per Rusconi, Gandin era legittimato a trattare le migliori condizioni con i tedeschi, mentre l’azione degli ufficiali antitedeschi era giustificata dal contesto in cui si trovarono a operare. Senza risolvere alcuni dei nodi interpretativi che altri storici hanno fatto emergere, Rusconi intende trattare la vicenda «Fuori dal mito. Dentro la storia politica»: «L’onore del soldato italiano di non cedere le armi coincide a Cefalonia con la voglia di tornare a casa in sicurezza. Per questo gli italiani si battono. Questa è l’essenza della vicenda».

Di fronte al quesito se per gli uomini della Acqui non sarebbe stato meglio l’internamento rispetto alla morte per mano tedesca, l’autore risponde: «Sono gli stessi soldati della Acqui […] che non vogliono affatto finire prigionieri dei tedeschi».
Quanto all’affermazione che la conclusione tragica sarebbe stata scontata:
«[…] l’affermazione che la situazione oggettiva degli italiani fosse irrimediabile non tiene conto che 1) un comportamento più efficace sul campo di battaglia da parte della Acqui e 2) una resistenza più aggressiva delle altre truppe italiane in Grecia, in Albania, eccetera avrebbero modificato profondamente l’intera situazione strategica».

Riguardo alle ragioni della strage, Rusconi è convinto che essa sia da cercare nel rifiuto del governo Badoglio di formalizzare lo stato di guerra con la Germania, dando così lo spazio per dichiarare giuridicamente «ammutinate» le truppe che resistono a Cefalonia, questa sarebbe per l’autore anche l’opinione di Eisenhower.

Giorgio Rochat, nel suo ampio studio su Le guerre italiane 1935-1943, stampato nel 2005, dedica poche pagine conclusive a Cefalonia. L’autore conferma quanto già affermato nel volume collettivo del 1993. Anzi, è convinto che non vi sia molto da aggiungere a quanto già è stato detto, perché «I fatti sono noti».

Riconferma che i reparti si sarebbero trovati in difficoltà «per la mancanza di ordini chiari in una situazione di straordinaria difficoltà come un rovesciamento di alleanze», ma «se il re e Badoglio avessero dato ordini chiari di resistenza, gran parte delle truppe avrebbe combattuto, senza poter rovesciare la situazione». «Cefalonia non aveva possibilità di protrarre una resistenza, poteva soltanto condurre una difesa passiva […] fino a quando i tedeschi avessero raccolto le forze necessarie per liquidarla». In questo modo l’autore chiude a ogni possibile riapertura della discussione.

Anche la «notifica» di Gandin riappare nella versione fornita da Bronzini nel 1946, nonostante quella originale sia pubblica da vent’anni perché tra i documenti conservati negli archivi tedeschi. Quindi non vi sarebbero rapporti tra la comunicazione del generale e la decisione tedesca di non fare prigionieri tra i soldati. Per Rochat “Oggi è possibile un giudizio più sereno”.

Ma in una nota finale, non dimentica di sottolineare che «Il ricupero della memoria di Cefalonia ha anche effetti meno positivi: film melodrammatici, volumi commerciali, ricerche sensazionalistiche, su cui è meglio tacere». Di Rochat si veda anche, «Ancora su Cefalonia», settembre 1943, in Studi e ricerche di storia contemporanea, giugno 2006.

Ma la maggiore novità degli ultimi anni è costituita dall’attività del ricercatore Paolo Paoletti, autore di ben cinque lavori dedicati a Cefalonia e a Corfù. Innanzitutto i due volumi usciti nel 2003, I traditi di Cefalonia e I traditi di Corfù; poi, nel 2006, Il capitano Renzo Apollonio, l’eroe di Cefalonia seguito da Cefalonia 1943 una verità inimmaginabile, nel 2007, dedicato alla figura di Gandin, e da Cefalonia. Sangue intorno alla Casetta Rossa, nel 2009. Per finire, almeno per il momento, nel 2011 vede la luce Itinerario della memoria. Guida delle stragi dei militari italiani a Cefalonia, scritto a quattro mani con Bruna De Paula, dell’Associazione italo-greca di Cefalonia e Itaca «Mediterraneo».

