CEFALONIA 1943, TANTE “VERITÀ” – 14

a cura di Cornelio Galas

Ancora un’analisi – quella di Carlo Palumbo, nel primo volume del suo libro “Arrendersi o combattere” – sugli antefatti, nella seconda guerra mondiale, dell’eccidio di Cefalonia.

di Carlo Palumbo

La costituzione del nuovo governo

Se il problema dell’ordine pubblico assume la priorità che  abbiamo visto, risulta ugualmente decisivo per la corona e  per Badoglio affrettare i tempi per la costituzione del nuovo  governo. Già il giorno 26 Badoglio può costituire un ministero  non politico, nonostante nei colloqui col re dei giorni precedenti  avesse dichiarato di essere disposto a presiedere solo un  governo politico, mentre è lo stesso Vittorio Emanuele III che  opera la scelta dei ministri tra generali, magistrati e alti funzionari.

PIETRO BADOGLIO

Sottosegretario alla presidenza del Consiglio è nominato il  consigliere di Stato Pietro Baratono; per gli Affari Interni è  nominato l’ex prefetto Bruno Fornaciari, poi sostituito da Umberto  Ricci; agli Esteri va l’ex ambasciatore ad Ankara Raffaele  Guariglia; alle Finanze e al Tesoro va il provveditore generale  dello Stato Domenico Bartolini; agli Scambi e Valute va Giovanni  Acanfora, direttore generale della Banca d’Italia; alle  Corporazioni va il consigliere di Stato Leopoldo Piccardi; alla  Giustizia va Gaetano Azzariti; all’Educazione Nazionale va  Leonardo Severi; ai Lavori Pubblici Domenico Romano; all’Agricoltura  Alessandro Brizi; questi ultimi sono o sono stati  direttori generali.

Il generale Antonio Sorice

Vengono poi i ministeri militari: alla Guerra  Antonio Sorice; per l’Africa italiana Melchiade Gabba; per  l’Aeronautica Renato Sandalli; per la Produzione bellica Carlo  Favagrossa; per le Comunicazioni Federico Amoroso; tutti  questi sono generali; per la Marina l’ammiraglio Raffaele De  Courten. Il 27 al Viminale si ha la prima riunione del Consiglio dei  ministri, sotto la presidenza del maresciallo Badoglio.

L’ammiraglio Raffaele De Courten

Nei  giorni successivi prosegue intensa l’attività del governo. Tra  le misure prese, le prime tendono a colpire il passato regime  fascista: viene sciolto il partito fascista; sono introdotte norme  per il funzionamento degli enti assistenziali, educativi, sportivi  già dipendenti dal partito; sono soppressi il Gran Consiglio  del fascismo e il Tribunale speciale; è sciolta la Camera dei  Fasci e delle Corporazioni; a capo della disciolta federazione  dell’industria è nominato Bruno Buozzi, ex segretario della  federazione degli operai metallurgici; sono abrogate le leggi  che limitano i diritti dei celibi; è decisa la liberazione dei condannati  per reati politici.

Il 29 luglio il regime fascista legalmente  non esiste più. Non vengono però toccate le gerarchie  amministrative e lo stesso corpo della Milizia fascista, invece  di essere disciolto, viene semplicemente inquadrato nel Regio  esercito.  Contemporaneamente sono confermate le misure già prese  per il mantenimento dell’ordine pubblico e, soprattutto, è fatto  divieto di costituire partiti politici per tutta la durata della  guerra e viene vietato l’uso di emblemi, simboli, distintivi riconducibili  a partiti politici.

Non sono inoltre previste elezioni  politiche immediate; solo a quattro mesi dalla fine della guerra  si sarebbe proceduto all’elezione di una nuova Camera dei  Deputati, riportando così la situazione istituzionale allo stato  prefascista.  Appare chiaro da queste misure che la preoccupazione del  governo, come del re, è di procedere allo smantellamento  delle istituzioni più marcatamente riconducibili al fascismo,  senza affrontare né il problema di una riforma dello Stato né  la discussione sulle scelte passate, compreso l’ingresso nel conflitto.

Vi è la preoccupazione di non dare spazio a processi al  sovrano, che pure è stato corresponsabile delle maggiori scelte  del regime fascista, oltre che della nomina a primo ministro  dello stesso Mussolini. Almeno all’inizio si spera di mantenere  la situazione sociale e politica sotto controllo, evitando di procedere  a una defascistizzazione troppo accentuata.

Qualche  settimana dopo, il 16 agosto, in un memorandum inviato a  Badoglio, il sovrano afferma:
«L’eliminazione presa come massima di tutti gli ex appartenenti  al Partito fascista da ogni attività pubblica deve recisamente  cessare. […] A nessun partito deve essere consentito né tollerato  l’organizzarsi palesemente e il manifestarsi con pubblicazioni. […]  Ove il sistema iniziato perdurasse, si arriverebbe all’assurdo di  implicitamente giudicare e condannare l’opera del re».

I partiti antifascisti si riorganizzano

Negli stessi giorni, a Milano e a Roma, si hanno le prime  riunioni dei partiti democratici, che rivelano subito le differenze  di orientamento del movimento antifascista delle due città.  Il giorno 26 si riuniscono a Milano i rappresentanti del  fronte delle opposizioni: sono presenti il Gruppo di ricostruzione  liberale, il Partito democratico cristiano, il Partito  d’azione, il Partito socialista, il Movimento di unità proletaria  per la repubblica socialista, il Partito comunista.

La riunione  si conclude con le seguenti richieste:
«Liquidazione totale del fascismo e di tutti i suoi strumenti di  oppressione; il ripristino di tutte le libertà civili e politiche, prima  tra tutte la libertà di stampa; la libertà immediata di tutti i detenuti  politici; ristabilimento di una giustizia esemplare, senza  procedimenti sommari, ma inesorabile nei confronti di tutti i  responsabili e l’abolizione delle leggi razziali».

Ma le richieste che più caratterizzano il documento milanese  sono «l’armistizio per la conclusione di una pace onorevole»  e «la costituzione di un governo formato dai rappresentanti  di tutti i partiti che esprimono la volontà nazionale».  Sono proprio queste due richieste a essere accantonate dall’ordine  del giorno della riunione del comitato dei cinque partiti  antifascisti che si tiene a Roma il giorno 27.

