CEFALONIA 1943, TANTE “VERITA'” – 1

 a cura di Cornelio Galas

“Memoria e storia sono interdipendenti; nondimeno, non sono identiche. A me sembra che la storia debba essere riflessiva e inevitabilmente discordante e a più voci. Non sto sostenendo che la storia arriva necessariamente ad una conclusione più scientifica della memoria…

Ma gli storici devono almeno presupporre differenti situazioni di vita; essi ritengono che individui e gruppi  portino limitate prospettive in ogni conflitto e, inoltre, devono ricostruire le sequenze causali; raccontano storie del prima e del  poi e spiegano gli eventi con i loro antecedenti”.

E’ quanto scrive Nicola Spagnolli nel saggio “Cefalonia, settembre 1943. Dinamica di un crimine di guerra”.

Sull’eccidio di Cefalonia,  uno dei più incredibili crimini di guerra commessi dai soldati tedeschi nel corso del secondo conflitto, molto si è scritto e molto si è detto. Rispetto ad altri episodi di resistenza nel contesto bellico greco- balcanico, infatti, Cefalonia ha  usufrruito di un ricordo privilegiato.

Da una tale mole di scritti, secondo Spagnolli,  non è possibile ricavare però un’immagine unilaterale, a tinta unita, bensì poliedrica, multicolore e sfumata in alcuni ontorni.Attorno ad una storiografia – è sempre Nicola Spagnolli che parla  – accademica sostanzialmente concorde, esiste infatti un universo (in formato cartaceo e digitale online) di discussioni,  dibattiti e pubblicazioni eterodosse ed eterogenee sia nei toni sia nei punti di  vista espressi.

Si tratta per lo più di testimonianze di superstiti o di ricostruzioni dei parenti di chi, da Cefalonia, non è più tornato.Per quanto riguarda le prime, è comprensibile che ciascuno racconti la propria esperienza sulla base di personali prospettive sul passato (ma anche sul presente), e di una memoria che nel corso degli anni ha elaborato e rielaborato continuamente il ricordo di eventi o dei loro particolari, sino a deformarli involontariamente.

Nelle ricostruzioni e ricerche realizzate dai parenti, invece, informazioni e precisazioni di merito si mescolano spesso con il risentimento personale  e con la rivendicazione di una verità che renda giustizia alla memoria del proprio congiunto tragicamente scomparso.

Tale contesa tra memorie diverse non è nuova nel contesto della storia della seconda guerra mondiale, soprattutto quando si ha a che fare con le rappresaglie naziste.

Il quadro generale

L’aggressione italiana alla Grecia ebbe inizio il 28 ottobre del 1940 e, grazie soprattutto all’aiuto delle forze tedesche, ebbe esito vittorioso nell’apri-le del 1941. Ad Atene venne imposto dai tedeschi un governo fantoccio guidato dal generale Georgios Tsolakoglu, mentre il controllo del paese fu affidato alla IX armata del Regio Esercito comandata dal generale Carlo Geloso.

In Grecia era inoltre stanziata l’XI armata comandata, dal maggio del’43, dal generale Carlo Vecchiarelli. Con la caduta di Mussolini e l’assunzione dei poteri da parte di Pietro Badoglio (luglio del ’43), essa venne trasformata in un’armata mista italo-tedesca con comando italiano ma con uno stato maggiore operativo tedesco affiancato a quello del suo alleato. Alle dipendenze di Vecchiarelli, il cui comando aveva sede ad Atene, c’erano tre corpi d’armata italiani e uno tedesco.

Il XXVI Corpo d’Armata, era dislocato nell’Epiro e comandato del generale Guido della Bona il quale aveva la propria sede a Ioánnina. L’VIII Corpo d’Armata, dove era inquadrata la Divisione di Fanteria «Acqui», rispondeva agli ordini del generale Mario Marghinotti, e aveva la sede del comando ad Agrinion, mentre le truppe erano sistemate nell’Arcanania, nell’Etolia, nell’Isola di Cefalonia e Santa Maura.

Il III Corpo d’Armata del generale Luigi Manzi, dislocato in Tessaglia, nell’Attica e nell’isola di Eubea, aveva il proprio quartier generale a Tebe. Infine, per quanto riguarda le forze tedesche, il LXVIII Corpo d’Armata del generale Helmuth Felmy era dislocato nel Peloponneso e inquadrava le Divisioni di fanteria italiane «Piemonte» e «Cagliari».

La sede di comando era a Vitina. In Grecia vi era dunque una notevole integrazione tra unità tedesche e italiane. Nell’agosto del ’43, l’XI Armata venne collocata alle dipendenze operative del gruppo di Armate E del generale Alexander Löhr, il cui comando aveva sede a Salonicco.

Al settembre dello stesso anno, le forze tedesche nei Balcani e in Grecia ammontavano a 311.000 uomini, mentre quelle italiane a circa 650.000, di cui 172.000 nella sola Grecia. Le isole Ioniche, Corfù, S. Maura, Itaca, Cefalonia e Zacinto, furono sottoposte ad un governatorato civile affidato al gerarca Piero Parini.

Queste isole avevano rivestito nella “guerra parallela” di Mussolini un’importanza sia politica sia militare poiché erano il primo obiettivo dei progetti fascisti di dominio sulla Grecia, sia per la loro posizione geografica che per il loro passato veneziano (dal 1204 al 1797 avevano fatto parte della repubblica di Venezia).

La rilevanza militare di queste isole cambiò con l’evoluzione dei rapporti di forza nel Mediterraneo. Nel ’41-’42, infatti, la loro occupazione non aveva importanza strategica, salvo che per la protezione dei convogli che dall’Italia raggiungevano la Grecia e poi, in parte, la Libia. Alla fine del ’42, quando il Mediterraneo divenne il principale teatro dell’offensiva angloamericana in Europa, Cefalonia e Zacinto acquistarono per i comandi italiani una doppia rilevanza.

Presidiare in maniera efficace queste isole, in primo luogo, serviva ad impedire o rendere difficile una penetrazione nemica nel golfo di Patrasso; secondariamente si doveva evitare che gli angloamericani le occupassero come base per un successivo sbarco nella penisola balcanica. Evento poco probabile visto che le isole erano sprovviste di campi d’aviazione e piste d’atterraggio.

L’8 settembre in Grecia

Ricostruiamo ora per sommi capi gli eventi che in Grecia seguirono alla firma dell’armistizio. Alle 19.45 dell’8 settembre Pietro Badoglio, capo del governo, lesse agli italiani il comunicato ufficiale dell’avvenuta firma dell’armistizio con le forze  alleate:

“Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate angloamericane.

La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad  eventuali attacchi di qualsiasi provenienza”.

Il comando dell’XI armata, il 7 settembre, aveva già ricevuto dal Comando Supremo italiano delle indicazioni di massima, molto più precise però del sibillino messaggio di Badoglio, su come comportarsi con i tedeschi. Il Pro-memoria n. 2, emanato il 6 settembre dal suddetto comando, iniziava con una  premessa generale:

Particolari condizioni di ordine generale possono imporre di deporre le armi  indipendentemente dai tedeschi. L’esperienza recente insegna che questi re-agiranno violentemente. Non è neppure escluso che possano commettere atti  di violenza, indipendentemente dalla dichiarazione di armistizio, per rovesciare il Governo o altro.

