AUSCHWITZ, MEMORIA E NEGAZIONISMO – 4

a cura di Cornelio Galas

Il negazionismo non risparmia nè il famoso “Diario di Anne Frank”, nè i quaderni di Kremer del quale abbiamo parlato nella prima puntata. Ma vediamo la meticolosa analisi di Valentina Pisanty a questo proposito.

dal libro “L’irritante questione delle camere a gas”

di Valentina Pisanty

Valentina Pisanty

I diari di Anne Frank

Forse perché per molti lettori il diario di Anne Frank rappresenta il primo contatto con la storia del genocidio, i negazionisti si sono sempre sforzati di dimostrarne l’inautenticità. Da un punto di vista puramente storico, nessuno ha mai pensato di considerare questo diario come un documento che provasse l’esistenza dei campi di sterminio o delle camere a gas, e ciò per il semplice motivo che, come è noto, Anne Frank redasse i suoi diari durante gli anni della sua reclusione nell’Alloggio segreto, in Prinsengracht 263, ad Amsterdam.

Arthur Butz

Sorprende dunque la veemenza con la quale i negazionisti si sono accaniti contro questo resoconto della vita quotidiana e dei pensieri di un’adolescente che dovette conoscere la realtà dei lager nazisti solamente dopo aver cessato di scrivere il suo diario. Evidentemente ciò che spinge Faurisson, Felderer, Butz, ecc., a screditare questo testo va cercato piuttosto nell’impatto emotivo che esso ha sempre avuto sui lettori di tutto il mondo, dal 1947 in poi.

Attraverso l’insinuazione del dubbio circa l’autenticità di questo documento-simbolo, i negazionisti sperano di estendere l’atteggiamento diffidente a ogni altro aspetto della storia della seconda guerra mondiale, camere a gas comprese. Sappiamo inoltre che ogni testo che abbia raggiunto lo statuto di “sacralità” per una certa cultura stimola una serie di tentativi di uso e di decostruzione che spesso assumono la forma della lettura sospettosa ed eccedente. È il caso delle Sacre Scritture, della Divina Commedia, ma anche delle opere di Shakespeare, e perfino di Cappuccetto Rosso.

La tentazione di ribaltare le verità critiche assodate è forte sia in campo letterario, sia in quello storiografico. Spesso, tuttavia, la furia demistificatrice conduce a una rinuncia a leggere i testi secondo le regole del gioco culturalmente poste, e allora si passa dall’interpretazione all’uso testuale.

I diari di Anne Frank costituiscono un buon esempio di testo divenuto quasi sacro per la nostra cultura per via del suo valore documentario unito alla qualità della sua scrittura e alle nostre conoscenze sulla vicenda biografica successiva della sua autrice. La sacralità di cui parlo non ha alcuna connotazione negativa a priori; in fondo anche Amleto è per noi, in un certo senso, sacro, ma ciò non ci induce automaticamente a rifiutarlo come indegno dell’attenzione che da secoli gli dedichiamo.

Al contrario, interpreti come Faurisson avvertono il bisogno di gettare ombre sulla storia di ogni testo che la nostra cultura abbia decretato essere degno di un interesse privilegiato; ciò è dovuto al fatto che, come ho sostenuto nel precedente capitolo, Faurisson è negazionista per vocazione ancor prima di dedicarsi allo studio della storia del Terzo Reich.

Robert Faurisson

I diari di Anne Frank si trovano a metà strada tra un documento storiografico e un testo letterario. Non a caso Faurisson si dedica al tentativo di smantellamento di questo testo dopo quindici anni di critica letteraria e immediatamente prima di passare alla sua fase più propriamente negazionista. Lo spazio che il testo in questione si ritaglia (in quanto diario) nell’ambito del sistema dei generi letterari va collocato in un punto ancora da individuare all’interno di quell’area per certi versi ambigua dell’autocomunicazione.

Prima di passare a un’analisi dei contenuti di questo testo, vale forse la pena dedicare un paragrafo alla delineazione dell’identità del suo lettore previsto, secondo un’ipotesi di suddivisione dei generi basata sul concetto di Lettore Modello. L’idea di fondo è che, al di là delle spiegazioni concrete che si possono fornire per fugare tutte le perplessità espresse da Felderer, Butz, Harwood, Faurisson, ecc., una comprensione del tipo di testo che ci troviamo di fronte quando leggiamo i diari di Anne Frank sia necessaria per assumere un atteggiamento fruitivo adeguato nella sua lettura.

Il Lettore Modello nei diari

Chi scrive un diario può essere mosso da due esigenze, per certi versi opposte ma non per questo inconciliabili tra loro: da un lato, può cercare un canale di espressione della propria intimità segreta; dall’altro, può voler lasciare una testimonianza della propria esistenza al resto della collettività, presente o futura (in questo caso il diario si avvicina al genere dell’autobiografia).

La duplice funzione assolta dalla comunicazione diaristica è condensata in una battuta che Oscar Wilde fa pronunciare a un suo personaggio in The Importance of Being Earnest. Riferendosi al proprio diario, Cecily Cardew dice: “vede, si tratta soltanto del registro dei pensieri e delle impressioni di una ragazzina, e di conseguenza è concepito per essere pubblicato”. Il paradosso è solo apparente: nella scrittura diaristica può accadere che le diverse modalità comunicative (autoespressiva e documentaria) si trovino intrecciate in vario modo.

Anche quando la comunicazione diaristica svolge una funzione prevalentemente autoespressiva — quando, cioè, l’autore non si rivolge a un interlocutore esterno ma si serve del testo come una “valvola di sfogo” — è sempre possibile analizzare il processo comunicativo nelle sue componenti, e distinguere l’istanza di produzione del messaggio dall’istanza di ricezione del medesimo.

È ingenuo pensare che, per il solo motivo che in questo caso l’autore empirico coincide fisicamente con il lettore empirico, il primo non venga guidato nella sua opera dall’immagine di un Lettore Modello, dotato di determinate caratteristiche e di una certa competenza specifica. Come sempre accade nella comunicazione, tale immagine (più o meno aderente alla realtà, più o meno consapevole) determina in maniera significativa la forma che il testo assumerà: l’autore non potrà non tenerne conto al momento della produzione.

Resta da scoprire la fisionomia esatta di un simile Lettore Modello, e solo un’attenta analisi di ogni testo specifico potrà assolvere a tale compito. È comunque intuitivo che, anche all’interno della classe dei diari autodiretti, esistano delle sottocategorizzazioni. Allo stato puro, il diario autoespressivo funge da mezzo di purificazione il cui compito si esaurisce nell’istante della scrittura, dopo il quale esso può, al limite, essere gettato via: l’autore non scrive per fissare il ricordo di determinati eventi che lo riguardano, ma per chiarire a se stesso il proprio stato d’animo.

In altri casi l’autore si dimostrerà consapevole della funzione di archivio personale svolta dal suo diario, e si preoccuperà di registrare accuratamente le sue impressioni e i suoi pensieri del momento, nel tentativo di “congelare” il tempo e di conservarlo, per così dire, in provetta. Pur rimanendo nell’ambito ristretto della comunicazione autodiretta (è rigorosamente proibito ad altri di partecipare all’atto comunicativo), questo tipo di diario si avvicina maggiormente a quello che potremmo definire “diario come documento storico”.

Il Lettore Modello riflette l’immagine che l’autore ha di se stesso a distanza di un certo numero di anni, quando risfoglierà le pagine del suo quaderno in veste di destinatario. La distanza temporale prende il posto della distanza spaziale che solitamente separa i due partecipanti all’atto comunicativo. È molto probabile che una simile immagine del lettore si riveli successivamente del tutto illusoria (si pensi alla sensazione di disagio che si prova quando si rilegge il proprio diario), data la caratteristica tipicamente umana di non riuscire a proiettare la propria personalità nel futuro se non come un doppio della propria autoimmagine presente.