IVANOE BONOMI

All’incontro,  presieduto da Ivanoe Bonomi, oltre ai liberali, ai democratici  cristiani, agli azionisti, ai socialisti e ai comunisti, partecipa  anche il Gruppo della democrazia del lavoro di Meuccio  Ruini. Se a Milano i partiti antifascisti sono spinti dalla realtà  sociale più articolata e caratterizzata da una forte presenza  operaia che si è fatta sentire con gli scioperi di marzo, a Roma  sono i partiti moderati ad avere il controllo del comitato.

Bonomi,  in particolare, teme di rompere i rapporti col nuovo  governo e, pur non accettando incarichi ministeriali, è favorevole  a lasciar lavorare Badoglio concedendogli una tregua  politica, facendo piuttosto pressione per quelle misure considerate  più urgenti: scioglimento del partito fascista e delle sue  istituzioni, liberazione dei detenuti politici e libertà di stampa.

Negli incontri tra Bonomi, rappresentante romano del comitato,  e il primo ministro, sembra esserci un accordo, anche  se la discussione continuerà sul tema della libertà di stampa,  date le decisioni prese dal governo nella seduta del 27. Importanti  sono le misure concordate per la riorganizzazione  sindacale della classe operaia. Su designazione del comitato  delle opposizioni sono nominati i commissari delle varie confederazioni dei lavoratori, che accettano la carica precisando  che tenderanno alla «liquidazione del passato e a una sollecita  ricostruzione dei sindacati italiani».

Nel frattempo Bruno  Buozzi, in qualità di commissario della Confederazione dei
lavoratori dell’industria, stipula un accordo con Giuseppe  Mazzini, commissario della Confederazione degli industriali,  per il ripristino delle commissioni interne.

 La discussione sull’armistizio

Solo nei giorni successivi il tema dell’armistizio comincia a  imporsi anche nel comitato romano. Finalmente, il 2 agosto,  viene approvato un nuovo ordine del giorno in cui si chiede  «la cessazione di una guerra contraria alle tradizioni e agli interessi  nazionali e ai sentimenti popolari, la responsabilità  della quale grava e deve gravare sul regime fascista».

Il giorno  successivo una delegazione del comitato viene ricevuta da Badoglio,  che rifiuta però di discutere la questione della guerra:  il governo «avrebbe deciso sotto la sua piena responsabilità e  con la piena conoscenza di tutti gli elementi del problema». 

I rapporti con i tedeschi e la minaccia di un loro intervento  dominano le preoccupazioni di Badoglio e del re: il 6 agosto  a Tarvisio vi è un incontro ad alto livello tra delegazioni  italiane e tedesche che non appare risolutivo, ma che autorizza  l’ingresso in Italia di nuove divisioni germaniche.  Nelle due settimane seguenti la situazione politica subisce  un’accelerazione: il 19 gli alleati bombardano pesantemente  Bologna, Milano e Torino; il giorno dopo inizia un vasto sciopero  generale nelle città del nord, a Torino e a Milano in particolare,  questa volta con rivendicazioni chiaramente politiche:  per la pace immediata e per la rottura dell’alleanza con la Germania.

A Torino la repressione provoca un morto e sette  feriti. Numerosi sono i manifestanti arrestati.  Anche la discussione tra i partiti antifascisti si fa più chiara.  L’11 agosto si riuniscono a Roma i rappresentanti dei comitati  milanese e romano. I rappresentanti milanesi chiedono la rottura  col governo Badoglio e l’appello alla mobilitazione di  piazza per ottenere la pace. Il 13 vi è un incontro di una delegazione  con Badoglio per chiedere il rispetto degli accordi  precedenti sulla liberazione dei prigionieri politici, sul ritorno  alla democrazia sindacale e sull’elezione delle commissioni  interne.

Il generale Ugo Cavallero

Dopo gli scioperi del 20 le posizioni si radicalizzano  ulteriormente.  Il 23 agosto si riunisce nuovamente il comitato di Milano, il  25 quello romano. Si richiede la firma immediata dell’armistizio  e la costituzione di un nuovo governo antifascista «schiettamente  democratico interprete della volontà del paese». Negli stessi giorni circolano voci di un colpo di mano a  Roma dei fascisti appoggiati dai tedeschi; vi sono numerosi  arresti, nel corso dei quali viene ucciso l’ex segretario del Partito  nazionale fascista Ettore Muti, considerato, probabilmente  a torto, tra i partecipanti al complotto che si ritiene faccia  capo al generale Ugo Cavallero, avversario di Badoglio.

KESSERLING

Il generale  morirà tempo dopo a Frascati, nella sede del Comando  di Kesserling, in circostanze misteriose.  Quando il 2 settembre si riunisce nuovamente il comitato  romano, Bonomi viene a conoscenza, «in via segretissima»,  che le trattative con gli alleati per l’armistizio stanno per concludersi.

L’ARMISTIZIO DI CASSIBILE E L’8 SETTEMBRE
L’incontro di Tarvisio

La destituzione di Mussolini, il 25 luglio del 1943, e la sua  sostituzione con un governo tecnico-militare presieduto dal  maresciallo Badoglio sono solo atti preliminari al tentativo di  portare l’Italia fuori dalla guerra. Vi è nel re e in Badoglio la  speranza o l’illusione di avere ancora la possibilità di trattare  con gli anglo-americani le condizioni del distacco dalla Germania  e il passaggio al fronte opposto.

Joachim von Ribbentrop

Si ritiene, infatti, che  solo un impegno massiccio delle forze alleate sul suolo italiano  possa permettere di far fronte alla reazione armata dei tedeschi.  Ma, mentre si cerca di stabilire un contatto a partire dal 31  luglio con i rappresentanti delle Nazioni unite (così si definisce  l’alleanza delle nazioni che combattono contro i paesi dell’Asse,  cioè Germania, Italia e Giappone), il governo italiano mantiene  i rapporti con la Germania e accetta di partecipare su  richiesta del ministro degli Esteri del Reich Ribbentrop a un  incontro tra i due ministri degli Esteri, per l’Italia Guariglia,  e i due capi di Stato maggiore, Keitel e Ambrosio, che si tiene  il 6 agosto a Tarvisio.

il maresciallo Keitel

Il convegno si svolge in un clima di sfiducia  reciproca: Ribbentrop mantiene una freddezza offensiva  che esprime il disprezzo tedesco per il nuovo governo italiano,  Guariglia risponde che il cambio politico italiano è «d’ordine  puramente interno». I rappresentanti italiani riconfermano il  loro impegno a fianco della Germania, del resto affermato col comunicato del 25: «la guerra continua» e «l’Italia mantiene  fede alla parola data», addirittura chiedendo rinforzi e  armi per far fronte all’invasione della penisola da parte degli anglo-americani, ritenuta ormai prossima.