Come si vede, non c’è tema controverso che non venga affrontato dall’autore. Paoletti accusa apertamente Gandin di tradimento per avere coscientemente pianificato la resa fino all’ultimo momento, scaricando poi sulla divisione il rifiuto di cedere le armi. Non solo gli contrappone il comportamento da subito antitedesco tenuto dal colonnello Lusignani a Corfù, ma attribuisce all’ultimo messaggio di Gandin ai tedeschi «La divisione si rifiuta di eseguire l’ordine di radunarsi nella zona di Sami […]» la causa del comportamento tedesco a Cefalonia. Essi avrebbero cioè trattato gli uomini della Acqui non come «traditori », ma come «ribelli» o «ammutinati» al loro comandante e agli ordini superiori, ordinandone quindi lo sterminio.

Erano intuizioni già presenti in alcuni giudizi espressi in tempi diversi da Renzo Apollonio, da Amos Pampaloni o da Giovanni Giraudi, ma mai con la coerenza e la durezza di Paoletti. Egli utilizza, soprattutto nei primi due libri e poi in quello del 2007, dedicato alla valutazione del comportamento del generale Gandin, la chiave interpretativa del «tradimento», giudizio che nelle prime due opere riguarderebbe anche le scelte o l’assenza di iniziativa del Comando Supremo e degli alleati, ma poi nel terzo lavoro sembra rivolto soprattutto a Gandin.

Il volume, di ben cinquecentoquarantacinque pagine, si presenta come la requisitoria di un pubblico ministero che elenca puntigliosamente a più riprese i capi di accusa contro il generale «traditore», si veda in particolare il capitolo 6. Nel capitolo 8, invece, sono analizzati e duramente attaccati i principali contributi storici dell’ultimo decennio oltre alla tradizione interpretativa di più lungo corso definita sprezzantemente «vulgata».

Per contrasto emerge invece il ruolo di Renzo Apollonio, considerato come il vero «eroe di Cefalonia» nello studio del 2006. Anche se Paoletti affronta tutti gli argomenti rimasti senza risposta definitiva, al centro del suo attacco vi è il giudizio sul comportamento e sul ruolo avuto dal generale Gandin.

Antonio Gandin

Nell’introduzione è riassunto il punto di vista dell’autore:
«Il generale Antonio Gandin merita sicuramente un libro: non solo perché fu lui, e non gli eventi pur drammatici, a determinare il destino della divisione Acqui, non solo perché la vulgata ripete da sempre: “non poteva fare altrimenti e comunque morì da eroe” ma perché ha rappresentato davvero un caso unico nella storia della Seconda guerra mondiale: dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 il generale Gandin disobbedì agli ordini di resa del Comandante dell’XI Armata e a quelli opposti del Comando Supremo (C.S.) dell’11 settembre di considerare i tedeschi nemici, fu uno dei pochissimi generali italiani a progettare di portare la sua divisione in dote al Duce, e infine fu l’unico comandante italiano a rifiutare gli aiuti alleati e a denunciare al nemico germanico i proprî soldati come ammutinati.

Dopo essere stato attaccato e sconfitto dai tedeschi, cercò di chiedere la grazia a Berlino, a chi, dieci giorni prima, gli aveva offerto un impiego nel governo Mussolini. Questo ufficiale fu anche l’unico comandante italiano che, dopo aver tradito prima il Re e poi il Führer, che gli aveva concesso una Croce di Ferro di 1a classe, ricevette la medaglia d’Oro al Valor militare (Vovm) dalla Repubblica italiana, che si vanta di esser nata dalla Resistenza, di cui il generale Gandin non poteva neppure lontanamente immaginare il significato morale e ideale».

I suoi giudizi non lasciano indifferenti, ma appaiono fuori misura, soprattutto quando sono basati su supposizioni che colmano i vuoti lasciati dalle fonti disponibili o quando sono messi in secondo piano gli elementi che contraddicono la compattezza della sua ricostruzione storica.

Per gli apologeti del generale le scelte che mettono in crisi il dispositivo militare italiano (l’abbandono del nodo di Kardakata, la consegna del porto di Argostoli, il mancato contrasto degli sbarchi tedeschi, la cattiva conduzione delle operazioni… ) sono o passati sotto silenzio oppure considerati semplici errori tattici, mentre non si spiega il significato di una trattativa condotta fino a poche ore dall’attacco degli aerei tedeschi.

Conducente carica il suo mulo; in alto idrovolante, a bordo si trova probabilmente il
generale Lanz che controlla le operazioni dall’alto. Bundesarchiv Koblenz.