Quando invece la funzione documentaria non è più strettamente personale, ma si pone al servizio della memoria collettiva, chi scrive un diario può essere motivato dall’esigenza di lasciare una traccia concreta del proprio passaggio e tradisce quindi la sua (naturale) aspirazione a una  certa forma di immortalità. Naturalmente, non basta essere ricordati dai posteri: l’autore di un simile documento baderà anche a fornire un’immagine ufficiale di sé (o, a livello sociale, della sua comunità) che si avvicini al modo in cui vuole essere ricordato.

Rispetto ai diari del primo tipo (autodiretti), è probabile che i diari eterodiretti vengano sottoposti a un grado maggiore di autocensura e di precisione formale. Alla luce di questi brevi accenni su una possibile tipologia diaristica, risulta subito evidente che nei diari di Anne Frank si trovano intrecciate le diverse modalità espressive alle quali ho fatto accenno.

Il motivo di questa commistione di tipi va ricercato nella storia stessa della stesura del diario: nato come “luogo segreto in cui ritrovarsi sola e in silenzio con se stessa”, esso allarga man mano la cerchia del suo pubblico previsto, in particolare dopo che Anne decide di accogliere l’appello diffuso da Radio Orange agli olandesi di conservare le memorie scritte della persecuzione nazista in vista di una loro eventuale pubblicazione nel dopoguerra.

Risulta dunque infondata l’obiezione di Arthur Butz (1976) secondo il quale a riprova dell’inautenticità del diario vi sarebbe il fatto — che Butz avverte come innaturale — che già a pagina 2 la ragazza tredicenne si senta in dovere di giustificare la sua scelta di scrivere un diario, per poi passare a una breve esposizione della storia della famiglia Frank e a una dissertazione sulle leggi razziali del 1940. Pur non appartenendo alla sfera della pura comunicazione autodiretta, questi elementi segnalano la presenza, all’interno del diario, di un’inclinazione documentaria che non è di per sé estranea allo stile diaristico.

Nella seconda stesura del diario, redatta dall’autrice a partire dal 1944, simili elementi vengono accentuati in vista di un possibile allargamento del pubblico dei lettori previsti.

La storia dei diari di Anne Frank

Per una cronologia dettagliata della storia della stesura e delle edizioni dei diari in questione, rimando all’edizione critica integrale dei medesimi curata da Gerrold van der Stroom e David Barnouw. È più corretto parlare di diari al plurale piuttosto che di un unico diario perché ce ne sono pervenute due versioni entrambe incomplete, curate da Anne stessa. Prima ancora che i vari parenti, amici, traduttori ed editori mettessero mano ai testi originali nel dopoguerra (e vedremo in che misura ciò abbia comportato illecite manomissioni dei testi stessi), la stessa autrice introdusse al loro interno una variabilità che rende oggi necessario un lavoro filologico supplementare.

Gerrold van der Stroom e David Barnouw

La prima stesura dei diari ha inizio il 12 giugno 1942, quando Anne ha tredici anni: essa consiste di tre quaderni che coprono rispettivamente i periodi che vanno dal 12.6.1942 al 5.12.1942, dal 22.12.1943 al 17.4.1944 e dal 17.4.1944 all’1.8.1944. Come si vede, rimane scoperto un lasso temporale di un anno dal primo al secondo quaderno a noi pervenuto, corrispondente alla scrittura di materiale diaristico andato perduto. La seconda redazione dei diari viene intrapresa dall’autrice a partire dal maggio 1944, poche settimane dopo il citato appello lanciato da Radio Orange (28.3.1944).

Da quel momento in poi, Anne lavora contemporaneamente sul suo diario personale (D1) e sulla sua revisione ai fini di un’eventuale pubblicazione (D2). La seconda redazione copre il periodo che va dal 20.6.1942 al 29.3.1944: Anne era arrivata a questo punto nella sua revisione quando la polizia fece irruzione nell’Alloggio segreto nell’agosto 1944. Ne deriva che nessuna delle due redazioni è completa: alla prima manca un periodo tra il primo album e il quaderno di scuola iniziato nel dicembre 1943, mentre alla seconda manca qualche giorno del giugno 1942 nonché tutta la parte finale. Rispetto alla prima stesura, la seconda presenta i seguenti cambiamenti:

  • impiego di pseudonimi per designare i protagonisti delle vicende raccontate;
  • tagli e cuciture;
  • riscritture di alcuni brani;
  • fusioni di racconti scritti sotto date differenti in un unico testo.

In generale, nel passaggio dalla prima alla seconda versione del diario, la funzione documentaria guadagna terreno rispetto a quella puramente autoespressiva, e ciò si ripercuote sulla superficie linguistica del testo (ad esempio, attraverso una maggiore precisione stilistica) e sulla selezione dei contenuti da conservare o da sviluppare. A complicare ulteriormente la questione del ritratto di Lettore Modello iscritto nei diari, subentra inoltre la questione dello sviluppo psicologico dell’autrice, che in termini semiotici si traduce nell’evoluzione delle strategie autoriali riscontrabili nel testo.

Con il passare dei mesi, si assiste a un acuirsi della consapevolezza del valore documentario del diario, e quindi della possibilità che a leggerlo in futuro vi saranno altre persone. Allo stesso tempo, tuttavia, Anne impiega il suo diario come un parametro per valutare la propria maturazione, e ciò spiega le numerose annotazioni che chiosano il testo-base e che mostrano come quest’ultimo fosse “uno strumento di rinnovata lettura e forse anche di verifica dei progressi compiuti o di ripensamento delle ore vissute”.

Talvolta Anne si rammarica di avere scritto determinate cose e, nel distanziarsene, trae profitto dallo scarto che avverte tra i concetti espressi nelle pagine precedenti e le sue attuali posizioni per fare una sorta di autoanalisi. Ad esempio, nel passaggio del 2.1.1944 in D2, l’autrice si rimprovera di avere scritto in passato cose troppo dure contro sua madre e cerca di comprendere i motivi del suo precedente astio nei suoi confronti.

Si capisce dunque come la struttura temporale riscontrabile nei diari sia tutt’altro che lineare e come, parallelamente, sia possibile avvertire in essi la presenza di più voci autoriali spesso dissonanti. Sarebbe dunque assurdo cercare in questo testo complesso una coerenza totale e, d’altra parte, la presenza di eventuali contraddizioni all’interno del diario di per sé non è sufficiente per confutarne l’autenticità – semmai la conferma.

Inoltre, se in certi passi del diario si avverte la consapevolezza da parte dell’autrice di rivolgersi a un pubblico (implicito) allargato, ciò non significa che il documento in questione sia il frutto di una falsificazione storico-letteraria, ma è semplicemente indice di una commistione di diversi tipi astratti di diario (auto- ed eterodiretto).

La storia dei diari di Anne Frank non termina con la loro rielaborazione per mano dell’autrice stessa, bensì comprende una serie di altri capitoli, a ciascuno dei quali corrisponde una nuova versione del testo-base (D1). Dopo la fine della guerra, Otto Frank (il padre di Anne) ritorna ad Amsterdam dove incontra Miep Gies, la donna che aveva aiutato la famiglia Frank durante il periodo della clandestinità.

Otto Frank

Avendo appreso della morte di Anne e di Margot (la sorella) a Bergen-Belsen, Miep Gies consegna a Otto Frank i manoscritti di Anne che aveva trovato nell’appartamento di Prinsengracht subito dopo l’arresto dei clandestini. Come abbiamo visto, mancavano all’appello uno o più quaderni, andati irrimediabilmente perduti. Dopo aver letto i manoscritti della figlia, Otto Frank decide di farne una copia dattiloscritta a beneficio dei parenti e degli amici sopravvissuti. Anche questa versione è andata perduta.

Inoltre, Otto Frank prepara una seconda copia dattiloscritta (D3), la quale è tuttora consultabile: sappiamo dalle dichiarazioni del signor Frank che i criteri che lo guidarono nella sua opera di riscrittura miravano a mantenere intatto ciò che lui considerava essere “l’essenziale” (das Wesentliche) dei diari, tralasciando invece quei dettagli che egli non riteneva potessero interessare al pubblico previsto. Questi ultimi comprendevano: sfoghi polemici contro la madre; commenti circa la condizione femminile nella società, dettagli relativi alla sfera della sessualità; brani ritenuti non interessanti.