Si giunge così a  una sorta di tregua con la Germania che sembra tranquillizzata  dall’atteggiamento dei rappresentanti italiani e promette l’invio  di nuove truppe nella Penisola: ben sedici divisioni germaniche  saranno dislocate in Italia. I tedeschi chiedono rassicurazioni  sulla sorte di Mussolini e chiarimenti sui movimenti di truppe  italiane intorno a Roma e al Comando germanico di Frascati.

I generali italiani sono a loro volta preoccupati per le manovre  tedesche nella zona di Roma e nell’Italia settentrionale. Le  reciproche rassicurazioni non servono a nascondere i timori,  anche se i tedeschi non sanno ancora delle trattative di Badoglio  con gli alleati. Il convegno serve alle due parti per guadagnare  tempo.

Tedeschi e alleati di fronte al problema «Italia»

L’ambiguità del governo italiano è tale che né i tedeschi né  gli anglo-americani si fidano del loro instabile interlocutore. I  tedeschi hanno già provveduto, a partire dalla caduta di Mussolini  se non ancora prima, a preparare i piani per un’invasione  strisciante della penisola, e incominciano ad attuarla agli inizi  di agosto; gli alleati anglo-americani, intanto, si mostrano meravigliati  all’annuncio di Badoglio del 25 luglio che «la guerra  continua».

Le successive indecisioni del governo italiano portano  gli alleati a intensificare i bombardamenti sulle città, in  particolare il 19 agosto.  Nel frattempo i tedeschi cercano di forzare la situazione italiana,  con un colpo di stato preparato dall’ambasciata tedesca  a Roma, per arrestare il governo Badoglio e la famiglia reale  e imporre un nuovo regime fascista.

Churchill

I preparativi saranno poi  inutili perché da Hitler non arriverà il via libera all’operazione.  Le Nazioni unite, da parte loro, non hanno un orientamento  univoco circa l’importanza dell’Italia nel quadro generale del  conflitto. Per Churchill, primo ministro inglese, l’Italia può  costituire un trampolino per raggiungere più velocemente la  penisola balcanica, con l’intento di anticipare i sovietici che  stanno avanzando verso il centro dell’Europa da oriente.

Stalin, invece, chiede da tempo l’apertura di un secondo  fronte che impegni i tedeschi a occidente (e la scelta è da  tempo caduta sulla Francia settentrionale), mentre considera  un’eventuale campagna d’Italia un diversivo.  Gli americani sono d’accordo con lui e considerano secondario  il teatro del Mediterraneo, a cui appartiene l’Italia, diversamente  dall’Inghilterra che preme per un impegno maggiore  contro il nostro paese.

Churchill e Roosevelt

Essendo già in corso i preparativi  per l’invasione della Francia, le risorse già complessivamente  limitate da impegnare a occidente permettono di riservare all’invasione  dell’Italia solo forze ridotte.  A guidare poi i comandi militari alleati nella conduzione  della campagna d’Italia sarà una costante sopravvalutazione  delle forze tedesche, soprattutto dell’aviazione, e una conduzione  della guerra estremamente prudente.

Per questi motivi  nelle trattative di armistizio i rappresentanti alleati eviteranno  di dare una risposta positiva alle richieste italiane di intervento  militare a nord di Roma per contrastare la presenza tedesca,  decidendo invece di compiere sbarchi molto più a sud.

Le trattative per l’armistizio

Il 31 luglio, il ministro Guariglia contatta i rappresentanti  del governo inglese e di quello americano presso la Santa  sede. Nei giorni successivi vengono inviate due missioni diplomatiche,  una a Lisbona, presso l’ambasciatore inglese  Campbell e l’altra a Tangeri, presso il ministro di Gran Bretagna,  Gascoigne. Questi primi tentativi non portano ad alcun  risultato: gli italiani chiedono di intavolare trattative; gli alleati,  in particolare gli inglesi, vogliono solo ricevere l’offerta di una  resa incondizionata, secondo la decisione presa già nel gennaio  del 1943 alla Conferenza di Casablanca, tra Roosevelt e Churchill.

Raffaele Guariglia

I due diversi atteggiamenti porteranno a equivoci e ambiguità  anche negli incontri successivi e il governo italiano  manterrà fino all’ultimo momento la convinzione di poter rifiutare  le condizioni dell’armistizio. Finalmente, il 12 agosto,  parte da Roma per Lisbona, via Madrid, il generale Giuseppe  Castellano, con l’incarico di concordare con gli alleati le iniziative  militari utili a contrastare la presenza tedesca al momento  dell’uscita dell’Italia dall’alleanza, ma senza l’autorizzazione  ad accettare eventuali richieste di resa.

Il 16 Castellano arriva a Lisbona, il 19 è raggiunto dai rappresentanti  del generale Eisenhower, il generale americano Bedell  Smith, capo di Stato maggiore del Comando in capo del Mediterraneo,  e dal generale inglese Strong, capo dell’intelligence  dello stesso Comando, che gli presentano le condizioni di armistizio  da tempo definite dagli alleati: fine immediata delle  ostilità e di ogni aiuto ai tedeschi; restituzione dei prigionieri;  disponibilità a concedere il territorio nazionale come base per  le future operazioni militari; trasferimento ai vincitori della  flotta e dell’aviazione; richiamo in patria delle truppe dislocate  all’estero.

Queste condizioni non sono trattabili, ma possono solo essere accettate o rifiutate in blocco. Le condizioni economiche  e politiche dell’accordo saranno discusse successivamente  all’accettazione della resa.