Badoglio e Mussolini

Seguivano poi i compiti particolari a seconda delle forze armate e della loro collocazione sul fronte greco e balcanico. Per la Grecia si comunicava che:

È lasciata libertà al Comando di Armata… di assumere l’atteggiamento generale in confronto dei germanici che sarà ritenuto più opportuno… Dire francamente ai tedeschi che se non faranno atti di violenza armata le truppe italiane non prenderanno le armi contro di loro, non faranno causa comune né con i  ribelli né con le truppe angloamericane, che eventualmente sbarcassero.

Le posizioni di difesa costiera in consegna alle truppe italiane saranno  mantenute e difese per un breve periodo di tempo… fino alla sostituzione con  truppe germaniche, e questo eventualmente anche in deroga agli ordini del Governo Centrale, sempre quando, naturalmente, da parte tedesca, non vi siano atti di forza. Riunire al più presto le forze preferibilmente sulle coste in prossimità dei porti.

Le forze aeree e della Marina, inoltre, avrebbero dovuto raggiungere immediatamente l’Italia. All’Aviazione venne dato ordine di distruggere il materiale e gli impianti a terra, alla Marina di autoaffondare le unità che fossero in procinto di cadere in mano germanica. Qualsiasi Forza Armata doveva reagire immediatamente ed energicamente senza speciale ordine ad ogni violenza armata germanica e delle popolazioni in modo da evitare di essere disarmati o sopraffatti.
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Il generale Vecchiarelli, la notte dell’8 settembre, inviò un telegramma a tutti i comandi a lui sottoposti con direttive molto precise che ricalcavano il promemoria sopraccitato:

Se i tedeschi non faranno atti di violenza, non rivolgere le armi contro di loro; le truppe italiane non faranno causa comune né con i ribelli né con le truppe angloamericane eventualmente sbarcate; reagire con forza ad ogni violenza armata; rimanere ai propri posti e con gli attuali compiti.

il generale Vecchiarelli

Nella notte tra l’8 e il 9 settembre, Vecchiarelli ricevette il generale Lanz del XXII Corpo d’Armata di montagna (Gebirgskorp) per aprire un tavolo di trattative, le quali approdarono ad un accordo di massima, secondo il quale per almeno due settimane i soldati italiani avrebbero continuato a presidiare le opere di difesa costiera per poi mettersi in marcia per l’Italia, portando al seguito solo le armi necessarie per la difesa personale.

Vecchiarelli non era disposto, in nome dell’onore militare, a procedere al completo disarmo della sua armata. La linea morbida di Lanz era invece in contrasto con quella dei suoi superiori che premevano per il disarmo dell’ XI Armata.

Conseguentemente, il generale Löhr comunicò a Lanz che gli accordi presi con Vecchiarelli non erano da ritenersi validi e che si doveva procedere al disarmo senza condizioni. Lanz incontrò di nuovo Vecchiarelli per comunicare che il 9 settembre avrebbe avuto inizio il disarmo dell’esercito italiano. I due si accordarono  come segue:

Le truppe italiane il 9.9 consegnano tutte le armi pesanti e automatiche. Pistole, fucili e baionette restano nelle mani dei soldati italiani. I tedeschi opereranno arresti solo se sarà necessario l’uso della forza. Gli ufficiali conservano le proprie armi.

Hubert Lanz

A convincere ulteriormente il comandante italiano alla resa contribuì un telescritto inviatogli dal generale Vittorio Ambrosio, capo del Comando Supremo, alle ore 0.20 del 9 settembre, dove si ribadiva che non doveva essere presa alcuna iniziativa ostile nei confronti dei tedeschi, ma che si doveva reagire ad ogni violenza volta al disarmo e alla sopraffazione delle forze italiane.

Alle 11.45 del 9 settembre, Vecchiarelli emanò un secondo ordine, il 02/25026, nel quale invitava i comandanti a cedere le armi ai tedeschi, salvo quelle personali.

I presidi costieri dovevano rimanere nelle loro posizioni sino al cambio con i reparti tedeschi. Le truppe italiane non dovevano opporre resistenza ad eventuali azioni di truppe angloamericane, ma dovevano reagire invece ad eventuali azioni di forze ribelli.

Le truppe sarebbero rientrate in Italia al più presto, lasciando ai subentranti reparti tedeschi le armi collettive e le artiglierie, mentre quelle individuali sarebbero rimaste in possesso degli italiani per permettere loro di difendersi dagli attacchi dei ribelli.

È un messaggio difforme, per non dire opposto, da quello emanato il giorno precedente. Nel primo, infatti, si ordinava di rimanere ai propri posti, mentre nel secondo si stabilivano le modalità di avvicendamento con i tedeschi.

Alle ore 12.00 del 9 settembre, ebbe inizio il disarmo nella zona di Atene che non incontrò difficoltà. Costatato però che alcuni soldati italiani vendevano le armi ai greci, il Gruppo d’Armata germanico pretese la consegna delle armi individuali ad eccezioni di quelle in possesso degli ufficiali.  La Wehrmacht avrebbe protetto gli italiani durante il loro rientro. Il generale d’armata italiano, messo di fronte al fatto compiuto, non poté fare altro che prenderne atto.

Vecchiarelli, molto probabilmente, decise questa linea in seguito alla pressione dei tedeschi, i quali avevano ricevuto ordini precisi di promettere agli italiani il rimpatrio immediato qualora questi avessero ceduto le armi. Tale atteggiamento è stato duramente criticato, giudicato eccessivamente remissivo o addirittura collaborazionista da parte di alcuni studiosi.

Più comprensivo ed equilibrato il giudizio che ne dà Schreiber:

È molto probabile che le ripetute concessioni fatte dal generale Vecchiarelli  siano da attribuire fondamentalmente alla convinzione che le truppe dell’11^  Armata, una volta cedute le armi, sarebbero state rimpatriate. Un’aspettativa che scaturiva dalle assicurazioni avute da parte tedesca, anche se  resta difficile comprendere tanta ingenuità. Nel credere alla parola data dai  generali tedeschi, Vecchiarelli sarebbe in fondo stato vittima del suo senso  dell’onore.

I tedeschi, infatti, sin dal 25 luglio si erano preparati all’uscita dell’Italia dalla guerra elaborando piani per l’invasione della penisola e per il disarmo del Regio Esercito, operazione quest’ultima che venne elaborata nel piano «Achse», la cui prima disposizione prese vita nei giorni successivi alla caduta di Mussolini. Il 10 settembre il generale Löhr ordinò al XXII Corpo d’Armata di montagna del generale Lanz, il cui comando aveva sede a Ioannina nell’Epiro, di procedere al disarmo totale delle truppe italiane.

Alexander Löhr

Il XXII Corpo d’armata concluse le operazioni di disarmo delle unità italiane dell’VIII e XXVI Corpo d’Armata, che si trovavano sul territorio continentale greco, il 13 settembre. I comandanti italiani, infatti, decisero in larga maggioranza di eseguire l’ordine di Vecchiarelli, ad eccezione delle divisioni «Pinerolo», in Tessaglia, e «Acqui», nelle isole Ioniche.