A parte queste omissioni, Otto Frank si mantiene piuttosto fedele a D2, integrandolo con D1 laddove ciò sia necessario (ad esempio, per tutto l’ultimo periodo) e con quattro dei Racconti dell’Alloggio segreto scritti da Anne stessa. Successivamente, Otto Frank chiede al suo amico Albert Cauvern di rivedere il materiale trascritto per correggerne gli eventuali errori ortografici o grammaticali allo scopo di proporre il diario a una casa editrice. Albert Cauvern apporta molteplici correzioni e cambiamenti al dattiloscritto consegnatogli. Le modifiche riguardano, oltre alla punteggiatura e a vari aspetti grammaticali e sintattici, anche una serie di soppressioni e di aggiunte non facilmente giustificabili.

Altre mani anonime lasciano le loro tracce sul dattiloscritto di Otto Frank (D3), il quale viene trascritto da Isa Cauvern (moglie di Albert) all inizio del 1946. Il dattiloscritto di Isa Cauvern (D4) è la versione che viene consegnata nel 1946 alla casa editrice Contact. Ulteriori cambiamenti vengono apportati dalla casa editrice olandese: vengono cancellati venticinque passaggi, comprendenti gli accenni che Anne fa al suo sviluppo fisico (la parola “mestruazioni” viene soppressa); il testo originale subisce modifiche (ad esempio “due giorni” diventa “qualche giorno”) e ampliamenti didascalici (quando Anne cita Albert Dussel, gli editori aggiungono “la cui moglie soggiorna felicemente all estero”).

Come osserva Sessi, il risultato globale di tutte queste operazioni editoriali è che “la voce di Anne Frank, pur uscendo dal segreto del suo cuore non modificata nella sostanza del messaggio, ne risultò fortemente ridotta e manipolata” fino a suggerire l’immagine di una protagonista “troppo perfetta, consapevole da subito del compito che il destino le aveva affidato, vittima fin dall’inizio della sua storia”.

Otto Frank approva il testo rielaborato dalla Contact, e questa versione del diario di Anne Frank viene pubblicata nel giugno 1947 con lo stesso titolo — Het Achterhuis (“la casa sul retro”) — che Anne Frank aveva previsto per la pubblicazione del suo diario. Il libro viene recensito positivamente su vari quotidiani e settimanali, ma solo negli anni Cinquanta esso viene tradotto all’estero: nel 1950 in Francia, nel 1952 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, nel 1954 in Italia (Einaudi) e nel 1955 in Germania.

La versione tedesca costituisce un caso particolare: tradotta da Anneliese Schutz (amica della famiglia Frank e insegnante di tedesco di Margot) sulla base della redazione curata da Cauvern (D4), essa presenta ulteriori e pesanti manomissioni del testo originale. Infatti, la difficoltà principale affrontata dalla traduttrice consisteva nel rendere ideologicamente accettabile il diario per un pubblico tedesco, ancora scottato dall’esperienza della guerra.

Anneliese Schutz

Per non urtare la sensibilità dei suoi lettori, la Schutz elimina ogni riferimento troppo esplicito alla Germania e ai tedeschi. Ad esempio, la frase “l’eroismo contro la guerra e contro i tedeschi” viene resa con “l’eroismo contro la guerra e gli oppressori”, mentre il riferimento all”‘obbligo di parlare a bassa voce tutte le lingue di cultura ammesse, dunque il tedesco è escluso “diventa “tutte le lingue di cultura… ma a bassa voce !!!”.

La traduttrice tedesca non si limita a smussare i contenuti più espressamente antitedeschi del testo di partenza, ma introduce una serie di grossolani errori di traduzione e di aggiunte non giustificate. L’esempio più vistoso di tale indebito intervento della traduttrice sul testo olandese è costituito dalla resa della frase “Ha dimenticato la minestra che è bruciata a tal punto che i piselli, carbonizzati, si incollarono sul fondo della casseruola”, che la Schutz completa con l’aggiunta “Che peccato che io non possa raccontare questa storia a Kepler… teoria dell’ereditarietà!”, confondendosi evidentemente tra Mendel e Keplero.

La storia editoriale dei diari di Anne Frank dimostra complessivamente un atteggiamento di eccessivo lassismo filologico che, alla lunga, si è dimostrato deleterio in quanto ha fornito non pochi appigli a tutti coloro che avevano un interesse a delegittimare il testo in questione. Quest’ultimo — assurto allo statuto di documento-simbolo della persecuzione nazista degli ebrei — è diventato la posta in gioco nella battaglia ideologica tra i nuovi antisemiti e i loro avversari.

A rendere l’intera matassa ancora più intricata subentra la questione della riduzione teatrale dei diari. Nel 1952 Otto Frank chiede all’agente letterario Meyer Levin di interessarsi all’eventuale produzione di uno spettacolo tratto dal libro di sua figlia. Levin scrive un copione tratto dai diari, ma nessun produttore glielo accetta. Dopo vari tentativi andati a vuoto, Frank si rivolge a un altro agente che commissiona il copione a due affermati sceneggiatori della MGM, i quali nel 1955 vinceranno il Premio Pulitzer grazie alla pièce teatrale tratta dai diari.

Levin intenta causa contro gli sceneggiatori per plagio e, a seguito di un accordo informale, gli vengono risarciti 15.000 dollari in cambio della sua totale rinuncia ai diritti d’autore. Tutto ciò non avrebbe alcun interesse ai fini della presente ricerca se non fosse che alcuni negazionisti si sono appigliati a questa vicenda per sostenere che l’autore dei presunti diari di Anne Frank sia in effetti Levin.

Gli attacchi all’autenticità dei diari di Anne Frank

Il primo a mettere in dubbio l’autenticità dei diari è il danese Harald Nielsen che, in un articolo pubblicato in Svezia nel 1957 (nel giornale Fria Ord), sostiene che il vero autore dei testo sia Levin. Come prova a sostegno della sua tesi Nielsen afferma che nomi come Anne e Peter non sono tipici nomi ebraici. Simili critiche vengono ribadite in Norvegia, in Austria e in Germania Occidentale (1958), ma passano relativamente inosservate e non hanno sviluppi giuridici.

Harald Nielsen

Sempre nel 1958, l’insegnante Lothar Stielau di Lubecca, che vanta un passato di dirigente della Hitlerjugend, scrive un saggio di critica teatrale in cui inserisce la seguente frase: “I falsi diari di Eva Braun, della regina d’Inghilterra e quello, a malapena più autentico, di Anne Frank hanno in dubbiamente portato qual che milione agli approfittatori della sconfitta della Germania, ma d’altra parte hanno esacerbato la nostra sensibilità a questo tipo di cose”.

Invitato a spiegarsi meglio di fronte a un funzionario del Ministero della Cultura, Stielau sostiene di non avere mai voluto negare che Anne Frank abbia tenuto un diario, ma di dubitare che la versione pubblicata corrisponda al testo originale. Poi, per difendersi meglio dalla querela per diffamazione che nel frattempo era stata sporta contro di lui da Otto Frank, Stielau cerca di convincere gli avvocati che in realtà le sue accuse erano mirate alla pièce teatrale e non al libro.

Il caso Stielau-Frank sfocia in una perizia per verificare l’autenticità del diario. Uno degli esperti, Friederich Sieburg, osserva l’assurdità insita nell’idea stessa della falsificazione del diario di una perfetta sconosciuta. La vicenda viene risolta prima del processo con una composizione tra le parti e con una ritrattazione pubblica di Stielau che si dichiara convinto dell’autenticità del diario, ma la rinuncia da parte di Otto Frank ad andare sino in fondo gli si ritorcerà contro. Infatti, la sua disponibilità al compromesso verrà vista da taluni come il chiaro sintomo della debolezza della sua posizione.