Viene inoltre consegnato un telegramma giunto da Quebec,  noto come «documento di Quebec», in cui Roosevelt e Churchill,  sentito Stalin, modificano parzialmente l’atteggiamento  tenuto in precedenza nei confronti dell’Italia: se ancora nei  primi contatti in Vaticano del 31 luglio ai rappresentanti del  governo Badoglio è stata negata ogni disponibilità a discutere  un eventuale cambiamento di stato del nostro paese, ora gli  alleati sono disposti a trattare la collaborazione offerta dall’Italia  nella guerra contro la Germania e si impegnano ad attenuare  le condizioni di armistizio «a seconda dell’apporto che noi  avremmo dato alla lotta», come riferisce lo stesso generale  Castellano.

Bedell Smith

Sono così poste le condizioni per quella che sarà  chiamata cobelligeranza. Lo stesso Churchill afferma, il 16 agosto,  che i governi della Gran Bretagna e degli Stati Uniti non  avrebbero negato all’Italia «un posto onorato in Europa».  Ma nel «documento di Quebec» è contenuta un’altra norma,  considerata dagli alleati vincolante: «Il governo italiano deve  impegnarsi a proclamare l’armistizio non appena esso sarà  annunciato dal generale Eisenhower».

Vittorio Ambrosio

Badoglio e il generale Ambrosio, esaminate le condizioni  d’armistizio, decidono di inviare Castellano in Sicilia per riprendere  le trattative. L’Italia accetterà le richieste alleate, a  patto di poter contare su uno sbarco a nord di Roma, tra Civitavecchia  e La Spezia, ritenendo necessarie almeno 15 divisioni  per contrastare la reazione tedesca, ma sovravvalutando  così la disponibilità di truppe degli stessi anglo-americani.

Giuseppe Castellano

Questa diversa impostazione costringe Castellano, giunto a Cassibile, a quindici chilometri a sud di Siracusa per incontrare  Bedell Smith il 31 agosto, a ritornare subito a Roma.  Nei piani alleati non è previsto alcuno sbarco a nord della  capitale; è invece prevista un’azione attraverso lo stretto di  Messina (piano Baytown) e un’operazione più vasta nella baia  di Salerno (piano Avalanche), da effettuare in contemporanea  con la proclamazione dell’armistizio.

Ma Bedell Smith promette  uno sbarco aviotrasportato nella zona di Roma, all’altezza  del Tevere, ingannando forse consapevolmente l’emissario  italiano e ovviamente non rivela gli obiettivi alleati,  lasciando così all’oscuro dei loro progetti il governo italiano.

Bedell Smith

Il 2 settembre, il generale Castellano ritorna a Cassibile, senza  né credenziali né delega, provocando così l’irritazione dei rappresentanti  alleati.  È finalmente autorizzato a firmare, dopo altre trattative con  Roma, durate più di un giorno, come plenipotenziario per il  governo italiano. Il 3 settembre alle ore 17,15 viene firmato  l’«armistizio corto» (Short Military Armistice), mentre solo il 29  settembre Badoglio firmerà a Malta quello denominato  «lungo».

A sottoscrivere il documento sono il generale Bedell  Smith, delegato del comandante supremo Eisenhower, che  tuttavia è presente, e il generale Castellano, delegato dal generale  Ambrosio, capo di Stato maggiore.  A voce, Bedell Smith informa Castellano che le operazioni  di sbarco sarebbero cominciate entro due settimane, anche se  sono già fissate tra il 3 e il 9 settembre. L’annuncio dell’armistizio  sarà dato via radio contemporaneamente da Eisenhower  e da Badoglio il giorno previsto per lo sbarco. Il momento  verrà comunicato al governo italiano con poche ore di preavviso.

L’annuncio dell’armistizio

Il giorno 7 settembre, l’ufficiale inviato a Roma per preparare  l’eventuale sbarco di una divisione aerotrasportata, il generale  Taylor, prende atto che i campi di aviazione attorno  alla città sono già in mano ai tedeschi e che il corpo motorizzato  italiano, che dovrebbe collaborare all’operazione, è quasi  privo di carburante e di munizioni, per cui viene dato il contrordine  al lancio dei paracadutisti e allo sbarco di truppe.

Maxwell Taylor

Badoglio a questo punto fa nuovamente pressione su Eisenhower,  inviando un telegramma al Quartier generale alleato  ad Algeri, la mattina dell’8, perché l’annuncio dell’armistizio  sia rinviato, convinto comunque che non sarebbe stato dato  prima del 12 settembre. Invece alle ore 16,30 Radio New  York anticipa la notizia della firma dell’armistizio con l’Italia.

Erwin Rommel

Mentre i reparti tedeschi, agli ordini del generale Rommel,  iniziano subito i rastrellamenti di soldati italiani e l’occupazione  dei punti strategici, in una situazione estremamente confusa si  riunisce al Quirinale una sorta di Consiglio della Corona per  valutare la situazione dopo l’ultimatum ricevuto da Eisenhower,  per rispondere al telegramma del mattino e dare comunicazione  della firma dell’armistizio entro le ore 20,00 del giorno  8. È significativo dell’atteggiamento italiano che ancora in  questo momento si discuta dell’opportunità o meno di rispettare  l’armistizio.

Mentre la riunione è in corso, giunge la  notizia che Eisenhower ne ha già resa pubblica la firma. Alle  ore 19.45 Badoglio legge il seguente comunicato alla radio:
«Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare  l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria,  nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla  Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower,  comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità  contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze  italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da  qualsiasi altra provenienza».

Il giorno dopo, con telegrammi inviati ai capi di governo  delle potenze aderenti al patto tripartito, in particolare Germania  e Giappone, viene data la comunicazione ufficiale dell’armistizio,  motivato dallo stato di vulnerabiltà del territorio  nazionale, dalle distruzioni, dalla paralisi della produzione e  dall’esaurimento delle risorse. Contemporaneamente, come  previsto da tempo, gli alleati effettuano lo sbarco in forze nella  baia di Salerno, dando inizio all’operazione Avalanche.

Gli alleati e la campagna d’Italia

La decisione di occupare la Sicilia presa dagli alleati nella  Conferenza di Washington nel maggio del 1943, durante le  ultime fasi della campagna in Nordafrica, non è accompagnata  da un preciso progetto sulle scelte successive; in quel momento  interessano soprattutto gli aeroporti della Sicilia e le sue basi  navali per poter mantenere il controllo del Mediterraneo centrale,  in modo da permettere ai convogli rotte più sicure senza  dover circumnavigare l’Africa.

