AUSCHWITZ, MEMORIA E NEGAZIONISMO – 5

a cura di Cornelio Galas

dal libro “L’irritante questione delle camere a gas” di Valentina Pisanty

Ancora, nelle analisi – non solo storiografiche – di Visanty – l’attacco negazionista a quello che va sotto il nome di Gerstein, un soldato, un medico delle SS nei campi di sterminio.

Il rapporto Gerstein

(testo integrale)

“Kurt Gerstein. Rottweil 26 aprile 1945. Indicazioni personali: Gerstein, Kurt, Bergasses: escluso dal servizio dello stato per attività antinaziste, 1936, ingegnere diplomato. Nato l’11 agosto 1905 a Münster (Westfalia). Associato dell’officina De Limon, Fluhme & Cie, ingrassaggio automatico per locomotive, frein Westing house, Knorr ecc., Duesseldorf, Industrienstrasse 1-17. Padre: Ludwig Gerstein, Landgerichtspraesident, Hagen Westf.. in pensione.

Madre: Clara Gerstein, nata Schmemann, morta nel 1931. Sposato dal 2 maggio 1937 a Elfriede, nata Bensch, a Tubinga (Gartenstrasse 24); tre figli: Arnulf (5 anni), Adelheid (3 anni e mezzo), Olaf (2 anni). Vita: 1905-1911, Münster. 1911-1919, Sarrebruck. 1919-1921, Halberstadt. 1921-1925, Neureppin presso Berlino. Maturità, 1925. Studi: 1925-31, Marburgo/Lahn, Aix La Chapelle, Berlino-Charlottenburg, università e scuole superiori tecniche. 1931, esame di ingegnere diplomato.

Dal 1925, membro attivo della gioventù protestante organizzata Unione Cristiana della gioventù, e soprattutto della gioventù cristiana superiore chiamata BK = Bibelkreis = Corolla attorno alla Bibbia. Politica: Aderente di Stresemann e Bruening, attivo per loro. Dal 1933, giugno, perseguitato dalla Gestapo per attività cristiana contro lo Stato nazista. — 2 maggio 1933, ingresso nella NSDAP. 2 ottobre 1936, espulso dalla NSDAP per attività contro il partito e lo Stato. 30 gennaio 1935, pubblica protesta al Teatro municipale di Hagen, Westfalia, contro il dramma anticristiano Wittekind. Bastonato e ferito dai nazisti.

7 novembre 1935, esame di bergassessor. Poi, impíegato dello stato a Sarrebruck. 27 settembre 1936, imprigionato dalla Gestapo per attività contro lo Stato, per aver spedito 8.500 opuscoli antinazisti agli alti impiegati dello Stato. In prigione fino all’ottobre 1936. esclusione dal servizio statale. Dicembre 1936, fino all’inizio della guerra: studi di medicina a Tubinga. Istituto delle missioni protestanti, medicina tropicale. Ho dato un terzo circa delle mie entrate, pari a un terzo di 18.000 RM per anno, dal 1931, ai miei scopi ideali religiosi. Ho fatto stampare e inviare per posta a mie spese circa 230.000 opuscoli religiosi antinazisti.

14 luglio — 28 agosto 1938, secondo internamento nel campo di concentramento di Welzheim. Sentendo parlare dei massacri di minorati psichici e alienati a Grafeneck, Hadamar ecc., offeso e ferito nel mio intimo, avendo in famiglia un caso del genere, non avevo che un solo desiderio: vedere, veder chiaro in tutto questo ingranaggio e allora gridare in mezzo alla gente! Con l’aiuto di due referenze di agenti della Gestapo che si erano occupati del mio caso, non era difficile entrare nelle SS.

10 marzo – 2 giugno 1941, primo addestramento militare ad Amburgo, Lengenholen, Arnheim e Orianenburg insieme a 40 medici. Per effetto dei miei duplici studi, tecnici e di medicina, ricevetti l’ordine d’entrare nel servizio medico-tecnico dell’SS-Fuhrungsbauptamt, servizio sanitario delle SS armate, Amtsgruppe D, Igiene. Trovandomi assegnato a questo servizio, io stesso mi scelsi il compito di costruire subito degli apparecchi di disinfezione e dei filtri d’acqua potabile per le truppe e per i campi di prigionieri e di concentramento.

Kurt Gerstein il giorno del suo matrimonio

Grazie alla mia esperienza in campo industriale, vi riuscii in breve tempo — i miei predecessori non vi erano riusciti. Fu così possibile abbassare notevolmente la mortalità dei prigionieri. Per i miei successi fui ben presto promosso a tenente. Dicembre 1941, il Tribunale che aveva ordinato la mia espulsione dalla NSDAP fu messo a conoscenza della mia entrata nella SS armata. Venivano fatti grandi sforzi per cacciarmi e per perseguirmi. Ma, in conseguenza dei miei successi, venni dichiarato sincero ed indispensabile.

Nel gennaio del 1942, fui nominato capo dei servizi tecnici di disinfezione che comprendevano anche il servizio dei gas molto tossici per disinfezione. L’8 giugno 1942 entrò nel mio ufficio l’SS-Sturmbannführer Günther, del Reichsicherheitshauptamt, in abili civili, a me sconosciuto. Mi ordinò di procurargli 100 kg. di acido prussico e di portarli con lui in un luogo conosciuto soltanto dall’autista del camion.

Kurt Gerstein

Partimmo alla volta della fabbrica di potassio presso Collin (Praga). Caricato il camion, partimmo per Lublino (Polonia). Prendemmo con noi il dottor Pfannenstiel, ordinario d’igiene all’Università di Marbourg/Lahn. A Lublino, ci attendeva l’SS-Gruppenführer Globocnik. Questi ci disse: “È una faccenda delle più segrete, anzi la più segreta di tutte. Chiunque ne parlerà sarà immediatamente fucilato. Proprio ieri due chiacchieroni sono stati fucilati”.

Poi ci spiegò: “Attualmente (era il 17 agosto 1942) esistono tre istallazioni:
1. Belzec, sulla strada Lublino-Lemberg, nella zona della frontiera russa. Massimo al giorno, 15.000 persone. (visto!)
2.) Sobibor, non so esattamente dove, non l’ho visto, 20.000 persone al giorno.
3.) Treblinka, 120 km NNE di Varsavia, 25.000 al giorno (visto!)
4.) Maidanek, presso Lublino, visto in via di allestimento.

Globocnik disse: “Occorrerà disinfettare una grandissima quantità di vestiti, dieci o venti volte il quantitativo della Spinnstoffsammlung (collezione di vestiti e tessili), lo si fa per oscurare la provenienza dei vestiti di ebrei, polacchi, cechi, ecc. Altro vostro compito sarà di cambiare il servizio delle nostre camere a gas, che funzionano con lo scappamento di un vecchio motore Diesel, con qualcosa di più tossico e di più rapido effetto, quale l’acido prussico.

Kurt Gerstein

Il Führer e Himmler, che erano qui l’altro ieri, il 15 agosto, mi hanno ordinato di accompagnare io stesso tutti coloro che devono vedere le istallazioni”. Allora il professor Pfannenstiel: “Ma cosa dice il Führer?” Allora Globocnik, ora capo della polizia e SS a Trieste della riviera Adriatica: “dice ‘più presto, più presto, realizzare tutta l’azione!’ Allora il direttore del Ministero degli Interni, dottor Herbert Lindner: non era meglio bruciare i corpi, anziché sotterrarli? Forse un’altra generazione la penserebbe in un altro modo.

Allora Globocnik: ‘ma signori, se mai dovesse esserci dopo di noi una generazione così vile, così cariata da non comprendere la bontà del nostro operato, allora, signori, tutto il nazionalsocialismo ci sarà stato per niente. Al contrario, bisognerebbe sotterrare delle tavole di bronzo che ricordassero che fummo noi, noi che avemmo il coraggio di realizzare quest’opera gigantesca!’

Allora Hitler: Sì, mio bravo Globocnik, è anche la mia opinione!”‘. Il giorno dopo partimmo per Belzec. Una piccola stazione speciale di due sole banchine è addossata alla collina di sabbia gialla, subito a nord della strada e della ferrovia Lublino-Lemberg. A sud, vicino alla massicciata, qualche casa di servizio con il cartello: “Ufficio Belzec delle SS armate”.

Odilo Globocnik

Globocnik mi presentò all’SS-Hauptsturmführer Obermeyer, di Pirmansens, che mi mostrò con molta reticenza le istallazioni. Quel giorno non si videro i morti, ma l’odore di tutta la regione era pestilenziale. Di fianco alla stazione c’era una grande baracca “guardaroba” con uno sportello “valori”. Poi. una sala con 100 sedie, “parrucchiere”. Poi un corridoio scoperto di 150 metri, filo spinato ai due lati, e cartelli “ai bagni e inalazioni”!

Davanti a noi un edificio tipo stabilimento per bagni; a destra e a sinistra, grandi vasi di cemento con gerani o altri fiori. Dopo essere saliti per una scaletta, a destra e a sinistra, tre e tre locali come dei garage, 4 metri per 5, 1,90 metri d’altezza. Al ritorno, non visibili, porte in legno. Sul tetto, la stella di David in rame. Prima dell’edificio, la scritta “Fondazione Heckenholt”. Quel pomeriggio non ho visto altro.

L’indomani mattina, dieci minuti prima delle sette, mi fu annunciato: “tra dieci minuti arriverà il primo treno!” E infatti, dopo pochi minuti, arrivò il primo treno da Lemberg, 45 vagoni contenenti 6.700 persone, 1.450 già morte al loro arrivo. Dietro al filo spinato delle finestrelle, bambini gialli, pieni di paura donne, uomini. Il treno arriva: 200 ucraini obbligati a questo servizio liberano le porte e con scudisci di cuoio cacciano le persone fuori dai vagoni.

Allora un grande altoparlante dà le istruzioni: all’aperto, qualcuno nella baracca, togliersi tutti i vestiti nonché le protesi e gli occhiali. Con un pezzetto di spago distribuito da un bambino ebreo di 4 anni, legare fra loro le scarpe. Consegnare tutti i valori, tutto il denaro allo sportello “valori” senza riceverne un tagliando, senza una ricevuta.

Le donne e le ragazze, farsi tagliare con una o due sforbiciate i capelli, che spariscono in grossi sacchi da patate. “Servono per fare qualche cosa di particolare per i sottomarini, rivestimenti, ecc.” mi dice la SS-Unterscbarführerdel servizio. Allora la marcia comincia: a destra e a sinistra il filo spinato, dietro due dozzine di ucraini con il fucile. Guidati da una ragazza straordinariamente bella, si avvicinano. Io stesso, con lo Hauptmann Wirth, polizia, ci troviamo davanti alle camere della morte. Completamente nudi gli uomini, le donne, le ragazze, i bambini, i neonati, quelli con una sola gamba, tutti nudi, passano.

In un angolo, un robusto SS che ad alta voce pastorale dice ai poveretti: “Non vi succederà niente! Basterà respirare molto profondamente, fortifica i polmoni, questa inalazione, è un mezzo per evitare le malattie contagiose, è una bella disinfezione!” Gli viene chiesto quale sarà la loro sorte. Risponde: “veramente, gli uomini devono lavorare, costruire delle strade e delle case. Ma le donne non sono obbligate. Solo se vogliono possono aiutare a rassettare o in cucina”.

Per qualcuno di questi poveretti piccola speranza, ancora una volta sufficiente per farli camminare senza resistenza verso le camere della morte. La maggioranza di essi sa tutto, l’odore indica loro la sorte! Ora salgono su per la scaletta e… vedono la verità! Madri, nutrici con i bebè al seno, nude, molti bambini di tutte le età — nudi — esitano ma entrano nelle camere della morte, i più senza dire una parola, sospinti dagli altri che vengono dietro di loro, mossi dagli scudisci delle SS.

Un’ebrea, circa quarant’anni, gli occhi come due fiaccole, invoca il sangue dei loro figli su di loro. Riceve cinque scudisciate sul viso da parte dello stesso Hauptmann di polizia Wirth e scompare nella camera a gas. Molti recitano le loro preghiere; altri chiedono: “Chi ci darà dell’acqua per la morte?” (rito israelita?). Le SS spingono gli uomini nelle camere: “Riempirle bene”, ha ordinato lo Hauptmann Wirth. Gli uomini nudi stanno in piedi ai piedi degli altri, 700-800 su 25 metri quadrati, 45 metri cubi! Le porte vengono chiuse.

Auschwitz

Nel frattempo, gli altri del treno, nudi, attendono. Qualcuno mi dice: “Nudi anche in inverno! Ma possono morirne!” “E per questo, quindi, che sono qui!” era la risposta! In quel momento comprendo perché “Fondazione Heckenholt”. Heckenholt è l’autista del “Diesel” i cui gas di scappamento sono destinati a uccidere i poveretti. L’SS Unterscbarführer Heckenholt fa fatica a far funzionare il motore Diesel. Ma non funziona!

Arriva lo Hauptmann Wirth. Si vede, ha paura perché io vedo il disastro. Si, io vedo tutto, e aspetto. Il mio cronometro “stop” ha segnato tutto, 50 minuti, 70 minuti, il Diesel non funziona! Gli uomini aspettano nelle camere a gas. Invano. Si sentono piangere “come nella sinagoga”, dice l’SS-Sturmbannführer professor dott. Pfannenstiel, ordinario di igiene all’università di Marbourg/Lahn, l’orecchio contro la porta di legno. Lo Hauptmann Wirth, furioso, sferra 11, 12 scudisciate sul viso dell’ucraino, che è l’aiutante di Heckenholt.

Dopo 2 ore e 49 minuti — l’orologio stop ha registrato tutto — il Diesel si mette in moto. Fino a quel momento gli uomini, nelle quattro camere a gas già stipate, vivono, vivono, 4 volte 750 persone in 4 volte 45 metri cubi! Passano altri 25 minuti. Molti, è vero, sono già morti. È quanto si vede dalla finestrella attraverso la quale la lampada elettrica fa vedere per un momento l’interno della camera. Dopo 28 minuti pochi sopravvivono ancora. Dopo 32 minuti, infine, tutti sono morti.

