CEFALONIA 1943, TANTE “VERITÀ” – 13

a cura di Cornelio Galas

Concentriamoci ancora sui prodromi della tragedia di Cefalonia nel 1943. Sempre tenendo come riferimento il libro (primo volume) di Carlo Palumbo più volte citato.

di Carlo Palumbo

Dopo Stalingrado

Nel corso del 1943 continua a crescere l’attenzione della Germania per il settore balcanico, sia come conseguenza dell’arretramento del fronte nella Russia meridionale dopo la sconfitta di Stalingrado, per cui il settore sud-orientale diventa di fatto una retrovia del Reich, sia per la minaccia dell’apertura di un secondo fronte da parte anglo-americana proprio nei Balcani.

Il nuovo quadro strategico imporrebbe di eliminare drasticamente le minacce costituite dai gruppi di resistenza nazionalisti o comunisti presenti nell’area. Anche in Albania, che appare l’ultimo territorio effettivamente sotto il controllo italiano, lo sviluppo di azioni di guerriglia anti-italiana costringe il nuovo Luogotenente in Albania, il generale Pariani, a trasformare la presenza italiana in una vera e propria forza di occupazione attiva soprattutto nell’azione di repressione.

Il generale Alberto Pariani

Il fallimento delle offensive antipartigiane, nei primi mesi del 1943, impone alle truppe italo-tedesche presenti in Iugoslavia, in Albania e in Grecia una lunga fase di guerra di logoramento, con l’abbandono di porzioni crescenti di territorio alle formazioni partigiane, per mantenere solo alcuni capisaldi nelle proprie mani, prevalentemente in aree urbane.

Nell’aprile 1943, al vertice dell’Asse tenutosi a Klessheim, Mussolini propone di dare maggior peso ai governi dei paesi occupati o alleati, in particolare nell’area balcanica, corresponsabilizzandoli nella gestione della guerra antipartigiana, ma la risposta tedesca è assai netta, in particolare sul caso greco, dove la responsabilità delle truppe italiane è più evidente.

Visita ufficiale di Hitler a Roma nel 1938; sul palco in prima fila da sinistra: Benito Mussolini, Adolf Hitler, Vittorio Emanuele III, Elena del Montenegro; in seconda fila, da sinistra: Joachim von Ribbentrop, Joseph Goebbels, Rudolf Hess, Heinrich Himmler

Ad avviso di Ribbentrop «bisognava intervenire brutalmente, se per caso i greci dessero segno di respirare; bisognava deportare fulmineamente dalla Grecia l’esercito greco smobilitato e dimostrare con mano ferrea ai greci chi comandava nel paese».

Hitler incontrerà nelle settimane successive i governanti collaborazionisti di Ungheria, Slovacchia, Croazia, Romania, con l’intento di rafforzare i rapporti diretti con la Germania e di impedire qualsiasi ipotesi di pace separata, affermando così l’egemonia tedesca anche con paesi come la Croazia che, almeno formalmente, rientravano, fino ad allora, nell’area di influenza italiana. Ancora qualche mese e la crisi sarebbe stata aperta proprio dall’alleato italiano.

Il cedimento italiano

In maggio Hitler si rende conto che è possibile un cedimento italiano e fa mettere a punto due piani di occupazione da attivare in caso di uscita dell’Italia dall’alleanza: il piano Alarich per la penisola italiana e il territorio francese occupato dagli italiani, il piano Konstantin per la zona di occupazione dei Balcani.

Dopo l’incontro del 19 luglio a Feltre tra i due dittatori, Mussolini, il 25 dello stesso mese, viene messo in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo, in seguito all’approvazione di un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che criticava la conduzione della guerra e chiedeva che il Comando Supremo tornasse al Re, come prevedeva lo Statuto Albertino.

Viene quindi destituito da capo del Governo da Vittorio Emanuele III, che nomina in sua vece il maresciallo Pietro Badoglio, vicino alla Corona e alle Forze Armate, già caduto in disgrazia dopo l’avventura in Grecia del 1940.

La destituzione di Mussolini mette in allarme le forze tedesche, soprattutto in Croazia e in Grecia, che si preparano alla defezione dell’alleato predisponendo, su ordine di Hitler, già il 26 luglio, il piano per l’assunzione diretta da parte della Wehrmacht del comando dei territori del settore balcanico sotto occupazione italiana; in particolare, al plenipotenziario tedesco in Croazia sarebbe passata la responsabilità della costa dalmata, il Montenegro e l’Albania sarebbero passati sotto il  diretto Comando tedesco sud-est, mentre il Comando tedesco in Grecia avrebbe esteso la sua responsabilità anche ai territori sotto controllo italiano.

Appare evidente che la Germania non è presa di sorpresa dagli avvenimenti che stanno per realizzarsi. Ciò non attenua tuttavia la difficoltà obiettiva in cui viene a trovarsi l’esercito tedesco. Se da una parte i comandi nazisti sembrano accogliere l’uscita dell’Italia dalla guerra come una liberazione da vincoli e limiti a cui l’alleanza obbligava, addossando sugli italiani tutte le debolezze e le colpe dell’occupazione nei Balcani, dall’altra lo Stato maggiore tedesco deve utilizzare le proprie riserve per sostituire nell’occupazione i circa 600.000 soldati italiani, che benché poco motivati e spesso male organizzati, sopperivano comunque a compiti che ora devono essere ottemperati direttamente.

Inoltre il cedimento italiano, con la dissoluzione delle grandi unità, lascia libere porzioni significative del territorio, provoca l’abbandono di ingenti quantitativi di armi, spesso recuperate dalla resistenza organizzata, mentre l’ingresso diretto tra le forze partigiane di soldati italiani in Iugoslavia e in Grecia permetterà un improvviso aumento di efficienza e di pericolosità delle forze di opposizione agli occupanti tedeschi.

Tutto ciò mentre si sviluppa l’offensiva alleata nella Penisola italiana, dopo lo sbarco di Salerno dell’8 settembre. La tenuta tedesca nei Balcani va assicurata con la massima decisione, col rischio, in caso diverso, di lasciare sguarnito il fianco sud-orientale del Reich. Si tratta inoltre di ottenere un risultato politico fondamentale, riconfermare attorno alla Germania l’unità dell’Europa continentale, sia delle zone annesse al Reich, sia di quelle sottoposte ai governi collaborazionisti o alleati della Germania.

Il cedimento dell’Italia costituisce, nella propaganda tedesca, l’occasione per mettere fine all’opera vera o presunta di divisione e sfiducia provocata dall’ex alleato. La violenta reazione tedesca nei Balcani si spiega soprattutto per questa duplice esigenza, militare, innanzitutto, ma anche politica.