Intere divisioni come la «Forlì» in Attica, la «Modena» nell’Epiro, la «Piemonte» e la «Cagliari» nel Peloponneso, si consegnarono ai tedeschi e vennero deportate in Germania. Cadevano in mano ai tedeschi gli aeroporti di Prevesa, Patrasso e Agrignion.

La topografia dei Balcani non aveva inizialmente offerto alcun vantaggio all’aggressore tedesco e la situazione interna delle diverse regioni aveva comportato numerosi rischi. Nonostante queste difficoltà, però, le forze della Wehrmacht, approfittando della mancanza di coordinamento dell’ex alleato, della sua ingenuità, e avendo dalla propria parte migliore organizzazione, determinazione, capacità di condurre l’inganno ai danni delle truppe italiane, promettendo loro il rimpatrio e caricandoli invece su treni in partenza per i campi di internamento, riuscirono a condurre con successo l’operazione «Achse».

Soldati ingannati, disarmati, trattati come traditori, catturati quando non massacrati, internati e privati della tutela delle Convenzioni di Ginevra, sono “soltanto” alcuni dei capitoli della tragedia italiana iniziata l’8 settembre. Una tragedia che ha radici nella scelta di Mussolini di trascinare il Paese nella guerra ma che vede come responsabili diretti Badoglio e il re Vittorio Emanuele III poiché questi, come scrive Aga Rossi:

… si dimostrarono del tutto incapaci di affrontare la situazione, trascinando l’Italia con la loro inazione nel più grave disastro militare della sua storia.
Preoccupati del loro destino personale, più che di quello del paese, misero in secondo piano l’esigenza di prendere le misure necessarie per essere preparati al momento dell’annuncio dell’armistizio, si preoccuparono soltanto di  mantenere il segreto per non dare ai tedeschi l’occasione di un colpo di stato.
Così il re e Badoglio non impartirono alcuna direttiva al Comando Supremo  e allo Stato maggiore dell’Esercito per «orientare» i vari comandi sull’eventualità di un armistizio con gli angloamericani, nel timore che i tedeschi ne potessero venire a conoscenza.

La divisione Acqui

La XXXIII Divisione di fanteria da montagna «Acqui» era stata costituita il 15 dicembre 1938 a Merano, riprendendo il nome della brigata istituita nel 1821 dall’allora esercito piemontese e che, dopo un primo scioglimento dal 1871 al 1881, era stata nuovamente smembrata nel 1926 dopo aver combattuto la prima guerra mondiale. Nel settembre del 1939, allo scoppio del conflitto, la Acqui, non ancora completa, fu spostata sulla frontiera francese, in Valle Stura.

Successivamente, dopo aver passato l’inverno nella zona di Alba, all’inizio del giugno del 1940 tornò in Valle Stura per bloccare eventuali attacchi francesi. A quella data la divisione era ormai completa, dotata di comando di divisione e dei seguenti reparti:

⦁ 33° reggimento artiglieria;
⦁ 33° battaglione mortai;
⦁ 33° compagnia anticarro;
⦁ due compagnie del genio (artieri, telefonisti e radiotelegrafisti, fotoelettri-cisti);
⦁ servizi: sezione sanità, sezione sussistenza, reparto salmerie, autoreparto e due sezioni carabinieri.
⦁ La Acqui era composta essenzialmente da contadini, cosa comprensibile visto che l’Italia era allora un paese largamente agricolo.

A  novembre la divisione, rientrata nella sua sede di pace a Merano, venne raggiunta dall’ordine di partire per l’Albania, dove arrivò nella seconda metà di dicembre del ’40.  Tra il 1940 e il 1943 la divisione venne riorganizzata e al comando della divisione si alternarono diversi generali: Adamo Mariotti (’40-’41), Luigi Mazzini (’41-’42), Ernesto Chiminello (’42- giugno ’43) e, infine, Antonio Gandin (giugno ’43-settembre ’43).

Lungo la linea del fronte greco-albanese, la divisione venne impegnata in una lunga serie di azioni difensive e controffensive fino a quando la pressione greca non cedette e il paese aggredito fu costretto alla resa.

Il 29 aprile del ’41, il comando di Divisione sbarcò a Corfù per assumere successivamente la responsabilità delle isole Ioniche. All’ 1 giugno del ’41 la Divisione, dislocata a Santa Maura, Cefalonia, Itaca e Zacinto, aveva la sede del comando, la 17° fanteria e la 18° legione CC.NN. d’assalto a Corfù, il 18°fanteria sulla costa greca, gli altri reparti divisi tra Corfù e la costa, mentre il raggruppamento CC.NN. da sbarco presidiava l’isola di S. Maura, Cefalonia, Itaca e Zacinto.

Antonio Gandin

Dopo il consolidamento dell’occupazione delle isole Ioniche nel ’42, nel settembre del ’43 si accentuò il rafforzamento delle difesa di Cefalonia, dove erano già presenti il III battaglione del 17° reggimento, il II gruppo del 33°reggimento artiglieria, un battaglione mitragliatrici e altri reparti per la difesa antiarea.

Un rafforzamento dovuto al mutamento del quadro della guerra nel Mediterraneo, quando le forze angloamericane, nell’autunno del ’42, aumentarono il peso della loro presenza aeronavale. Il generale Carlo Geloso, erroneamente, interpretò questa presenza come la volontà di interrompere i rifornimenti italiani alla Grecia, quando invece gli Alleati avevano obiettivi e una strategia più vasti.

Carlo Geloso

La sua analisi ratificò quindi lo spostamento del centro di gravità della difesa delle isole Ioniche da Corfù a Cefalonia. Da Corfù arrivarono così il comando di Divisione, una compagnia cannoni, due compagnie del genio,  una sezione sanità e una sussistenza. Da Zacinto e Santa Maura arrivò il 317° reggimento fanteria, costituito a Merano il 1° novembre 1942. ai reparti di nuova assegnazione, arrivarono anche reparti della marina.

Nell’agosto del ’43, inoltre, giunsero alcuni reparti tedeschi: il 966°reggimento granatieri da fortezza con due battaglioni (909° e 910°) e una batteria di semoventi che rispondevano al colonnello Hans Barge, il quale era sottoposto ai comandi del generale Lanz. Tali forze tedesche erano dislocate a Lixuri, nella penisola di Paliki, dove c’era la sede del loro comando. Ad Argostoli, sede del comando italiano, si trovava invece la 2^ batteria di cannoni semoventi comandata dal tenente Jakob Fauth e una compagnia del 909° battaglione.

Hans Barge

Nel complesso, le forze italiane a Cefalonia contavano nel settembre del‘43, 11.500 soldati e 525 ufficiali, mentre quelle tedesche 1.800-2.000 soldati e 25 ufficiali.  L’occupazione del territorio delle isole Ioniche si era svolta senza ostacoli, a differenza dell’Epiro e della Tessaglia dov’era intensa la resistenza dei partigiani greci. Questo discorso vale anche per la divisione Acqui.

Dai Diari storici della Divisione e dei suoi reparti, risulta che le truppe erano impegnate con continuità sia in compiti di presidio, vigilanza, perlustrazione e fortificazione, sia in attività addestrative molteplici (conoscenza delle armi, comportamento in combattimento, marce e ginnastica). Assente invece era il peso delle operazioni antiguerriglia.