Nel 1959 la rivista viennese Europa Korrespondenz pubblica un articolo intitolato “Der Anne Frank-Skandal. Ein Beitrag zur Wahrheit” in cui si sostiene che il vero autore del documento in questione è Louis de Jong , direttore dell ‘Istituto Nazionale Olandese della documentazione di guerra. In effetti, nel 1957 de Jong si era limitato a recensire l’edizione olandese del diario.

È raro che i negatori dell’autenticità del diario giustifichino in maniera particolareggiata il proprio scetticismo. Generalmente essi si riagganciano senza grande inventiva alla tradizione fornita dai loro predecessori, ad esempio ribadendo la tesi (a più riprese confutata) del ruolo determinante giocato da Levin nella stesura dei diari. Questa è la posizione sostenuta da Teressa Hendry in un articolo pubblicato nel 1967 dalla rivista Tbe American Mercury. La Hendry scrive:

“Da qualche anno, il mondo occidentale ha fatto la conoscenza di una ragazzina ebrea tramite la sua presunta autobiografia, Il diario di Anne Frank. Una qualunque ispezione letteraria informata di questo libro avrebbe dimostrato che è impossibile che esso sia l’opera di una teenager.

Una interessante decisione della Corte Suprema di New York conferma questa opinione, indicando come un noto scrittore ebreo americano, Meyer Levin, abbia riscosso $ 50.000 dal padre di Anne Frank come onorario per il suo lavoro sul Diario di Anne Frank.

Dalla Svizzera, il signor Frank ha promesso di pagare niente meno che $ 50.000 al suo compagno di razza [race-kin] Meyer Levin, perché aveva usato i dialoghi dell’Autore Levin senza apportarvi modifiche e l’aveva “innestato” nel diario, spacciandolo per l’opera intellettuale di sua figlia”.

Il rimando al lavoro precedente svolto da altri autori, ai quali viene attribuito un pedigree illustre, è un tratto tipico degli scritti di chi voglia screditare la tradizione critica ufficiale per contrapporvi un paradigma che si vuole eretico. Si tratta di creare un filone critico alternativo che possa ostentare radici altrettanto remote e autorevoli di quelle vantate dalla critica tradizionale.

Così, nel 1974 Richard Harwood (pseudonimo di Richard Verrall) scrive un pamphlet intitolato Did Six Million Really Die ?, in cui ripropone l’articolo della Hendry (1967), a sua volta derivato da quello di Nielsen (1957). Secondo Harwood, i diari di Anne Frank sono “l’ennesima frode nella lunga serie di frodi in supporto della leggenda dell”Olocausto’ e della saga dei Sei Milioni”.

Gli attacchi all’autenticità dei diari si fanno molto più intensi verso la metà degli anni Settanta, ossia in un periodo che non a caso coincide con la ripresa del fenomeno del negazionismo. Nel 1975 lo storico revisionista/negazionista David Irving scrive, nell’introduzione al suo Hitler and His Generals :

Sono state registrate molte falsificazioni, come quella del Diario di Anne Frank (in questo caso specifico, un processo civile intentato da uno sceneggiatore newyorkese ha apportato la prova che egli aveva scritto il diario in collaborazione con il padre della ragazza).

Ancora una volta, dunque, viene riproposta la vecchia congettura (data per certa) dell’invenzione post-bellica del diario, e non ci vuole molto per scorgere in questa interpretazione distorta dei fatti un’ennesima versione della logora sceneggiatura del monopolio ebraico dei mezzi di comunicazione di massa. Nonostante le numerose prove contro tale spiegazione (è sufficiente leggere il testo dell’accordo tra Otto Frank e Meyer Levin per rendersi conto della sua falsità), essa si dimostra estremamente tenace, un po’ come la leggenda dei Protocolli dei Savi di Sion, tuttora sostenuta da molti esponenti dell’estrema destra.

Anche Faurisson, in un primo tempo, si riallaccia all’ipotesi Levin per screditare il diario di Anne Frank: in una lettera inviata a Jean-Marc Théolleyre nel settembre 1975 a proposito di un’opera di Hermann Langbein su Auschwitz, egli scrive:

“Gli specialisti del Monde si tengono al corrente dell’attualità? Leggono gli studi o le testimonianze che si moltiplicano sulla “menzogna” o la “truffa” di Auschwitz? Conoscono le statistiche del S.I.R.? (D-3548 Arolsen) che pure sono state accertate da un organismo parziale? Sanno che il Diario di Anne Frank è una montatura di Meyer Levin?”

Successivamente, come avremo modo di vedere, Faurisson modificherà la sua strategia di attacco contro l’autenticità del diario, abbandonando la tesi insostenibile della collaborazione Otto Frank/Meyer Levin nella prima stesura del diario. Ma prima ancora di elaborare il suo schema esplicativo definitivo, che non ha nulla a che vedere con la precedente tesi, egli parte già convinto della falsità del documento. La spiegazione circa i motivi del suo scetticismo viene confezionata ad hoc a partire da un dato che per lui, come per gli altri negazionisti, è irrefutabile: il diario è un falso.

Come Faurisson, anche lo svedese Ditlieb Felderer (1978) rinuncia alla conveniente ipotesi della paternità newyorkese del diario. In Anne Frank Diazy — A Hoax ? sebbene riconosca che l’attribuzione del diario a Meyer Levin sia priva di fondamento, Felderer si lancia in una serie di invettive miranti a diffamare l’autrice del documento. Non è del tutto chiaro se il suo intento sia di dimostrare l’inautenticità del diario, come suggerirebbe il titolo del suo scritto, oppure di gettare fango sulla sua protagonista, insinuando che essa fosse una persona poco raccomandabile.

Per fare qualche esempio, alcuni titoli dei capitoli del libro in esame sono: “La personalità di Anna – non era neanche una ragazza simpatica”, “Tossicodipendente a una tenera età”, “Sesso giovanile”, “Stravaganze sessuali”, “Il primo porno infantile”. L’accusa di tossicodipendenza viene giustificata con il fatto che ogni sera Anne prende una pasticca di valeriana (come scrive il 16.9.1943), mentre le aberrazioni sessuali che le vengono imputate consisterebbero nella sua storia d’amore quasi fraterno con Peter Van Pels, il suo giovane compagno di reclusione.

Come osserva Deborah Lipstadt, Felderer — che in precedenza aveva pubblicato dei fumetti dal contenuto esplicitamente sessuale sui sopravvissuti della Shoah — si avvale di tutto il tradizionale repertorio di stereotipi denigratori sulle presunte degenerazioni sessuali degli ebrei (accusati di essere depravati, assatanati, ambivalenti e senza alcun freno morale) per condurre una campagna bassamente infamante ai danni della famiglia Frank.

Data la totale assenza di argomentazioni che abbiano anche solo una parvenza di scientificità negli scritti di Felderer, non ritengo proficuo soffermarmi ulteriormente su di essi. È tuttavia interessante che un autore come Faurisson, il quale tenta di conferire alle sue critiche un’aria di pacato rigore metodologico, non abbia preso le distanze da questo suo compagno di crociata. In effetti, nonostante le differenze stilistiche che si riscontrano nelle pagine dei due autori in questione, anche nel lavoro di Faurisson ritroviamo il tentativo di macchiare l’immagine dei protagonisti del diario.

Ad esempio, Anne viene descritta come una ragazza priva di carattere e scarsamente dotata dal punto di vista scolastico e intellettuale. O ancora, ecco come Faurisson riporta il passo in cui Anne scrive che prima del suo periodo di clandestinità aveva passato una notte a casa di un amica e le aveva chiesto se potevano toccarsi reciprocamente il seno:

“[…] Anne ha domandato alla sua compagna di una notte se, a testimonianza della loro amicizia, non potevano palparsi reciprocamente il seno. Ma la compagna aveva rifiutato. E Anne, che sembra avere pratica in materia, ggiunge: «trovavo sempre gradevole abbracciarla e l’ho fatto».” (in Thion, 1980)

Non è immediatamente evidente l’utilità di una simile operazione: difatti se veramente il documento fosse il frutto di una contraffazione letteraria, non si vede perché i suoi autori avrebbero costruito personaggi fittizi che fossero meno che moralmente irreprensibili o intellettualmente capaci. D’altra parte, se Faurisson sostiene di essere giunto alle sue conclusioni circa il carattere di Anne indipendentemente da ciò che emerge dal diario (di cui non sarebbe l’autrice), non è chiaro da dove egli tragga gli elementi sufficienti per giudicarne la vera personalità.