La Grecia occupata, in particolare, avrebbe costituito per la Germania l’avamposto marittimo della penisola balcanica; per questo le truppe tedesche ricorrono a feroci rappresaglie e alla collaborazione in funzione antipartigiana dei battaglioni di sicurezza, costituiti da greci fedeli al nazismo. L’occupazione tedesca della Grecia durerà fino al periodo ottobre-dicembre 1944, quando anche nei Balcani inizierà la ritirata.

LA DIVISIONE ACQUI A CEFALONIA E CORFÙ

Dall’attacco alla Francia allo sbarco nelle Isole Ionie

La divisione Acqui era giunta nelle Isole Ionie di Corfù, Paxos, Santa Maura (il nome italiano di Léfkadi), Cefalonia e Zacinto o Zante a partire dal 29 aprile 1941; dopo la resa dell’esercito greco era avanzata, entrando dall’Albania, lungo la costa in direzione sud, quindi aveva avuto l’ordine dal Comando del generale Messe di occupare le isole, precedendo le truppe tedesche che si riteneva avessero lo stesso obiettivo.

In precedenza la divisione di fanteria da montagna Acqui – costituita il 15 dicembre del 1938 a Merano col nome dell’omonima brigata di fanteria nata nel 1821 nell’Esercito piemontese e rimasta nell’Esercito italiano fino al 1926 – era stata impiegata fin dalle prime operazioni della guerra.

Nel settembre 1939, affidata al comando del generale Francesco Sartoris, era stata spostata alla frontiera francese, in valle Stura, quindi era rimasta ad Alba nel corso dell’inverno. Aveva partecipato all’offensiva contro l’Armée des Alpes, raggiungendo il 24 giugno, dopo tre giorni di marcia, le fortificazioni francesi, proprio nel momento in cui entrava in vigore l’armistizio; in luglio la divisione era stata ritirata dal fronte e parzialmente smobilitata. Il 18 novembre giungeva però l’ordine di prepararsi a partire per l’Albania perché Mussolini aveva deciso l’attacco alla Grecia.

I reparti della divisione arrivarono in Albania nella seconda metà di dicembre e subito furono coinvolti nell’emergenza che l’esercito italiano stava affrontando per tamponare le falle aperte dalla controffensiva dell’esercito greco. Il comando era passato, nel frattempo, al generale Adamo Mariotti.

I reparti furono impegnati nei combattimenti ancora privi di parte dei materiali e dei mezzi di trasporto, in particolare degli automezzi e dei quadrupedi; si trovarono così in condizioni di clima e di rifornimenti, anche alimentari, molto difficili, con equipaggiamenti inadeguati, con scarso appoggio dell’aviazione e dell’artiglieria durante le azioni.

Le perdite erano molto alte, anche se i battaglioni continuarono a combattere con decisione. Dopo un periodo di riorganizzazione in febbraio e marzo e un nuovo comandante, il generale Luigi Mazzini, il 14 aprile la divisione partecipava all’offensiva finale, coordinata con l’attacco tedesco alla Grecia, quindi giungeva l’armistizio.

In quattro mesi di combattimenti, tra il 20 dicembre 1940 e il 23 aprile 1941, la divisione aveva avuto 481 caduti, 1.163 dispersi, 1.361 feriti e 672 morti per congelamento, cioè un totale di 3.677 perdite a cui si dovevano aggiungere circa 1.500 militari ammalati e ricoverati in ospedale.

Il generale Luigi Mazzini

Le perdite si concentravano sui due reggimenti di fanteria della divisione, il 17°, che aveva avuto il 50% di perdite tra i reparti impiegati nelle operazioni di guerra, e il 18°, dove riguardavano addirittura i due terzi delle truppe utilizzate; in particolare erano state molto alte quelle tra gli ufficiali. Questi vuoti saranno in parte colmati, nei mesi successivi, da truppe poco addestrate e da ufficiali di prima nomina.

Quali forze costituivano la divisione Acqui?

La 33a divisione di fanteria da montagna Acqui era stata costituita nel 1938, in occasione di una ristrutturazione dell’esercito italiano che riduceva da tre a due i reggimenti di fanteria di ciascuna divisione; in questo modo si rendevano disponibili le unità per costituire nuove divisioni.

La Acqui ricevette un reggimento della brigata Parma e uno della brigata Avellino, rinumerati rispettivamente reggimenti 17° e 18°, per riprendere la tradizione della disciolta brigata Acqui; inoltre venne costituito il 33° reggimento di artiglieria con tre gruppi di artiglieria provenienti dalle divisioni Brennero e Pasubio.

I due reggimenti di fanteria avevano ciascuno tre battaglioni, una compagnia mortai e una batteria di accompagnamento da 65/17; il reggimento di artiglieria era armato con due gruppi di obici da montagna da 75/13 someggiati (in totale 24 pezzi) e un gruppo da 100/17 someggiato con 12 pezzi, armi che erano state in servizio nell’esercito austro-ungarico nella Prima guerra mondiale, oltre a una batteria antiaerea da 20.

A questi reparti, che costituivano l’ossatura della divisione, vanno aggiunti un battaglione mortai da 81, una compagnia anticarro da 47/32, una compagnia genio autieri e una telefonisti e radiotelegrafisti, oltre a una sezione fotoelettricisti, i reparti servizi (sanità, sussistenza, salmerie, autoreparto e due sezioni carabinieri). In totale, in condizioni normali, cioè a organici completi, la divisione dovrebbe avere 450 ufficiali, 600 sottufficiali, 12.000 uomini; come mezzi di trasporto: 3.500 quadrupedi, 120 automezzi, 70 motociclette, 150 biciclette; per le armi: 270 fucili mitragliatori, 80 mitragliatrici, 126 mortai da 45 e 30 da 81, 8 pezzi antiaerei da 20, 8 da 47/32, 8 da 65/17, 24 da 75/13, 12 da 100/17.

L’Italia e le Isole Ioniche

Le Isole Ioniche costituivano l’obiettivo privilegiato dell’aggressione fascista alla Grecia e il regime pensava a una vera e propria annessione all’Italia, sia per ragioni di prestigio politico sia in riferimento alla lunga dominazione veneziana, dal 1204 al 1797, anche se la popolazione era di etnia greca e fortemente nazionalista.

Con la fine della Repubblica veneziana, nel 1797, l’arcipelago costituiva la Repubblica delle Isole Ionie, sottoposta a varie dominazioni fino al protettorato inglese, dal 1815 al 1864, quando le isole si riunirono al Regno di Grecia.