Dall’altro lato dei lavoratori aprono le porte di legno. È stata promessa loro — per il loro terribile servizio — la libertà, e una piccola percentuale del ricavo dei valori e del denaro trovato. Come colonne di basalto, le vittime sono ancora in piedi, non essendoci il ben che minimo spazio per cadere o piegarsi. Anche da morti, si riconoscono ancora le famiglie che si stringono per mano. Si dura fatica a separarli per vuotare le camere per il carico successivo. Si gettano via i corpi. bluastri, umidi di sudore e di orina, le gambe impastate di escrementi e di sangue mestruale.

Kurt Gerstein

Tra tutti, i bebè, i cadaveri dei bambini. Ma non c’è tempo! Due dozzine di addetti si occupano di controllare le bocche, che aprono con dei ganci di ferro. “Oro a sinistra, niente oro a destra!” Altri controllano gli ani e i genitali, cercando monete, brillanti, oro, ecc. Dei dentisti strappano con dei martelletti denti d’oro, ponti, corone.

In mezzo a tutti, lo Hauptmann Wirth. È nel suo elemento e, mostrandomi un grande barattolo pieno di denti, mi dice: “sentite voi stesso il peso dell’oro! È solamente di ieri e dell’altro ieri. E non immaginate cosa troviamo ogni giorno! I dollari, i brillanti, l’oro! Ma guardate voi stesso!” Mi guidò da un gioielliere che aveva la responsabilità di tutti questi valori. Mi fecero vedere anche uno dei direttori del grande magazzino dell’ovest, Berlino, “Kaufhaus des Westens”, e un ometto al quale si faceva suonare il violino, capi del commando dei lavoratori ebrei.

“È un capitano dell’armata imperiale austriaca, cavaliere della Croce di ferro tedesca di I classe!” mi disse lo Hauptsturmführer Obermeyer. I corpi delle vittime furono poi gettati in grandi fosse di circa 100 x 20 x 12 metri, situate vicino alle camere a gas. Dopo qualche giorno i corpi si gonfiavano e il tutto si sollevava di 2 o 3 metri, a causa dei gas che si formavano nei cadaveri. Dopo qualche giorno. cessato il gonfiamento, i corpi ricadevano insieme.

Il giorno successivo le fosse furono nuovamente riempite e coperte con 10 cm di sabbia. Qualche tempo dopo — ho sentito — sono state fatte delle griglie con rotaie ferroviarie e si sono bruciati i cadaveri con olio Diesel e benzina, per fare scomparire i cadaveri. A Belzec e a Treblinka non ci si è presi la briga di calcolare con un minimo di esattezza il numero degli uomini uccisi. Le cifre diffuse dalla British Broadcasting Co. Radio senza filo non sono giuste. In realtà si tratta complessivamente di circa 25.000.000 uomini. Non soltanto ebrei, ma polacchi e cèchi biologicamente senza valore, secondo l’opinione dei nazisti. La maggior parte è morta anonima.

Delle commissioni di pseudomedici, in realtà semplici giovani delle SS con camici bianchi e limousines, percorrevano i villaggi e le città della Polonia e della Cecoslovacchia per indicare i vecchi, i tubercolotici, i malati da far sparire, qualche tempo dopo, nelle camere a gas. Erano i polacchi, i cechi della “N° III”, che non erano degni di vivere ancora perché non potevano più lavorare. Lo Hauptmann di polizia Wirth mi pregò di non proporre a Berlino qualunque altro metodo delle camere a gas e di lasciare tutto com’era.

Io mentii — quello che avrei fatto in ogni caso — che l’acido prussico era distrutto dal trasporto e divenuto pericolosissimo. Che quindi sarei stato obbligato a sotterrarlo — cosa che si fece subito dopo. L’indomani, con la macchina dello Hauptmann Wirth, andammo a Treblinka, a circa 120 km a NNE di Varsavia. L’istallazione di questo luogo della morte era pressoché la stessa di Belzec, ma ancora più grande. 8 camere a gas e delle vere montagne di vestiti e di biancheria, circa 35-40 m d’altezza. Allora, in nostro “onore”, si fece un banchetto insieme a tutti gli impiegati dello stabilimento.

L’Obersturmbannführer professor dottor Pfannenstiel, ordinario di igiene all’università di Marburg-Lahn, pronunciò un discorso: “La vostra opera è un grande compito davvero utile e necessario”. Con me solo parlava di questo istituto come di “bellezza del lavoro e di una cosa umana”. A tutti: “Se si vedono i corpi degli ebrei, ben si comprende la grandezza della vostra opera!”

Il pranzo era semplice ma, secondo l’ordine di Himmler, gli addetti a questo servizio ricevevano ciò che volevano, come burro, carne, alcolici, ecc. Al momento del commiato ci offrono parecchi chili di burro e un gran numero di bottiglie di liquore. Mi dispiaceva mentire che avevo a sufficienza di tutto dalla nostra fattoria. Per questo motivo Pfannenstiel prese anche la mia parte.

In automobile, andammo a Varsavia. Aspettando invano una cuccetta libera, incontrai il segretario della legazione svedese, il signor barone von Otter. Essendo tutte le cuccette occupate, passammo la notte nel corridoio del vagoneletto. Là, sotto l’impressione recente, gli ho raccontato ogni cosa, con la preghiera di riferire tutto al suo governo e a tutti gli Alleati. Mi chiese una referenza sul mio conto. Gli ho dato l’indirizzo del Generalsuperintendent D. Otto Dibelius, Berlino — Lichterlfelde-West, Brüderweg 2 — amico di Martin Niemöller e capo della resistenza protestante contro il nazismo.

Qualche settimana dopo ho rivisto altre due volte il barone von Otter. Mi disse di avere fatto il suo rapporto al governo svedese, un rapporto che, stando alle sue parole, ha avuto un gran peso sulle relazioni tra la Svezia e la Germania. Il mio tentativo di riferire tutto questo al capo della legazione del Santo Padre non ha avuto un gran successo. Mi si domandò se ero soldato. Allora mi si rifiutò qualunque colloquio.

Allora ho fatto un rapporto dettagliato al segretario dell’episcopato di Berlino, dottor Winter, affinché riferisse tutto ciò al suo vescovo di Berlino e perciò alla legazione del Santo Padre. All’uscita dalla legazione del Santo Padre nella Rauchstrasse di Berlino, ho fatto un incontro molto pericoloso con un poliziotto che mi pedinava ma, dopo qualche minuto molto sgradevole, mi lasciò fuggire.

Devo aggiungere che l’SS-Sturmbannführer Günther, del Reichssicherheitshauptamt, mi chiese all’inizio del 1944 delle grandi forniture di acido prussico per uno scopo oscuro. L’acido doveva essere consegnato a Berlino, al suo ufficio della Kurfürstenstrasse nel suo luogo di servizio. Riuscii a fargli credere che la cosa non era possibile perché era troppo pericolosa. Si trattava di molti vagoni di acido tossico, sufficienti per uccidere molti uomini, dei milioni! Mi aveva detto di non essere sicuro se, quando, per quale carico di persone, in che modo e dove ci sarebbe stato bisogno di quel veleno.

Non so esattamente quale fosse l’intenzione del Reichssicherheitshauptamt e dell’SD. Ma poi ho ripensato alle parole di Goebbels, “chiudere le porte dietro a loro, se il nazismo non fosse riuscito”. Forse volevano uccidere una gran parte della popolazione tedesca, forse i lavoratori stranieri, forse i prigionieri di guerra — non lo so! A ogni modo io ho fatto scomparire l’acido subito dopo il suo arrivo, per necessità di disinfezione. La cosa era abbastanza pericolosa per me, ma se mi avessero domandato dove si trovava l’acido tossico, avrei risposto che era già in stato di dissoluzione pericolosa, e perciò lo dovevo utilizzare per la disinfezione.

Sono sicuro che Günther — il figlio di Rassen Gunther — secondo quanto egli stesso aveva detto, aveva l’ordine di procurarsi l’acido per uccidere eventualmente milioni di persone, forse anche nei campi di concentramento. Io ho fatture a mio nome per 2175 chili, ma in realtà si tratta di circa 8.500 chili, sufficienti per uccidere 8 milioni di persone. Ho fatto stilare le fatture a mio nome col pretesto della discrezione, in realtà per essere più libero di poter dare delle disposizioni e per far scomparire meglio l’acido tossico.

Non ho mai pagato queste ordinazioni per evitare il rimborso, e ricordare in tal modo questo stock all’SD. Il direttore della DEGESCH, che aveva provveduto a questa fornitura, mi ha detto che ha fornito dell’acido prussico in ampolle per uccidere delle persone.

Un’altra volta Gunther mi consultò per chiedermi se era possibile uccidere un gran numero di ebrei all’aria aperta, nei fossati di fortificazione di Theresienstadt. Per impedire che si realizzasse questa idea diabolica, dissi che quel sistema era impossibile. Qualche tempo dopo, ho sentito dire che l’SD si era procurato in altro modo l’acido prussico per uccidere quella povera gente a Theresienstadt. I campi di concentramento più terribili non erano né Oranienburg né Dachau né Belsen, ma Auschwitz (Oswiecim) e Mauthausen-Gusen presso Linz sul Danubio. È là che sono scomparsi milioni di uomini in camere a gas, in veicoli impiegati come camere a gas.

Il sistema usato per uccidere i bambini consisteva nel tener loro sotto il naso un tampone imbevuto di acido prussico. Io stesso ho visto degli esperimenti protratti fino alla morte su delle persone nei campi di concentramento. Così, l’SS-Hauptsturmführer Gundlach, dottore in medicina, ha svolto simili esperimenti nel campo femminile di Ravensbrück presso Furstenberg-Mecklenburg. Ho letto parecchi rapporti — nel mio ufficio — circa simili esperimenti a Buchenwald, ad esempio esperimenti fino a 100 tavolette di Pervitine al giorno.

Altri esperimenti (ogni volta su circa 100-200 persone) sono stati condotti fino alla morte con siero, linfa, ecc. Himmler stesso si era riservata l’autorizzazione su tali esperimenti. Un giorno, nel campo di concentramento di Oranienburg, ho visto scomparire tutti i detenuti imprigionati per perversione (omosessualità). Ho evitato di visitare spesso i campi di concentramento perché c’era l’usanza — soprattutto a Mauthausen Gusen presso Linz — di impiccare uno o due prigionieri in onore dei visitatori.

A Mauthausen c’era l’abitudine di far lavorare gli ebrei in una cava situata molto in alto. Dopo un pò, le SS in servizio dicevano: “Attenzione, fra qualche minuto ci sarà una disgrazia!” e in effetti dopo uno o due minuti qualche ebreo veniva lanciato giù dalla cava e cadeva morto ai nostri piedi. “Incidente sul lavoro”, veniva registrato sui documenti degli uccisi. Il dottor Fritz Krantz, SSHauptsturmführer antinazista, mi ha spesso raccontato simili episodi, che egli condannava e rendeva spesso pubblici.

I crimini scoperti a Belsen, Oranienburg ecc. sono poca cosa rispetto a quelli che sono stati effettuati ad Auschwitz e a Mauthausen. Ho l’intenzione di scrivere un libro sulle mie avventure con i nazisti. Sono disposto a giurare che tutte le mie dichiarazioni sono totalmente vere. (firma autografa: Kurt Gerstein)

 Le sei versioni del rapporto Gerstein

Del rapporto Gerstein esistono sei versioni: quattro redatte in francese e due in tedesco. Le diverse versioni si riecheggiano tra loro, spesso parola per parola, sebbene divergano su certi punti. Il testo trascritto corrisponde alla versione più conosciuta, che nella tesi di dottorato del negazionista Henri Roques (1985) viene denominata T II.

Prima di passare alla fase esplicitamente negazionista della sua tesi, Roques passa in rassegna i sei testi che vanno sotto il termine-ombrello di Gerstein Bericht (rapporto Gerstein). In precedenza, i vari autori che si erano confrontati con questo documento in una o più delle sue versioni avevano spesso tralasciato di segnalare l’esistenza delle altre.

Roques

La prima operazione da compiere nell’affrontare il modo in cui la testimonianza di Gerstein è stata letta dai diversi interpreti che se ne sono occupati è dunque una breve ricostruzione delle caratteristiche e delle circostanze di redazione dei sei testi in esame. Per fare ciò, ci si può avvalere proprio dello studio comparativo proposto da Roques, il quale — sulla scia di Faurisson, suo nume tutelare — dimostra una propensione naturale verso la minuziosa lettura dei testi al fine di stanarne le sbavature reali o fittizie che siano.

Un simile atteggiamento sospettoso non è di per sé privo di una certa utilità filologica, naturalmente a patto che non conduca alla paranoia interpretativa e soprattutto che non venga messo al servizio di una tesi ideologicamente motivata. L’esistenza di una varietà di versioni del rapporto Gerstein fornisce alcuni appigli su cui i negazionisti hanno potuto aggrapparsi per sostenere l’inutilizzabilità di questo documento ai fini di una storiografia del sistema concentrazionario.

Infatti, la tesi negazionista prospera ovunque ci sia ambiguità o pluralità interpretativa, in quanto per il negazionista ogni testo la cui interpretazione non sia cristallina e univoca è da respingere in toto. Ne deriva il rifiuto dell’intera categoria delle testimonianze, le quali non raggiungono mai quel grado di esattezza che i negazionisti pretendono dai documenti storici.

La problematicità del documento in esame è inoltre accentuata dall’aura di mistero che circonda la figura del suo autore, la cui apparente doppiezza -membro delle SS che si professa nemico del regime nazista — ha spinto i suoi biografi ad avanzare ipotesi discordanti sul suo conto. Perfino la morte di Gerstein, avvenuta per impiccagione il 25 luglio 1945 nella sua cella della prigione militare di Cherche-Midi e ufficialmente riconosciuta come dovuta a suicidio, è piuttosto misteriosa e dà adito alle più svariate congetture (sebbene l’ipotesi del suicidio rimanga la più verosimile).

La prigione di Cherche-Midi

Le versioni la cui autenticità formale non può essere contestata sono quelle manoscritte (T I e T IV) e quella firmata dall’autore (T II). D’altra parte, T V non crea problema da questo punto di vista in quanto si tratta della trascrizione dell’interrogatorio al quale Gerstein fu sottoposto il 6 maggio 1945. Dunque, le uniche versioni la cui autenticità è da assodare sono T III e T VI, ovvero quelle redatte in tedesco.