Ciò non significa assenza di problemi. Non vanno infatti sottaciuti aspetti problematici quali la stanchezza, comune a tutte le divisioni impegnate in una lunga occupazione ma acuita dal fatto che l’esercito italiano, in tutto il periodo ’40-’43, non riuscì mai a garantire turni di licenza accettabili per gli uomini del fronte africano e balcanico. In più bisogna tener conto dell’inadeguatezza, sia qualitativa sia quantitativa, del vitto, della presenza della malaria, che ad esempio aveva colpito più del 40% dei 700 uomini del III gruppo della 33° artiglieria.

L’occupazione italiana delle isole, poi, non era ben vista dalla popolazione greca. Dalle relazioni dei comandi italiani, infatti, risulta che, pur in assenza di atti di guerriglia, sul piano politico la popolazione era profondamente ostile.

Cefalonia, 8-14 settembre 1943

Si negozia, tra incidenti e turbolenze  interne.  Alle ore 19.00 dell’8 settembre, il Comando Marina di Argostoli captò da Radio Londra la notizia che gli angloamericani avevano accettato la domanda di armistizio avanzata dall’Italia. Contattato il Comando Marina di Patrasso per una conferma della notizia, a Cefalonia ricevettero la seguente  risposta:
Aiuto! Siamo sopraffatti dai tedeschi…

Durante la notte, il Comando della Divisione ricevette da Vecchiarelli indicazioni sul comportamento da tenere. Come già sottolineato, queste erano: non volgere le armi contro i tedeschi, a meno che questi non facciano atti di violenza armata, non fare causa comune con i ribelli né con gli angloamericani eventualmente sbarcati, rimanere ai propri posti con i compiti attuali fino al cambio con i reparti tedeschi, comunicare tali indicazioni ai corrispondenti Comandi tedeschi, dare rassicurazioni. Sull’isola fu stabilito il coprifuoco e il massimo controllo.

Vittorio Ambrosio

Alle 0.20 arrivò il già ricordato ordine del generale Ambrosio e alle 03.00 giunse dal Comando Marina di Patrasso la disposizione di partenza per l’alba di tutte le navi per i porti italiani. Sarebbero dovuti rimanere solo alcuni motopescherecci della flottiglia dragamine per usi locali.

Dall’isola partirono due MAS, due motovelieri, due vedette della Finanza, una nave da carico e due idrovolanti. Considerato che Cefalonia non aveva piste d’atterraggio e che da lì a pochi giorni gli aeroporti greci sarebbero caduti in mani tedesche, la Divisione venne tagliata fuori da qualsiasi apporto esterno e poté contare solo sui collegamenti radio-telegrafici.

Il giorno seguente Gandin, dopo aver disposto alcuni movimenti per rinforzare la difesa di Argostoli, incontrò il tenente colonnello Barge per avvisarlo delle direttive ricevute. Barge disse di non aver ricevuto ordini precisi ma che era intenzionato a collaborare per evitare qualsiasi situazione spiacevole. Gandin, in segno di buona volontà, dette l’ordine di far ripiegare verso Argostoli alcuni reparti posizionati sulle alture di Kardakata.

Sarà un errore strategico perché presidiare quella zona significava controllare le strade rotabili nella parte settentrionale dell’isola e il passaggio nella penisola di Paliki dove erano concentrate le forze germaniche.

In Italia, siamo all’alba del 9 settembre, il re, Badoglio, Ambrosio e l’alto comando dell’esercito avevano abbandonato Roma alla volta di Pescara,  decidendo così di non difendere la capitale e lasciando i comandi periferici  privi di un punto di riferimento e di ordini precisi nella ferma volontà di evitare uno scontro con i tedeschi.

A Cefalonia la linea di Gandin fu da subito quella di negoziare. Prima del suo incarico sull’isola greca, era stato ufficiale di collegamento con il Comando Supremo germanico. Egli dunque conosceva bene i tedeschi, dai quali era stimato, in particolare dal Führer che lo aveva insignito della croce di ferro di prima classe. Presso le truppe andava invece montando un atteggiamento antitedesco alimentato dalla propaganda greca. Un sentimento non maggioritario anche perché per molti il messaggio di Badoglio voleva dire una sola cosa: la guerra è finita, tutti a casa.

Alle 20.00 arrivò il secondo ordine di Vecchiarelli che, come già ricordato, era ben diverso dal primo, il quale seguiva la linea indicata dal Promemoria n. 2 del Comando Supremo. Che fare quindi? Come procedere? A chi obbedire, al Comando Supremo o a Vecchiarelli? Gandin ne discusse con i propri collaboratori, chiese all’VIII Corpo d’armata la ripetizione del messaggio partito dal Comando dell’XI armata e tentò di collegarsi direttamente con il Comando Supremo in Italia.

La tensione nei vari reparti della Acqui cominciò ad affiorare. Da radio Londra arrivavano notizie su cosa stava succedendo sul continente greco; alcuni abitanti di Cefalonia si presentarono al capitano d’artiglieria Amos Pampaloni dicendo di essere rappresentanti della ELAS, organizzazione della resistenza greca legata al partito comunista, e di offrire alla divisione la loro collaborazione.

Il 10 settembre Barge, nominato nel frattempo comandante delle ruppe tedesche sull’isola, si presentò a Gandin con le loro richieste: cessione di tutte le armi, comprese quelle individuali, entro le ore 10 del giorno seguente nella piazza principale di Argostoli.

Le richieste di Barge erano in linea con quanto disposto dal suo superiore Löhr lo stesso giorno sul continente, mentre per Gandin esse non concordavano con le istruzioni di Vecchiarelli, che aveva disposto la consegna delle sole armi di reparto.

Il comandante italiano avanzò questa obiezione al suo interlocutore, il quale promise che avrebbe riferito ai suoi superiori. I due si congedarono. Nella stessa mattinata, Gandin ricevette la visita di Andrea Galiatsatos, un ufficiale greco che, a nome del Comando alleato in Medio Oriente, assicurò l’appoggio aereo inglese e il rimpatrio di tutta la divisione Acqui qualora essa avesse opposto resistenza ai tedeschi.

Probabilmente, l’ufficiale greco comunicò a Gandin il contenuto di un ordine rivolto il giorno prima da sir Henry Maitland Wilson, comandante in capo del Medio Oriente, ai reparti italiani nei Balcani. Tale messaggio invitava le Forze Armate Italiane, che desideravano combattere i tedeschi, a mettersi agli ordini del Comando Interalleato. Se le forze italiane avessero rifiutato di battersi contro gli ex alleati e non avessero consegnato le armi, sarebbero stati trattati come nemici degli Alleati e come tali attaccati.

Gandin ritenne tali promesse troppo generiche e preferì proseguire con  le trattative, sulla base degli ordini superiori di non fraternizzare con i greci in armi. Gandin chiamò poi a rapporto i comandanti di corpo. Edoardo Gherzi (comandante fanteria divisionale), Giovan Battista Fioretti (Capo di stato maggiore della Divisione), i comandanti di fanteria Ernesto Cessari e EzioRicci, il maggiore Federico Filippini (comandante del Genio) si dichiarano disposti alla cessione delle armi e a seguire le istruzioni di Vecchiarelli.