Si tratta di cinque isole principali, da nord a sud: Kerkira (Corfù), Léfkadi, unita in realtà alla costa greca, il cui nome veneziano era Santa Maura, ripristinato durante l’occupazione italiana, Cefalonia e la vicina Itaca, Zacinto o Zante, disposte lungo la costa tra l’Albania meridionale e il golfo di Patrasso, oltre ad alcune isole minori e a molti isolotti. La maggiore è Cefalonia, quasi 800 chilometri quadrati, seguita da Corfù, 640 chilometri quadrati, e da Zacinto, 400 chilometri quadrati.

Si tratta di isole montuose; in particolare, a Cefalonia il monte Enos raggiunge i 1.628 metri. Il clima è mediterraneo, con inverni piovosi, l’economia è povera, prevalentemente agricola, ma molti abitanti trovano lavoro in mare; l’unica cittadina significativa dell’arcipelago è Corfù, mentre il capoluogo di Cefalonia, Argostoli, è un grosso paese. A Cefalonia, durante la guerra, vi sono circa 57.000 abitanti.

L’occupazione italiana, affidata ai reparti della Acqui per l’aspetto militare, era garantita da un governatorato civile, l’Ufficio affari civili delle Isole Jonie, con sede a Corfù, di cui era capo, fino all’annuncio dell’armistizio, il dirigente del Partito fascista Piero Parini, con uffici affiancati ai comandi di Cefalonia, Itaca e Zacinto. A Cefalonia si alternano invece vari comandanti politici, l’ultimo dei quali, dal 2 luglio 1943, è Vittorio Seganti dei conti di Sarzina, che rimane anche nei giorni dello scontro con i tedeschi.

Vi sono poi un centinaio di dirigenti e funzionari civili, dipendenti di società commerciali e bancarie, del Monopolio fascista italiano o impiegati nell’Istruzione. Il 22 febbraio del 1942, il Duce decretava l’istituzione di una moneta separata dalla dracma greca, la dracma ionica, sotto il controllo dell’autorità italiana, che provocò un’inflazione galoppante e l’impoverimento della popolazione.

La forzata italianizzazione comportò l’allontanamento di funzionari greci e la loro sostituzione con personale italiano, il divieto di vendita dei giornali greci, l’insegnamento obbligatorio dell’italiano nelle scuole.

Due anni di occupazione: 1941-1942

Dal punto di vista militare l’occupazione delle isole non ha inizialmente rilevanza strategica, a parte la maggiore sicurezza che avrebbero avuto i convogli italiani nel navigare lungo le isole per evitare i sommergibili inglesi, per cui si installano batterie costiere e presidî in tutto l’arcipelago. La situazione cambia alla fine del 1942, quando il Mediterraneo diviene la principale area dell’offensiva anglo-americana e le isole potrebbero costituire una barriera difensiva contro l’invasione della Grecia, in particolare attraverso il golfo di Patrasso, il cui ingresso è protetto appunto da Cefalonia e da Itaca.

Questa nuova situazione determina il nuovo interesse che gli italiani assegnano a Cefalonia. In una prima fase solo parte della divisione Acqui occupa le isole, in particolare Corfù, dov’è collocato il Comando di divisione e il 17° reggimento di fanteria, mentre l’altro reggimento, il 18°, è ancora impegnato nell’occupazione della costa greca, dove maggiori sono i problemi con la popolazione, mentre sulle isole l’occupazione è avvenuta senza provocare atti di aperta ostilità.

Le altre isole sono presidiate da reparti di Camicie nere. Nell’agosto del 1941, alla partenza del raggruppamento Camicie nere, tocca al 18° reggimento fanteria occupare le altre isole, in particolare Cefalonia, con circa 2.000 uomini; inizia in questa fase l’avvio di un «Progetto difesa isola Cefalonia», che prevede l’approntamento di difese contro un possibile attacco britannico; in effetti, tra la fine del 1941 e i primi mesi del 1942, la zona di mare delle isole fu teatro di attacchi ai convogli da parte di sommergibili britannici, mentre nel dicembre 1941 aerei inglesi avevano attaccato Argostoli, con pochi danni.

Nel corso del 1942 l’occupazione delle isole si consolida con il trasferimento dalla costa greca di tutti i reparti della divisione e col rafforzamento delle artiglierie. Il Comando di divisione rimane a Corfù, assieme al 18° reggimento fanteria, al battaglione Camicie nere e a gran parte dei reparti minori; le isole di Cefalonia, Santa Maura e Zacinto sono invece presidiate ciascuna da un battaglione del 17° reggimento fanteria, oltre a qualche reparto minore, in particolare gruppi del 33° reggimento artiglieria presenti a Cefalonia e a Zacinto.

Nel maggio 1942 giunge di rinforzo a Zante e a Santa Maura il 317° reggimento con una forza ridotta. Nel corso dell’anno la divisione è soprattutto impegnata in un lavoro di routine: addestramento, presidio delle coste, vigilanza e perlustrazione; gli allarmi sono numerosi, ma quasi sempre a vuoto, essendosi ridotta anche l’attività degli inglesi contro i convogli, mentre non vi sono altri attacchi alle installazioni delle isole.

In realtà la preoccupazione maggiore dei comandi riguarda il compito politico-civile dell’occupazione: il controllo dell’attività anti-italiana e comunista nelle isole, la condizione dei militari del disciolto esercito greco, i rifornimenti alimentari per la popolazione, i conflitti tra la comunità greco-cristiana e quella musulmana.

In questo contesto l’attività degli italiani prevede l’arresto di elementi pericolosi, il disarmo della popolazione, l’effettuazione di perquisizioni e rastrellamenti che servono a ricordare alla popolazione greca il ruolo di occupanti degli italiani; nella caserma Mussolini di Argostoli, dove sono rinchiusi i greci sospettati, i maltrattamenti di civili sono frequenti.

I rapporti tra italiani e greci sono ambivalenti: in molti casi i soldati aiutano i contadini nel lavoro dei campi, vi sono casi di fraternizzazione, nei locali pubblici gli italiani si trovano fianco a fianco con i greci; ma sempre di occupazione si tratta: vi sono le spie degli italiani, oltre a un’organizzazione collaborazionista, l’Organizzazione patriottica di Cefalonia, mentre la resistenza, non particolarmente attiva sulle isole, a differenza della Grecia continentale, è divisa tra i comunisti dell’Esercito popolare di liberazione greco (Elas-Eam) e i nazionalisti filomonarchici.