Una breve cronologia può essere utile per ricostruire le circostanze di redazione dei vari testi.
Il 22 aprile 1945, temendo di essere arrestato in quanto membro delle SS, Gerstein si consegna in mano al comandante francese di Reutlingen. Poco dopo viene trasferito a Rottweil, all’Hotel Mohren, col solo obbligo di presentarsi una volta al giorno alla gendarmeria francese. Fiducioso di poter dimostrare la propria estraneità rispetto ai crimini di guerra nazisti, Gerstein si accinge a stilare il suo rapporto, destinato agli ufficiali francesi che lo detengono.

Così, il 26 aprile scrive a mano il rapporto (T I) e lo batte a macchina (T II), impiegando una macchina da scrivere messa a sua disposizione dai francesi e apportando qualche piccola modifica a T I nell’atto della trascrizione. Il fatto che l’autore abbia alterato il testo di partenza (la “brutta”) è del tutto naturale e non dovrebbe destare alcuna sorpresa o sospetto di manomissione da parte di terzi.

Le differenze tra T I e T II riguardano:
• alcune scelte stilistiche e grammaticali — es. “era possibile…” cfr. “fu possibile…”;

• qualche piccola aggiunta: in genere T II fornisce maggiori dettagli topografici ed è più esplicito rispetto a T I — es.: “dei massacri degli imbecilli & alienati” in T I diventa “dei massacri degli imbecilli e alienati a Grafeneck, Hadamar, ecc.” in T II, “molti uomini” diventa “milioni”, ecc. La ricerca di una maggiore precisione documentaria, che cresce a ogni successiva redazione del rapporto, è in linea con la funzione che l’autore attribuisce al suo documento;

• pochissime omissioni di scarso rilievo — es.: “apparecchi di disinfezione locali e motorizzati” in T I diventa “apparecchi di disinfezione” in T II; inoltre, in T II manca il resoconto della resa volontaria di Gerstein ai francesi, avvenuta il 22.4.1945;

• alcune variazioni che incidono sul contenuto informativo del testo, la più importante delle quali riguarda il numero di incontri intercorsi tra l’autore e il barone von Otter dopo il loro primo colloquio sul treno, che in T I è uno laddove in T II sono due;

• una grossa aggiunta, corrispondente a tutta la parte finale di T II (p. 6), che in parte riprende la paginetta supplementare annessa a T I. Questa parte riguarda l’accenno ai metodi cli uccisione impiegati ad Auschwitz (compreso quello del tampone imbevuto di acido per soffocare i bambini), i resoconti delle uccisioni di massa a Theresienstadt e degli esperimenti medici a Ravensbruck e a Buchenwald e, infine, l’improbabile stima del numero complessivo delle vittime del sistema concentrazionario (25 milioni in T II, laddove in T I non viene avanzato alcun calcolo numerico).

Possiamo ipotizzare che i francesi ai quali è destinato il rapporto non vi riconoscano una grande importanza visto che, quando il 5 maggio Gerstein incontra per caso due ufficiali all’albergo in cui risiede (l’americano Haught e l’inglese Evans). egli è ancora in possesso dei documenti in questione, che prontamente consegna agli ufficiali alleati, assieme a una breve dichiarazione manoscritta in inglese, a una serie di fatture per la fornitura di Zyklon B ai campi di concentramento, e a una lettera indirizzata a Gerstein da parte della Degesch, l’azienda fornitrice di Zyklon B.

In seguito, Evans e Haught confermeranno di avere incontrato Gerstein a Rottweil e di avere ricevuto da lui il materiale documentario appena ricordato. Il giorno precedente (4 maggio), Gerstein aveva steso una versione in tedesco del suo rapporto (T III) destinata alla moglie — ignara delle sue attività clandestine durante la guerra — in cui riprendeva i contenuti di T II, aggiungendovi dei supplementi in cui riportava alcune intormazioni di seconda mano sugli altri lager.

Il testo principale di T III presenta qualche ulteriore precisazione rispetto a T II: Gerstein vi fa accenno alla resistenza olandese, fornisce alcune informazioni supplementari sulla disinfezione dei tessili, parla di una montagna di scarpe alta 25 metri, spiega che l’episodio degli ebrei gettati dalla cava gli è stata raccontata dal dottor Fritz Krantz, ecc. D’altro canto, in T III manca il riferimento ai 25 milioni di vittime dei lager nazisti, così come è assente la stima dell’altezza (35-40 m) delle montagne di vestiti raccolti a Treblinka. Infine le dimensioni delle camere a gas di Belzec vengono leggermente modificate: 5 x 5 m anziché 4 x 5 m.

Le otto mezze pagine supplementari riportano una serie di episodi concentrazionari non esperiti direttamente, tra cui la storia di un bambino sopravvissuto per una notte intera in una camera a gas, quella delle esecuzioni mediante aria compressa ad alta pressione, oppure mediante fucilazione ai bordi dei forni crematori, l’episodio dei bambini le cui teste venivano fracassate contro i muri per non fare rumore con le armi da fuoco, quello delle vittime che dovevano scavarsi le fosse comuni e sdraiarvisi dentro prima di essere fucilate.

È chiaro che simili aneddoti raccontati nell’atmosfera ancora surriscaldata dell’immediato dopoguerra combinavano, assieme a una serie di informazioni attendibili, alcune esagerazioni grossolane, se non addirittura delle invenzioni vere e proprie (era costume dei nazisti stessi, prima ancora che dei loro avversari, di riferire storie truculente sui campi di sterminio per esaltare la portata della loro missione e l’efficienza del sistema da loro creato).

Gerstein voleva che la sua testimonianza fosse il più possibile esaustiva e perciò vi includeva tutto ciò che gli veniva in mente a proposito dell’organizzazione dei campi di sterminio. Non essendo un alto ufficiale delle SS, la sua visione del sistema concentrazionario non poteva che essere parziale e intessuta di “sentito dire”.

T III viene battuto su una macchina per scrivere tedesca quella del pastore Hecklinger con il quale Gerstein ha stretto amicizia durante il suo soggiorno a Rottweil. Il rapporto non viene mai spedito alla moglie e verrà ritrovato un anno dopo nell’Hotel Mohren. Il 6 maggio (il giorno dopo il suo incontro con Haught ed Evans), Gerstein viene interrogato dai servizi dell’O.R.C.G. (Organe de Recherches des Criminels de Guerre): la copia dell’interrogatorio è la versione T V del rapporto.

Qui, Gerstein si dilunga di più su alcuni aspetti: i suoi contatti con la resistenza olandese durante la guerra, i suoi tentativi di diffondere la notizia delle gassazioni affinché arrivasse alle orecchie degli alleati e la sua personale crisi interiore quando venne a contatto con gli orrori dei lager. Non ci vuole una laurea in psicologia per capire che, premendo sul tasto della propria partecipazione alle attività antinaziste, Gerstein vuole dimostrare la sua innocenza ai giudici che lo interrogano.

Le inesattezze che compaiono in questo testo (es. “esecuzione” anziché “esclusione dal partito nazista, “Hockelchoc” al posto di “Heckenholt”. ecc.) sono dovute a errori da parte del dattilografo, alle prese con la cattiva pronuncia francese dell’interrogato. Come in T III, Gerstein riferisce che le camere a gas di Treblinka erano grandi 5 x 5 metri; diversamente da T III, tuttavia. parla di una montagna di scarpe alta 35/40 metri (“più di 25 m in T III: forse Gerstein si confonde con la montagna di vestiti a Treblinka), si sbaglia sulla lista dei
campi che ha visitato (“ho visitato a fondo tutti questi luoghi, a eccezione di Maidanneck [anziché Sobibor”: probabilmente un semplice lapsus]) e riporta la stima, leggermente ridimensionata rispetto a T II, di 20 milioni di vittime dei campi nazisti.

Anche le altre due versioni (T IV e T VI) recano la data del 6 maggio 1945. La prima, scritta nel solito francese stentato di Gerstein, è composta di una parte principale di nove mezze pagine (che riproducono le precedenti versioni ma si fermano prima della descrizione delle gassazioni) e di nove mezze pagine supplementari (in cui troviamo dei passi non presenti in T I e T II ma ripresi in T V e T VI), tutte manoscritte.

Come nella versione tedesca T III, i supplementi riguardano le storie di seconda mano di cui Gerstein è venuto a conoscenza da varie fonti. T VI, infine, è molto simile al testo dell’interrogatorio (T V) sebbene corregga alcuni degli errori segnalati sopra, tra cui l’ortografia di alcuni nomi e il riferimento ai lager visitati. Le differenze riguardano dettagli minori, quali l’età delle bambine ebree che si inginocchiano di fronte all’SS Haller (3 e 5, anziché 5 e 8) e il numero di vittime prodotte a Belzec ogni giorno (1000 anziché 11.000 — errore di battitura?).

L’ultima parte del rapporto, in cui Gerstein avanza delle riflessioni personali sulla necessità di non fare di ogni erba un fascio quando si parla delle SS, viene ulteriormente sviluppata in T VI. Le circostanze del ritrovamento di T VI sono complesse. Secondo Friedländer, “Un testo tedesco del rapporto datato “Tubingen, attualmente Rottweil, Hotel Mohren, 6 maggio 1945″ proviene da un certo Stass che, a sua volta, l’avrebbe ricevuto da un funzionario di polizia di Hersfeld nell’estate 1945, mentre ritornava dal campo di Buchenwald a Colonia”. (Friedlander, 1967)

In mancanza di ulteriori elementi che ci consentano di precisare i rapporti che intercorrono tra le tre versioni datate 6 maggio 1945 (quale viene prima? perché Gerstein redige tre rapporti lo stesso giorno?), non ci rimane che avanzare delle ipotesi: forse con T IV (la versione manoscritta) Gerstein si preparava all’interrogatorio, ricapitolando per l’ennesima volta la sua esperienza nei campi.

In questo caso si spiegherebbe il fatto che la prima parte del testo venga bruscamente troncata per passare alla parte supplementare: l’autore non aveva bisogno di completarla perché, avendola scritta più volte in precedenza, la conosceva a memoria, laddove con i supplementi cercava di riordinarsi le idee circa gli episodi di cui aveva sentito raccontare sugli altri campi nazisti.

T VI potrebbe essere stato battuto dopo T V (l’espansione di alcuni segmenti testuali lo suggerisce) — dunque dopo l’interrogatorio — forse su richiesta dei giudici che volevano accompagnare il testo dell’interrogatorio a una versione in lingua originale, oppure su iniziativa di Gerstein stesso, o ancora poteva essere destinato a un altro corrispondente dell’autore, al quale il rapporto non è mai giunto per delle circostanze a noi ignote. A priori, nessuna ipotesi può essere esclusa — nemmeno quella, sostenuta da Roques, secondo il quale T VI sarebbe il frutto di una riscrittura a partire dal testo dell’interrogatorio, a opera dei giudici stessi.

Pur tenendo aperte tutte le ipotesi, prima o poi occorre tuttavia decidere quale sia la più convincente in base agli indizi a nostra disposizione. L’unico criterio di cui ci possiamo avvalere per compiere tale decisione è quello, eminentemente pragmatico, dell’economia interpretativa, in base al quale l’ipotesi della falsificazione rimane sempre l’ultima possibilità da prendere in considerazione solo quando tutte le altre si siano dimostrate insostenibili.

Il 26 maggio 1945 Gerstein scrive una lettera alla moglie consigliandole di presentarsi di fronte al governatore militare munita del rapporto annesso alla lettera (T IV e T III) nel caso dovesse avere dei guai con la giustizia. Lo stesso giorno viene trasferito a Costanza e all’inizio di giugno passa a Parigi, dove viene interrogato dopo due settimane. L’interrogatorio non ha l’esito sperato da Gerstein: lungi dall’essere celebrato come un eroe di guerra, viene incarcerato nella prigione militare di Cherche-Midi “per assassinii e complicità in assassinio”. Il 25 luglio Gerstein viene ritrovato morto nella sua cella.

Il documento Gerstein dopo la morte dell’autore

La versione T II del rapporto Gerstein venne scoperta negli archivi della delegazione americana durante il primo grande processo di Norimberga e presentata alla corte il 30.1.1946 dal procuratore generale aggiunto della Repubblica francese, Charles Dubost. Quella mattina, il documento venne rifiutato dal presidente del Tribunale in quanto mancava un certificato che ne stabilisse l’origine: dunque, si trattava di un vizio di forma. Difatti, il pomeriggio stesso il procuratore generale britannico produsse l’affidavit per l’identificazione dell’originale e il documento fu accettato come autentico, con le scuse del presidente.

Charles Dubost

Inutile dire che alcuni negazionisti hanno invocato questo piccolo incidente giuridico quale prova definitiva della presunta inautenticità del documento in questione. La traduzione tedesca di T II fu chiamata in causa nel corso dell’udienza del 16.1.1947 del processo dei medici a Norimberga e fu nuovamente impiegata in altri processi, come quello dei responsabili dell’I.G. Farben a Francoforte.

Abbiamo visto che, subito dopo la guerra, Gerstein fu classificato tra i criminali nazisti. Il suo caso venne riesaminato a titolo postumo nel 1950 dalla Camera di epurazione di Tubinga, che concesse delle circostanze attenuanti a Gerstein e lo inserì nella categoria dei piccoli criminali nazisti con la motivazione che, pur non essendo direttamente responsabile dei crimini di guerra, egli avrebbe potuto fare di più per combattere il regime.

Poliakov

La condanna, sia pure mitigata dal verdetto del 1950, fu definitivamente annullata nel 1965, quando Gerstein venne riabilitato in quanto estraneo ai crimini nazisti che egli rifiutò di assecondare “con tutte le sue forze”. Tra il 1950 e il 1965, il rapporto Gerstein fu oggetto di varie pubblicazioni che, suscitando un rinnovato interesse per la figura storica di Gerstein, probabilmente influirono sulla decisione della sua assoluzione ufficiale.