Il motivo di simili contraddizioni presenti nella linea di attacco seguita dai vari detrattori del diario di Anne Frank va ricercato nella confusione che essi fanno tra le categorie del falso d’autore, da una parte, e della contraffazione ex nihilo, dall’altra. Infatti, se si decide di mettere in dubbio l’autenticità di un qualsivoglia documento, si deve per lo meno decidere preventivamente se si intende sostenere che tale documento sia menzognero nei contenuti (ma autentico quanto al suo autore dichiarato), oppure se esso sia stato falsamente attribuito se non addirittura costruito a tavolino allo scopo di ingannare i lettori circa l’identità del suo autore (ma in questo caso non è indispensabile che esso sia ritenuto mendace).

Nel primo caso si cercherà di screditare la serietà documentaria dell’autore (e, nei casi meno sofisticati, di metterne in dubbio la statura morale), laddove nel secondo caso l’obiettivo sarà di sottolineare l’impossibilità materiale che il preteso autore abbia in effetti scritto il documento in esame, mentre il profilo psicologico dell’autore stesso (che autore non è) è del tutto irrilevante.

La famiglia Frank

Così, se ritengo che le informazioni contenute in un articolo di giornale siano tendenziose e poco aderenti alla realtà, mentre mi sarà utile dimostrare che il giornalista incriminato ha in passato diffuso scoop rivelatisi successivamente del tutto infondati, non mi preoccuperò di mettere in dubbio il fatto che egli sia effettivamente l’autore dell’articolo in questione.

D’altra parte, se intendo sostenere che l’autore del cosiddetto Constitutum Constantini non può essere l’imperatore Costantino, come si è erroneamente creduto per secoli, non mi preoccuperò di imbrattare l’immagine di Costantino con accuse di inaffidabilità e di propensione alla menzogna ma dimostrerò come ha fatto Lorenzo Valla, che l’uso di certe forme linguistiche presenti nel testo non era possibile all’inizio del IV secolo d.C. Il mio metodo sarà dunque prettamente filologico e non trarrà alcun vantaggio da una campagna diffamatoria alle spese del preteso autore.

Generalmente i negazionisti partono col proposito di demolire ogni pretesa di autenticità del diario di Anne Frank. Felderer scrive che il diario è “una contraffazione, un mostruoso travestimento”; per Butz “la questione dell’autenticità del diario non è abbastanza importante da essere analizzata in questa sede: mi limito a dire che l’ho esaminata e non ci credo”; anche Faurisson sostiene che “il diario non può, in alcun modo, essere autentico”, dove per autenticità si intende la corretta attribuzione autoriale del testo.

Tuttavia, gli elementi che essi poi adducono a sostegno del loro scetticismo radicale (nei rari casi in cui sia presente anche un semplice abbozzo di argomentazione per prove), si rifanno per lo più alla sfera della contestazione delle presunte falsità riscontrabili nel testo e non a quella della ricerca filologica sul supporto materiale o sui tratti stilistici.

Addirittura, Faurisson afferma che “la consultazione dei manoscritti pretesamente autentici è superflua”. Per mettere un po’ di ordine nelle confuse argomentazioni proposte da Faurisson in Le Journal d’Anne Frank est-il authentique ? scritto in difesa di Heinz Roth (il quale nel 1975 si riallaccia a Irving e a Harwood per sostenere nuovamente che il diario è stato scritto da Otto Frank in collaborazione con uno sceneggiatore newyorkese), può essere utile riprendere la classificazione proposta da Eco (1990) a proposito dei falsi e delle contraffazioni, nonché dei criteri adeguati per decidere dell’autenticità dei documenti.

Mentre è teoricamente impossibile dimostrare con assoluta certezza l’autenticità di un qualunque manufatto (è sempre possibile che il contraffattore abbia agito con precisione filologica impeccabile, traendo tutti in inganno), disponiamo di una serie di criteri interpretativi per smascherare i falsi “imperfetti”. Questi criteri vengono suddivisi in quattro classi principali:

(i) prove attraverso il supporto materiale: il documento è un falso se il materiale di cui è composto risale a un’epoca posteriore rispetto a quella della sua presunta origine ;

(ii) prove attraverso la manifestazione lineare (la superficie espressiva) del testo: il documento è un falso se i suoi tratti stilistici, lessicali e grammaticali non sono conformi a quelli vigenti all’epoca della sua produzione o allo stile del suo presunto autore ;

(iii) prove attraverso il contenuto: il documento è un falso se le categorie concettuali, le tassonomie, i modi di argomentazione ecc., riscontrabili in esso sono inconciliabili con quello che si presume essere il bagaglio di conoscenze posseduto dai suoi presunti autori;

(iv) prove attraverso i referenti esterni: il documento è un falso se gli eventi o le cose che riferisce non potevano essere noti al momento della sua produzione.

Nel caso in cui tali eventi o cose si suppongano essere non inconcepibili all’epoca in cui si dichiara essi siano stati scritti (come potrebbe essere la menzione della bomba atomica in un testo del Seicento) ma semplicemente non conformi alla realtà dei fatti, il critico non balzerà automaticamente alla conclusione che il documento in esame sia falso (nel senso di non autentico), ma si limiterà a constatare che, per un motivo che resta da chiarire, l’autore di tale documento abbia mentito o sia caduto in errore.

Sebbene nessuno dei criteri citati sia di per sé sufficiente per decidere se qualcosa sia autentico, attraverso la loro azione combinata possiamo sperare di giungere a una buona approssimazione della verità, intesa qui più come un principio di coerenza interna che come un valore assoluto e inconfutabile. Evidentemente, se tutte le prove di autenticità danno un esito positivo, e se non abbiamo un ottimo motivo per dubitare di ciò che l’evidenza sperimentale ci suggerisce, è irragionevole ostinarsi nella convinzione di trovarsi di fronte a una contraffazione.

Altrimenti, come ricorda Eco, ci si troverebbe costretti a esaminare la Gioconda ogni volta che si va al Louvre, perché senza una verifica di autenticità non ci sarebbe alcuna prova che la Gioconda vista oggi è indiscernibilmente identica a quella vista la settimana scorsa”.

Vediamo ora come le obiezioni di Faurisson sul diario di Anne Frank si dispongano nel quadro concettuale appena delineato.

(i) Prove attraverso il supporto materiale

Come abbiamo visto, Faurisson parte dalla certezza che il diario sia il frutto di una contraffazione, e per questo motivo ritiene del tutto superflue una perizia calligrafica e un’analisi dei materiali di cui sono composti i volumi originali del diario. Si tratta di un curioso ribaltamento della tradizionale pratica scientifica, che solitamente trae spunto dai dati sperimentali per giungere a conclusioni teoriche sempre rinegoziabili e non rifiuta aprioristicamente il confronto diretto con l’esperienza — è questa una delle differenze principali tra il metodo della scienza e quello della fede religiosa.

Nonostante la sua dichiarata indifferenza nei confronti dell’aspetto materiale dei manoscritti, Faurisson non si astiene dall’osservare che in essi sono compresenti due calligrafie diverse, di cui una sarebbe una scrittura adulta (secondo Faurisson, troppo adulta per una ragazzina di tredici anni), mentre l’altra sarebbe più chiaramente infantile. Al lettore del testo di Faurisson vengono presentati due campioni calligrafici e, in effetti. egli constata una grande differenza tra i due.

Ma non è finita qui: a giudicare dalle date attribuite ai due campioni, dice Faurisson, lo stralcio che presenta la scrittura adulta è anteriore di quattro mesi rispetto a quello, tratto dal retro di una fotografia. in cui compare la calligrafia infantile. Faurisson tuttavia sorvola sul fatto che le due calligrafie si alternano lungo tutta la lunghezza dei diari e dunque non è possibile concepirne una come lo sviluppo dell’altra.