A settembre vi era stato l’ultimo arrivo di 1.665 ventenni di rinforzo. Il 25 ottobre 1942 vi è un nuovo avvicendamento al comando della Acqui: il generale Ernesto Chiminiello sostituisce Luigi Mazzini. Al 15 novembre del 1942 risale l’ultimo quadro rimasto della forza della divisione: in totale 708 ufficiali, tra presenti e in licenza, 15.759 sottufficiali e truppa, tra presenti e in licenza. Il grosso degli uomini presidia ancora l’isola di Corfù, circa 6.080 tra ufficiali, sottufficiali e truppa, 3.860 sono a Cefalonia, 3.300 a Zacinto, 680 a Santa Maura; non vi sono dati sulla distribuzione di circa 1.460 tra carabinieri e guardie di finanza; vanno inoltre aggiunte le forze della Marina e dell’Aeronautica, su cui non vi sono dati.

Queste informazioni sono desumibili dal diario storico della divisione, che tuttavia si ferma all’autunno 1942, essendo andati perduti quelli successivi; mancano perciò dati precisi sul settembre 1943, si può presumere che al momento dell’armistizio gli uomini siano di poco al di sotto di queste cifre.

Fino ad agosto del 1943 era aggregato alla divisione anche il 19° battaglione Camicie nere Fabris, composto da 14 ufficiali, 26 sottufficiali e 374 uomini di truppa. Il battaglione fa parte della 18a Legione Camicie nere d’assalto e viene ritirato da Cefalonia per essere impiegato in difesa costiera nella zona di Prevesa alle dipendenze del 22° corpo d’armata tedesco del generale Lanz.

La divisione si concentra a Cefalonia

A partire dal novembre 1942, con lo sviluppo dell’offensiva aeronavale anglo-americana nel Mediterraneo, la posizione strategica delle isole cambia. Nella nuova situazione cresce soprattutto il ruolo di Cefalonia come difesa della costa greca e del golfo di Patrasso.

Il 1° dicembre 1942 le truppe di occupazione delle isole passano dal Comando superiore in Albania alle dipendenze di quello della Grecia del generale Geloso, comandante del 26° corpo d’armata di stanza nella Grecia occidentale, con sede a Ioannina; il Comando della Acqui viene trasferito inizialmente a Santa Maura, quindi a Cefalonia nel palazzo del Tribunale di Argostoli dove viene spostato il grosso delle truppe, mentre vengono avviati i lavori delle fortificazioni campali e costiere.

A Corfù resta il 18° reggimento fanteria oltre a un gruppo del 33° artiglieria; a Santa Maura la divisione Acqui viene sostituita da truppe della divisione Casale; anche Zacinto viene lasciata dalle truppe della Acqui, tuttavia non è rimasta documentazione sul presidio che si arrese ai tedeschi dopo il 9 settembre 1943.

Carlo Geloso

Complessivamente, entro l’8 settembre 1943, affluiscono a Cefalonia le seguenti unità: da Corfù il Comando divisione Acqui, la 33a compagnia cannoni da 47/32 e il 1° gruppo da 100/17 del 33° artiglieria, la 31a e la 33a compagnia del genio, la 44a sezione sanità, la 5a sezione sussistenza; da Zacinto e Santa Maura il 317° fanteria; i seguenti reparti di corpo d’armata di nuova assegnazione: il 94° gruppo da 155/36, il 188° gruppo da 155/14, la 158a e la 215a compagnia lavoratori; i reparti della marina con tre pezzi da 152/40, tre pezzi da 120/50 in formazione e sei da 76/40 antiaerei; otto mitragliere IF 20/70, sei mitragliere S. Etienne 20/65; i reparti tedeschi del 966° reggimento granatieri da fortezza (battaglioni 909° e 910°), una batteria del 201° gruppo semoventi con otto pezzi da 75 e uno da 105.

Il generale Gandin

Il 16 giugno 1943, vi è il passaggio del comando della divisione dal generale Chiminiello, trasferito alla divisione Perugia, al generale Antonio Gandin. Notizie sulla sua biografia sono nella pubblicazione curata dal colonnello Mario Colombo, Il 17° Fanteria “Acqui” Medaglia d’Oro (Roma 1960).

Antonio Gandin nasce ad Avezzano il 13 maggio 1891, la famiglia è di origini venete; entra nella Scuola militare di Modena a 17 anni, nel 1910 è nominato sottotenente di fanteria e partecipa alla guerra di Libia, dov’è decorato con la medaglia d’Argento; durante la Prima guerra mondiale combatte sul Carso e sul Piave e ottiene altre due decorazioni, la Croce al Valor militare nel 1915 e un’altra medaglia d’Argento nel 1918; al termine del conflitto viene posto al comando di reparti di fanteria per poi prestare servizio presso il Comando del corpo di Stato maggiore; insegnante di Storia militare alla scuola di Guerra nel 1932, nel 1937 diventa capo dell’Ufficio del capo di Stato maggiore generale, quindi capo della segreteria di Badoglio.

ANTONIO GANDIN

Allo scoppio della guerra, nel 1940, dirige la Segreteria dello Stato maggiore generale e in dicembre diviene capo del 1° Reparto operazioni del Comando Supremo. Generale di brigata nel 1940, è promosso nel 1942 generale di divisione. È inviato in missione in Germania, Egeo, Dalmazia e Africa: in queste occasioni entra in contatto con i vertici del Comando Supremo germanico, in particolare con il generale Jodl e col feldmaresciallo Keitel, oltre allo stesso Hitler, conosce i feldmarescialli Rommel e Kesserling.

Quando, nel gennaio 1943, il capo di Stato maggiore generale Ugo Cavallero viene sostituito dal generale Vittorio Ambrosio, considerato meno subalterno ai tedeschi, Gandin diventa ufficiale di collegamento con il Comando Supremo germanico e, in febbraio, portavoce presso Rommel, per seguire le operazioni militari in Tunisia assieme a Kesserling.

Il generale Ugo Cavallero

In questo periodo è in contatto con un altro ufficiale tedesco, Enno von Rintelen, addetto militare in Italia. Fino al 26 maggio 1943 per cinque volte è lui a fare rapporto a Mussolini per conto del generale Ambrosio. In giugno viene improvvisamente trasferito a Cefalonia come comandante della divisione Acqui.

Secondo lo storico Giorgio Rochat si sarebbe trattato di un normale avvicendamento di funzioni nella carriera di un alto ufficiale. Tuttavia per Gandin il trasferimento in un ruolo che allora doveva apparirgli marginale poteva essere visto come una punizione. Sembra verosimile, infatti, che il trasferimento da Roma sia stato deciso per allontanare dallo Stato maggiore un ufficiale conosciuto come filotedesco nel momento in cui l’Italia si preparava a sganciarsi dall’alleato.