Nel 1951 (Le Bréviaire de la Haine) Léon Poliakov pubblica un estratto della versione dattiloscritta del 26.4.1945 (T II); la versione tedesca del 4.5.1945 (T III) viene invece diffusa sulle pagine della rivista storica Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte nel 1953 da Hans Rothfels, il quale, assieme ad altri specialisti, ne sostiene l’autenticità formale.

Il caso Gerstein giunge all’attenzione del grosso pubblico grazie al testo teatrale di Rolf Hochhuth (Der Stellvertreter — traduzione italiana, Il Vicario), che nel 1962 propone un ritratto assolutorio del controverso personaggio. Sull’onda dell’interesse suscitato dall’opera di Hochhuth, nel 1964 esce la prima biografia di Gerstein, scritta da un amico del protagonista (Helmut Franz). Infine, le due biografie principali di Gerstein vengono pubblicate nel 1967 (Friedländer) e nel 1969 (Joffroy).

Gli attacchi dei negazionisti

Della testimonianza di Kurt Gerstein si sono occupati quasi tutti gli autori negazionisti, nel
tentativo di eliminarla dal novero dei documenti utili a una storiografia della seconda guerra mondiale. Le strategie impiegate a questo proposito sono raggruppabili in due categorie principali: le prime sono tese a dimostrare l’inautenticità formale del rapporto, le seconde ne mettono in dubbio la veridicità.

Questo attacco su due fronti che abbiamo già rimarcato a proposito delle letture negazioniste dei diari di Anne Frank — spesso sfocia in argomentazioni disordinate e incongruenti, che denunciano una grande sproporzione tra la volontà demistificatrice e l’acume critico esibito da questi autori.

Il primo negazionista a occuparsi del rapporto Gerstein è Paul Rassinier (l’ex detenuto di Buchenwald affetto da sindrome di Stoccolma), che dapprima si limita a sostenere che questo documento è il frutto di un’impostura storica, senza tuttavia fornire alcuna argomentazione riconoscibilmente storiografica a sostegno della sua tesi, e poi — in Le Drame des juifs européens (1964) — comincia ad abbozzare un insieme di cosiddette prove per giustificare il suo radicale scetticismo.

Rassinier indugia sul mistero che circonda le circostanze della stesura del rapporto e della morte di Gerstein ma, nel farlo, avvolge di segretezza alcuni elementi che in realtà sono perfettamente limpidi. Secondo Rassinier, infatti, non si conoscono: la data dell’ingresso delle truppe francesi a Rottweil, le condizioni dell’incontro di Gerstein con i due ufficiali alleati, la prigione in cui egli fu incarcerato a Parigi, le modalità e la data della sua morte. Tutto ciò — insinua Rassinier — “mi sembra spiegare molte cose”.

Quali siano queste cose non ci viene detto. Oltrettutto, come ha fatto notare Georges Wellers, pressoché tutte le “circostanze misteriose” citate da Rassinier sono esaurientemente documentate, se solo le si vuole chiarire. L’ingresso delle truppe francesi a Rottweil avvenne il 21.4.1945, l’incontro con gli ufficiali anglo-americani è confermato da un rapporto steso dagli stessi Evans e Haught il 5.5.1945, mentre dai documenti della Giustizia Militare francese si apprende che la prigione parigina di Gerstein è il carcere di Cherche-Midi e che la sua morte, che secondo il medico legale del carcere fu dovuta a un suicidio, avvenne il 25.7.1945.

La seconda argomentazione impiegata da Rassinier riguarda prevedibilmente il rifiuto del
Tribunale di Norimberga di includere il rapporto Gerstein tra le testimonianze formalmente valide, la mattina del 30.1.1946. Come abbiamo visto, l’incidente fu risolto poche ore dopo senza molto clamore. Ciò nonostante, secondo Rassinier, “il documento Gerstein era un falso storico così falso che lo stesso Tribunale di Norimberga l’aveva escluso come non probante, il 30 gennaio 1946”.

Passando dal versante dell’autenticità a quello della veridicità, Rassinier elenca una serie di presunte inverosimiglianze contenute all’interno del rapporto. Spesso egli non spiega i motivi per cui una certa frase dovrebbe destare l’ilare incredulità del lettore, ma si limita a citarla con tono sarcastico come se non ci fosse bisogno di altro per fare scattare lo scetticismo.

Ad esempio, Rassinier si sbalordisce di fronte al fatto che — in occasione del suo incontro con Gerstein — Globocnik non abbia ancora trovato un mezzo di sterminio più efficiente “del… gas di scarico dei motori Diesel (!) che fa arrivare in camere specialmente attrezzate a tale scopo”. È solo la punteggiatura che indica al lettore l’atteggiamento diffidente che egli deve assumere, mentre manca ogni forma di argomentazione logica basata su indizi e interpretazioni.

Rassinier ironizza inoltre sulla visita di Hitler e Himmler a Lublino il 15 agosto 1942, evidente falso storico. Ma Wellers ha giustamente osservato che non si tratta di una affermazione di Gerstein stesso, bensì di una dichiarazione fatta da Globocnik durante la sua conversazione con Gerstein e Pfannenstiel: dunque, Gerstein si limita a riportare ciò che gli è stato detto e non vi è motivo di supporre che egli stia mentendo consapevolmente.
“Vera o falsa che sia la visita, in ogni modo Globocnik fa così sentire ai suoi interlocutori l’alto grado della sua intimità con i due personaggi onnipotenti del regime”. (Wellers, 1977)

Rassinier si stupisce di fronte all’inesattezza di certi dati numerici forniti da Gerstein (che in quanto ingegnere non dovrebbe commettere simili errori), quali le dimensioni delle camere a gas di Belzec e il numero di persone stipate sui convogli: “nel corso di questa visita, ha visto le camere al gas di scarico di Diesel e le ha misurate”. Ora, Gerstein non le ha affatto misurate, ma si è limitato a stimarne le dimensioni a occhio nudo. Analogamente, egli non ha contato a una a una le persone sui convogli, ma ha tradotto in cifre (6700) una generica impressione di moltitudine, magari riportando i dati fornitigli da qualche borioso responsabile del campo.

La validità della sua testimonianza oculare non viene minimamente inficiata da simili imprecisioni. Le obiezioni avanzate contro il rapporto Gerstein dal padre fondatore del negazionismo francese non ammontano a molto: Rassinier adotta la tecnica di buttare fumo negli occhi dei suoi lettori, disorientandoli con una serie di dati e cifre spesso del tutto irrilevanti ai fini della sua argomentazione, attingendo a casaccio dalle varie versioni del documento in esame, facendo apparire il discorso riportato come discorso diretto, e assumendo un contegno supponente nei confronti degli storici ufficiali.

Per questo autore, il rapporto Gerstein è stato estorto con la forza da due “minus habens armati fino ai denti” (che poi sarebbero gli ufficiali Haught ed Evans) i quali, dopo averlo scritto, avrebbero costretto Gerstein a firmarlo, aggiungendovi due righe di suo pugno per conferire ad esso un’apparenza di autenticità. Nonostante la fragilità di questa ipotesi, le lettura di Rassinier rimane per anni il riferimento principale di tutti i negazionisti che intendano smantellare la credibilità del rapporto Gerstein.

Arthur Butz

Arthur Butz (1976) riporta la versione T II del rapporto in appendice al suo libro e commenta:
“Risulta difficile credere che chicchessia intendesse che questo “rapporto” venisse preso sul serio. Alcuni punti specifici vengono esammati qui ma, nel complesso, lascio che sia il lettore a meravigliarsene”. (Butz, 1976)

Il lettore che voglia cooperare con questo testo non può fare altro che assumere l’atteggiamento incredulo prescritto dall’autore, senza che gli venga spiegato il perché. Le obiezioni avanzate, presentate come un piccolo campione di tutte le obiezioni possibili (ma stiamo certi che, se Butz ne avesse trovate delle altre, sicuramente non ce le avrebbe risparmiate, la sinteticità non essendo una delle sue maggiori virtù), sono le seguenti:
• la cifra di 25 milioni di vittime dei lager (e non “i 25 milioni di vittime delle camere a gas”, come sostiene Butz) è eccessiva: ma l’esagerazione numerica è una costante di quasi tutte le testimonianze sui lager nazisti, sia da parte dei detenuti, sia da quella dei responsabili dei campi, ed è dovuta all’impatto emotivo suscitato dallo sterminio su chiunque ne sia venuto a contatto, oltre che alla megalomania nazista;


• il grado esatto del professor Pfannenstiel, che in un punto del rapporto è identificato come Obersturmbannführer, mentre altrove è definito Sturmführer, dimostrerebbe che l’autore del testo non può essere un membro delle SS. In realtà Pfannenstiel non viene mai chiamato Sturmführer nel testo di Gerstein, ma semmai Sturmbannführer, e comunque non si vede come un errore commesso da Gerstein a proposito dell’esatto grado di una persona che ha conosciuto superficialmente per pochi giorni, tre anni prima di redigere il suo rapporto, possa influire sulla credibilità complessiva del rapporto stesso;
“Questo Kurt Gerstein non ha decisamente il compasso nell’occhio, e per un ingegnere non è molto lusinghiero” (Rassinier, 1964).


• l’affermazione secondo la quale i detenuti dovevano marciare nudi in inverno sarebbe in evidente contrasto con il fatto che la visita di Gerstein a Belzec abbia avuto luogo in agosto. Qui, Butz è fuorviato da un errore di omissione nella traduzione inglese di T II (naturalmente egli si guarda bene dal controllare il testo originale): “On me dit; aussi en hiver nus!” (“Mi si dice: nudi anche in inverno”) è reso in inglese come “Somebody says me: Naked in winter!”.

Conclusione di Butz:
“come ha osservato Rassinier, se non è vero che Hitler visito mai Lublino, se non è vero che 700/800 persone possono essere contenute in una camera a gas di 25 metri quadrati, se non è vero che in Europa agosto cade d’inverno, e se non è vero che i tedeschi gassarono 25 milioni di persone allora, visto che il documento contiene poco altro, dovremmo chiederci, che cosa contiene di vero?” (Butz, 1976)

La logica impiegata qui è quella induttiva dell’exemplum (la presenza di qualche inesattezza vera o presunta dovrebbe inficiare la validità dell’intero documento), e ha una funzione esclusivamente retorica, mentre è priva di valore dimostrativo. Come Rassinier, nemmeno Butz è in grado di proporre una tesi forte in alternativa all’ ipotesi della autenticità del rapporto Gerstein:
“Non ho idea di quale eventuale collegamento Gerstein avesse con questo documento. Può darsi che, sotto le direttive dei suoi carcerieri, egli abbia cooperato alla sua fabbricazione, o forse non ne ha avuto nulla a che fare. Potrebbe essere possibile deciderlo in base alla firma (presumibilmente autografa) nella prima parte e alla dichiarazione manoscritta riprodotta qui sotto, ma la questione sembra poco meritevole di indagine”. (Butz, 1976)

Le obiezioni di Wilhelm Staglich (1979), negazionista tedesco, sono dello stesso tenore scientifico. La sua grande innovazione rispetto ai negazionisti precedenti consiste nell’osservare che, nel rapporto Gerstein, il lager di Auschwitz-Birkenau è assente dall’elenco dei campi di sterminio esistenti nel 1942:

“Lo si vede, il nome di Auschwitz non compare ancora in questa elencazione di Gerstein, quantunque questi passi per bene informato e che i massacri massicci vi fossero già iniziati, sembra, fin dalla primavera del 1942 […] Il documento” indica che Gerstein era stato incaricato di comandare e di distribuire quello che lui chiama il gas di sterminio Zyklon B”; egli avrebbe dunque dovuto conoscere anche il “campo di sterminio” di Auschwitz”. (Stäglich, 1979)

Nel passo al quale Stäglich si riferisce, Gerstein non sta fornendo delle informazioni generali sul sistema concentrazionario nazista, come invece farà nell’ultima parte del rapporto, dove il campo di Auschwitz viene dovutamente citato. Egli sta rammentando il suo colloquio con il Gruppenfuhrer Globocnik, il quale gli fa una lista dei campi sotto il proprio controllo.

Abbiamo già avuto modo di sospettare che Globocnik fosse un tipo piuttosto vanaglorioso (è lui che riferisce a Gerstein della presunta visita di Hitler e Himmler a Lublino e dei complimenti che Hitler gli avrebbe fatto in quell’occasione): di conseguenza, non è sorprendente che egli ometta di parlare di Auschwitz, ovvero dell’unico campo di sterminio al di fuori del suo controllo.

Senza poi contare che, se l’omissione di Auschwitz dalla lista dei lager di sterminio fosse veramente un’anomalia, e se il rapporto Gerstein fosse veramente contraffatto, non si spiegherebbe il motivo per cui i falsificatori avrebbero tralasciato di citare proprio il campo che, secondo i negazionisti, costituisce il perno stesso dell”‘impostura del XX secolo”.

Un’altra voce che si leva per screditare il rapporto Gerstein è quella di Ditlieb Felderer, il quale — secondo il principale negazionista italiano, Carlo Mattogno (1985: 183) — fornisce delle “interessanti critiche specifiche alla ‘testimonianza’ di Gerstein” nel primo numero del Journal of Historical Review.

Felderer parte dall’affermazione di Gerstein secondo cui a Treblinka vi erano delle montagne di vestiti alte 35-40 metri per intavolare una lunga dissertazione — con tanto di schemini grafici e calcoli trigonometrici — mirata a dimostrare che tale cifra è gonfiata. L’evidente esagerazione di Gerstein meriterebbe al massimo una segnalazione a piè di pagina, se proprio non ci si fidasse della capacità del lettore di individuarla da sé.

Tuttavia, Felderer cerca di trarre il massimo profitto da questo minimo dettaglio dissonante: prima di tutto egli osserva che una montagna di tale fatta sarebbe stata alta l’equivalente di un palazzo di 15 piani; dopodiché si sofferma sull’impossibilità di gettare i vestiti In cima alla catasta senza l’ausilio di una gru, di un aereo o di una mongolfiera.

Facendo sfoggio di grande erudizione matematica, Felderer calcola che la montagna di cui parla Gerstein avrebbe avuto un raggio di 69,32 m (40/tan 30°), ovvero un diametro di 138,64 m e un’area di base di 4805 m2.