La prima obiezione più evidente è che nessun contraffattore che si rispetti commetterebbe l’errore di alternare a casaccio due stili calligrafici talmente diversi sperando che nessuno si accorga della differenza. Come insegna il critico d’arte ottocentesco Morelli, non sono gli elementi più vistosi (il sorriso della Gioconda) ma sono i dettagli meno appariscenti (il modo in cui il pittore rende le unghie o i lobi delle orecchie) a segnalare la presenza di una contraffazione.

Ma per rispondere più esaurientemente alle perplessità di Faurisson, è utile il rapporto di 270 pagine stilato dal Laboratorio giudiziario di Amsterdam su richiesta dell’Istituto nazionale di documentazione sulla guerra e riportato in forma abbreviata (80 pagine) nell’edizione integrale dei diari di Anne Frank.

Dal rapporto emerge chiaramente che, come il 15% dei coetanei suoi contemporanei, Anne faceva uso sia del corsivo (“scrittura adulta”), sia dello stampatello (“scrittura infantile”), e alternava i due stili, anche se con il passare del tempo la proporzione di testo in corsivo aumenta rispetto a quella in stampatello. Il rapporto inoltre sottolinea come la calligrafia riscontrata nei diari sia la stessa che si trova in varie cartoline, lettere e poesie che Anne aveva mandato a parenti e amici tra il 1941 e il 1942 e che gli studiosi olandesi hanno recuperato allo scopo di mettere insieme un campione di riscontro attendibile.

Un altro elemento che conforta l’ipotesi dell’autenticità materiale dei diari è il fatto che la carta, la colla e l’inchiostro impiegati fossero diffusi nel periodo al quale il diario è fatto risalire. Ad esempio, nelle pagine non sono state riscontrate tracce di agenti sbiancanti, introdotti nella fabbricazione della carta dopo il 1952. Inoltre, l’inchiostro grigio-blu di cui sono composte quasi tutte le parole che coprono le pagine del diario reca evidenti tracce di ferro, mentre dal 1950 in poi hanno fatto la loro comparsa gli inchiostri a basso o nullo contenuto ferroso.

Infine, la frequente presenza di tracce simmetriche di inchiostro su due pagine contigue indica che il diario è stato più volte chiuso frettolosamente prima che l’inchiostro stesso avesse modo di asciugare, e ciò fa pensare a un uso quotidiano del diario piuttosto che a una sua metodica stesura. Naturalmente è sempre possibile che il contraffattore abbia diabolicamente previsto tutti questi dettagli e abbia confezionato un falso quasi-perfetto; ma allora perché avrebbe dovuto cadere così stupidamente su errori che, a leggere Faurisson, sono a dir poco grossolani?

(ii) Prove attraverso la manifestazione lineare del testo

Includo in questa categoria le presunte anomalie relative alla forma dell’espressione (elementi stilistici e lessicali, lunghezza del testo) che Faurisson cita come prove a favore dell’ipotesi della falsificazione dei diari. Secondo Faurisson, la personalità di Anne che emerge dai diari è “inventata e inverosimile”, e ciò si rifletterebbe negli elementi stilistici che a suo parere contrastano con l’età anagrafica della presunta autrice al momento della scrittura.

Come esempio di tale incompatibilità stilistica, egli cita l’espressione stereotipata “i figli di Flora” che appare nella prima lettera del diario (14.6.1942) e che a suo avviso indica al di là di ogni dubbio che l’autore del testo non poteva che essere un adulto. Io ribalterei questa posizione per sostenere che semmai un’espressione stereotipata con forti connotazioni di “letterarietà” come quella in esame parrebbe proprio uscire dalla penna di uno scrittore ancora giovane e relativamente inesperto, benchè dotato di ambizioni letterarie e di una certa cultura.

Faurisson cita tutti i tagli, le aggiunte, le alterazioni introdotte nelle traduzioni (soprattutto in quella tedesca) del diario per sostenere la sua tesi circa la presunta inautenticità del diario. Con la sua abituale puntigliosità, indica i passi nella versione tedesca che differiscono da quella olandese, nonché le differenze presenti nelle varie edizioni tedesche del diario.

Dieci anni dopo la sua morte, il testo di Anne Frank continua a trasformarsi. Le edizioni Fischer pubblicano in formato tascabile nel 1955, il suo Diario in una forma “discretamente” rimaneggiata. Il lettore potrà confrontare le lettere seguenti:

– 9 luglio 1942: “Hineingekommen … gemalt war” (= 25 parole) sostituito con: “Neben … gemalt war” (= 41 parole). Comparsa di una porta! – 11 luglio: “bange” sostituito da “besorgt”; – 21 settembre 1942: “gerügt” sostituito da “gescholten ” e “drei Westen ” trasformato in “drei Wolljacken” (in Thion, 1980)

Dalla lista delle divergenze tra i due testi tedeschi, che comprende altri quattro punti dello stesso peso dei tre riportati in citazione, Faurisson trae conclusioni piuttosto sorprendenti:

“Queste ultime trasformazioni sono state fatte da un testo tedesco a un altro testo tedesco. Non possono pertanto essere giustificate da una traduzione maldestra o fantasiosa. Esse provano che l’autore del Diario — chiamo così, in modo del tutto normale, il responsabile del testo che leggo — viveva ancora nel 1955. […] Quest’autore non poteva essere Anne Frank che, come si sa, è morta nel 1945”.

Il ragionamento di Faurisson è evidentemente fallace: come al solito, vi è un’enorme sproporzione tra l’anomalia riscontrata nel testo (la presenza di ritocchi nella versione tedesca del diario) e le conclusioni a cui giunge il critico. Infatti, la presenza di interventi editoriali anche vistosi e ingiustificati non toglie nulla all’autenticità dei documenti originali, e può essere spiegata con il fatto che per decenni il diario di Anne Frank è stato trattato più come un’opera letteraria che come un documento storico che andasse rispettato alla lettera.

Questa spiegazione è molto più semplice di quella, indubbiamente più avvincente, di un autore occulto che ancora nel 1955 aggiungeva gli ultimi ritocchi al suo capolavoro. Faurisson giunge a sostenere che, siccome il testo tedesco è più lungo di quello olandese (circa 1710 parole in più secondo i suoi calcoli), probabilmente quest’ultimo è stato tratto dal primo e non viceversa, come si è ingannevolmente sostenuto. Ancora una volta, da un piccolo dato iniziale si giunge a conclusioni enormi, che oltrettutto non trovano alcuna conferma ulteriore se non nel sistema di credenze del critico.

La maggiore estensione della versione tedesca del diario è in realtà dovuta al fatto che questa comprende alcuni passaggi che erano stati esclusi dalla casa editrice Contact, ma che si ritrovano agevolmente nei manoscritti originali.

(iii) Prove attraverso il contenuto

Sono assenti nelle argomentazioni di Faurisson.

(iv) Prove attraverso i referenti esterni

Il 9 ottobre 1942, Anne parla già di “camera a gas” (testo olandese: “vergassing “) ! (in Thion, 1980)

Finalmente capiamo il motivo per cui Faurisson è così ansioso di dimostrare l’inautenticità del diario di Anne Frank. Secondo la sua argomentazione, la menzione che Anne fa delle camere a gas quando è ancora reclusa in Prinsengracht è la prova lampante del fatto che il diario sia una contraffazione, e ciò per due motivi: prima di tutto perché all’epoca in cui Anne scriveva il suo diario non si parlava ancora apertamente di gassazioni nei campi di sterminio, ma soprattutto perché (secondo Faurisson) le camere a gas non sono mai esistite.