Solo il 18 giugno Eisenhower decide di proseguire l’avanzata  lungo lo stivale, con uno sbarco in Calabria. Fino a quella  data l’alternativa sembrava essere la conquista delle isole maggiori,  Sardegna e Corsica, da utilizzare per uno sbarco nel  sud della Francia come preferirebbero gli americani. Nel progetto  approvato, invece, la conquista degli aeroporti pugliesi e  del porto di Napoli sembrano gli obiettivi più lontani. Non si  tratta ancora di costringere l’Italia alla resa, anche se questa soluzione non viene esclusa, quanto di poter disporre di una  base più vicina ai Balcani per aiutare la resistenza antitedesca.

È soprattutto Churchill a essere interessato a questo progetto,  mentre Roosevelt e con lui Eisenhower vorrebbero sferrare  l’attacco decisivo direttamente nel cuore dell’Europa, contro  la Germania. L’Italia, in questa ipotesi, è un obiettivo secondario,  perché la sua caduta sarebbe comunque una conseguenza  del crollo tedesco. Un impegno massiccio in questo  paese risucchierebbe soltanto forze cospicue, sottraendole al  progettato attacco alla Francia.

Alcuni fatti nuovi, come la scarsa resistenza offerta dalle  truppe italiane nella campagna di Sicilia, la caduta di Mussolini  e le successive offerte di trattativa provenienti dal nuovo governo  italiano, costringono gli alleati a rivedere i loro piani.  Con la nuova situazione politica italiana, infatti, viene a essere  rafforzata la proposta di Churchill di procedere a un’invasione  della penisola con l’obiettivo di raggiungere Napoli e forse  Roma.

Inoltre, a metà del 1943, appare ormai tramontata la  possibilità di organizzare lo sbarco decisivo contro la Germania,  che verrà rinviato al maggio del 1944, rendendo quindi  disponibili i mezzi da sbarco e le navi da trasporto, altrimenti  insufficienti.  Tuttavia la campagna d’Italia sarà condotta dal comando  alleato con eccessiva prudenza, utilizzando forze nel complesso  limitate, non valutando correttamente le caratteristiche del  territorio che mal si presta a una rapida avanzata e che facilita  il compito dello schieramento difensivo.

Gli stessi americani,  sottovalutando l’impegno che la campagna avrebbe richiesto,  inizialmente ritengono che sarebbe sufficiente un massiccio  impiego dell’aviazione per risolvere il confronto. Anche i tedeschi, all’inizio, non considerano importante il  fronte italiano. Essi giudicano pericoloso attestarsi sulla parte  meridionale della penisola, con il rischio di essere tagliati fuori  da eventuali sbarchi compiuti più a nord.

Il loro progetto iniziale  prevede di fortificare la zona appenninica tra Pisa e Ancona,  lungo quella che verrà definita «linea gotica», in difesa  della valle del Po, che più li interessa ai fini della continuazione  dello sforzo bellico. In realtà Kesserling saprà approfittare  delle incertezze e della lentezza dell’azione degli alleati per  rallentarne l’avanzata e impegnare sul teatro italiano rilevanti forze nemiche.

Gli accordi tra il comando alleato di Eisenhower e il governo  italiano sulle misure militari da prendere in coincidenza con  la dichiarazione di resa prevedono uno sbarco in forze su una  costa del Tirreno. Gli italiani vorrebbero che lo sbarco fosse  effettuato nella zona di Roma o addirittura più a nord.

Nel  piano alleato, invece, viene approvata l’operazione Avalanche,  cioè lo sbarco nel golfo di Salerno, nella parte meridionale  della Campania, utilizzando il 10° corpo d’armata britannico  e il 6° corpo d’armata americano appartenenti alla 5a armata  americana. I comandanti alleati non sono concordi nella scelta:  l’ipotesi di Salerno è appoggiata da Alexander, che non vuole  allontanarsi troppo dalle basi aeree siciliane per non perdere  la supremazia dell’aria; inoltre, egli ritiene che le coste basse e  sabbiose presenti a nord di Napoli, la zona proposta da Clark,  avrebbero ostacolato le manovre dei mezzi da sbarco.

La scelta  di Salerno si rivelerà alla fine infelice: la costa paludosa non  permette l’impiego veloce delle forze corazzate, mentre a poca  distanza dalla linea di costa vi sono colline scoscese che facilitano  l’opera di difesa delle truppe tedesche. Il ritardo con cui sarà presa Napoli permetterà ai tedeschi  di danneggiarne gravemente le strutture portuali.

Il generale Mark Clark

Essi, poi,  avranno tutto il tempo di spostare dalla Calabria truppe per  rafforzare le difese contro la testa di sbarco, mentre quelle di  Montgomery, sbarcate con l’8a armata britannica subito a sud  di Reggio Calabria il 3 settembre (operazione Baytown), in risalita  verso nord, procedono con estrema lentezza, giungendo  nella zona di Salerno solo a operazioni ormai avviate verso la  conclusione.

Ai primi di settembre, comunque, il piano alleato può contare  sulla resa prossima dell’Italia e sulla disponibilità del governo  Badoglio a fornire una certa collaborazione ai piani alleati,  nei limiti concessi dalla sempre più forte presenza tedesca,  in particolare nella conquista del porto e della città di Taranto  (operazione Slapstick, effettuata all’alba del 9 settembre).

Nel mese di agosto, infatti, Hitler ha fatto affluire alcune divisioni  nell’Italia settentrionale, agli ordini di Rommel, utilizzate  come riserva strategica per la Francia meridionale, l’Italia  e i Balcani. Intanto dalla Sicilia stanno giungendo le truppe  tedesche in ritirata, agli ordini di Kesserling, con il compito di  concentrarsi nell’Italia centrale, in particolare nella zona di  Roma.

Generaloberst Heinrich von Vietinghoff

Viene poi costituito il Comando della 10a armata agli  ordini del generale von Vietinghoff che si occuperà delle esigenze  tattiche nel sud della Penisola, in particolare di affrontare  gli eventuali sbarchi anglo-americani. Ai primi di settembre  gli aerei tedeschi sono già stati ritirati da tutti gli aeroporti  dell’Italia meridionale, con l’eccezione di quello di Foggia,  presso cui sono dislocati 17.000 uomini della 1a divisione paracadutisti.