Paoletti, invece, è costretto a minimizzare o a considerare errori rispetto al presunto obiettivo recondito del generale altri elementi: il giudizio del tenente colonnello Barge riportato al generale Lanz, secondo il quale il comandante della Acqui si sarebbe dichiarato fedele al governo del re e di Badoglio, il rifiuto di accettare l’offerta tedesca di un incarico nel nuovo esercito di Mussolini, l’arrendevolezza se non la comprensione di fronte alle pressioni dei giovani ufficiali antitedeschi, che non vengono né contrastati né puniti, la marcia indietro, a ordine in via di esecuzione, sia sulla consegna nei depositi delle armi individuali dei battaglioni di fanteria, sia del concentramento delle truppe nelle zone previste dall’accordo con Barge.

Hans Barge

Le due visioni contrapposte proposte dagli storici finiscono per ridurre a uno schema coerente la complessità della situazione reale e per annullare le contraddizioni obiettive presenti sia nelle scelte di Gandin, sia in quelle degli altri soggetti in campo. Resta fondamentale, nel contributo imponente di Paoletti alla ricerca su Cefalonia e Corfù, l’avere messo a disposizione degli studiosi e del pubblico dei lettori una quantità vastissima di materiali tratti dai più diversi archivi, italiani e stranieri, di averli messi a confronto, illuminandoli con nuovi punti di vista, a volte dettati da una furia iconoclasta e polemica, ma sempre argomentati e giustificati dall’intento etico e dalla curiosità intellettuale.

Nel maggio 2013 è uscita la traduzione italiana della ricerca di Hermann Frank Meyer col titolo Il massacro di Cefalonia e la 1a divisione da montagna tedesca. Si tratta di una riduzione, autorizzata dall’autore, con prefazione di Giorgio Rochat, del volume Blutiges Edelweiß. Die 1. Gebirgs-Division im Zweiten Weltkrieg edito in Germania nel 2008, dedicato alla storia della famigerata 1a divisione da montagna, costituita come corpo alpini
nel 1914, poi impiegata nel corso della Seconda guerra mondiale sui diversi fronti, fino al suo arrivo nei Balcani nel giugno 1943 con compiti di guerra antipartigiana.

Con l’8 settembre la divisione è inquadrata nel 22° corpo d’armata al cui comando è posto il generale Hubert Lanz, responsabile del disarmo dei reparti italiani in Grecia e, in particolare, a Cefalonia e Corfù. Meyer ricostruisce la lunga scia di sangue che gli alpini tedeschi hanno lasciato dietro di sé dal settembre 1939 all’agosto del 1943. Ma la parte più significativa dello studio è dedicata all’analisi della documentazione d’archivio soprattutto
di parte tedesca relativa alle vicende che a Cefalonia portarono alla distruzione della divisione Acqui.

Si tratta certamente della più approfondita e minuziosa ricostruzione delle operazioni di guerra compiute dai reparti tedeschi nel settembre 1943 e della catena decisionale che si è
attivata per non fare prigionieri a Cefalonia.

Meyer utilizza con sicurezza la documentazione esistente; confronta sulle singole questioni le informazioni disponibili e le interpretazioni proposte dai diversi studiosi; smantella i miti che, dall’immediato dopoguerra, hanno caratterizzato molte pubblicazioni, poco documentate, circolate in Italia e le ricostruzioni oleografiche prodotte nel corso dei decenni e trasformate a volte in luoghi comuni nelle rievocazioni italiane; ridimensiona i numeri del massacro, utilizzando soprattutto i dati di don Ghilardini sul recupero delle salme, effettuato nel 1944 e tra il 1952 e il 1953, e le perdite tedesche, confermando per queste ultime sostanzialmente i risultati della ricerca di Gerhard Schreiber del 1993.

generale Hubert Lanz

Ma l’autore deve anche combattere contro il giudizio assolutorio dato sulle attività della Wehrmacht nel secondo conflitto mondiale dall’opinione pubblica e dalle istituzioni tedesche. Infatti, nella terza parte del volume sono ricostruite le sorti dei cacciatori da montagna e dei loro comandanti reintegrati nella Bundeswehr, il nuovo esercito della Repubblica Federale del dopoguerra, frutto del riarmo tedesco voluto dalla Nato negli anni della guerra fredda.