Il nascondiglio di Anna Frank

Il secondo punto è per il momento irrilevante, in quanto non intaccca minimamente la questione dell’autenticità o meno del documento in questione. Quanto al primo punto, per rendersi conto se si tratta di un anacronismo è sufficiente verificare quali informazioni circolassero a quell’epoca circa la gestione dei campi di sterminio in Polonia, che — secondo la storiografia ufficiale — dal 1942 avevano messo in funzione le camere a gas. A questo fine ci viene in aiuto

l’edizione critica dei diari, che in una nota a piè di pagina (p. 313) ci informa che a partire dal giugno 1942 la BBC aveva incominciato a diffondere la notizia delle gassazioni in Polonia. Il brano del diario fa dunque sistema con gli altri indizi e non presenta alcuna anomalia sulla quale fare appiglio.

Nessuno degli elementi citati da Faurisson mina in alcun modo l’autenticità dei diari. In effetti, malgrado le sue dichiarazioni di intenti (ossia, di dimostrare che il diario di Anne Frank sia “una soperchieria”), la maggior parte delle obiezioni da lui avanzate non riguarda tanto la questione dell’autenticità del diario, quanto quella della verità o meno delle asserzioni in esso contenute.

Rimane dunque aperta una possibilità, ancora da verificare: il diario potrebbe essere stato sì scritto da Anne Frank, ma quest’ultima avrebbe potuto essersi inventata tutto (in questo caso il diario rappresenterebbe un esempio di falso d’autore).

Secondo Faurisson, il testo pullula di inverosimiglianze o “assurdità materiali” le quali rendono del tutto inconcepibile che otto persone abbiano potuto vivere per più di due anni in clandestinità senza venire scoperte. Faurisson sembra dimenticare un piccolo ma doloroso fatto: gli otto clandestini sono stati scoperti e mandati nei lager, tant’è vero che di essi solo uno è sopravvissuto fino al dopoguerra.

Tra i “fatti inverosimili o inconcepibili” citati da Faurisson vi sono:

— i rumori: i clandestini devono fare attenzione a non farsi sentire dai vicini e difatti prendono la codeina per non tossire. Come e allora possibile che la signora Van Pels (Van Daan nel testo) passi l’aspirapolvere ogni giorno alle 12:30 (5.8.1943), che in casa venga usata la sveglia (4.8.1943), che si facciano lavoretti di bricolage (23.2.1944), che si ascolti la radio, che si litighi rumorosamente, che si scoppi in fragorose risate, ecc. ?

Ognuno di questi esempi viene isolato dal suo contesto più ampio. Così, Faurisson tralascia di dire che l’aspirapolvere veniva passato quando i magazzinieri andavano a mangiare, che gli edifici attigui a Prinsengracht 263 erano rispettivamente un mobilifício (n. 261) e la filiale della Keg (n. 265), che spesso nel diario Anne si rallegra che nonostante la loro imprudenza i clandestini non siano stati sentiti, che la donna delle pulizie è sorda e, infine, che evidentemente le misure precauzionali prese dalla famiglia Frank e dai loro compagni non sono state sufficienti;

— le tendine: appena istallatisi nell’Alloggio segreto, i Frank e i Van Pels attaccano delle tendine alle finestre per non essere visti dall’esterno; secondo Faurisson, non vi è modo migliore per segnalare la presenza di nuovi inquilini che attaccando delle tende alle finestre. Evidentemente Faurisson immagina che tutta l’umanità condivida il suo atteggiamento perennemente sospettoso e sia pronta ad andare sino in fondo di fronte a ogni sia pur minima anomalia apparente. È vero che negli anni dell’occupazione nazista vi era un certo numero di collaborazionisti tra la popolazione olandese, ma non è detto che tutti gli olandesi fossero disposti a segnalare alla polizia degli invasori la presenza di ogni nuova tendina attaccata alle finestre;

— i rifiuti: i clandestini di Prinsengracht erano obbligati a bruciare i propri rifiuti, non avendo accesso alla strada. Per Faurisson il fumo nero del camino avrebbe sicuramente attirato l’attenzione dei vicini e quindi è inconcepibile che questi ultimi non avessero segnalato prima la presenza degli ebrei nel nascondiglio alla Gestapo ;

le quantità di cibo consumate dai clandestini richiedevano un costante rifornimento, e ciò non poteva passare inosservato ;

— il movimento dei gatti: il continuo passaggio sui tetti del gatto dei Van Pels avrebbe senz’altro insospettito qualcuno;

— l’elettricità : da dietro le tendine i dirimpettai avrebbero potuto vedere il bagliore delle luci accese nell’Alloggio segreto. Il testo del diario tuttavia ci dice che, appena faceva buio, i clandestini oscuravano le finestre con dei pannelli prima di accendere la luce. Inoltre, le finestre sul retro della casa erano state dipinte di blu con la scusa che la luce del sole avrebbe danneggiato le spezie conservate nel magazzino (era questo il ruolo ufficiale dell’edificio sul retro, in cui alloggiavano i clandestini);

– la scelta dell’ufficio come nascondiglio: Prinsengracht 263 era inizialmente la sede dell’Opekta, la compagnia di Otto Frank; secondo Faurisson, sarebbe stato molto imprudente scegliere proprio il retro dell’ufficio come nascondiglio segreto.

Rispondere a ognuna di queste obiezioni singolarmente è possibile, ma inutile. Faurisson sembra incapace di accettare il fatto che in situazioni straordinarie, come quella in cui si trovavano  tutti gli ebrei durante la seconda guerra mondiale, succedono anche cose insolite.

Evidentemente i Frank e i loro compagni di sventura erano consapevoli di correre molti rischi, ma confidavano nello scarso spirito di osservazione o nella collaborazione di chi stava loro intorno. In ciò, essi commisero un grosso errore di valutazione: tra i tanti cittadini di Amsterdam disposti a lasciare in pace gli otto ebrei nel loro nascondiglio, ce ne era uno che — come Faurisson — controllava con zelo la quantità di fumo emesso dai comignoli o i movimenti dei gatti sui tetti.

A testimonianza della scarsa onestà scientifica del lavoro di Faurisson vi è da un lato il suo resoconto del colloquio avuto con Otto Frank a Basilea nel 1977, in cui lascia intendere che il suo interlocutore si sia trovato ripetutamente senza parole di fronte alle pressanti richieste di delucidazioni da parte dell’intervistatore (“Questa audizione si è rivelata opprimente per il padre di Anne Frank”), e dall’altro la menzione di quella che per Faurisson è la prova schiacciante a favore della sua tesi: la fotocopia di una busta sigillata dentro la quale sarebbe contenuto il nome di un testimone-chiave che, pur volendo rimanere anonimo, dichiara di aderire all’interpretazione di Faurisson, anche se non ci viene illustrato il contenuto della sua testimonianza.

“Questo testimone ci ha implorati, il mio accompagnatore e me, di non divulgare il suo nome. Ho promesso di tacere il suo nome. Manterrò la promessa solo a metà. L’importanza della sua testimonianza è tale che mi sarebbe impossibile passarla sotto silenzio. Il nome di questo testimone e iI SUO indirizzo, così come il nome del mio accompagnatore e il suo indirizzo, sono annotati in una busta sigillata contenuta nel mio allegato n.2: “Confidenziale”. (in Thion, 1980)

Dopo aver passato in rassegna le argomentazioni avanzate da Faurisson a sostegno della tesi dell’inautenticità dei diari e dopo aver visto che nessuna di esse è in grado di gettare seri dubbi sulla veridicità del documento in questione, ritengo che sia utile ribadire con Eco che “i giudizi di autenticità sono frutto di ragionamenti persuasivi, fondati su prove verosimili anche se non del tutto inconfutabili, e accettiamo queste prove perché è più ragionevolmente economico accettarle che passare il tempo a metterle in dubbio”.

Il sospetto fine a se stesso non è segno di scrupolo scientifico (come si illude Faurisson) ma diventa un sintomo della sindrome del complotto se non è suscitato da un’esperienza inaspettata che contravvenga vistosamente alle proprie regole interpretative accettate.