Il 15 agosto i comandi di Corfù e Cefalonia vengono separati, il primo sottoposto alle dipendenze del 26° corpo d’armata del generale Della Bona, con sede a Ioannina, il secondo, con le truppe di Santa Maura, passa al comando dell’8° corpo d’armata del generale Marghinotti, con sede ad Agrinion.

Il generale Vittorio Ambrosio

Ambedue i corpi d’armata appartengono all’11a armata mista italo-tedesca, comandata dal generale Carlo Vecchiarelli, con sede ad Atene, è tedesco invece il capo di Stato maggiore, il generale Heinz von Gyldenfeldt, che risiede a Salonicco. Dal 28 luglio 1943 l’11a armata mista italo-tedesca viene posta alle dipendenze operative del Gruppo d’armate Est, al cui comando è il generale.

Alexander Löhr

Si tratta di una riorganizzazione voluta dal Comando Supremo tedesco in previsione dell’attuazione dell’operazione Achse. In questo modo si crea una catena di comando che mette il generale Vecchiarelli alle dipendenze del comandante tedesco. L’11a armata mista italo-germanica è composta da 7.000 ufficiali e 165.000 sottufficiali e soldati.

Essa comprende il 26° corpo d’armata in Epiro, l’8° corpo d’armata in Acarnania, Etolia, isole di Santa Maura e Cefalonia, il 3° corpo d’armata in Tessaglia, Attica, isola di Eubea. Anche le truppe di stanza a Creta dipendono dall’11a armata.

Soldati e ufficiali della divisione Acqui

Giorgio Rochat, in uno studio dedicato a La divisione Acqui nella guerra 1940-1943, parla della Acqui come «di una divisione qualsiasi, rappresentativa della media delle qualità e dei difetti dell’esercito»; essi se «scelsero di resistere anziché arrendersi, non erano eroi o soldati selezionatissimi, bensì soldati qualsiasi, non diversi dalla massa dei soldati italiani, che essi pure avrebbero scelto di resistere anziché arrendersi, se le circostanze lo avessero loro permesso».

Dopo il duro impegno dell’inverno 1940-41 nella campagna di Grecia, che aveva comportato, soprattutto per i reparti di fanteria, perdite consistenti, solo in parte compensate dai nuovi arrivi di soldati con scarso addestramento e di ufficiali in genere di prima nomina e perciò inesperti, nei ventotto mesi di occupazione delle Isole Ioniche gli uomini della divisione ebbero poche occasioni per ricostruire lo spirito combattivo e l’efficienza che avrebbero dovuto essere caratteristiche di un reparto operativo.

Per parecchi aspetti l’occupazione italiana di Cefalonia poteva apparire, se si eccettuano le condizioni generali di un esercito occupante e in stato di guerra, quasi una vacanza. Anche se può sembrare strano, abbiamo pochi dati certi sulle caratteristiche anagrafiche degli uomini della Acqui. Inoltre, i numeri e le notizie sui morti sono largamente incompleti.

Negli archivi rintracciabili presso l’Ufficio storico dell’Esercito troviamo delle informazioni parziali e difficilmente utilizzabili; i dati sui caduti della divisione si riferiscono al periodo 1940-1947, dai tabulati i morti risultano essere 4.629, una cifra non corrispondente al totale effettivo; inoltre, la data della morte è poco affidabile. Rochat ha lavorato soprattutto sui nominativi dei caduti del 17° reggimento fanteria, da cui si possono trarre alcune indicazioni orientative.

In maggioranza essi hanno tra i venticinque e i trent’anni; la distribuzione geografica riguarda un po’ tutto il Paese, con una prevalenza dell’Italia settentrionale, col 58%, e della Lombardia in particolare, col 29%, mentre dall’Italia centrale proviene il 12% del totale e il 30% dal sud e dalle isole; numerosi sono i militari provenienti dal Veneto, dall’Emilia Romagna, dal Lazio, dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia; la provincia più rappresentata risulta essere Cremona, col 13% dei caduti, seguita da Brescia, Trento, Verona, Parma, Milano, Avellino, Frosinone, Cosenza; i tre quarti dei caduti vengono dalla campagna.

Padre Formato

Tra le testimonianze più interessanti e vive sul morale e sui comportamenti dei soldati vi è quella di padre Romualdo Formato, cappellano del 33° reggimento artiglieria dal 1940 e testimone della strage degli ufficiali del 24 settembre 1943.

In varie lettere e nella sua memoria su L’eccidio di Cefalonia, pubblicata nel 1946, egli ci dà numerose indicazioni. In una lettera del marzo 1943, riferendosi ai «suoi ufficiali e artiglieri», sottolinea che l’eroismo e il senso del dovere che li animava nei mesi della campagna sul fronte greco-albanese abbiano ceduto il posto «a un nervosismo diffuso, a uno scoramento progressivo, a una stanchezza quasi generale e, cosa da meditare seriamente, a un serpeggiamento, non sempre latente, di idee antipatriottiche, di simpatie comunistiche e di propositi disfattistici ».

Don Formato ricorda i casi di autolesionismo, di pazzia e i suicidi, quattro, che si sono verificati nei due anni di occupazione, mentre erano stati assenti durante le operazioni belliche; stessa cosa per le diserzioni, di cui qualcuna per passare «nelle file dei ribelli locali».

Particolarmente significativa è la notizia di quanto fosse diffusa la malaria tra la truppa: in certi reparti il 90% degli effettivi era stato colpito dalla malattia che, fortemente debilitante, in aggiunta alle carenze dell’alimentazione, rendeva particolarmente difficoltosa qualsiasi attività; per i malarici non vi era né licenza di convalescenza né rimpatrio, essi erano ugualmente assegnati a compiti assai faticosi e impegnativi, a volte di difesa territoriale, come guardia a ponti e presidî minori; da altre fonti sappiamo che la media giornaliera dei ricoverati negli ospedali superava i 2.000 casi.

Anche la scarsità del vitto è ragione di debilitazione. Dice Formato: «Specialmente di questi tempi, il soldato – tra marce, lavori pesanti di postazioni, creazioni di caposaldi, costruzione di strade, di reticolati, eccetera – lavora pesantemente. Lavori faticosissimi, tra cui la lotta con la viva roccia, spesso a forza di sole braccia, senza l’aiuto di mine. […] Ma il buon soldato nostro lavorerebbe sempre volentieri, se mangiasse adeguatamente. E invece riferisce che, spesso, il cosiddetto surrogato del mattino è acqua sporca e gli altri due ranci della giornata sono brodaglia, nella quale affoga avidamente la pagnotta di pane della sua spettanza. Ecco perché, quando lavora, accusa spossatezza, mal di capo, vertigini. […] E, se parla, non è creduto!».