Nella ricostruzione storica emerge come centrale il ruolo di Hubert Lanz, comandante del 22° corpo d’armata da montagna e responsabile del disarmo delle truppe italiane in Grecia
e nelle Isole Ionie. È lui a dover eseguire gli ordini di Hitler e quelli del generale Löhr, a capo del Gruppo armate est competente per la Grecia; è lui che disattiva il comando dell’11a armata di Vecchiarelli, ad Atene, dopo l’8 settembre.

Da Lanz dipende il tenente colonnello Barge, il primo comandante tedesco a Cefalonia, le cui comunicazioni saranno decisive per convincere i suoi superiori che i reparti italiani non potevano essere considerati semplicemente dei «traditori», come tutti i militari italiani dopo l’armistizio, ma degli «ammutinati » agli ordini dei loro superiori. Meyer non attribuisce una particolare rilevanza alla «notifica» di Gandin del 14 settembre;
nega addirittura che sia stata trasmessa da Barge per via gerarchica, nonostante risulti allegata al Diario di guerra tedesco.

Per l’autore la convinzione dei tedeschi, che determina l’ordine di Hitler, è il risultato dell’insieme dei comportamenti del comandante italiano e dei suoi sottoposti nei giorni successivi all’ordine di resa dell’11 settembre. Alle dipendenze di Lanz vi è anche il maggiore

Harold von Hirschfeld

, già protagonista della resa del 26° corpo d’armata del generale Della Bona, quindi nuovo comandante tedesco a Cefalonia dal 16 settembre e principale responsabile delle operazioni sul terreno nei giorni della carneficina.

Meyer riesce a dare conto della complessa dialettica che si sviluppa ai vari livelli decisionali nei giorni decisivi e risulta assai più convincente delle spiegazioni troppo deterministiche sulle ragioni della strage date da altri ricercatori. Ricordiamo alcune altre opere, uscite in periodi diversi, che affrontano tematiche solo in parte coincidenti con la ricostruzione della storia della divisione Acqui.

Per quanto riguarda la sorte dei militari italiani internati dai tedeschi è stata utilizzata la ricerca curata dall’Istituto storico della resistenza in Piemonte, Una storia di tutti, che raccoglie numerosi studi presentati a un convegno torinese del 1987, dedicati ai militari italiani prigionieri degli anglo-franco-americani, dei russi e dei tedeschi dopo l’8 settembre.

Nel 2002 è uscito il bel libro di Giuseppe Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945. Militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, che nel capitolo 4 si occupa della vicenda degli Imi. Ma il lavoro più approfondito è quello di Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945 pubblicato nel 2004, basato su una ricerca condotta soprattutto su documentazione originale tedesca. Adolfo Mignemi ha curato la Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania, del 2005.

Una rilettura complessiva delle stragi «legittimate dallo Stato tedesco» e commesse contro gli italiani dopo l’8 settembre 1943 è La vendetta tedesca. 1943-1945 Le rappresaglie naziste in Italia, di Gerhard Schreiber, uscito in Italia in edizione rivista e ampliata nel 2000, che ricostruisce anche quanto accaduto alle truppe italiane nei Balcani e sulle isole greche dopo l’armistizio. Il volume di Mimmo Franzinelli, Le stragi nascoste, del 2002, guida alla comprensione del significato della scoperta del cosiddetto «armadio della vergogna». Il sottotitolo recita: Impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001.

Dopo una rapida ricognizione delle violenze e degli eccidi contro cittadini italiani, il libro ricostruisce le scelte negazioniste della magistratura militare dalla fine della guerra agli anni Novanta, quindi fa il punto sulle istruttorie seguite al ritrovamento dei fascicoli occultati e ritrovati nel 1994.

Un’ultima indicazione bibliografica: la riflessione operata da Michele Battini in Peccati di memoria, del 2003, sulla mancata Norimberga italiana. L’autore chiarisce il contesto nazionale e internazionale in cui si collocano i processi per i crimini di guerra tedeschi contro gli italiani; un’inchiesta che si intreccia con le zone oscure della nostra storia repubblicana.

Conservazione della memoria e sviluppo della ricerca

A guerra finita la conservazione della memoria e la difesa degli interessi dei reduci e delle famiglie dei caduti e dei dispersi di Cefalonia e Corfù è stata assunta da un ente privato, che negli anni ha modificato più volte la denominazione; oggi è l’Associazione nazionale divisione Acqui.