Federico Filippini

Il capitano della Marina di Argostoli, capitano Mario Mastrangelo e il colonnello Mario Romagnoli, comandante del 33° reggimento artiglieria, si proclamarono contrari. Gandin, prima di congedare i propri uomini, dette l’ordine di diffondere il contenuto dell’ordine n. 02/25026 di Vecchiarelli.

Durante la notte Gandin ricevette da Barge un’altra proposta: cessione delle postazioni fisse solo al momento dell’imbarco, consegna delle armi pesanti solo al momento del rientro in Italia. Il generale italiano prese ancora tempo per decidere; Barge sembrava tranquillo, tanto che in giornata aveva comunicato al comando del XXII corpo d’armata che le trattative procedevano bene.

I suoi superiori, pur comprendendo la particolarità della situazione dell’isola, premevano per la cessione delle armi, già ordinata dall’XI Armata italiana alla divisione Acqui. L’11 settembre iniziò con il verificarsi di incidenti tra italiani e tedeschi. In tarda mattinata Barge ricomparve al comando con una proposta che irrigidiva i termini dei precedenti accordi, in ottemperanza alla linea impostagli
dai suoi superiori:

Il comando supremo delle forze armate tedesche ha ordinato il disarmo  delle truppe italiane;  sono esclusi dal disarmo i reparti che daranno garanzie di continuare a  combattere agli ordini e al anco delle truppe tedesche; le armi e tutto il materiale bellico devono essere raccolti dalla divisione e consegnati entro le ore 18 del 12 settembre presso la Piazza Italiana di  Argostoli; le truppe italiane dopo il disarmo devono abbandonare le posizioni e acquartierarsi nei tratti di territorio precedentemente occupati, rimanendo organizzati in battaglioni al comando dei loro ufficiali;  per quanto riguarda la permanenza e il trasferimento delle truppe italiane dopo il disarmo si attendono ordini ulteriori.

A Gandin venne chiesto di dare risposta ai primi due punti entro le 19.00 dello stesso giorno. Da notare che nelle richieste tedesche si parla di“trasferimento” e non di “rimpatrio”.  Gandin obiettò subito che per la sua divisione, la consegna delle armi nella piazza principale di Argostoli avrebbe offerto uno spettacolo indecoroso degli italiani nei confronti della popolazione locale. Inoltre non era chiaro cosa si intendesse per “armi pesanti”, per “trattamento cavalleresco” promesso nel documento presentatogli da Barge. Che cosa si doveva fare con le armi personali?

Il comandante italiano ribadì che non era materialmente possibile concludere la consegna delle armi entro i termini previsti, inoltre disse che non avrebbe dato la risposta sui primi due punti senza aver prima sentito i suoi comandanti di corpo, e comunque non entro le 19.00. Al di là di questi dettagli, nelle richieste tedesche si potevano intravedere i contorni di un ultimatum e Gandin, nel pomeriggio, al Comando Supremo stanziato ormai a Brindisi, comunicò:

Comando tedesco chiede che divisione qui decida subito aut combattere unitamente tedeschi aut cedere at esse. Mancando ogni… et ignorando situazio-ne generale prego dare urgentemente orientamento…

Gandin chiese quindi al Comando Supremo come comportarsi davanti a quello che in realtà era un trilemma: o cedere le armi ai tedeschi, o schierarsi con i tedeschi, o combattere contro di loro. Sappiamo che l’11 settembre stesso il Comando Supremo rispose a Gandin che le truppe tedesche dovevano essere considerate nemiche, ma non sappiamo l’ora d’arrivo alla Marina di Cefalonia.

Gandin, alle ore 17.00, chiamò a raccolta i cappellani militari poiché essi conoscevano, per contatto diretto e quotidiano, quale fosse lo stato d’animo  della truppa. A loro indicò i tre punti sui quali egli era chiamato a decidere;tutti i cappellani, eccetto uno, consigliarono la cessione delle armi per evitare un inutile spargimento di sangue.

Alla riunione dei comandanti di reparto, ore 18.00, pur permanendo pareri divergenti, vennero respinte le tre soluzioni proposte dai tedeschi. Nel frattempo stava montando il malcontento fra i reparti, soprattutto fra gli ufficiali d’artiglieria che erano decisi a combattere contro i tedeschi. Il tenente colonnello Barge si presentò alle 19.00 per avere una risposta da Gandin, il quale si dichiarò orientato alla cessione della armi con precise garanzie ma, per decidere, chiese ed ottenne una dilazione sino all’alba per  prendere contatti con i sottordini.

Inoltre chiese che i tedeschi ponessero fine all’afflusso di nuove forze sull’isola e, in compenso, offrì il ritiro del terzo battaglione della 317° fanteria da Kardakata.
Dopo l’incontro, Barge comunicò ai propri superiori che la maggior  parte della divisione Acqui sarebbe stata disarmata il 12 settembre e che la situazione era tranquilla.

Cosa stava accadendo invece nelle altre isole ioniche l’11 di settembre? A Corfù, il colonnello Luigi Lusignani aveva ripetuto per la seconda volta nel giro di un giorno ai suoi interlocutori tedeschi che non avrebbe ceduto né le armi né il possesso dell’Isola, presidiata da 4.500 uomini. Due giorni dopo, i tedeschi subirono un insuccesso nel corso di un’operazione da sbarco condotta in maniera dilettantesca.

A Santa Maura, invece, le unità che avevano ceduto ai tedeschi artiglierie e armi pesanti con la promessa del rimpatrio, erano state completamente disarmate, catturate e inviate nei campi. Tale notizia arrivò a Cefalonia nella notte dell’11 settembre stesso.

Il generale Gandin

Da Brindisi, invece, partì un altro ordine inequivocabile (n. 29/CS):

Comunicate at generale Gandin che deve resistere con le armi at  intimidazione tedesca di disarmo at Cefalonia e Corfù et altre isole.

Ma quando partì questo esattamente ordine? Esso risulta essere consegnato alla cifra alla Marina di Brindisi alle ore 9.45 dell’11 settembre, anche se Paoletti, sulla base di un’ulteriore copia dell’ordine sopraccitato conservata  presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito (USSME), è propenso a ritenere che quell’ordine venne consegnato invece alle 9.45 del 12 settembre.

L’interrogativo più importante, però, è quello che riguarda la data di arrivo ad Argostoli e qui la letteratura è divisa. Rusconi, rifacendosi a studi che tengono conto delle testimonianze di alcuni sopravvissuti, ipotizza che sia arrivato nella notte sul 14 settembre. Una data confermata anche da Lombardi.

Paoletti, sulla base invece della documentazione dell’USSME, ci informa che l’ordine deve essere arrivato il 12 settembre poiché, alle 14.05 dello stesso giorno, Gandin, con un telecifrato alla Marina di Brindisi, chiese:

Prego dire  massima urgenza ente mittente et firma telegramma n. 1029 odierno.