La situazione è peggiorata dalle differenze di trattamento tra ufficiali, sottufficiali e soldati: questi ultimi consumavano il rancio nelle gavette all’aperto, gli altri nelle mense separate. Altro motivo di malumore è la gestione delle licenze. Nel reggimento di padre Formato, su 2.148 uomini, 598 non usufruivano della licenza da tre anni, 450 da due anni.

In parte questa situazione è causata da problemi di trasporto o da difficoltà e incapacità organizzative; ma si tratta anche di un problema culturale: i comandi non tengono in conto le esigenze della truppa, benché questo disinteresse si ripercuota pesantemente sul clima di fiducia e di collaborazione dei soldati. Al contrario, le licenze sono sicuramente garantite agli ufficiali superiori, sono più irregolari per quelli inferiori.

Fino al 1941, inoltre, per gli ufficiali era garantita la licenza straordinaria per sostenere gli esami universitari, fatto che sicuramente provocava il risentimento dei più. A proposito di licenze straordinarie per gravi motivi di famiglia o per matrimonio, sempre Formato afferma che «il soldato che torna dal matrimonio, torna più sereno, più soddisfatto, più serio, più legato d’affetto alla sposa lontana, più disposto a fare economia del suo denaro, più dedito al suo dovere e più alieno dal rovinarsi moralmente e fisicamente nei postriboli».

Evidentemente il Comando divisionale era d’avviso contrario. Ad acuire questo disagio generale, contribuisce, nel corso del 1943, l’imposizione ai reparti di stanza nelle isole di un clima di guerra per dare alle truppe «la convinzione di trovarci in guerra guerreggiata, data l’eventuale possibilità di essere attaccati, in qualunque momento, dal nemico».

Ciò comporta il divieto di libera uscita, la rinuncia al riposo periodico, festivo e domenicale, addirittura la rinuncia alla messa, che in questo clima forzato di mobilitazione potrebbe apparire come un momento di aria. Gli stessi ufficiali spesso sono incapaci di graduare impegni e punizioni e di applicare con elasticità ordini che finiscono con aggravare pesantemente le condizioni di vita dei soldati.

Sempre Formato: «Tutto ciò provoca un nervosismo dilagante. Spesso l’ufficiale non sa comprendere e non sa compatire. Calca, invece, la mano dinanzi a qualunque mancanza, anche di poco conto. Il soldato punito considera, al tempo stesso, la sua vita di indefesso lavoro, giudica sproporzionata la punizione (almeno in relazione al suo rendimento), si demoralizza, si disamora del suo dovere, freme e impreca quando non si accende addirittura di odio per il suo superiore.

Spesso gli è praticamente negata ogni discolpa. Non di rado si vede umiliato da qualche superiore con titoli infamanti». Conclude Rochat: «Gli uomini della divisione Acqui non erano eroi senza crisi né dubbi. Erano soldati stanchi di una guerra che non capivano, logori per le dure condizioni di vita, obbedienti malgrado malumori e risentimenti non privi di base. Ciò nonostante nel settembre 1943 rifiutarono la resa con una straordinaria prova di dignità e di speranza».

LA CADUTA DIMUSSOLINI

E IL GOVERNO BADOGLIO

Il Gran Consiglio del Fascismo del 24 luglio 1943

La convocazione del Gran Consiglio del fascismo per le ore 17,00 del 24 luglio 1943 è l’espressione istituzionale del cambiamento della situazione politica italiana a seguito del rovesciamento delle sorti della guerra, iniziato negli ultimi mesi del 1942.

Dino Grandi

L’ordine del giorno della riunione domanda «l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali» e invita il re ad «assumere, con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta dinastia di Savoia».

MUSSOLINI CON DINO GRANDI

Col richiamo allo Statuto si mette ai voti la fine della dittatura di Mussolini; nella votazione, che ha luogo alle due del mattino del 25 luglio, diciannove partecipanti su ventotto votano contro Mussolini; poche ore dopo egli è formalmente licenziato dal re.

Com’è possibile che, nel pieno svolgimento della guerra, una dittatura considerata saldissima, durata più di vent’anni, crolli in modo così semplice e rapido? Per comprenderlo occorre tener presente la situazione internazionale e l’andamento della guerra, le condizioni della popolazione italiana tutta e le tensioni all’interno dei gruppi dirigenti.

Le vicende militari dell’inverno 1942-43 pongono l’Asse in difficoltà sia in Africa che in Russia: Churchill fa pressione affinché la monarchia italiana abbandoni lo schieramento filotedesco, liberandosi di Mussolini, indicato come unico responsabile della gravissima situazione italiana. Nello stesso periodo si sviluppa e inizia a manifestarsi un’opposizione interna tra la gente comune, con la novità degli scioperi operai del marzo 1943, e tra i maggiori rappresentanti del potere economico, ormai interessati ad accordi con lo schieramento vincente e a un cambiamento di regime politico.

Durante le grandi manovre del 1935: Mussolini e gerarchi fascisti a Cles

All’interno dei gruppi dirigenti, molti iniziano a prospettare l’allontanamento di Mussolini e la decisione di una pace separata: esponenti dell’industria e della finanza (Pirelli, Donegani, Cini), diversi gerarchi del regime (Grandi, Ciano, Federzoni, De Stefani) e gli stessi vertici militari, in primo luogo il generale Ambrosio, capo di Stato maggiore dell’Esercito, che sollecita il re a dividere la propria responsabilità da quella del fascismo e prepara un piano per l’arresto di Mussolini e la fine del regime fascista.

Paradossalmente, però, anche dopo lo sbarco in Sicilia e l’avanzata sul territorio italiano degli anglo-americani, nessuno prende l’iniziativa e tutti si aspettano ancora che sia Mussolini stesso a concordare con l’alleato Hitler le condizioni per una pace separata dell’Italia. Ma il 19 luglio, nell’incontro di Feltre, Mussolini non ha il coraggio di chiedere nulla al suo potente alleato che probabilmente garantisce ancora di avere l’arma segreta per la vittoria.

Badoglio e Mussolini

Nello stesso giorno Roma è bombardata per la prima volta. La riunione del Gran Consiglio del fascismo, già in sé straordinaria poiché l’organismo non veniva convocato dal 1939, diviene cruciale. Nato nel dicembre del 1922 come organismo di consulenza per le decisioni governative di Mussolini, formato da politici, tecnici, esponenti dell’amministrazione e delle forze padronali convocati da Mussolini a seconda degli argomenti in discussione, ha avuto fin dall’inizio del regime una funzione di grande rilievo.

Nel 1928 era stato riconosciuto come organo istituzionale dello Stato assumendo numerosi compiti prima spettanti alla Camera dei deputati; secondo la legge elettorale del 1928 deve indicare i 400 candidati per la lista unica nazionale; in base alla legge n. 2.693 il monarca deve consultare il Gran Consiglio prima di nominare il capo del Governo.