Il primo nucleo di un’associazione che riunisse i reduci e le famiglie dei caduti e dei dispersi a Cefalonia e Corfù nasce a Torino nel 1945, su iniziativa del sottotenente Vico Viglongo, sopravvissuto alla casetta rossa di capo San Teodoro, col nome di Associazione piemontese famiglie dispersi e reduci divisione Acqui, confluita pochi mesi dopo nella Associazione alta Italia famiglie caduti dispersi e reduci divisione Acqui.

In settembre vi è la prima commemorazione, sempre a Torino, dove padre Romualdo Formato celebra una messa presso la Basilica della Gran Madre di Dio e «parla ai convenuti esaltando il sacrificio dei Caduti e augurando ogni prosperità alla novella Associazione», secondo le parole ricordate da don Luigi Ghilardini. Il primo presidente è il generale Arduino Garelli che redige anche un primo Statuto, breve e schematico, nel primo Consiglio direttivo.

Il capitano Mastrangelo

Nel 1946 viene fondata la Sezione di Genova, dal dottor Mastrangelo, fratello del capitano di fregata Mario Mastrangelo, comandante di Marina Argostoli e decorato di medaglia d’Oro al Valor militare. Nel corso del 1947 l’Associazione alta Italia vive un periodo di difficoltà quando il Consiglio direttivo è costretto a comunicare che:
«Se non sopravvengano avvenimenti nuovi sotto forma di proposte e aiuti concreti per il rinnovamento dell’Associazione – formulate da un gruppo di interessati che intenda assumere iniziativa e responsabilità inerenti – l’attuale Consiglio direttivo sarà costretto a presentare le sue dimissioni all’Autorità competente e ad affidare il suo archivio e il suo materiale al Sottosegretariato per l’Assistenza».

Superata la crisi, alla fine del 1947 nasce l’Associazione nazionale famiglie caduti e superstiti divisione Acqui, riunendo le numerose sezioni locali nate nel frattempo. Il nuovo presidente è Luigi Mazzini, che rimane in carica fino al 1966, mentre segretario viene nominato don Luigi Ghilardini – il sacerdote che aveva curato il recupero delle salme dei caduti e aveva partecipato alla prima missione italiana dopo la guerra – egli termina il suo incarico solo nel 1975.

Il 28 settembre 1947 è proprio don Ghilardini a officiare una messa di suffragio a Torino, sempre nella stessa basilica di due anni prima. Negli anni della segreteria di padre Ghilardini la sede dell’Associazione è prima a Pavia, fino al 1949, poi a Genova. Dalla sua prima costituzione, l’Associazione si occupa delle ricerche di notizie dei militari caduti e dispersi, della richiesta di riconoscimenti morali ed economici al governo, di ricostruire i ruoli della Acqui, in modo da stabilire le singole posizioni, di aiutare nella compilazione di dichiarazioni e domande per la qualifica partigiana e per le pensioni.

Nel 1963 l’Associazione aderisce alla Federazione italiana volontari della libertà, che riunisce una trentina di formazioni autonome della Resistenza, presieduta allora da Paolo Emilio Taviani. Tra il 1966 e il 1979 ricopre la carica di presidente Ermanno Bronzini.

Nel marzo 1967, si assiste a un nuovo cambio di Statuto e di denominazione: nasce l’Associazione nazionale divisione Acqui, divenuta nel giugno 1970 Associazione nazionale reduci e famiglie caduti divisione Acqui, quindi, nel settembre 1980: Associazione nazionale superstiti reduci e famiglie caduti divisione Acqui. Sono gli anni della lunga presidenza di Renzo Apollonio, tra il 1979 e il 1995, quando la sede dell’Associazione viene trasferita a Firenze. Seguono Guido Caleffi (1995-1998), Roberto Canterella (1998-1999), Luigi Zendri (1999-2002), Antonio Sanseverino (2002-2007). In questi anni la sede si sposta a Verona.

Nell’aprile 2002 nasce l’Associazione nazionale divisione Acqui, in cui «confluiscono tutte le attività di fatto e le denominazioni anche precedentemente assunte da gruppi e organizzazioni che fin dal settembre 1945 hanno perseguito gli scopi che oggi vanno a riconfermare». Nel corso del decennio l’Associazione riprende nuovo slancio, sia sulla spinta del rinnovato interesse dei media e dell’opinione pubblica per i fatti del 1943 a partire dal viaggio del presidente Carlo Azeglio Ciampi a Cefalonia, sia per l’ingresso di nuove forze nelle attività associative, grazie alla prima generazione di associati dopo i superstiti e ai simpatizzanti.