Tenendo poi conto delle condizioni atmosferiche (“Gerstein sostiene che fosse ‘inverno” quando lui si trovava a Treblinka”), egli obietta che il vento avrebbe reso molto disagevole l’arrampicamento in cima ai mucchi:
“È davvero sorprendente che lo sterminazionista non abbia suggerito che il pendio venisse impiegato dai tedeschi come pista da sci, o per spingere le vittime in basso verso la morte, risparmiando così ai tedeschi la fatica delle procedure di gassazione”. (Felderer, 1980)

L’argomentazione procede con il calcolo dell’area totale del lager (che comunque secondo Felderer non è mai esistito) e con l’acuta osservazione che una montagna talmente alta avrebbe reso difficile alle guardie di controllare i movimenti dei detenuti, i quali oltrettutto avrebbero potuto approfittare dell’altezza per scivolarsene fuori dal campo inosservati (visto che il cancello del lager avrebbe dovuto essere alto 34,3 metri per recintare efficacemente la pila di vestiti).

Infine, calcolando il volume complessivo della montagna e dividendolo per il volume medio di un paio di mutande, Felderer conclude che le vittime avrebbero dovuto essere non meno di 190 milioni. Ci troviamo qui di fronte a un esemplare del negazionismo più spicciolo e, tutto sommato, innocuo: le argomentazioni di un Felderer, del tutto incapace di accettare l’iperbole come una caratteristica naturale di molte testimonianze (è peraltro noto che è molto difficile stimare a occhio nudo l’altezza di una forma conica), rasentano la follia.

Tuttavia il fatto che Mattogno elogi l’articolo di Felderer anziché distanziarsene ostentatamente getta luce sulle strategie impiegate anche dai negazionisti più accorti, i quali si avvalgono dei precedenti tentativi di smantellamento del paradigma ufficiale — anche i più maldestri — per conferire legittimità alla cosiddetta scuola interpretativa nella quale collocano il proprio lavoro.

Altri esempi lampanti di mislettura del rapporto Gerstein ci giungono da The Myth of the Six Million (1969), in cui l’autore sostiene che Gerstein affermò che erano stati gassati non meno di 40 milioni di prigionieri nei lager nazisti. L’errore in questo caso è duplice: prima di tutto, Gerstein non parla di detenuti gassati ma del numero complessivo delle vittime del sistema concentrazionario; inoltre, la cifra che egli fornisce è di 20 (o 25, a seconda della versione) milioni.

Nel suo pamphlet del 1974, l’inglese Richard Harwood riprende gli errori di Hoggan (40 milioni) e di Butz (inverno/agosto), e ve ne aggiunge uno di propria fattura. L’obiettivo di Harwood è di delegittimare il testimone Gerstein facendolo passare per psicolabile:
“La sorella di Gerstein era congenitamente malata di mente e morì di eutanasia: questo potrebbe ben suggerire che anche in Gerstein scorresse una vena di instabilità mentale”. (Harwood, 1974)

Qui Harwood confonde i gradi di parentela: Bertha Ebeling non era la sorella, bensì la cognata di Gerstein, e difficilmente si può sostenere che vi sia un legame genetico-ereditario tra parenti acquisiti. Oltre a ciò, se Harwood accetta tranquillamente il fatto che il regime nazista mise in atto un programma di eutanasia per eliminare i malati di mente (il quale non era altro che il primo capitolo della politica complessiva di “pulizia della razza”), non si vede perché egli si dimostri così scettico di fronte al genocidio.

Infine, l’accusa di inaffidabilità che Harwood lancia nei confronti di Gerstein sposta necessariamente il dibattito sul rapporto dal piano dell’autenticità a quello della veridicità, in quanto dal punto di vista strategico non avrebbe senso cercare di dimostrare la pazzia di un innocuo prestanome.

Nessuno dei negazionisti finora citati è in grado di fornire una sola obiezione efficace nei confronti dell’autenticità o della veridicità fondamentale del documento in esame. Ciò dimostra che la volontà di smantellare la credibilità del rapporto Gerstein precede l’emergere di un fatto sufficientemente sorprendente da indurre chicchessia a prendere in considerazione l’ipotesi della falsificazione storica.

Tuttavia, tale ipotesi viene data per scontata all’interno della piccola comunità negazionista, tanto da indurre un discepolo di Rassinier e Faurisson — Henri Roques  — a tentare la via del riconoscimento accademico ufficiale con una tesi di dottorato intitolata Les “Confessions” de Kurt Gerstein: Étude comparative des différentes versions, discussa all’Università di Nantes nel 1985 (e annullata l’anno dopo).

La tesi di Roques è suddivisa in due parti: una prima parte si limita a riportare le sei versioni del rapporto Gerstein, segnalandone le differenze reciproche. Già in questa prima fase, tuttavia, Roques pone le basi per quello che sarà il fulcro fondamentale della sua tesi (l’ipotesi negazionista), insinuando più o meno apertamente che le differenze tra le varie stesure del documento rendono il rapporto inutilizzabile ai fini storiografici.

Non essendo in grado di dimostrare l’inautenticità delle versioni T I, T II, T IV e T V, egli si sofferma sulle due redazioni tedesche del rapporto, le quali offrono un maggiore spazio di manovra in quanto sono dattiloscritte e non firmate a mano. Secondo Roques, T III e T VI sono infatti fabbricazioni alleate ispirate al testo dell’interrogatorio (T V), ma rese più verosimili per mezzo di piccoli tagli e aggiunte mirate a dissipare i legittimi dubbi circa la loro veridicità.

L’ipotesi della falsificazione di questi due testi poggia su due elementi testuali:
(i) alla pagina 2 di T VI, leggiamo: “ich wurde daher sehr bald Leutnant und Oberleutnant”, ovvero “divenni allora, molto velocemente, sottotenente e tenente”. Ora, i gradi citati non esistono nella gerarchia SS, ma traducono nei termini corrispondenti dell’esercito francese i gradi di Untersturmführer e Obersturmführer. Nei testi redatti in francese, Gerstein era costretto a impiegare i termini lieutenant (tenente) e sous-lieutenant (sottotenente) per farsi capire dai suoi interlocutori, ma nella versione tedesca tale esigenza viene a cadere. L’anomalia segnalata dimostrerebbe che gli autori di T VI sono di madrelingua francese e hanno impiegato T V come testo di riferimento;

(ii) alla pagina 8 di T VI, è scritto: “ich traf dann Herrn von Otter noch 2 mal in dem Schwedischen Gesandtschaft” (“incontrai successivamente il signor von Otter due volte alla [all’interno della] Legazione di Svezia”). Mentre in italiano alla può significare sia davanti, sia dentro l’ambasciata, la preposizione tedesca in è meno ambigua: significa solo dentro. In base alla testimonianza di von Otter, la quale conferma il resoconto di Gerstein, l’incontro avvenne davanti e non dentro all’ambasciata svedese. Secondo Roques, ciò dimostra senza ombra di dubbio che il redattore di T VI (e di T III, in cui compare la stessa frase) si è basato sul testo francese (… “à la Légation de Suède”) ed è caduto nella trappola tesagli dalla grammatica tedesca (molto meno imperfetta di quella francese).

Le anomalie segnalate da Roques potrebbero in realtà essere ricondotte a più di una spiegazione. La prima irregolarità potrebbe indicare ad esempio che anche nella versione redatta in tedesco, la quale doveva servire a scagionare la moglie in caso avesse avuto noie dall’esercito francese, Gerstein si premurasse di venire incontro al linguaggio dei vincitori per rendere più immediata la comprensione del suo rapporto.

La seconda inesattezza potrebbe essere dovuta a una semplice dimenticanza: a forza di riscrivere il rapporto, la memoria diretta dell’episodio narrato aveva ceduto il posto al ricordo delle redazioni precedenti. Bisogna insomma chiedersi se le anomalie segnalate da Roques siano sufficientemente gravi da indurci a tirare in ballo l’ipotesi dell’inautenticità dei testi in esame.

Ma anche se decidessimo di escludere T III e T VI dall’insieme delle versioni innegabilmente autentiche, ciò non modificherebbe affatto la nostra ricezione del rapporto Gerstein, in quanto rimarrebbero le altre quattro versioni a testimoniare dell’esperienza diretta dei campi di sterminio fatta dall’autore.

Eppure Roques si appiglia ai due esili riscontri testuali da lui individuati per costruire la propria argomentazione dal sapore apertamente negazionista:
(a) In T V e T III sono riscontrabili due anomalie linguistiche; dunque
(b) T VI e T III sono documenti costruiti a tavolino sulla base di T V.
(c) T VI e T III attenuano molte delle inverosimiglianze presenti nelle altre versioni, mentre
(d) le inverosimiglianze riscontrabili nelle quattro versioni accettate come autentiche sono tali e tante da rendere il rapporto Gerstein storicamente inutilizzabile. Síccome
(e) il rapporto Gerstein è “una delle chiavi di volta, fors’anche la principale, dell’edificio costruito dagli autori che affermano indiscutibile l’esistenza delle camere a gas omicide nei campi di concentramento nazisti” (Roques, 1985:), e
(f) senza il rapporto Gerstein, l’esistenza delle camere a gas è indimostrabile, ALLORA
(g) le camere a gas non sono mai esistite [conclusione implicita].

La seconda parte della tesi di Roques è tesa a mettere in questione la veridicità del documento studiato. Le obiezioni avanzate per dimostrare che il rapporto Gerstein, per quanto ha di autentico, è un documento inattendibile poggiano in buona parte sulla presunta inverosimiglianza di alcune affermazioni presenti in esso.

La questione dell’inverosimiglianza merita un discorso preliminare. Per parafrasare Peirce, si potrebbe affermare che l’inverosimiglianza è la norma preponderante dell’esperienza, e soprattutto di quella parte dell’esperienza che è materia di studi storici. Viene ritenuto inverosimile ciò che si discosta da una certa rappresentazione di come dovrebbero avvenire le cose nel mondo reale.

In altre parole, la verosimiglianza (o la sua assenza) non si misura in rapporto alla realtà in sé, bensì a un suo modello concettuale, necessariamente parziale in quanto determinato dal punto di vista personale e culturale dell’interprete. Di fronte a un asserto che gli appare inverosimile (non conforme al modello), prima di classificarlo definitivamente come tale, l’interprete è tenuto a cercare di capire se tale asserto non costituisca il caso di una regola che per il momento gli sfugge.

Egli deve perciò tentare di ricostruire gli altri elementi di uno schema concettuale ancora nebuloso e sconosciuto a partire dall’asserto dissonante. Senza questa preliminare operazione filologica, ogni asserto o testo generato in un contesto culturale diverso dal proprio verrà tacciato di inverosimiglianza.

L’operazione compiuta da Roques e da tutti coloro che si affannano a dimostrare le presunte inverosimiglianze contenute nelle varie testimonianze dello sterminio ebraico è paragonabile [110] a quella — motivata da intenzioni parodistiche — compiuta dai vari autori che, nel secolo scorso, hanno cercato di dimostrare l’inesistenza di Napoleone.

In particolare, Richard Whately (1819) si sofferma sull’inverosimiglianza dell’intera parabola napoleonica:

“Napoleone penetra in Russia con un armata prodigiosa, che viene decimata da un inverno di durezza inaudita. (Tutto ciò che riguarda quest’uomo è prodigioso e senza precedenti.) Tuttavia, in un paio di mesi, lo ritroviamo impegnato in Germania con un altro grande esercito a sua volta sbaragliato a Lipsia. E con questa — considerando anche quella della campagna d’Egitto — ammontano a tre le armate andate completamente distrutte.

Eppure i francesi si dimostrano così premurosi da fornirgliene un altra, che gli consentisse almeno di mantenere una salda posizione in Francia. Napoleone è comunque sconfitto, e gli viene regalata la sovranità dell’Elba. (Per inciso, si sarebbe sicuramente potuto trovare un modo meno inverosimile di disporre di lui fino a nuova acclamazione, che non piazzarlo proprio ai confini estremi dei suoi antichi domini.)

Poi l’eroe ritorna in Francia, dov’è ricevuto a braccia aperte, e gli si dà l’occasione di perdere la sua quarta armata a Waterloo. Nonostante tutto, i suoi soldati si sono mostrati così fieri di essere per la quinta volta condotti al macello, che si è ritenuto necessario confinarlo in un’isola distante qualche migliaio di miglia, e di acquartierare in Francia truppe alleate per paura che essa potesse insorgere in suo favore!”

Ogni evento storico — improbabile per definizione, altrimenti non verrebbe considerato nemmeno un evento — può subire il medesimo trattamento straniante. Decretare l’assoluta inverosimiglianza di una situazione significa inoltre arrogarsi la capacità di inquadrare preliminarmente tale situazione in tutte le sue coordinate.

Ciò è impossibile nel mondo reale in cui, diversamente da quanto accade nei piccoli mondi della narratività, il numero delle incognite è virtualmente illimitato, ogni elemento noto trovandosi all’origine di una catena indefinitamente lunga di altri elementi (ciascuno dei quali a sua volta genera un’altra catena, e così via).

Così, data una situazione in cui gli elementi noti sono X, Y e Z (es., X compie l’azione Y in un luogo Z), ognuno dei tre fattori può essere ulteriormente interrogato e indeterminatamente ampliato: quali erano le intenzioni di X nel fare Y? perché X si trovava nel luogo Z in quel certo momento? ecc.

Sarà sempre possibile allargare la cornice di partenza per indagare i rapporti che intercorrono tra X, Y e Z. Ciò che magari appariva inverosimile rispetto alla cornice iniziale potrà dimostrarsi del tutto naturale una volta che questa venga allargata. Così facendo, non si sta semplicemente ricorrendo alla deprecabile soluzione di ripiegare sulle ipotesi ad hoc per annullare l’effetto dissonante di un’anomalia, ma si sta riconoscendo che l’esperienza reale difficilmente può essere contenuta in uno schema astratto di rapporti tra un numero limitato di fattori, se non a scapito della sua ricchezza informativa virtuale.

Certo, la riduzione a un modello è l’unico modo che abbiamo per dominare concettualmente il magmatico mondo esperienziale; ma se il nostro obiettivo non è di individuare regole generali astratte, bensì di comprendere una situazione concreta nella sua irripetibile unicità, allora il mondo dell’esperienza straborda continuamente oltre i limiti impostigli dallo schema, con la conseguenza che quest’ultimo dovrà essere costantemente riformulato e ampliato.