Mussolini

Il peso di questo organismo si riduce però nell’ultimo periodo del regime e dal 1939 esso non si è più riunito. Mussolini, malgrado tutto, pensa che anche la riunione del Gran Consiglio possa essergli di vantaggio e spera che prevalga la linea morbida di Bottai, che prospetta un’azione per rinvigorire il regime fascista, mantenendo centrale la posizione del duce: egli dovrebbe richiamare in vita i principali organismi che erano stati esautorati: il Consiglio dei ministri, il Gran Consiglio e addirittura le due Camere.

La posizione di Dino Grandi, invece, è più radicale. Egli afferma la necessità di restituire al re i poteri militari, per favorire quel cambiamento di fronte da lui ritenuto indispensabile: occorre separarsi dalla Germania prima che questa effettui in Italia il progettato colpo di stato nazista e trovare le condizioni per impedire agli anglo-americani di esigere la resa incondizionata.

Mussolini, con al suo fianco Graziani, riceve i componenti della RSI a Rocca delle Caminate

La riunione dura dalle 17,00 di sabato 24 luglio fino alle 2,00 della notte seguente; manca un verbale vero e proprio, ma ci sono alcuni resoconti dei protagonisti, tra i quali la Storia di un anno di Mussolini. I partecipanti giungono tutti in uniforme, per lo più armati di pistola, qualcuno con bombe a mano in tasca; la polizia presidia palazzo Venezia, mentre i moschettieri del duce restano in caserma.

La discussione dell’ordine del giorno parte proprio dalla questione del comando delle forze armate: Mussolini tenta di scaricare sulle spalle dei vertici dell’esercito la responsabilità delle sconfitte, ma dimostra una conoscenza imprecisa della situazione militare e comunque fa capire che la difesa del territorio italiano è nei fatti impossibile.

Grandi sottopone alla votazione del Gran Consiglio l’invito al re ad assumere «L’effettivo comando delle forze armate […] e la suprema iniziativa di decisione» e illustra con impeto tutte le imbecillità della guerra fascista”.

Conclude così il discorso, durato più di un’ora: «Fra le molte tue frasi, ridicole o vacue, che hai fatto scrivere sui muri di tutta Italia, ce n’è una che tu hai pronunciato dal balcone di palazzo Chigi nel 1924: “periscano tutte le fazioni, perisca pure la nostra, purché viva la nazione”. È giunto il momento di far perire la fazione».

Mussolini, con l’aiuto del segretario del partito Scorza, cerca di intimidire i sostenitori dell’ordine del giorno di Grandi, ma quando si giunge alla votazione, sono diciannove i voti favorevoli e la decisione è presa. L’indomani Mussolini stesso dovrà portare la comunicazione al re, con la speranza che egli consideri la votazione un consiglio e non una deliberazione e che voglia quindi riconfermargli la fiducia.

Il 25 luglio e l’arresto di Mussolini

Nel mese di luglio del 1943 la situazione militare in Italia precipita. Lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia e il bombardamento delle maggiori città italiane rendono evidente l’impossibilità di difendere il territorio nazionale. Si diffonde l’esigenza di un cambiamento radicale nella conduzione della guerra, ma le idee in merito alla profondità e soprattutto alla direzione del cambiamento non sono condivise nè spesso ben definite nella mente degli stessi protagonisti.

L’approvazione dell’ordine del giorno Grandi nella seduta del Gran Consiglio del fascismo del 24 luglio spinge il re Vittorio Emanuele III a riprendere l’iniziativa. Il re già da tempo, su sollecitazione del generale Ambrosio, capo di Stato maggiore dell’Esercito, progetta di porre fine al regime fascista, di arrestare Mussolini e di formare un governo presieduto dal maresciallo Badoglio, composto da tecnici e non da politici.

Egli si fida infatti solo dell’esercito e guarda con sospetto e diffidenza le forze politiche antifasciste che vanno in quei giorni riorganizzandosi. Nonostante la gravità della situazione, non riesce a superare i suoi timori verso qualsiasi cambiamento e non si risolve ad agire. L’esito della votazione del Gran Consiglio viene comunicato nel corso della notte da Grandi stesso al duca d’Acquarone, ministro della Real Casa, il quale alle sei del mattino ne informa il re.

HITLER E MUSSOLINI

Questi si mostra deciso a profittare dell’occasione per compiere la progettata restaurazione monarchica. Alle sette informa il maresciallo Badoglio e prima di mezzogiorno del giorno 25 firma il decreto che nomina il nuovo capo del Governo. L’urgenza è dovuta al timore che qualche esponente si presenti a chiedergli il governo sottolineando il valore statutario della decisione del Gran Consiglio, cui spetta per legge la nomina del  successore del duce. Nessuno però si presenta e il re attende che Mussolini chieda l’udienza, che gli viene fissata per il pomeriggio alle ore 17,00.

Il piano predisposto dai generali Ambrosio e Castellano, in accordo col re, prevede l’arresto di Mussolini al termine di uno dei consueti colloqui alla villa reale e il suo prelevamento con una autoambulanza. Il re dà l’ordine per eseguire tale progetto. Nella stessa giornata di domenica, Mussolini si comporta come se la votazione del Gran Consiglio non fosse stata deliberativa, dice alla stampa che non ci sarà alcun comunicato sulla seduta, «lunga ma non importante», e si dedica alle attività previste come se nulla fosse accaduto.

Settembre 1937. Hitler e Mussolini a colloquio nella Cancelleria di Berlino

Quando si reca al colloquio col sovrano, probabilmente, Mussolini teme solo il ritiro della delega al Comando Supremo delle forze armate. L’incontro dura una ventina di minuti; il re comunica la decisione presa e, alle argomentazioni di Mussolini circa il valore della votazione del Gran Consiglio, ribatte di considerare quel voto come indice della volontà del Paese. D’altra parte a livello personale il re si dice più volte dispiaciuto e si impegna a rispondere della sua sicurezza.

Al termine dell’udienza Mussolini è preso in consegna dai carabinieri che dovranno assicurargli l’incolumità, isolarlo dai tedeschi e far sì che possa essere utilizzato come ostaggio contro un’eventuale reazione dei fascisti. Ma la base del partito non reagisce, dando prova dello stato di disintegrazione del regime.

PIETRO BADOGLIO

Quando alla sera della domenica iniziano a circolare le voci sul cambiamento in atto prevale lo scetticismo; solo alle 22,45 la radio comunica senza preamboli: «Sua Maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di Stato, di sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato capo del governo, primo ministro segretario di Stato il cavaliere maresciallo d’Italia Pietro Badoglio».