Nella punta dello stivale sono dislocati invece circa  30.000 uomini appartenenti alla 26a Panzerdivision e alla 29a divisione Panzergrenadier. Altri 45.000 uomini delle divisioni  Göring e 15a Panzergrenadier e della 16a Panzerdivision sono dislocate  tra Gaeta e Salerno, lungo la costa tirrenica.

Lo sbarco alleato nell’Italia continentale

Alle 4,30 del 3 settembre le truppe dell’8a armata di Montgomery iniziano a sbarcare sulla costa calabrese, senza incontrare  nessuna reazione. Un attacco anfibio viene attuato verso  Pizzo, a circa cento chilometri a nord di Reggio. I tedeschi  non oppongono resistenza e avviano il ritiro verso nord.  L’avanzata alleata sarà però molto lenta, a causa delle caratteristiche  del terreno e della distruzione delle infrastrutture.

Nel frattempo, tra il 3 e il 6 settembre, salpano da Tripoli e  da Biserta le navi con le truppe del 10° corpo d’armata britannico,  mentre quelle che trasportano il 6° corpo d’armata  americano salpano da Orano, dirigendosi verso il golfo di Salerno.  A proteggere i convogli vi sono sette portaerei, oltre a  quattro navi da battaglia e a una divisione di incrociatori. La  responsabilità dello sbarco è affidata al generale Mark Clark,  comandante della 5a armata americana.

Alle sue dipendenze  vi sono il generale sir Richard McCreery, comandante del  10° corpo d’armata britannico, e il generale Ernest Dawley,  comandante del 6° corpo d’armata statunitense. In totale vi  sono 450 navi che trasportano 169.000 soldati e 20.000 veicoli.  Mentre gli inglesi sarebbero sbarcati a nord del fiume Sele  per impadronirsi del porto di Salerno e dell’aeroporto di Montecorvino,  gli americani hanno il compito di occupare le alture  a sud e a est e di collegarsi a Ponte Sele con le truppe inglesi  provenienti da sud.

Contemporaneamente, nel pomeriggio  dell’8, i comandi dei feldmarescialli Kesserling e Richthofen, situati a Frascati, nei dintorni di Roma, sono attaccati da formazioni  di bombardieri alleati che cercano di interrompere il  sistema di comunicazione con i reparti.  Alle 18,30 dell’8 settembre il generale Eisenhower annuncia  alle truppe imbarcate per l’operazione la notizia che l’Italia  ha firmato l’armistizio.

Alla mezzanotte le navi alleate giungono  in posizione sulla costa di Salerno. Nel frattempo Kesserling  e von Vietinghoff, venuti a conoscenza dell’armistizio  italiano, provvedono a far occupare dalle truppe le postazioni  lungo la costa tra Gaeta e Salerno. Alle 2,00 del 9 settembre  le unità di difesa costiera aprono il fuoco contro gli attaccanti.

La battaglia ha inizio

Contemporaneamente è avviata l’operazione Slapstick: 3.600  soldati delle truppe aviotrasportate raggiungono Taranto, dove  non ci sono tedeschi, e vengono accolti dalle truppe italiane.  Il porto è in piena efficienza. Entro due giorni anche Brindisi  sarà occupata senza incontrare resistenza, mentre i paracadutisti  tedeschi della 12a divisione, dispersi su un’ampia zona  della Puglia, si raggruppano nei pressi di Foggia.

Von Vietinghoff,  impossibilitato a contattare Kesserling, sceglie autonomamente  di contrastare lo sbarco anglo-americano piuttosto  che spostare le sue truppe verso Roma, e ordina a tutti i reparti  di convergere su Salerno. Nell’immediato, però, ha a disposizione  solo 17.000 uomini della 16a Panzerdivision e poco più  di 100 carri armati, dei quali due terzi vanno persi nel primo  giorno di battaglia.

Risulta però determinante, per la riuscita  del piano di resistenza tedesca nel settore meridionale della  penisola, l’azione condotta dalle divisioni disposte attorno a  Roma al comando di Kesserling che, in attuazione del piano  di emergenza denominato Achse (Asse), riescono a mantenere il controllo della città, vitale per le comunicazioni stradali e  ferroviarie tra il nord e il sud, e a mettere fuori gioco le cinque  efficienti divisioni italiane dislocate intorno alla capitale.

Già  l’11 settembre i soldati tedeschi hanno il controllo della zona.  Inglesi e americani di fronte al crollo italiano  Quando l’Italia entrò in guerra, nel giugno 1940, la potenza  inglese costituiva il principale nemico della politica imperialista  di Mussolini: nei Balcani, nel Mediterraneo e nell’Africa settentrionale.

La dichiarazione di guerra avveniva in un momento drammatico  per gli inglesi, sconfitti in Francia dalla Germania e  poi sottoposti a un attacco aereo, noto come Battaglia d’Inghilterra  che costituiva solo la premessa della prevista invasione  dell’Isola. Tre anni di guerra non fecero che acuire questa  contrapposizione. Si può immaginare quindi il sollievo e la  soddisfazione del governo e del popolo inglese alla notizia  della resa del principale nemico nel Mediterraneo.

Non solo  era possibile vendicare l’aggressione del 1940, ma si poteva  pensare di eliminare dal gioco un temibile concorrente della  potenza inglese che si preparava a sostituire l’Italia nelle sue  tradizionali zone di influenza.  Per questo, nel novembre 1942, il ministro degli Esteri inglese,  Eden, capo della corrente più intransigente, si dichiarava  favorevole a puntare al collasso dell’Italia seguito dall’occupazione  tedesca, piuttosto che a una pace separata.

In questo  modo non solo i tedeschi avrebbero dovuto impegnare forze  considerevoli, Eden parlava di 30-40 divisioni nell’occupazione  della penisola e per sostituire le truppe italiane nei Balcani,  ma al momento della vittoria finale la nuova autorità italiana sarebbe stata impossibilitata a rivendicare le colonie e a minacciare,  nel futuro, la potenza inglese nel Mediterraneo.

Gli Stati Uniti, al contrario, erano interessati a una politica  che favorisse l’uscita dell’Italia dalla guerra anche attraverso  una pace separata, ma alla conferenza di Casablanca, nel  gennaio 1943, venne deciso il principio della resa incondizionata
per gli alleati della Germania, accentuando l’impostazione  punitiva della politica alleata verso il nostro Paese come richiesto  dagli inglesi.