Anche il mondo della scuola dimostra una più attenta sensibilità per i temi della resistenza militare, a differenza del passato, quando l’attenzione si focalizzava soprattutto sulla Resistenza civile e sulla Shoah. Nel 2002 viene approvato il nuovo Statuto, che all’art. 1 definisce gli scopi dell’Associazione:
«1. Tramandare il ricordo dei suoi caduti con particolare riguardo alle gesta e al martirio della Divisione e dei Reparti ad essa aggregati che parteciparono per libera scelta ai combattimenti svoltisi a Cefalonia, Corfù e le altre isole Jonie dopo l’8 settembre 1943. A questo fine tutti gli anni il 21 settembre promuove il solenne ricordo dell’eccidio del settembre 1943, a Verona (o altra città designata dalla Giunta Esecutiva) con il raduno annuale nazionale […].
2. Promuovere il riconoscimento dei meriti degli stessi Caduti e dei Superstiti e prestare opera di assistenza morale e materiale ai proprî soci.
3. L’Associazione non ha scopo di lucro ed è apartitica». Dal 2007 è presidente dell’Associazione Graziella Bettini, figlia del colonnello Elio Bettini, comandante del 49° reggimento fanteria della divisione Parma, caduto a Corfù e medaglia d’Oro al Valor militare; la sede della presidenza nazionale è ad Arezzo, mentre la segreteria nazionale, mantenuta dal 1995 da Luisa Caleffi Cassandra, rimane a Verona”.

Nel 1989, per iniziativa di Renzo Apollonio, Mario Corolli, Giovanni Giraudi, Giovanni Pampaloni e Antonio Sanseverino nasce a Firenze l’Istituto storico autonomo della resistenza dei militari italiani all’estero. In una prima fase l’Istituto promuove attività culturali, manifestazioni pubbliche, raccoglie documenti e testimonianze, ma poi le iniziative vengono interrotte.

Solo nel febbraio 2006, per decisione di Graziella Bettini, Vincenzo Giovanni De Negri e Paolo Roberto Omizzolo si decide di ricostituire l’Istituto, questa volta presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo, sezione dell’Università degli Studi di Siena, con la presidenza di Graziella Bettini, a sottolineare gli stretti rapporti intercorrenti con l’Associazione Acqui; vicepresidente Giovanni Scotti, tesoriere Paolo Roberto Omizzolo, direttore scientifico Camillo Brezzi.

Le finalità dell’Istituto di Arezzo sono indicate nello Statuto:
«Articolo 3. L’Istituto Storico Autonomo della Resistenza dei Militari Italiani all’Estero persegue lo scopo di: a) curare la ricerca sistematica e il riordino di tutti i documenti, le pubblicazioni e i cimeli che interessano le unità militari, le formazioni militari e gli elementi singoli che hanno comunque partecipato alla Resistenza Italiana all’Estero; b) raccogliere testimonianze dei partecipanti alla lotta, italiani e stranieri; c) pubblicare Quaderni, Monografie, Saggi di critica storica basati su fonti debitamente vagliate, nonché documenti di particolare rilievo; d) vivificare i valori ideali che hanno animato e sostenuto la Resistenza Italiana all’estero e il contributo offerto alla causa della Libertà; e) stabilire contatti con organismi similari all’estero e con Archivi di Stato dei paesi che interessano; f) promuovere manifestazioni culturali, premi storici, aperture di circoli ecc…».
Nel 2007 è iniziato il lavoro di riordino della documentazione trasferita dall’Ufficio storico dello Stato maggiore. Si tratta di due distinti fondi documentari nati in momenti differenti
e con diverse finalità: il fondo Apollonio e il fondo dell’Associazione nazionale superstiti reduci e famiglie caduti divisione Acqui, Gruppo divisioni all’estero.

Il primo testimonia la volontà di Renzo Apollonio, già durante gli ultimi mesi di permanenza a Cefalonia, tra settembre e novembre 1944, di recuperare la memoria di quanto accaduto sull’isola dopo l’8 settembre 1943, attraverso la raccolta di testimonianze di sopravvissuti italiani, di patrioti greci, di militari inglesi. Serviranno per ottenenere il riconoscimento di appartenenza al Raggruppamento banditi Acqui e saranno utilizzate per difendersi nel corso dell’inchiesta formale e del processo.