La riduzione di un segmento di esperienza a un modello schematico è, sì, necessaria e utile per comprendere un certo aspetto dell’episodio esperito; ma se si decide di cambiare l’aspetto dell’episodio che si vuole indagare, allora si deve essere disposti a cambiare anche lo schema esplicativo con i suoi componenti. Altrimenti ci si trova a chiedere al modello più di quanto esso non sia costitutivamente in grado d i risponde re (sarebbe come usare il teorema di Pitagora per scoprire il colore di un triangolo).

Analogamente, il resoconto di un’esperienza vissuta evidenzia alcuni aspetti di tale esperienza e ne mette tra parentesi altri. Ad esempio, se Gerstein vuole raccontare ciò che ha visto a Belzec, e nel farlo menziona un certo personaggio (come il Gruppenführer Globocnik), non ha bisogno di fornire più dettagli biografici attorno a tale personaggio di quanto non sia funzionale allo svolgimento del suo racconto.

Un interprete del rapporto Gerstein non può accusare il testo di non essere sufficientemente esauriente sull’argomento della carriera militare di Globocnik o dei suoi rapporti con Wirth, perché così facendo dimostrerebbe di non avere colto la pertinenza del racconto: sarebbe come chiedersi dove fosse Amleto al momento dell’avvelenamento di suo padre.

ùLe inverosimiglianze segnalate da Roques spesso sono tali solo se si parte dal presupposto che ogni interrogativo al quale il testo di Gerstein non fornisce una risposta immediata corrisponda a un’anomalia insanabile e non possa essere attribuibile a un’informazione tralasciata da Gerstein, vuoi per sua ignoranza dei fatti, vuoi per pigrizia, vuoi per le leggi stesse della scrittura (sempre intrecciata di non-detto).

Tornando alla tesi di Roques e alla sua insistenza sulle presunte inverosimiglianze riscontrabili nel rapporto Gerstein, non si può che convenire sul fatto che l’intero episodio narrato da Gerstein sia inverosimile rispetto alla nostra rappresentazione attuale del mondo. Ma c’è da chiedersi dove vada cercata la verosimiglianza in tempi di guerra e nel corso di una dichiarata persecuzione razziale.

Il gioco negazionista è semplice: si prende un’affermazione, la si isola dal proprio contesto storico immediato e la si giudica a partire dal proprio punto di vista. Così straniata, essa apparirà necessariamente inverosimile e insostenibile. Più specificamente, le obiezioni di Roques possono essere raggruppate in cinque categorie:
1) inverosimiglianze rispetto al mito dell’efficienza nazista
2) inverosimiglianze dovute a informazioni di seconda mano
3) esagerazioni numeriche
4) differenze tra le diverse versioni
5) impossibilità tecniche

1) Inverosimiglianze rispetto al mito dell’efficienza nazista: come tutti i cultori del nazismo, Roques non può capacitarsi del fatto che all’interno dell’organizzazione nazional-socialista potessero verificarsi delle contraddizioni o che la gestione dei lager fosse meno che perfettamente funzionale. A dispetto del mito tuttora diffuso dell’efficienza germanica, tuttavia, molti elementi documentari ci spingono a ritenere che l’ingranaggio nazista girasse in modo tutt’altro che perfetto.

Secondo Roques, è inconcepibile:
• che Gerstein entri volontariamente nelle SS, e per di più con la raccomandazione della Gestapo, pur essendo stato per ben due volte vittima della repressione nazista;
• che appena sei mesi dopo essere stato lì lì per essere cacciato dalle SS, egli venga incaricato di svolgere una missione ultrasegreta;
• che a Berlino nessuno chieda a Gerstein una spiegazione della sua decisione di non introdurre l’uso dell’acido cianidrico nei campi di Belzec e Treblinka.

Premetto che, di tutte le perplessità espresse da Roques, solo queste prime tre mi appaiono fondate, nel senso che chi volesse studiare a fondo la figura di Gerstein farebbe bene a interrogarsi su questi punti. Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che Gerstein esageri l’importanza del suo incarico per orgoglio personale, o che minimizzi la sua partecipazione alle azioni di sterminio per sottolineare la sua innocenza di fronte agli Alleati.

Sebbene una certa perplessità circa il vero ruolo di Gerstein durante la guerra sia giustificabile, l’ambiguità segnalata non intacca minimamente il valore della sua testimonianza oculare, che è l’unico aspetto del rapporto che qui ci interessa.

Qualunque fosse il vero motivo della visita di Gerstein a Belzec e a Treblinka, non c’è ragione di dubitare che egli vi si sia recato nell’agosto 1942 e che abbia assistito a un’azione speciale. Per quanto riguarda i primi tre punti, inoltre, è interessante notare che Gerstein stesso è il primo a sorprendersi di fronte a questi segni di inefficienza dell’organizzazione nazista, al cui interno gli antagonismi tra i vari settori rendevano possibile l’ascesa di un individuo inviso da taluni ma protetto da altri.

• Roques si sorprende del fatto che alla fabbrica di Kolin (vicino a Praga) Gerstein faccia intendere al personale ceco che l’acido cianidrico sia destinato a un uso omicida. La sua imprudenza, peraltro dimostrata anche in altre occasioni, non va tuttavia sopravvalutata — dopotutto, Gerstein si stava rivolgendo a membri di un popolo occupato dalla Germania, e dunque era improbabile che gli operai cechi avrebbero boicottato il suo tentativo di diffondere la notizia delle malefatte dei nazisti.

Altre obiezioni:
• che a Lublino Globocnik — il quale non ha mai visto prima né Gerstein né Pfannenstiel — riveli loro “il più grande segreto del Reich”: sappiamo però che “il più grande segreto del Reich” non era affatto un segreto per la maggior parte della popolazione locale, mentre l’uso di quest’espressione altisonante è perfettamente in linea con l’immagine che ci siamo fatta di Globocnik come di uno smargiasso;

• che Wirth (un semplice capitano di polizia) proponga a Gerstein di non cambiare nulla nel metodo di gassazione allora vigente, opponendosi così agli ordini del generale Globocnik. Le motivazioni che spingono Wirth ad auspicare un mantenimento dei metodi di gassazione precedentemente impiegati non vengono indagate da Gerstein, il quale si limita a riportare il colloquio avuto con Wirth.

D’altra parte, il fatto che all’interno dell’organizzazione concentrazionaria fossero in gioco interessi spesso contrastanti può sorprendere soltanto chi creda ancora ingenuamente allo stereotipo della monolitica gerarchia nazista. Prima di decidere se questo fatto costituisca un’inverosimiglianza, bisognerebbe saperne di più sui rapporti che intercorrevano tra Wirth e Globocnik e sul tipo di controllo centrale esercitato nella gestione dei singoli campi.

2) Inverosimiglianze dovute a informazioni di seconda mano: visita di Hitler e Himmler a Belzec, fucilazioni ai bordi dei forni crematori, esecuzione di milioni di bambini ad Auschwitz mediante tamponi imbevuti di acido. Come ho già ricordato. Gerstein non è responsabile della verità o falsità delle affermazioni altrui.
3) Esagerazioni numeriche: queste riguardano le cifre concernenti le vittime di Belzec, Sobibor e Treblinka, il numero di persone stipate nei vagoni, (70) il numero di persone in piedi nella camera a gas, il numero complessivo delle vittime dei lager, la profondità delle fosse comuni, l’altezza delle montagne di indumenti, ecc.

Spesso (non sempre) le cifre avanzate da Gerstein sono vistosamente sbagliate. Se gli storici pretendessero di basare la loro conoscenza dei numeri delle vittime del nazismo o delle dimensioni degli impianti di sterminio esclusivamente su quanto emerge dal rapporto Gerstein, allora la preoccupazione dei negazionisti nei confronti di questo aspetto sarebbe legittima. In realtà, nessuno storico serio pensa di impiegare Gerstein come fonte attendibile di informazioni su statistiche e cifre.

Alcuni autori, tra cui Wellers, hanno giustificato le evidenti esagerazioni riscontrabili nelle stime numeriche avanzate da Gerstein con il fatto che questi era profondamente scosso da quanto aveva visto nei campi di sterminio e che comunque non aveva certo il bernoccolo delle misurazioni a occhio nudo (ma per i negazionisti un ingegnere ha il dovere di avere il “compasso nell’occhio”).

I negazionisti obiettano che in altre occasioni, come quando cronometra la durata esatta della gassazione a Belzec, Gerstein si dimostra freddo e impassibile. Non ritengo che l’impulso a cronometrare il supplizio delle vittime gassate sia di per sé segno di imperturbabilità: al contrario, esso potrebbe essere dettato dallo sgomento di fronte alla disumana durata della gassazione.

4) Differenze tra le diverse versioni: queste, già segnalate nella prima parte della tesi, nella seconda parte diventano prove irrefutabili del fatto che Gerstein abbia mentito, secondo la nota equazione errore = menzogna. Tra le differenze segnalate da Roques, una in particolare è degna di nota per la sua irrilevanza:
“Gerstein ha visto (T IV, supplementi) un bambinetto di 3 anni lanciato nella camera. In T III, il bambinetto non sfugge alla camera, ma vi è “spinto con dolvezza”. (Roques, 1985:)

5) Impossibilità tecniche.
“In tutte le “confessioni” si descrive che la gassazione è effettuata mediante un motore Diesel […]. Ora, il Diesel è un motore a combustione interna che libera poco ossido di carbonio (CO), gas mortale inodoro, ma molto gas carbonico (CO2), gas asfissiante che prima rende malati e che provoca la morte solo dopo molto tempo. Sarebbe stato più efficace utilizzare un motore a scoppio”. (Roques, 1985)

Questa argomentazione tecnica viene spesso evocata dai negazionisti come prova dell’impossibilità che le cose si siano svolte così come Gerstein le descrive. È da osservare che altri testimoni hanno confermato l’impiego omicida da parte dei nazisti dei motori Diesel, i quali venivano regolati male allo scopo di arricchire la proporzione di monossido di carbonio presente nel gas di scappamento.

La tesi di Henri Roques viene annullata un anno dopo la sua discussione a Nantes, dando il via a un nuovo filone di “martirologia ‘revisionista”‘. Nel suo intervento all’ottava conferenza annuale dei negazionisti, a Los Angeles, Roques si dilunga sulle sue tribolazioni giudiziarie e si interroga sul perché

“una tesi di critica dei testi, consacrata a un soggetto limitato come la testimonianza di un ufficiale SS su una gassazione omicida in un piccolo campo di concentramento in Polonia, abbia provocato una tale marea montante nei media e in un certo numero di circoli politici attenti a non dispiacere agli ambienti del sionismo internazionale”. (Annalevs, n. 3, 1987)

Ecco di nuovo emergere la teoria della cospirazione giudaica, matrice onniesplicativa adottata da tutti i negazionisti senza eccezione. Il cosiddetto “caso della tesi di Nantes” crea una notevole eccitazione negli ambienti del negazionismo internazionale, avido degli spazi pubblicitari che i quotidiani spesso gli concedono.

Contemporaneamente, cresce l’interesse per la figura di Gerstein, attorno alla quale si sprecano pagine e ipotesi sempre più articolate; fino a questo momento, infatti, nessun negazionista ha neppure tentato di spiegare per quale motivo Gerstein avrebbe dovuto mentire nel suo rapporto.

Sul primo numero delle Annales negazioniste francesi, un autore anonimo parte dal caso Roques per proporre una sua versione a dir poco fantasiosa dei fatti. Secondo questo autore, essendo categoricamente escluso che Gerstein abbia fatto carriera nelle SS a meno che la Gestapo non abbia voluto trarre vantaggio dalle sue passate attività antinaziste, l’unica spiegazione possibile è che egli sia stato impiegato come agente provocatore dalla Gestapo stessa.

“Inizio 1942, la Germania trionfa. Certi ambienti sionisti sviluppano una intensa propaganda in Inghilterra e negli stati uniti. Voci circolano riferendo di stermini in massa degli ebrei i cui corpi sarebbero utilizzati — era la verità dell’epoca, oggi abbandonata — per fare del sapone e dei concimi […] si sa ora che esisteva anche una collaborazione segreta fra certi ambienti sionisti e le autorità naziste, al fine di promuovere una soluzione della questione ebraica conforme alla loro visione, e che il sionismo era la sola corrente dell’ebraismo accettata dal nazional-socialismo.

Procedendo ad una provocazione attraverso Gerstein, presso il diplomatico neutro Barone von Otter, un servizio nazista poteva al tempo stesso verificare l’atteggiamento del governo svedese e, se l’informazione circolava, esprimere ferme proteste presso questo governo neutro per la sua collaborazione alla diffusione della propaganda anti-tedesca. il cui contenuto, in ogni caso, all’epoca non disturbava la Germania.

Inoltre, ciò avrebbe portato acqua al mulino dell’agitazione ebraica in Inghilterra e negli Stati uniti e avrebbe permesso al governo tedesco di ottenere dei vantaggi materiali, militari e diplomatici in cambio del miglioramento della sorte degli ebrei”. (Annales, n. 1, primavera 1987)

Questa complessa trama, degna di un maldestro epigono di Le Carré, avanza un volonteroso ma inefficace tentativo di riempire lo spazio lasciato in bianco da tutti gli altri attacchi negazionisti nei confronti del rapporto Gerstein, ovvero quello che in termini giuridici potremmo definire il movente: perché mai Gerstein avrebbe dovuto inventare la sua complessa storia già nel 1942 (ciò è stato confermato dal barone Von Otter, dal vescovo Dibelius e da membri della resistenza olandese), all’epoca in cui tutto faceva ancora presagire la vittoria della Germania?

La spiegazione fornita dall’anonimo autore delle Annales negazioniste non è convincente, oltre che per la sua scarsa economicità, per il fatto che — se la si priva dell’eterno motivo della cospirazione giudaica — essa crolla rovinosamente su se stessa.

Infatti, i vantaggi che, secondo l’autore negazionista, l’operazione-Gerstein procurava allo stato tedesco (sondare l’atteggiamento della Svezia, paese neutrale che non costituiva certo una grossa preoccupazione bellica per la Germania nazista), sono ben poca cosa rispetto a quelli goduti dai tentacolari ambienti ebraici (promuovere la causa sionista).