Il crollo dell’Italia era quindi uno degli obiettivi degli alleati;  quando tuttavia questo avvenne, essi si trovarono impreparati.  Il collasso fu rapido: in maggio la resa delle truppe in Tunisia,  in luglio l’invasione della Sicilia e la destituzione di Mussolini,  seguite nel giro di cinque settimane dalla firma della resa, il 3  settembre, che apriva le porte all’invasione della penisola con  lo sbarco di Salerno dell’8-9 settembre.

Gli alleati avevano dato l’impressione, con lo sbarco in Sicilia effettuato con mezzi  straordinari, di possedere risorse illimitate. In realtà l’idea di  una campagna militare di lungo periodo in Italia non rientrava  nei loro piani strategici; i sovietici reclamavano da tempo  l’apertura di un secondo fronte in Occidente contro la Germania  e gli americani ritenevano che la caduta dell’Italia sarebbe  stata comunque conseguente alla sconfitta tedesca; utilizzare  una parte delle forze presenti nel settore europeo in  Italia avrebbe costituito una diversione dall’obiettivo principale,  il solo Churchill premeva per un impegno in tal senso, per  approfittare della nuova situazione strategica nel Mediterraneo.

Le forze disponibili furono comunque in gran parte impiegate  nello sbarco di Salerno, senza però che vi fosse una superiorità  schiacciante nei confronti del nemico, ma non ve ne erano per altre operazioni in appoggio alle truppe italiane nei Balcani  o nell’Italia centro-settentrionale. Il Comando italiano e il governo  Badoglio sopravvalutarono le forze che gli alleati erano  disposti a impegnare in Italia, ma questi puntavano a una collaborazione  attiva delle forze armate italiane, in particolare  attorno a Roma e nei Balcani.

Negli accordi militari che accompagnarono la firma dell’armistizio  vi era l’impegno esplicito che il governo italiano  avrebbe mobilitato le truppe disponibili contro i tedeschi.  Questo impegno era considerato scontato dal Comando del  generale Alexander che aveva definito con i colleghi italiani i  piani particolareggiati delle operazioni militari.

Quanto avverrà subito dopo l’8 settembre coglierà di sorpresa   non solo il Comando alleato, ma anche il maresciallo  Kesserling, che dovrà in fretta e furia convincere Hitler a non  abbandonare la penisola italiana.

I tedeschi e l’operazione Alarico

Fin dal maggio 1943 Hitler si era preparato a fronteggiare  una crisi in Italia costituendo il Gruppo armate B, dislocato  in Carinzia e in Tirolo, agli ordini di Rommel. Il 17 luglio,  nel quartier generale di Rastenburg, viene di nuovo esaminata  la situazione italiana.

Per questo, quando il 25 luglio giunge  la notizia della destituzione di Mussolini, i tedeschi sono pronti  ad attuare il piano d’invasione dell’Italia denominato operazione  Alarico, nonostante il proclama di Badoglio che «la guerra  continua».  All’alba del 26 luglio incomincia l’affluenza dal Brennero  (l’Alto Adige viene occupato), dalla Francia e dalla Carinzia  di nove divisioni e una brigata, che si aggiungono alle otto già disponibili nella penisola e nelle isole.

Contemporaneamente  le forze dislocate in Sicilia, che hanno subìto gravi perdite,
sono riorganizzate entro la fine di agosto, dopo essere affluite  verso la Calabria, mentre quelle dislocate in Campania estendono  la loro area di azione. Le truppe di stanza in Corsica e  in Sardegna vengono attivate per la difesa costiera. Intorno a  Roma si costituisce un concentramento di forze di circa 29.000  uomini, oltre 6.000 elementi del servizio informazioni e degli  organi politici tedeschi.

Il Comando delle truppe poste a sud  dell’Appennino, Oberbefehl Sud, è collocato a Frascati, sotto il  comando del generale Kesserling, mentre il maresciallo Rommel  è nominato comandante per l’Alta Italia.  Queste operazioni avvengono mentre Italia e Germania  sono ancora ufficialmente alleate e le delegazioni militari dei  due paesi si incontrano nei convegni di Tarvisio (6 agosto) e  di Bologna (15 agosto).

Alla data dell’8 settembre, le forze germaniche dislocate in  Italia sono costituite da diciassette divisioni e due brigate con  circa 150.000 uomini distribuiti su tutto il territorio. Altre  quattro divisioni sono segnalate in arrivo. Esse sono disposte  sul terreno in modo da incapsulare i reparti italiani. Dopo l’annuncio dell’armistizio firmato dall’Italia, di fronte  alla sorpresa che colpisce le truppe italiane, prive di ordini  precisi e disorientate dagli avvenimenti, i tedeschi possono attuare  con decisione e violenza un piano minuziosamente preparato.

Intimano la resa e disarmano molti reparti, a volte  anche ricorrendo a stratagemmi e alla propaganda, trovando  spesso la collaborazione dei comandi italiani. Più raramente i  reparti italiani cercano di resistere, manifestando una maggiore  compattezza.

Decisa è l’azione tedesca per il controllo di Roma, nonostante  un’iniziale resistenza di reparti italiani della divisione  Piave, dell’Ariete e dei granatieri. Nella notte tra l’8 e il 9 settembre  la posizione di Kesserling nella zona di Roma sembra  compromessa, data la sproporzione di forze a favore dell’esercito  italiano. Solo al mattino si rende conto che il Comando  italiano non ha fornito disposizioni precise ai reparti che  stanno arrendendosi o disperdendosi.

Entro il 14 settembre le truppe di Rommel e di Kesserling  riescono a impadronirsi di gran parte della penisola, dopo  aver disarmato e reso inattivo l’Esercito italiano. Anche l’evacuazione  delle truppe tedesche dalla Sardegna e dalla Corsica  avviene mantenendo l’efficienza militare.

La riuscita dell’operazione va al di là delle aspettative, anche  perché gli alleati non approfittano della situazione verificatasi  con l’armistizio firmato dall’Italia; lo sbarco avvenuto a Salerno  è troppo a sud per impensierire i tedeschi attestati attorno a  Roma, mentre non viene sfruttato il concorso delle forze armate italiane.  Questa situazione spinge la Germania a modificare il primitivo  piano che puntava alla difesa dell’Appennino settentrionale  sotto il comando di Rommel.