Il fondo cresce poi in relazione ai diversi ruoli assunti dall’ufficiale, nell’ambito della sua attività di ricercatore, ad esempio col recupero di una cospicua documentazione proveniente da archivi americani e tedeschi, soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta, con la sua attività di presidente dell’Associazione, tra il 1979 e il 1995. A questo ambito afferiscono anche i numerosi fascicoli intestati a militari italiani caduti o superstiti e contenenti la documentazione per ottenere riconoscimenti dallo Stato.

Era stata Giuliana Mestorino, moglie di Apollonio, a donare all’Associazione l’archivio del marito, nel 1996. La documentazione è accompagnata da un «Elenco dei documenti, del materiale e delle pubblicazioni riguardanti i tragici fatti di Cefalonia», che ha permesso di avere un’idea complessiva dei criteri utilizzati per la raccolta e la classificazione dei materiali.

Particolarmente interessante e consistente è il materiale fotografico presente nell’Archivio, purtroppo lasciato per alcuni anni in uno stato di disordine tanto da perdere almeno in parte l’ordine originale. Una prima sistemazione delle fonti iconografiche era già stata da me avviata nel 2003.

Il secondo fondo è costituito dall’archivio dell’Associazione Nazionale, in particolare per i periodi relativi alla segreteria di don Luigi Ghilardini e alla presidenza di Apollonio, a cui si sono poi aggiunti i materiali provenienti da Verona, sia quelli della sezione locale, sia della presidenza nazionale dal 1995.

Successivamente sono stati versati all’Istituto i materiali relativi alla presidenza di Antonio Sanseverino. Nella serie archivistica della segreteria di padre Ghilardini mancano materiali più vecchi del 1960, anno in cui, a causa di un incendio nella canonica della chiesa della Consolazione, sono andati perduti tutti i materiali conservati e raccolti negli anni precedenti, in particolare gli elenchi dei caduti e gli indirizzi delle famiglie.

CONCLUSIONI. DALLA CRISI DEL FASCISMO

ALLA REPUBBLICA DEMOCRATICA

Le massime autorità italiane, il re Vittorio Emanuele III, il capo del governo maresciallo Badoglio, il capo di Stato maggiore Ambrosio, affrontarono la decisione dell’armistizio in
maniera irresponsabile, rivelando faciloneria e dilettantismo, privi, com’erano, di una visione realistica della situazione interna e internazionale e assai più propensi a salvare beni e status personali che a porsi il problema della salvezza del Paese e delle Forze armate.

Essi cercarono, per qualche settimana, di mantenersi in equilibrio tra le minacce tedesche, considerate assai più terribili, e le pressioni degli alleati. Per tener buoni i primi, essi accettarono, nel mese di agosto, che i tedeschi entrassero in Italia, incapsulando i reparti italiani e assumendo il controllo di installazioni, reti di comunicazione, centrali elettriche, mentre nei Balcani i comandi italiani venivano inglobati e tenuti sotto controllo da quelli tedeschi, impedendo così qualsiasi autonomia operativa, mentre ai tedeschi era permesso di assumere il controllo degli aeroporti e dei porti indispensabili al rientro in patria.

Le massime autorità italiane agivano a partire da convincimenti assai poco realistici: la sopravvalutazione della propria forza contrattuale; essi ritenevano di avere ancora tempo e
margini di manovra per poter trattare sia coi tedeschi che con gli alleati, tanto da pensare, ancora nel pomeriggio dell’8 settembre, che quella dell’armistizio fosse una scelta revocabile; che gli alleati avessero una supremazia militare da contrapporre ai tedeschi tale da permettere il controllo della penisola italiana indipendentemente dall’impegno delle forze armate italiane; che i tedeschi si sarebbero comunque ritirati a nord, tanto da considerare l’abbandono di Roma un evento che sarebbe durato al più qualche settimana.

L’obiettivo principale di Badoglio era di evitare lo scontro con i tedeschi a qualsiasi costo, mettendo in conto la perdita di mezzo milione di uomini nei Balcani, come ricorderà il generale Ambrosio; il disastro andò ben oltre queste previsioni.