Gandin, quindi, nonostante avesse ricevuto nel giro di un giorno, o di pochi giorni a seconda delle interpretazioni, per due volte l’ordine di resistere, proseguì con il negoziare. Perché? Questo è un altro punto controverso ma possiamo provare a spiegare tale comportamento sulla scorta dei diversi contributi consultati.

Egli sapeva, prima di tutto, che in caso di resistenza armata, il contesto geografico, favorevole in quel momento ai tedeschi, non avrebbe concesso un esito positivo per la sua divisione. In più, a proposito degli aiuti angloamericani, era convinto che se per questi non era ancora giunta l’ora di occuparsi dei problemi balcanici, non sarebbe stata certo la sorte della sua divisione ad accelerare le lancette e a farli accorrere a Cefalonia in loro soccorso.

Infine conosceva bene i tedeschi e sapeva che, in caso di resa dopo il combattimento, questi avrebbero reagito in maniera violenta. Alle 4.00 del 12 settembre il capitano Gennaro Tomasi, interprete della divisione, consegnò al posto di comando tedesco la comunicazione che la divisione Acqui era disposta a cedere le armi. Tra i reparti si diffuse la voce che Gandin voleva arrendersi. Il generale venne così tacciato di essere un tedescofilo, un traditore, un vigliacco.

Circolavano inoltre informazioni incontrollate e false che aumentavano l’inquietudine: i tedeschi erano stati cacciati dall’Italia, gli Alleati erano sbarcati a Corfù e si dirigevano verso le isole Ioniche.  I tedeschi si fecero più pressanti. Fauth minacciò di far partire i bombardamenti degli Stukas visto che gli italiani non avevano ancora consegnato le armi ma Gandin non si lasciò impressionare e ribatté che la cessione delle armi era già stata accettata, per cui non c’era motivo di arrivare a tali intimidazioni.

Renzo Apollonio

Nel pomeriggio si verificarono diversi episodi ostili, tra cui il disarmo di reparti italiani sulla Penisola di Paliki e un semovente tedesco che puntò sulla 3^ batteria del 33° reggimento artiglieria. Al comando della batteria vi  era il capitano Renzo Apollonio il quale, davanti a questa provocazione, dette l’ordine di puntare le armi sul semovente, che a quel punto tornò indietro.

Apollonio costituiva, assieme agli ufficiali del 33° reggimento di artiglieria Amos Pampaloni e Abele Ambrosini, al colonnello Romagnoli e il capitano Guglielmo Antano del 317° Reggimento fanteria, un nucleo di uomini che si opponeva al disarmo. Questi uomini si recarono da Gandin; fu un incontro dai toni accesi. Apollonio e Pampaloni , minacciando addirittura l’insubordinazione della truppa, sostennero che i loro uomini non erano disposti a cedere le armi e che erano pronti a combattere.

Se la stessa cosa non si poteva dire dei fanti era perché, secondo Apollonio, i loro comandanti, e qui probabilmente si riferì a Gherzi che era presente all’incontro, si erano espressi a favore della resa. Un sentimento che secondo Apollonio non rispecchiava la reale volontà dei soldati.

Gandin, da parte sua, cercò di convincere i presenti che ogni atto di guerra non avrebbe avuto per gli italiani un risultato positivo perché i tedeschi avrebbero ricevuto rinforzi dalla terraferma e supporto dell’aviazione. Disse poi che nessun aiuto sarebbe arrivato dall’Italia o dagli Alleati.

La riunione evidenziò una profonda differenza di prospettiva tra il generale e gli ufficiali che volevano combattere. Se per questi, infatti, l’onore militare coincideva con la non cessione delle armi, per Gandin lo stesso concetto voleva dire responsabilità verso la vita dei propri uomini.

Il suo volto bianco e imperlato di freddo sudore  – dichiarò successivamente Apollonio riferendosi a Gandin –  rivelava una indicibile sofferenza. L’atteggiamento e le parole del generale destarono in tutti i presenti l’impressione di avere a che fare con un uomo indeciso e sovraccarico dal peso della sua responsabilità.

Il generale chiuse la riunione e si riservò la decisione, dando appuntamento alle ore 20.00 per un nuovo incontro. Chiese ai comandanti d’artiglieria di evitare qualsiasi iniziativa che avrebbe potuto far precipitare la situazione, mentre quest’ultimi rimasero convinti di poter aprire il fuoco qualora i tedeschi avessero minacciato di modificare lo status quo.

Furono ore cariche di nervosismo; la macchina di Gandin, che si recava al nuovo incontro, venne colpita da una bomba a mano che non esplose e, successivamente, venne bloccata da un gruppo di soldati che strapparono dalla vettura la bandiera italiana insultando il generale.

Durante la notte si presentò Barge per comunicare che il Comando del Gruppo di Armata pretendeva dalla Divisione una decisione definitiva: consegnare le armi o dichiararsi apertamente nemica della Germania. Gandin, ancora una volta, riuscì a evitare una risposta risolutiva sostenendo il diritto alla non belligeranza della sua divisione e a rimanere sull’isola in attesa di istruzioni da parte del suo governo.

Tutto era di nuovo rinviato. Alle ore 06.00 del 13 settembre ci fu un altro evento importante ma non determinante. Due grosse motozattere tedesche provenienti da Zacinto doppiarono la punta di S. Teodoro in direzione di Argostoli. Molto probabilmente trasportavano viveri e materiale vario per la difesa contraerea ma, nel clima diventato ormai tesissimo, tale avvicinamento venne interpretato dagli italiani come un atto ostile.

Il tenente Apollonio dette quindi l’ordine di aprire il fuoco. Il conflitto durò venti minuti, provocando l’affondamento di una motozattera, cinque vittime e otto feriti tra i tedeschi. L’attacco venne giudicato da questi come un’iniziativa personale di alcuni ufficiali italiani che volevano forzare la mano al comando.

Pertanto, i negoziati con Gandin non subirono interruzioni e, alle 12.45, Barge comunicò al XXII corpo d’armata da montagna di aver raggiunto con il generale italiano un nuovo accordo, in base al quale la divisione Acqui si sarebbe raccolta, con le proprie armi, ad ovest e a sud di Sami, situata sulla costa orientale dell’isola.

Nel primo pomeriggio il generale Lanz si recò con un idrovolante a Cefalonia. I tedeschi volevano chiudere la partita viste le difficoltà incontrate a Corfù e l’occupazione di Brindisi da parte degli Alleati. L’idrovolante venne però accolto a cannonate e Lanz dovette tornare indietro ammarando a Lixuri. Da lì telefonò a Gandin ingiungendogli di adeguarsi agli ordini di Vecchiarelli e scrisse il testo dell’ultimatum che più tardi il tenente colonnello Barge consegnò a Gandin.

Alla divisione Acqui venne ordinato di cedere immediatamente tutte le armi, ad eccezione di quelle individuali degli ufficiali, al comandante Barge. Se questo non fosse avvenuto, le forze armate tedesche avrebbero proceduto con il disarmo forzato.

Nella tarda serata, Barge comunicò al proprio corpo d’armata gli ultimi accordi presi con il generale italiano. La consegna delle armi sarebbe avvenuta in tre fasi tra il 14 e il 16 settembre, data nella quale i militari italiani si sarebbero raccolti, con le proprie armi, nella zona di Sami. Gandin aveva disposto nel pomeriggio la concentrazione dell’intera divisione nella zona compresa fra Phrankata-Sami-Poros.