Carlo Mattogno

Mentre in Francia Roques lavora sulla sua tesi, in Italia anche Carlo Mattogno si dedica al caso Gerstein, con un volume pubblicato nel 1985. Mattogno non sostiene che il rapporto Gerstein sia apocrifo, sebbene in certi punti non scarti del tutto l’ipotesi della sua inautenticità, ma punta invece sulla segnalazione delle presunte inverosimiglianze e inesattezze per sostenere che “la ‘testimonianza oculare’ di Kurt Gerstein, dal punto di vista della veridicità, è un volgare falso”.

Delle 103 obiezioni di Mattogno, solo una decina presenta una qualche rilevanza rispetto alla tesi che l’autore intende dimostrare (che il documento in questione sia inaffidabile e che pertanto sia dubbio che a Belzec si siano mai effettuate gassazioni). Suggerisco di raggruppare le altre nelle tre categorie di (i) cavilli irrilevanti, (ii) errori di comprensione/traduzione, e (iii) obiezioni inesistenti.

(i) Alla prima categoria appartiene la maggioranza dei punti elencati da Mattogno: errori di battitura e di ortografia (Belcec/Belcek anziché Belzec; Collin/Kollin/Kellin anziché Kolin: Globocnec/Globocnek anziché Globocnik; Lindner anziché Linden; Warsawa anziché Warszawa e via dicendo), errori di calcolo (4 x 5 = 25 m2; 750 x 30 = 25.250 ecc.), inesattezze varie (il campo di Belzec a SUD della strada Lublino-Lemberg anziché a EST; nel campo gruppi di betulle anziché di pini; l’età del bambino ebreo che distribuisce pezzi di spago: 3 o 4 anni; errori di datazione (data del matrimonio di Gerstein, data del suo esame di Bergassessor, data del suo secondo arresto), ecc.

Non ritengo che valga la pena controllare a uno a uno questi presunti errori in quanto non è chiaro quale interesse essi possano avere una volta che si sia abbandonata l’ipotesi della contraffazione del documento in esame. Se si accetta che fu Gerstein a redigere i suoi rapporti, quale importanza può mai avere per noi il fatto che egli avesse qualche problema con l’ortografia o che si confondesse sulla data del suo matrimonio?

E anche se si volesse dimostrare che Gerstein aveva una pessima memoria, non credo che si possa con questo concludere che egli si sia solo immaginato di avere assistito a una gassazione in un campo di sterminio, a meno di non condividere il parere di Mattogno secondo il quale “non è da escludere che egli abbia ‘”isto’ la gasazione di Belzec in uno [degli] ‘stati precomatosi”‘ — dovuti al diabete — cui era soggetto.

Arthur Butz

(ii) L’inefficacia del secondo gruppo di obiezioni è dovuta a errori interpretativi commessi da Mattogno nella sua lettura delle versioni tedesche del rapporto Gerstein. A proposito della proposta di seppellire tavole di bronzo nelle fosse dove venivano interrati i cadaveri, a beneficio delle generazioni future, Mattogno dice che non è chiaro chi sia il soggetto di questa enunciazione (se Globocnik o Gerstein stesso).

Secondo Mattogno, infatti, nella versione tedesca del 6.5.1945 (T VI) è Gerstein che lancia la proposta a Globocnik durante la sua visita a Lublino. L’equivoco nasce dalla traduzione del brano di T VI: “Darauf habe ich Globocnec gesagt: Meine Herren…” ecc. dove Mattogno scambia il nominativo “Allora io Globocnec ho detto” con il dativo “Allora io ho detto a Globocnec” e aggiunge “questo passo è assurdo. Gerstein si inserisce in una conversazione (pretesamente) avvenuta due giorni prima e Hitler risponde a Globocnik!”.

L’errore in cui si imbatte Mattogno è indicativo dell’eccesso di meraviglia che egli dimostra nella sua lettura dei documenti — eccesso che, combinato con un’insufficiente dimestichezza con la lingua tedesca, crea l’humus ideale per lo sviamento interpretativo tipicamente negazionista.

Un analogo errore interpretativo riguarda il passo in cui Gerstein racconta come, a gassazione terminata, i cadaveri venissero intimamente ispezionati alla ricerca di oro, brillanti e oggetti di valore. Nel brano in questione in T Vl (p. 6), tuttavia, troviamo un errore di battitura: la parola “Brillanten” (brillanti), peraltro ripetuta correttamente meno di tre righe dopo, viene scritta “Brillen” (occhiali).

Piuttosto che ammettere la possibilità di una svista tipografica, Mattogno scrive:“Gli uomini dell’Arbeitstommando cercano ‘occhiali’ (Brillen) nei genitali delle vittime”.

(iii) Per obiezioni inesistenti intendo tutti i punti in cui Mattogno tenta di fare apparire come inverosimili dettagli che non lo sono affatto, sperando che il lettore non sia sufficientemente analitico da rendersi conto della parzialità della sua interpretazione.

Ad esempio, egli ironizza sul fatto che gli ebrei che entravano nella camera a gas implorassero Gerstein di intercedere per loro:
“Alcuni si rivolgono a Gerstein implorandolo: “O signore, ci aiuti, ci aiuti!”, avendo evidentemente notato la sua faccia da “buono”, perché egli era in divisa da ufficiale SS!” (Mattogno, 1985)

Lungi dall’apparire inverosimile, questo dettaglio semmai aggiunge credibilità al resoconto di Gerstein: solo un negazionista può pretendere la razionalità assoluta nel contegno di coloro che sanno di stare per essere gassati.

Altrove, traendo spunto dalla richiesta di Wirth a Gerstein di non proporre alle autorità di Berlino un nuovo metodo di gassazione per rimpiazzare quello vigente a Belzec, Mattogno vede in ciò il segno che Wirth fosse un personaggio poco influente in quanto temeva Gerstein come se fosse un suo superiore, e questo sarebbe in contrasto con l’affermazione di Gerstein secondo cui Wirth era ammanicato con Himmler.

In verità, la richiesta di Wirth a Gerstein non presuppone affatto che il primo avesse paura del secondo, ma semmai indica che egli non voleva fastidi dalle autorità berlinesi alle quali Gerstein avrebbe dovuto fare rapporto (informandole dello spiacevole incidente col motore Diesel a cui aveva assistito a Belzec). Dunque, si tratta di un falso problema.

Inoltre, osserva Mattogno, “da Treblinka Gerstein va a Varsavia senza neppur aver salutato Globocnik, che scompare dalla scena dopo averlo presentato a Obermeyer”. Secondo questo ragionamento, dovremmo concludere che durante l’intero soggiorno in Polonia Gerstein non si sia fatto la barba nemmeno una volta, visto che il testo non ne parla mai. Nessuno di questi punti costituisce un’anomalia che possa far scattare la richiesta di un’indagine supplementare. Pertanto. soffermarsi su di essi è interpretativamente improduttivo.

Il tipo di operazione compiuto da Mattogno per snidare le presunte menzogne nascoste nella testimonianza è paragonabile ai metodi impiegati durante gli interrogatori di terzo grado: dài e dài, anche il testimone più lucido e preciso inciampa in una contraddizione. L’unica differenza è che, mentre negli interrogatori l’imputato innocente ha la facoltà di rispondere esaurientemente per dissipare i sospetti dell’inquirente, di fronte alla richiesta di informazioni supplementari il testo scritto “maestosamente tace”.

Naturalmente il negazionista interpreta la reticenza del testo come un’ammissione di colpevolezza piuttosto che come un limite naturale della scrittura. Oltre a queste obiezioni facilmente confutabili, in quanto basate su palesi distorsioni interpretative, nell’elenco di Mattogno troviamo qualche punto meritevole di essere preso in considerazione.

Si tratta per lo più di osservazioni su quei brani del rapporto, già segnalati in precedenza, in cui la figura di Gerstein appare un po’ ambigua, tanto che il lettore ha l’impressione che l’autore tralasci qualche anello importante del suo racconto. Ad esempio, non è chiaro come sia conciliabile l’affermazione secondo cui la destinazione del viaggio in Polonia fosse nota solo all’autista con il fatto che Gerstein, pur ignorando la sua destinazione, abbia imbarcato in auto il dottor Pfannenstiel (che evidentemente doveva sapere dove stava andando).

Inoltre, il racconto del seppellimento del veleno fuori dal lager di Belzec sembra contraddittorio: non si capisce se Gerstein abbia nascosto l’acido cianidrico prima (di sua iniziativa) o dopo avere incontrato Wirth a Belzec.
Osservo incidentalmente che tali ambiguità furono notate anche dal giudice Mathieu Mattei durante il suo interrogatorio a Gerstein del 19.7.1945, e che in quell’occasione Gerstein rispose che l’acido non fu mai portato dentro il campo di Belzec, ma che fu nascosto a duecento metri da esso dall’autista e da Gerstein stesso, col pretesto che esso si fosse danneggiato e fosse divenuto pericoloso.

Giunto al campo (sempre secondo la deposizione), Gerstein informò il comandante Wirth dell’accaduto e quest’ultimo gli diede il permesso di sotterrare l’intera partita di acido a duecento metri dal lager. La spiegazione fornita da Gerstein non è del tutto soddisfacente (altrove si ha l’impressione che la distruzione dell’acido cianidrico sia stata un’iniziativa esclusivamente sua), così come può apparire insufficiente la giustificazione che egli fornisce al giudice sul perché a Berlino nessuno gli abbia chiesto un resoconto della sua missione (Wirth, che aveva una grossa influenza a Berlino, avrebbe sollevato Gerstein dal suo incarico di rendere conto alle autorità centrali dell’esito della missione).

Premesso che può sempre darsi che le cose siano andate proprio come Gerstein le racconta, è legittimo sospettare che al resoconto manchi qualche elemento e ci si potrebbe domandare se Gerstein avesse un qualche interesse a fornire un rendiconto incompleto. Ciò nonostante, simili obiezioni non hanno nulla a che vedere con la qualità della sua testimonianza oculare e riguardano piuttosto le circostanze periferiche del viaggio di Gerstein a Belzec e Treblinka.

Una seconda classe di obiezioni di per sé legittime, ma non rilevanti dal punto di vista della tesi negazionista, riguarda la cronologia degli eventi riportati. In particolare, l’ordine cronologico si inceppa nei giorni della visita di Gerstein ai lager polacchi: il 17 agosto arriva a Lublino; “il giorno dopo” (il 18 agosto) va a Belzec, ma non assiste ad alcuna gassazione; la gassazione avviene invece “il mattino seguente”, dunque il 19 agosto; tuttavia, il testo dice anche che “il giorno dopo [la gassazione], il 19 agosto” Gerstein andò a Treblinka.

È evidente che le date fornite da Gerstein sono sfasate di un giorno. Si potrebbe ipotizzare che, al momento di scrivere il suo rapporto, Gerstein fosse in stato di agitazione e di offuscamento mentale e che successivamente, nel rielaborare il testo, egli non si sia reso conto dell’anacronismo. Mattogno invece conclude che, poiché Gerstein andò a Belzec il 18 agosto, giorno in cui non vide alcun morto, mentre il giorno successivo alla gassazione (quando visitò Treblinka) era il 19 agosto, allora la giornata del [122] la gassazione non è mai esistita.

Ancora una volta, vi è un’enorme sproporzione tra l’elemento dissonante e le conclusioni che ne vengono tratte. Dovendo scegliere tra l’ipotesi che (a distanza di quasi tre anni) Gerstein si sia sbagliato sulle date, e quella che egli abbia solo immaginato di vivere una giornata così traumatica come quella descritta nel rapporto, Mattogno opta per la soluzione meno economica.

Sempre in materia di scansione temporale, Mattogno rielabora la nota obiezione di Butz sulla frase “nudi anche in inverno”. Egli è consapevole del fatto che i negazionisti che l’hanno preceduto si sono fatti fuorviare da una traduzione incompleta ma osserva che l’espressione incriminata è comunque contraddittoria rispetto alla cronologia ufficiale dello sterminio. Siccome la visita di Gerstein a Belzec avviene nell’agosto 1942, mentre il campo sarebbe stato inaugurato nell’aprile dello stesso anno, non si capisce quando i detenuti siano rimasti nudi all’aperto d’inverno.

Secondo la cronologia ufficiale, tuttavia, il lager di Belzec fu inaugurato nel marzo 1942, ed è possibile che in quel mese in Polonia le condizioni atmosferiche fossero di tipo invernale. Oltre a ciò, sappiamo che ancor prima dell’inaugurazione ufficiale delle camere a gas di Belzec, il 17 marzo 1942, nel febbraio dello stesso anno erano state praticate gassazioni sperimentali sugli ebrei che erano stati usati per i lavori di costruzione delle camere a gas stesse.

Le obiezioni di carattere tecnico sono invece le seguenti:
• Gerstein sostiene di avere visto le vittime stipate dentro la camera a gas da una finestrella:
“dato l’estremo ammassamento umano nelle 4 camere a gas, dalla finestrella non si sarebbe potuto vedere nulla, essendo la visuale impedita dal corpo di colui che era schiacciato contro di essa, senza considerare l’appannamento interno del vetro”. (Mattogno, 1985)

Gli spioncini nella porta, attraverso i quali i responsabili del lager potevano verificare l’andamento della gassazione, erano ovviamente situati all’altezza degli occhi di chi stava fuori dalla camera a gas. Di conseguenza, sarebbe stato possibile scorgere l’interno della camera a gas attraverso gli interstizi tra le teste delle vittime: oltrettutto, è presumibile che l’ammassamento umano si concentrasse verso l’alto (e non contro la porta), man mano che l’ossigeno cominciava a scarseggiare e le vittime cercavano di guadagnare centimetri di altezza, arrampicandosi sui corpi degli altri.

Quanto alla questione dell’appannamento, è sufficiente ricordare che la gassazione a cui assistette Gerstein ebbe luogo in agosto, quando la temperatura esterna era sufficientemente elevata da non provocare fenomeni di condensazione all’interno della camera a gas.