Fino all’ultimo fu mantenuto il segreto sull’avvenuto armistizio sia con i ministri militari che con i principali comandi militari per timore che la notizia giungesse ai tedeschi, che in realtà stavano già attivando le loro contromisure; nessun ordine operativo raggiunse i reparti per rispondere alla scontata reazione tedesca, anzi, l’ordine trasmesso nella notte tra l’8 e il 9 settembre terminava con questa frase: «in nessun caso prendere l’iniziativa dell’ostilità contro le truppe germaniche», si permetteva così ai tedeschi di passare in tutte le zone sotto controllo italiano, mettendo le proprie truppe nella peggiore condizione per affrontare il nuovo nemico.

Nel pomeriggio dell’8 settembre la flotta di La Spezia scaldava i motori perché aveva ricevuto l’ordine di salpare in direzione sud per fronteggiare il previsto sbarco alleato; si trovò del tutto impreparata, anche psicologicamente, poche ore dopo, a eseguire l’ordine, previsto dall’armistizio, di salpare per Malta e consegnarsi al suo nemico storico, la Gran Bretagna.

Di per sé la decisione di porre in salvo le massime autorità del Paese poteva essere giustificata dalla volontà di continuare a dirigere la lotta contro l’invasore tedesco, ma solo dopo aver predisposto i piani di resistenza a tutti i livelli; ma questi piani, previsti dalla Memoria 44, pur approntati e in parte comunicati con i due promemoria dei primi giorni di settembre, non vennero attivati finché il re e Badoglio non si trovarono al sicuro, dopo essersi consegnati nelle acque pugliesi alla flotta alleata, nel pomeriggio del 10; solo allora vennero diramati gli ordini di resistenza, ma ormai, per il grosso delle forze armate italiane, era troppo tardi.

Conseguenza di quelle scelte furono la dissoluzione del potere sovrano dello Stato italiano, la crisi dell’apparato statale, l’occupazione del Paese a opera di tedeschi e alleati, i lutti e i drammi di venti mesi di guerra, di occupazione, di rappresaglie e di lotte civili. Vi è chi ha parlato dell’8 settembre come della «morte della Patria», facendo in particolare riferimento ai comportamenti della popolazione e alla mancata reazione delle forze armate.

«Tutti i sottufficiali portavano binocoli da campo!». Edelweiss in movimento, a sinistra
un sottufficiale riconoscibile dal binocolo al collo. Bundesarchiv Koblenz.

È un giudizio ingiusto, che non distingue il ruolo apertamente disfattista avuto da Vittorio Emanuele, da Badoglio, dagli Stati maggiori e dai principali comandi di Roma, di Tirana e Atene, disposti all’immediata cessione delle armi senza combattere; in quel contesto drammatico, assumono ben altro rilievo i casi assai significativi di resistenza armata, dal sud al nord dell’Italia, in Corsica, in Sardegna, in Iugoslavia, in Grecia, che provocarono circa 20.000 caduti, un numero rilevante se si pensa che queste perdite sono concentrate in due-tre settimane di combattimenti.

Né va dimenticato il comportamento dei 600.000 soldati italiani internati dai tedeschi che si rifiutarono di rientrare in Italia al servizio della Repubblica sociale di Mussolini. La Resistenza e l’insurrezione finale dell’aprile 1945 daranno pieno sviluppo e consapevolezza a quel rifiuto di continuare a combattere per i tedeschi e per il fascismo e rivelarono un’Italia non passiva e attendista, ma disposta a lottare assieme agli eserciti alleati, per ricostruire un Paese libero e democratico.

I cacciatori trasportano pezzi pesanti in punti strategici. Bundesarchiv Koblenz.

L’8 settembre 1943 vi fu la sconfitta ignominiosa di una classe dirigente che aveva prima distrutto le istituzioni liberali e democratiche, quindi aveva lanciato il Paese in una guerra
di aggressione, assieme all’alleato tedesco, terminata tragicamente, come i martiri di Corfù e di Cefalonia stanno a testimoniare. Il 9 settembre, grazie anche al comportamento di tanti soldati e di tanti cittadini, iniziò il riscatto nazionale e la rifondazione della Patria.

In questo contesto riacquistano un diverso e più profondo significato le azioni dei militari italiani che hanno combattuto i tedeschi dopo l’8 settembre o che si sono rifiutati di aderire alla Repubblica sociale italiana, benché internati nei lager del Reich. La coscienza politica antifascista e la passione per la democrazia repubblicana in molti di loro è venuta dopo, intanto però quelle scelte ne furono la premessa vitale.

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