Sembrava tutto risolto, ma non fu così. Gandin era convinto di aver raggiunto un accordo che avrebbe rispettato l’onore militare, visto che ai suoi uomini sarebbero state lasciate le armi pesanti e l’artiglieria sino al momento dell’imbarco o addirittura sino all’Italia, come riporta padre Formato.

Non è quest’ultima una questione di lana caprina. Forse, tra Lanz e Gandin, c’è stato un fraintendimento sui termini della consegna o meno di tutte le armi. Con il passare delle ore gli eventi presero una piega negativa per gli uomini della Acqui. Giungeva infatti notizia che i tedeschi si rifiutavano di caricare anche le armi pesanti. Siamo nella notte tra il 13 e il 14 settembre, ore in cui, per alcuni autori, sarebbe arrivato da Brindisi l’ordine di resistere ai  tedeschi, quello che avrebbe convinto definitivamente Gandin a combattere contro i tedeschi.

Stando alla testimonianza di Tomasi, sin dal 12 settembre Gandin non era disposto a cedere le armi a qualunque costo, bensì era orientato a combattere in seguito alle provocazioni tedesche (minacciato bombardamento dell’isola, disarmo di alcuni reparti nella penisola di Paliki).

Sempre  il 12 settembre, ricordiamo, secondo Paoletti sarebbe arrivato dall’Italia l’ordine n. 1029 di resistere alle intimazioni tedesche. Ciò, però, non ci consente di fare un collegamento diretto tra quanto testimoniato dall’interprete della divisione e quanto scritto dallo studioso.

Gandin, comunque, in queste ore revocò l’ordine di trasferimento delle truppe nella zona di Sami e impartì i primi ordini per sbarrare le provenienze da nord. Durante questi movimenti, Gandin dispose di interpellare gli uomini della Acqui su un quesito che ormai non ammetteva più rinvii: o contro i tedeschi, o a fianco dei tedeschi o cessione delle armi. A proposito di questa consultazione, si è molto discusso e si è spesso parlato di “referendum”, come se la decisione fosse spettata in ultima istanza alla volontà della maggioranza. Leggendo e confrontando le memorie postume, esce una diversa percezione di questa operazione che non fu possibile condurre per tutti i reparti.

Come  scrive Rochat:
Non fu certo un referendum democratico, piuttosto, una forma di mobilitazione degli animi adeguata al momento drammatico. La maggioranza, non l’unanimità come è stato spesso scritto, della divisione si espresse per l’azione contro i tedeschi.

Alle ore 11.00 del 14 settembre si presentarono al Comando di Divisione alcuni ufficiali tedeschi con alla testa il tenente Fauth. Il capitano Tomasi, interprete, consegnò loro una lettera chiusa affinché ne comunicassero subito il contenuto al tenente Barge. Secondo la relazione di Tomasi, i tedeschi vollero conoscere subito il testo del messaggio e l’interprete li accontentò:

Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione Acqui non cede le armi. Il comando superiore tedesco, sulla base di questa decisione, è pregato di presentare una risposta definitiva  entro le ore 9 di domani 15 settembre.

Sono parole che ritornano in molti testi ma, ci dice Rochat, non risultano dalla documentazione scritta bensì dalle testimonianze dei sopravvissuti.

La documentazione tedesca riporta invece una versione diversa. Il diario di guerra del XXII Corpo d’armata da montagna tedesco contiene infatti un allegato riportante una comunicazione di Gandin fatta pervenire a Barge nella notte sul 15. Il testo è il seguente:

La Divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di concentrarsi nella zona di Sam, perché teme di essere disarmata… Di conseguenza le intese con Lei non sono state accettate dalla Divisione. La Divisione vuole rimanere nelle sue posizioni fino a quando non riceve assicurazione… che può conservare le sue armi e munizioni e che consegnerà l’artiglieria ai tedeschi solo al momento dell’imbarco…

Se ciò non  accade, la Divisione preferirà combattere piuttosto che subire l’onta della  cessione delle armi ed io, sia pure con rincrescimento, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca sinché rimango al vertice della mia  Divisione. Prego darmi risposta entro le ore 16.00.

Questo è un altro punto controverso, poiché da questo documento tedesco emerge un Gandin al vertice di una divisione che si rifiuta di obbedire ai suoi ordini, mentre nella documentazione italiana abbiamo un generale che si fa concorde portavoce della volontà generale della sua divisione.

La storiografia accademica tende però a non considerare rilevante tale contraddizione. In entrambi i documenti veniva comunque tenuta aperta un’ulteriore possibilità per le trattative. Negoziazioni che continuarono anche il 14 settembre. In quell’occasione, le due parti si lasciarono con la rassicurazione di Barge che gli italiani  avrebbero ricevuto una risposta, in merito alla loro richiesta di essere rimpatriati, alle 14.00 del giorno dopo.

Furono ancora una volta ore intense e difficili. Nei comandi tedeschi saltarono alcuni anelli della catena informativa e Lanz minacciò Barge di sostituirlo perché la situazione venutasi a creare, l’irrigidimento di Gandin e della sua Divisione, il fallito sbarco a Corfù, la presenza angloamericana a Brindisi, richiedeva una soluzione in tempi brevi.

Barge nella notte sul 15 ricevette la comunicazione sopraccitata di Gandin e alla fine, decisosi per l’intervento armato, comunicò a Lanz che alle 14.00 del giorno 15 avrebbe attaccato la divisione italiana. La decisione venne accettata.

I combattimenti, la resa, la vendetta

Il mattino del 15 settembre il generale Gandin si tolse dalla giubba la  croce di ferro di prima classe ricevuta da Hitler e diramò un messaggio ai reparti nel quale esortava tutti a prepararsi ad una dura lotta, rendendo anche noto l’atteggiamento tenuto dalle altre forze della Divisione a Corfù. Poco dopo le ore 13, gli Stukas effettuarono il primo bombardamento su Argostoli e dintorni. Il comando di divisione italiano aveva stimato che la presenza tedesca era salita a 3.000 uomini.

La battaglia, di cui daremo solo qualche accenno, si svolse in tre fasi. In una prima fase, tra il 15 e il 17 di settembre, gli italiani respinsero l’attacco tedesco, provocando l’affondamento di un natante tedesco e causando così centoquaranta vittime.

Gandin comunicò al Comando Supremo che  aveva dovuto aprire le ostilità contro i tedeschi, i quali sospesero l’attacco a Corfù per concentrare tutte le forze disponibili su Cefalonia. Sul continente si radunò un consistente contingente di truppe germaniche che sbarcarono  nella penisola di Paliki tra il 16 e il 20 settembre comandate dal maggiore Harold von Hirschfeld.

Harold von Hirschfeld

Il 16 i tedeschi impiegarono su Cefalonia 127 aerei, partiti dagli aeroporti greci caduti in mano loro dopo l’8 settembre. Ciononostante, un reparto tedesco dislocato presso Argostoli fu sopraffatto con la cattura di circa 450 prigionieri i quali, va sottolineato, furono trattati con dignità e rispetto militare.