È invece accettata la  proposta di Kesserling di attestare la resistenza nell’Italia meridionale,  riorganizzando varie linee di difesa contrassegnate  da lettere dell’alfabeto; quella più importante, su cui arrestare  il nemico, è la linea G o Gustav lungo il corso del Garigliano- Rapido-Sangro. Il generale Kesserling ottiene il comando  delle truppe dislocate sul fronte sud, mentre il Comando  Gruppo armate B viene disciolto.

Lo stato d’animo tedesco è ben rappresentato da queste parole  pronunciate dal feldmaresciallo Kesserling subito dopo  l’8 settembre:
«Il governo italiano si è reso responsabile del più vile tradimento,  concludendo alle nostre spalle l’armistizio col nemico. Noi tedeschi  continueremo a combattere fino all’ultimo contro il nemico esterno  per la salvezza dell’Europa e dell’Italia. Sono convinto che  adempiremo a tutti i compiti affidati a noi dal Führer, come  abbiamo fatto finora, se conserveremo il nostro antico spirito di  combattimento e di ferrea calma. Le truppe italiane devono essere  persuase facendo appello al loro onore a continuare la lotta al  nostro fianco, in caso di rifiuto devono essere disarmate senza  riguardo. Del resto non c’è clemenza per i traditori. Viva il  Führer».

Non c’è dubbio che il sentimento diffuso tra gli ufficiali e i  reparti tedeschi fosse di odio verso gli italiani, per essere stati  abbandonati e traditi dal principale alleato, come già era avvenuto  ai tempi della Grande guerra, quando l’Italia si era  schierata con i nemici della Germania, nonostante le alleanze.  La reazione tedesca sarebbe pertanto stata ispirata allo spirito  di vendetta: gli italiani, soprattutto i militari, andavano puniti  per quella scelta.

In realtà il rapporto di fiducia tra i due alleati era venuto  meno già dopo le sconfitte italiane in Grecia e in Nordafrica  ed era stato sostituito da un’effettiva subordinazione di Mussolini  alle scelte strategiche del nazionalsocialismo. I tedeschi,  più o meno velatamente, rinfacciavano agli italiani di essere  ormai un peso dal punto di vista militare, di non essere sufficientemente  spietati nella repressione delle bande ribelli in  Croazia, in Albania e in Grecia, di ostacolare la politica antisemita,  offrendo riparo e protezione agli ebrei presenti nelle zone occupate dagli italiani.

Sia ai vertici del potere tedesco  che tra le truppe erano riapparse le considerazioni razziste  sulla decadenza dei popoli latini e sulla superiorità razziale  dei tedeschi, per cui la crisi dell’esercito italiano veniva rinviata  non tanto alle scelte dei gruppi dirigenti, quanto a una pretesa  inferiorità naturale del soldato italiano, incapace di svolgere il  ruolo di dominatore con la necessaria spietatezza.

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Anche gli  italiani appartenevano a quei popoli schiavi che sarebbero  stati subordinati al Reich tedesco. Con l’armistizio italiano le  remore formali che avevano impedito a queste posizioni di  emergere apertamente venivano rimosse; esse costituiscono  lo sfondo ormai esplicito su cui si muovono i soldati e gli ufficiali  tedeschi nelle settimane successive all’8 settembre nei  loro rapporti con la popolazione e con i soldati italiani.

Per  molti militari tedeschi sarebbe stato considerato legittimo e  non riprovevole uccidere non solo soldati italiani, ma donne,  vecchi e bambini, anche piccolissimi, come avverrà nelle rappresaglie  compiute nelle zone di passaggio delle truppe tedesche  in ritirata già dal settembre 1943.

A giustificare, però, l’urgenza del disarmo italiano e la durezza  dei comportamenti tedeschi, vi è anche una motivazione  strategica fondamentale. Benché il Comando tedesco abbia  cominciato a pensare all’eventualità dell’uscita dell’Italia dal  conflitto già dal novembre 1942 e che i preparativi militari  siano stati completati tra maggio e luglio 1943, i rischi per lo  schieramento tedesco, con l’uscita dell’Italia dalla guerra, sono  gravissimi. In Italia Kesserling, all’indomani dell’armistizio,  considera perduta l’Italia insulare e si prepara a ritirarsi nella  pianura Padana, con l’obiettivo di salvare per quanto possibile  le truppe dislocate a sud di Roma.

Nei Balcani vi sono 300.000  soldati tedeschi e quasi 600.000 italiani. Per la Germania, dopo l’avanzata sovietica sul fronte orientale  e il fallimento della controffensiva di Kursk nel mese di  luglio, dov’è stata combattuta la più grande battaglia di carri  armati della storia, quello balcanico è ormai diventato l’immediato  retrovia del fronte.

Il Comando Supremo tedesco si  aspetta, dopo quello di Salerno, un massiccio sbarco proprio  in Grecia. L’esercito italiano, per quanto provato e dotato di  scarsa volontà di combattere, è tuttavia forte di oltre 2.500.000  di uomini; la Marina italiana mantiene una potenza considerevole.  Solo col senno di poi si può considerare scontata la  dissoluzione della forza militare italiana, come invece avverrà.

Inoltre, l’uscita dell’Italia dalla guerra potrebbe spingere gli  altri alleati della Germania, soprattutto nei Balcani, a fare la  stessa scelta. Una reazione rapida e spietata potrebbe allontanare  questo pericolo.  La crisi è massima tra il 9 e il 12 settembre: dopo quattro  giorni i tedeschi hanno contenuto lo sbarco alleato a Salerno,  assunto il controllo di Roma e del resto della penisola e di  gran parte dei territori balcanici già occupati dagli italiani, disattivato i comandi italiani di Tirana e Atene.

Restano fuori  dal loro controllo la Corsica e la Sardegna che non riusciranno  più a riprendere, Cefalonia e Corfù a ovest della Grecia,  alcune isole dell’Egeo a est, oltre a diverse sacche di resistenza  nella Grecia continentale, sulla costa Dalmata e nel Montenegro.  La difesa della Grecia consiste nel riprendere possesso di  queste isole, dove la resistenza continuerà ancora per qualche  settimana, ma solo a Lero e a Coo gli inglesi riusciranno a  sbarcare dei rinforzi.

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