Seguono il proclama del re, che assume il comando delle forze armate, e quello di Badoglio che comunica: «La guerra continua, l’Italia duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data».

Non appare immediatamente chiaro che dei due problemi da risolvere, porre fine al regime fascista e porre fine alla guerra, è stato risolto solo il primo. Grandiose manifestazioni popolari festeggiano la fine del regime e chiedono la fine della guerra, ma dopo pochi giorni vengono represse brutalmente dai militari italiani stessi. La guerra continua.

Il generale Antonio Sorice

I primi provvedimenti

La sera del 25 luglio gli italiani possono ascoltare alla radio la notizia che il re ha accettato le dimissioni di Mussolini e ha nominato primo ministro il maresciallo Badoglio. La prima preoccupazione del nuovo governo è di prevenire eventuali reazioni da parte fascista.

Viene immediatamente nominato il nuovo capo della polizia, Senise, che aveva già ricoperto fino a pochi mesi prima la carica, per poi essere destituito, e che attua il piano di azione predisposto: sono occupate dai militari le centrali telefoniche della presidenza del Consiglio e del ministero dell’Interno e sono vietate le comunicazioni interurbane.

Il generale Enzo Galbiati

Viene poi attuato il passaggio dei poteri alle autorità militari, in collaborazione col nuovo ministro della Guerra, il generale Sorice, e sono date ai questori le disposizioni per il mantenimento dell’ordine pubblico e per l’arresto di alcuni gerarchi. Benché sia stata decisa la destituzione dei prefetti fascisti, solo quattro vengono collocati a riposo e da nessuno di loro vengono resistenze al nuovo governo. Lo stesso capo della Polizia destituito, Chierici, si mette a disposizione del successore e l’ultimo segretario del partito fascista, Scorza, si sottomette alle nuove autorità.

Contemporaneamente il capo di Stato maggiore della Milizia fascista, il generale Galbiati, dà ordine alle truppe di non resistere agli ordini del re, né si muovono i due battaglioni scelti della guardia di Mussolini. Nelle ore successive il vertice del vecchio regime si dissolve: molti si nascondono in attesa di un chiarimento della situazione, altri cercano rifugio nell’ambasciata tedesca, come Farinacci e Pavolini, che di lì a poco voleranno in Germania assieme a numerosi altri gerarchi.

Il re Vittorio Emanuele III con Mussolini

La mancanza di reazione dei militanti fascisti sorprenderà anche l’ambasciata tedesca, che si aspettava una risposta almeno dalla divisione M, ma questo segnale non vi sarà. Il pericolo di un ritorno di vitalità del fascismo sembra, almeno per il momento, scongiurato, nonostante l’immagine di solidità e di forza che ancora negli ultimi mesi il vecchio potere aveva dato di sé.

La debolezza del regime è tale che per abbatterlo è stato sufficiente un colpo di palazzo con l’iniziativa del re e di alcuni gerarchi dissidenti. Se però la paura e la rassegnazione sono i sentimenti prevalenti tra i fascisti e se il fascismo è crollato così facilmente, non altrettanto può dirsi dello stato fascista, che sopravviverà, con le sue strutture, alla caduta di Mussolini.

Se il fascismo ha potuto far leva sulla paura del comunismo per mantenere il controllo del paese, questa paura non scompare ma torna a essere una delle principali preoccupazioni del nuovo governo. Ora si teme che le manifestazioni spontanee, che accompagnano in tutta Italia la caduta di Mussolini  che si svolgono quasi sempre in maniera assolutamente pacifica e gioiosa, siano il primo atto di una movimento rivoluzionario.

Il lunedì 26 un nuovo proclama di Badoglio invita gli italiani alla disciplina e vieta gli assembramenti, ricordando che saranno dispersi con la forza. I comandi territoriali affiggono lo stesso giorno un manifesto in cui si comunica che la tutela dell’ordine pubblico sarà compito delle autorità militari e si ordina il coprifuoco dal tramonto all’alba, col divieto ai civili di circolare; è inoltre disposta la chiusura dei locali pubblici nelle stesse ore, il divieto di riunirsi in locali chiusi per manifestazioni di carattere politico, l’obbligo di portare con sé un ocumento d’identità con fotografia, eccetera.

A chiarire ancora di più il carattere autoritario e antipopolare del nuovo governo militare giunge il 27 luglio la circolare del generale Roatta, formatosi sotto il fascismo e ora capo di Stato maggiore: «Nella situazione attuale, qualunque perturbamento dell’ordine pubblico, anche minimo e di qualsiasi tinta, costituirà tradimento e può condurre ove non represso a conseguenze gravissime; ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine; siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani dei cordoni, degli squilli, delle intimazioni e della persuasione; le truppe procedano in formazione di combattimento, aprendo il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro il nemico; non si tiri mai in aria, ma a colpire come in combattimento, e chiunque, anche isolatamente, compia atti di violenza contro le forze armate venga mmediatamente passato per le armi; mentre il militare impiegato in servizio di ordine pubblico che compia il minimo gesto di solidarietà coi dimostranti e non ubbidisca agli ordini venga immediatamente passato per le armi».

Sono indicazioni più adatte a un esercito di occupazione in territorio straniero che misure per il mantenimento dell’ordine pubblico in patria; l’eccezionalità del momento non può giustificare queste misure, che non sono rivolte agli ex fascisti, ma alla popolazione in festa.

Nei giorni successivi le manifestazioni pubbliche si fanno più decise e, pur continuando a inneggiare all’Italia, all’esercito, al re e al maresciallo Badoglio, cominciano a chiedere misure più drastiche nei confronti del vecchio regime e la fine della guerra. Nel nord, a partire da Milano, si sviluppa uno sciopero generale che rafforza le richieste del rinato movimento antifascista.

Tra queste: «Armistizio immediato, scioglimento delle organizzazioni fasciste, libertà di stampa, amnistia per i detenuti politici antifascisti, costituzione di un governo antifascista».

La risposta del governo è durissima: a Reggio Emilia l’esercito spara contro gli operai delle Reggiane, uccidendo nove manifestanti; a Bari, in piazza Roma, tra la folla che festeggia la fine del fascismo e saluta la liberazione dal carcere di alcuni antifascisti, tra cui Tommaso Fiore, vi sono 23 morti e 70 feriti. I tribunali militari si sostituiscono a quelli civili: 3.500 manifestanti sono condannati a pene variabili tra i sei mesi e i diciotto anni; ben 35.000 persone sono fermate e rilasciate dopo pochi giorni. Vi sono complessivamente 83 morti e 308 feriti.

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