Nella seconda fase, 17-19 settembre, l’iniziativa partì dagli italiani mail successo fu tedesco.  Gandin, infatti, volle riconquistare da sud le posizioni di Kardakata e da est quelle di Ankona ma pesò molto l’assenza dell’apporto dell’aviazione, decisiva per le sorti dello scontro. Gandin chiese a Brindisi aiuti militari ma dal Comando Supremo ricevette solo incoraggiamento a resistere:

Da Comando Supremo a Cefalonia: impossibilità invio aiuti richiesti alt infliggete nemico più gravi perdite possibili alt ogni vostro sacrificio sarà ricompensato alt Ambrosio.

All’alba del 18 i tedeschi passarono all’offensiva e il primo battaglione del 317° Reggimento venne annientato. In quello stesso giorno, il Comando Supremo delle forze armate tedesche emanò, in nome di Hitler, la disposizione di non fare prigionieri italiani a Cefalonia a causa del loro comportamento malvagio e proditorio.

Un ordine che inaspriva quanto già disposto solo pochi giorni prima  quando era stato stabilito che dovevano essere fucilati, secondo la legge marziale, gli ufficiali rei di aver fatto causa comune con i ribelli, mentre sottufficiali e truppa dovevano essere trattati come prigionieri di guerra e utilizzati come manodopera.

Il capitano Mastrangelo

Nella stessa giornata del 18 si verificò quanto disposto da Hitler: militari italiani sconfitti in combattimento vennero subito uccisi.  Il 18 e il 19 vennero lanciati migliaia di volantini su Argostoli e sulle difese italiane per invitare i soldati alla resa in cambio del rimpatrio. La terza fase, tra il 21 e il 22 settembre, segnò la sconfitta e il massacro della divisione Acqui. I tedeschi riuscirono nella loro manovra di accerchiamento di Argostoli. Gandin, ancora il 21, provò a chiedere rinforzi dall’Italia e mandò persino l’ultimo motoscafo di cui disponeva a Brindisi per convincere il Comando Supremo ad intervenire.

Ormai era troppo tardi. Alle 11.00 del 22 settembre il III battaglione del 98° Gebirgsjäger entrò ad Argostoli. Gandin, dalla sede di comando che in quelle ore era stata trasferita a Keramies, consegnò la dichiarazione di resa da portare ad Argostoli al maggiore von Hirschfeld, e fece issare bandiera bianca:

La divisione Acqui è stata dispersa dall’azione degli Stukas. La resistenza è divenuta impossibile. Di conseguenza, al fine di evitare un ulteriore inutile spargimento di sangue, offre la resa.

La sera del 22 settembre, Lanz comunicò al Comando del gruppo di Armate E che la massa della Divisione Acqui era stata annientata e chiese il comportamento da tenere con Gandin, che da Keramies era stato trasportato ad Argostoli, e gli altri ufficiali.

A proposito di questa comunicazione, bisogna rendere palese ciò che si nasconde dietro l’espressione “annientata”. In seguito agli scontri, infatti, trovarono la morte tra le fila italiane 65 ufficiali e 1.250 uomini ma, quello che i documenti tedeschi non dicono chiaramente ma fanno intendere, anche involontariamente, è che in ottemperanza all’ordine di Hitler del 18 settembre, in quei giorni vennero massacrati altri 155 ufficiali e tra i 4.000 e i 5.000 soldati.

Non è vero quindi che la Divisione Acqui fu annientata in combattimento. A proposito del conteggio delle vittime, va detto che le cifre divergono nei vari studi e sono spesso oggetto di contesa. Come per altri crimini contro l’umanità, il punto centrale non è tanto il computo esatto quanto l’analisi del principio criminale in base al quale è stato commesso un eccidio.

Quello su cui è importante soffermarsi è il modo in cui vennero trattati i militari italiani a Cefalonia. In totale spregio delle convenzioni internazionali, molte unità furono uccise sommariamente, dopo la resa, a colpi di mitragliatrice.

Hellmuth Felmy

Vennero ammazzati addirittura soldati con la fascia della Croce Rossa, militari feriti e personale sanitario prelevati negli ospedali. Agli italiani uccisi non venne nemmeno concessa una sepoltura decorosa: i corpi furono ammassati e bruciati, gettati in pozzi o cisterne, portati al largo e gettati in mare con delle pietre legate alle caviglie.

Diciassette marinai furono prima costretti a caricare su zatteroni le salme dei loro compagni e, successivamente, furono uccisi e sepolti nella fossa che aveva ospitato i cadaveri da loro stessi caricati.

Fino al settembre del 1944 fu impedito di recuperare le ossa dei martiri che affioravano addirittura ai margini delle strade di campagna. Successivamente, furono i cappellani militari Don Ghilardini e Don Formato i primi ad occuparsi di recuperare i resti dei caduti.

Il 23 settembre, Lanz ricevette la risposta al suo quesito del giorno precedente. Hitler, forse soddisfatto della punizione esemplare da lui stesso richiesta, ordinò di considerare i sottufficiali e i restanti 5.000 soldati come prigionieri di guerra.

Nessuna indulgenza per gli ufficiali. Tra il 23 e il 28 settembre, pertanto, furono uccisi altri 265 ufficiali, di cui 137 in un sola giornata a capo S. Teodoro, presso la tristemente nota “Casetta Rossa”. Alla fine vennero risparmiati tra i 37  e i 40
ufficiali, una ventina perché nativi del Trentino Alto Adige o perché vennero riconosciute le loro benemerenze fasciste, gli altri perché furono accolte le insistenti richieste del cappellano  militare che si trovava con loro, perché si ponesse fine alla strage.

Gandin venne fucilato separatamente, lontano da occhi italiani o greci, il 24 settembre. A leggere la condanna a morte fu il maggiore Klebe, mentre a comandare il plotone d’esecuzione fu posto il sottotenente Otmar Mühlhauser.

Venendo così ad un bilancio finale, si può approssimativamente parlare di 3.800-4.000 o 5.000  militari caduti in settembre (uccisi in battaglia o fucilati), e di circa 6.000 superstiti sgomberati via mare, di cui 1.300 morirono in seguito all’affondamento delle navi che li trasportavano. Nei trasporti marittimi, infatti, a causa dell’affondamento delle navi causato da mine, attacchi di sommergibili e aerei delle forze Alleate, tra il settembre del ’43 e il marzo del ’44 morirono tra i 13.000 e i 20.000 internati italiani (a seconda delle fonti). Solo in mare persero dunque la vita il 17%  dei prigionieri italiani, contro l’1% dei militari tedeschi.

Uno squilibrio che si spiega con il fatto che le navi venivano sovraccaricate e le scialuppe di salvataggio erano poche e venivano utilizzate dal personale tedesco a bordo.  La maggior parte dei superstiti di Cefalonia raggiunse sul continente  gli altri italiani raccolti in campi di prigionia, dai quali successivamente rag-giunse i campi d’internamento del Reich o le zone di operazioni dell’esercito germanico sul fronte orientale. I tedeschi sgomberarono l’isola entro il 13 settembre 1944.

I prigionieri rimasti sull’isola, 1.300-1.400 uomini ne l1944, vennero rimpatriati nel novembre dello stesso anno da navi italiane e inglesi.

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