• Come potevano 700-800 persone rimanere in vita per 2 ore e 49 minuti in camere a gas di 25 m2 ermeticamente chiuse? Molte di esse, infatti, morirono ancora prima che la gassazione cominciasse (secondo la testimonianza di Rudolf Reder, superstite di Belzec che raccontò lo stesso episodio narrato da Gerstein, ovviamente da una diversa angolazione).

È vero che Gerstein dice che “fino a quel momento le vittime, nelle quattro camere già stipate, ancora vivono, vivono…”, ma è piuttosto evidente che l’orrore della situazione lo induca a generalizzare la constatazione che all’interno della camera a gas vi fosse ancora del movimento dopo tutto quel tempo.

• Mattogno si sorprende del fatto che l’RSHA affidi il compito di istallare camere a gas a Gerstein anziché a un esperto di Auschwitz, dove era già stato adottato lo Zyklon B. Il suo stupore è immotivato se si considera che l’uso dell’inviato speciale dalla sede di Berlino faceva parte della prassi abitualmente seguita dal regime nazista, anche in quei casi in cui sarebbe stato più economico adottare i tecnici già disponibili in loco.

Rispetto ai negazionisti precedenti, Mattogno aggiunge qualche argomentazione in più, sebbene nessuna di esse sia sufficiente per dimostrare che il rapporto Gerstein — per quanto riguarda il suo valore di testimonianza oculare — sia storiograficamente inaccettabile.

La vera novità consiste invece nel fatto che Mattogno è il primo negazionista a lavorare sulla rete delle testimonianze che in larga misura confermano i contenuti del rapporto Gerstein. Le principali tra di esse sono quelle del professor Pfannenstiel, del barone svedese von Otter, del vescovo Dibelius, dei membri della resistenza olandese Ubbink e van der Hooft e del superstite di Belzec Rudolf Reder.

Ognuna di esse conferma questo o quell’altro aspetto trattato da Gerstein, anche se ovviamente la consonanza non è mai totale (altrimenti sì che ci sarebbero delle buone ragioni per essere sospettosi) Mattogno affronta ciascuna di queste testimonianze isolatamente per sottolinearne le divergenze rispetto al testo di Gerstein e conseguentemente dichiararle tutte non probanti e insostenibili.

In una lettera del 1948, il diplomatico svedese von Otter ha confermato di avere incontrato Gerstein su un treno nell’estate 1942, e di averne raccolto la testimonianza e l’accorato appello, così come risulta dal rapporto. Dopo l’incontro, von Otter si mise in contatto col vescovo Otto Dibelius a Berlino per informarsi sull’attendibilità di Gerstein e poi redasse un rapporto dettagliato del suo colloquio con Gerstein.

Tale rapporto (andato perduto) non è mai stato spedito in quanto, dovendo recarsi di persona a Stoccolma poco dopo, von Otter decise di riferire oralmente al governo svedese del suo colloquio. Sfortunatamente (o fortunatamente, a seconda della tesi che si vuole sostenere) manca la trascrizione del rapporto orale di von Otter ai funzionari del governo svedese.

Nonostante von Otter abbia successivamente confermato che i contenuti del rapporto Gerstein coincidono con ciò che egli apprese durante il suo dialogo in treno, Mattogno ritiene che, siccome non esiste traccia scritta del rapporto di von Otter al governo svedese, “è lecito perlomeno dubitare della realtà della comunicazione orale di von Otter al suo governo”.

Mattogno inoltre afferma che non esiste alcuna prova dell’incontro di von Otter con Gerstein, ma che — se anche tale incontro fosse avvenuto — evidentemente esso apparve talmente insignificante al diplomatico svedese da non indurlo nemmeno a stilare un rapporto scritto.

Qui Mattogno fa un uso improprio dei dati di cui dispone: siccome non rimane più una traccia concreta del rapporto di von Otter, egli balza alla conclusione (tutta da dimostrare) che tale rapporto non sia mai stato steso. Egli poi pone questa conclusione arbitraria sullo sfondo della presupposizione secondo cui, se il rapporto non è mai stato scritto, allora von Otter non deve essere stato molto convinto della credibilità di Gerstein all’epoca del loro primo incontro.

A questo proposito rimando il lettore a un paragrafo successivo dedicato all’uso che i negazionisti fanno delle presupposizioni per far passare inosservate affermazioni tutt’altro che scontate. Se il rapporto stilato da von Otter nel 1942 è andato perduto, lo stesso non si può dire di quello redatto da un membro della resistenza olandese (Cornelius van der Hooft) che, venuto a conoscenza della testimonianza di Gerstein tramite l’amico comune Ubbink, nel marzo 1943 scrisse un testo di tre pagine intitolato Tötungsanstalten in Polen (“Stabilimenti dell’uccisione in Polonia”) in presenza di un uomo di collegamento con l’Inghilterra.

Il rapporto fu nascosto in un pollaio e ritrovato dopo la guerra. Esso riprende molte delle informazioni presenti nel rapporto di Gerstein, con qualche minima differenza (cifre, ortografia dei nomi, esatta cronologia, ecc.), che non fa altro che rassicurarci circa la sua autenticità.

Infatti, non dovrebbe sorprendere che, nel passaggio da Gerstein a Ubbink e da questi a van der Hooft, il racconto originario abbia subìto qualche alterazione — oltrettutto, non è nemmeno detto che Gerstein abbia riferito all’amico olandese esattamente gli stessi dettagli che poi ha registrato nel suo rapporto del 1945.

Questo documento crea un problema per i negazionisti per via della sua data di stesura in quanto rende difficile ripiegare sull’abituale scappatoia di dichiarare manomessa ogni testimonianza registrata dopo la fine della guerra. Mattogno non si scoraggia di fronte a un simile ostacolo e costruisce la sua argomentazione a partire dalla dichiarazione di apertura del testo olandese:
“Il racconto che segue qui sotto in tutto il suo orrore, la sua incredibile brutalità e atrocità, ci è giunto dalla Polonia con la pressante preghiera di volerne informare l’umanità. La sua veridicità è garantita da un ufficiale ss tedesco di alto grado, il quale, sotto giuramento e con preghiera di pubblicazione, ha reso la seguente dichiarazione…”

Secondo Mattogno, il riferimento alla dichiarazione resa sotto giuramento e con preghiera di pubblicazione implica che l’ufficiale SS stesso abbia redatto il documento in questione, e che il testo olandese non sia altro che una traduzione di tale dichiarazione scritta. Il fatto che il rapporto sia la traduzione di una stesura originale tedesca sarebbe confermato dalla presenza nel testo di varie locuzioni tedesche.

Se l’ufficiale SS autore del documento fosse veramente Gersteint allora le discrepanze riscontrate nel testo olandese rispetto al rapporto del 1945 non sarebbero più attribuibili a deformazioni dovute al passaggio orale delle informazioni ivi contenute. Un simile salto logico non viene reso esplicito da Mattogno, ma è necessario per conferire una certa coerenza interna alla sua argomentazione (secondo un principio di carità interpretativa che peraltro Mattogno stesso non applica nella sua lettura dei testi).

Mattogno non sembra molto sicuro circa le conclusioni da trarre da tale presunta anomalia. Inizialmente sostiene che il testo olandese “potrebbe essere un falso elaborato nel 1945 e retrodatato”. Appena tre pagine dopo viene avanzata l’ipotesi che il rapporto del 25 marzo 1943 costituisca “un primo aborto della fantasia di Gerstein, che si è scatenata fino al ridicolo e all’assurdo nelle successive rielaborazioni dell’aprile e del maggio 1945”.

In realtà, l’anomalia non sussiste poiché la premessa dell’argomentazione falsificante è traballante. Non vi è motivo di ritenere che il fatto che la dichiarazione sia stata resa sotto giuramento significhi che essa è stata scritta direttamente dall’ufficiale tedesco di cui parla il testo olandese.

Altre persone sono state contattate da Gerstein prima del 1945. Tra queste, il vescovo Dibelius e Wilhelm Pfannenstiel. Dibelius, con il quale Gerstein aveva avuto contatti negli anni della guerra, nel 1955 ha a sua volta confermato i contenuti del rapporto. L’unica differenza riguarda il motivo della missione di Gerstein a Belzec, che secondo Dibelius riguardava i metodi di incenerimento dei cadaveri. Tale divergenza è per Mattogno motivo sufficiente di rifiuto della testimonianza di Dibelius.

La deposizione di Pfannenstiel è rilevante in quanto questo testimone appare nel rapporto
Gerstein in veste di accompagnatore. Va aggiunto che il ritratto che Gerstein fornisce di Pfannenstiel non è molto lusinghiero, e ciò è di per sé sufficiente a giustificare il tono polemico assunto da Pfannenstiel nei confronti di Gerstein nelle sue varie deposizioni.

Nell’interrogatorio del 30.10.1947, egli sostiene di essere andato con Gerstein a Lublino e di avere assistito a una gassazione con gas di scarico di un motore Diesel; alla domanda se tale gassazione si fosse svolta a Treblinka o a Belzec, Pfannenstiel risponde evasivamente, apparentemente negando di essere stato in questi due campi di sterminio (“Treblinka? “Non lo conosco affatto” Belzec? “Di Belczek ho sentito parlare”).

Nei successivi interrogatori, tuttavia, Pfannenstiel afferma di essere stato a Belzec dove assistette a una gassazione di ebrei, la quale “avvenne all’incirca come Gerstein l’ha descritta” (8.11.1963). A questo punto il negazionista non può fare altro che lavorare sulle divergenze della testimonianza in questione rispetto a quella di Gerstein, amplificandone la portata.

Queste riguardano: il numero complessivo di persone gassate; l’affermazione di Pfannenstiel per cui dopo la gassazione i cadaveri vennero cremati, laddove Gerstein parlava solo di seppellimento in fosse comuni (secondo la cronologia ufficiale, a Belzec le cremazioni cominciarono nel novembre 1942, dunque dopo la visita di Gerstein e Pfannenstiel); la presenza o meno di Günther il giorno della visita a Belzec; il fatto che Pfannenstiel sia stato o no a Treblinka.

“È inoltre particolarmente significativa la seguente obiezione:
Anche in altri punti il rapporto è pieno di inesattezze. Sostengo in modo particolare di non aver mai detto: “Come in una sinagoga”. E anche se avessi fatto una osservazione del genere, non le avrei certo dato il significato che le ha attribuito Gerstein, suggerendo l’idea che io mi prendessi gioco dei tormenti di quelli che erano rinchiusi là dentro. La situazione era fin troppo atroce”. (in Friedlander, 1967)

In altre occasioni, Pfannenstiel ha contestato il fatto di avere mai parlato della bellezza del lavoro svolto a Belzec e l’affermazione secondo cui egli si sarebbe fatto consegnare la razione di burro e alcool destinata a Gerstein. Come si vede, il suo principale interesse è di ripulire la propria immagine imbrattata da quanto emerge dal rapporto Gerstein. A parte ciò, egli non mette in discussione quello che gli storici hanno definito “l’essenziale” della testimonianza di Gerstein sulle camere a gas di Belzec.

Nel 1963 Pfannenstiel scrive una lettera a Rassinier in cui dichiara:
“I suoi sospetti sulla realizzazione del suo [di Gerstein] rapporto, una letteratura dozzinale in effetti estremamente inattendibile in cui la “letteratura” prevale di gran lunga sulla verità, come pure su come egli è morto, sono probabilmente esatti anche a mio parere”. (in Rassinier, 1964)

Pfannenstiel non specifica quale parte del rapporto Gerstein susciti i suoi sospetti, ma c’è da scommettere che egli si riferisca alla parte che lo riguarda direttamente, mentre le obiezioni circa gli altri dettagli della testimonianza servono a screditare la figura dell’autore; l’unica cosa certa è che tre mesi dopo avere scritto la lettera, nell’interrogatorio di Amburgo, egli ribadisce i contenuti delle sue deposizioni precedenti. Di fronte a simili apparenti tentennamenti, Mattogno non chiede di meglio che di rispolverare la formula conclusiva che dedica a tutte le testimonianze sgradite (‘X è un testimone inattendibile’).

“Ricapitolando, Pfannenstiel prima nega di essere stato a Belzec, poi afferma di esserci stato, indi smentisce questa dichiarazione, infine ritratta questa smentita. Già per questo non può essere considerato un testimone attendibile”. (Mattogno, 1986)

Infine, a proposito della testimonianza del superstite Rudolf Reder — che conferma piuttosto esattamente i contenuti del rapporto Gerstein circa le modalità delle gassazioni a Belzec — Mattogno osserva che vi sono dei brani nel testo di Reder che riprendono così da vicino le parole impiegate da Gerstein da suscitare il sospetto che essi siano stati ricalcati, e pertanto conclude che “la ‘testimonianza’ di Rudolf Reder è completamente inattendibile”.

I brani incriminati sono:
• “Vi si trovavano circa 750 persone, 6 volte 750 persone fa 4500” cfr. Gerstein: “4 volte 750 persone in 4 volte 45 metri cubi”;
• descrizione dell’edificio contenente le camere a gas simile nelle due testimonianze: vasi di fiori variopinti, scritta “stabilimento balneare”, scaletta di tre gradini;
“i cadaveri erano in posizione eretta” cfr. Gerstein: “i morti sono ancora in piedi”;
• scritta “ai bagni e alle inalazioni” presente in entrambe le testimonianze;
• “le donne attendevano il loro turno davanti alla baracca dei barbieri “persino d’inverno”‘.

Premesso che alcune di queste corrispondenze non dovrebbero sorprendere nessuno, visto che Reder e Gerstein hanno visto gli stessi luoghi e dunque è naturale che li descrivano in maniera analoga, quand’anche Reder fosse venuto a conoscenza del rapporto Gerstein prima di registrare per iscritto la sua testimonianza e avesse impiegato un paio di espressioni usate da Gerstein nel suo testo, ciò non sarebbe un motivo sufficiente per negare ogni valore alla sua testimonianza.

“Io non sono mai stato a Treblinka. Il rapporto del dottor Gerstein è pure inesatto su questo punto. Ho l’impressione che il dottor Gerstein mi accusi perché sa che sono il solo testimone vivente che può deporre su questi fatti e sull’impiego che egli ha fatto dell’acido prussico. Suppongo che volesse togliermi di mezzo” (deposizione del 6.6.1950 – in Friedländer, 1967).

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