“Falsus in Uno, Falsus in Omnibus”

La contestazione dell’autenticità del diario di Anne Frank gioca un ruolo di un certo rilievo nell’ambito delle strategie complessive impiegate dai negazionisti per suscitare incertezze circa l’esistenza della Shoah. L’obiettivo è di insinuare dubbi attorno a quello che, per vari motivi, col passare del tempo è diventato un documento paradigmatico nella storia della persecuzlone ebraica e, facendo ciò, di sperare che il lettore — disilluso e stizzito per essere stato ingannato per tutti questi anni — estenda il proprio scetticismo a ogni altro aspetto della storia ufficiale dello sterminio nazista.

Bradley Smith

La logica è quella del “Falsus in Uno, Falsus in Omnibus” (titolo di un articolo diffuso nelle università americane dal negazionista californiano Bradley Smith): se il paradigma ufficiale cede anche in un solo punto della sua formulazione, allora bisogna considerarlo complessivamente mendace. Per ottenere un simile scopo, è essenziale sgretolare l’accordo sociale su cui si basa la cultura della nostra (come di ogni altra) società, e reimpostare il consenso su altre basi.

Per questo motivo, i negazionisti isolano ogni documento che pretendono di analizzare dal suo contesto più ampio, trascurando il fatto che il significato di un corpus di testi come quello costituito dai documenti storiografici attorno a un certo avvenimento non consiste nella somma, bensì nel prodotto dei singoli testi che lo compongono e che si completano e si confermano a vicenda.

Nel prossimo capitolo illustrerò come Faurisson e altri negazionisti minori affrontino l’analisi di una delle tante tessere che compongono il mosaico della storia della gestione dei campi di sterminio: il diario di J. P. Kremer, medico ad Auschwitz.

Il diario di Kremer, medico ad Auschwitz

Il metodo interpretativo impiegato da Faurisson nella lettura dei documenti storiografici emerge chiaramente nelle pagine che egli dedica al diario di Johann Paul Kremer, medico SS che soggiornò ad Auschwitz dal 30 agosto al 18 novembre 1942. Ciò che contraddistingue questo documento rispetto ad altre testimonianze è che Kremer redasse il suo diario giorno per giorno, durante la guerra, laddove le memorie di Rudolf Höss o la deposizione di Pery Broad (rispettivamente comandante e sottufficiale ad Auschwitz) risalgono al dopoguerra.

Kremer al processo di Norimberga

Naturalmente i negazionisti ritengono che queste ultime testimonianze siano state estorte durante la prigionia dei loro autori e perciò non rappresentino documenti attendibili (“le confessioni non sono prove”).  Tuttavia, perfino Faurisson deve ammettere l’autenticità del diario di Kremer, sebbene egli sostenga che la storiografia ufficiale ne forzi abusivamente dei passi allo scopo di piegarlo ai propri fini interpretativi specifici.

Come si vede, Faurisson rilancia ai mittenti le accuse di uso scorretto dei testi che gli sono state mosse da autori come Pierre Vidal-Naquet, Georges Wellers o Nadine Fresco. Ne consegue che il diario di Kremer rappresenta un buon parametro per valutare i metodi interpretativi che soggiacciono alle diverse letture che ne vengono fatte.

Il testo del diario

Kremer scrive un diario a uso personale, in maniera scrupolosa, registrando accuratamente i propri appuntamenti di lavoro, il menù di ciascun pasto consumato, l’orario dei treni presi, le cifre spese, i numeri degli autobus, i nomi e i titoli delle persone incontrate, la temperatura massima della giornata. Si tratta insomma di un documento a funzione puramente mnemonica che riflette quel desiderio di ordine e di metodo che caratterizzava la mentalità di buona parte dei burocrati nazisti.

Raramente Kremer si abbandona a considerazioni personali che riflettano il suo stato d’animo del momento. Ma proprio la loro relativa rarità conferisce a questi momenti di spontanea espressività un certo rilievo rispetto al resto del testo. Poche cose scuotono la tranquillità del nostro medico: gli incontri con suo cognato anarchico, con il quale litiga furiosamente, il ricordo di tutti coloro che, nell’ambiente accademico, non hanno compreso la portata teorica del suo studio sull’ereditarietà delle lesioni traumatiche; infine, egli si dichiara sconvolto dopo avere assistito ad alcune azioni speciali (Sonderaktionen) durante il suo soggiorno ad Auschwitz.

Come vedremo, è attorno al significato da attribuire a questa espressione in codice che si esercita con maggiore veemenza l’attività interpretativa e polemica dei negazionisti, i quali contrappongono la loro chiave di lettura a quella che viene tradizionalmente accettata dalla storiografia ufficiale. Kremer presenzia a un totale di quindici azioni speciali: nel riportarne quattro (la prima, la seconda, la decima e l’undicesima), l’abituale tono banale del diario cede il posto a una dichiarazione di sgomento :

Citazione 1. “Ho assistito per la prima volta a un’azione speciale all’esterno, alle 3 del mattino. In confronto, l’lnferno di Dante mi sembra quasi come una commedia. Non per nulla Auschwitz viene chiamato il campo della Vernichtung [di sterminio]! (2.9.1942)

Citazione 2. Oggi, a mezzogiorno, ero presente a un’azione speciale, a partire dal F.K.L. (“Musulmani”) il colmo dell’orrore. Lo HauptscbarführerThilo (medico militare) aveva ragione di dirmi che ci trovavamo qui nell’anus mundi (nell’ano del mondo. (5.9.1942)

Citazione 3. Seconda vaccinazione preventiva contro il tifo; essa ha provocato una forte reazione generale in serata (febbre) ciò nonostante, durante la notte ho assistito a un azione speciale su gente proveniente dall’Olanda (1600 persone) Scene spaventose davanti all’ultlmo bunker! Era la decima azione speciale. (12.10.1942)

Citazione 4. Questa domenica mattina, con tempo piovoso e freddo, ho assistito all’11a azione speciale (olandesi). Scene orribili con tre donne che supplicavano di lasciar loro salva la vita. (18.10.1942)

L’interpretazione ufficiale

L’interpretazione abituale di questi testì consiste nell’attribuire all’espressione cifrata “azione speciale” il significato di gassazione dei prigionieri sfiniti (che nel gergo del lager venivano chiamati “musulmani”) e dei nuovi arrivi, selezionati per le camere a gas.

Questa è anche la traduzione che venne confermata da Kremer e da Höss in occasione delle loro deposizioni ai processi a cui parteciparono dopo la guerra. Infatti, il regolamento del lager esigeva che un medico fosse presente durante le esecuzioni, le quali comprendevano sia le tradizionali fucilazioni, sia le iniezioni di fenolo, sia le gassazioni. Inoltre, gli archivi del campo mostrano che a ciascuna azione speciale citata da Kremer corrispondeva l’arrivo di un convoglio dall’estero, e che solo una piccola parte delle persone giunte così ad Auschwitz veniva poi immatricolata nel lager.

Kremer dopo l’arresto

Ad esempio, il 18 ottobre 1942 (citazione 3) giunsero ad Auschwitz 1710 persone provenienti dall’Olanda mentre solo 116 di esse vennero introdotte nel campo. Sulla sorte degli altri 1594 deportati non c’è traccia negli archivi: non furono immatricolati, ma non furono neppure reimbarcati per altre destinazioni. Nel suo diario, Kremer talvolta racconta di avere assistito a una fucilazione; tuttavia, simili esperienze non sembrano intaccare minimamente la sua placidità, e infatti vengono menzionate distrattamente, alla stregua di episodi scarsamente rilevanti.

Evidentemente sotto l’espressione in codice di azione speciale si nascondeva qualcosa di ben più ignominioso di una semplice fucilazione. La decrittazione dell’espressione in questione nel contesto del diario di Kremer tuttavia richiede al lettore un minimo di sforzo interpretativo: in primo luogo perché il medico si limita a citare l’espressione Sonderaktion senza descriverne le modalità (ciò è peraltro naturale, essendo il testo un diario e non un manuale) ma soprattutto, secondo i negazionisti, talvolta l’espressione viene affiancata a parole apparentemente dissonanti rispetto al tema della gassazione.

Delle obiezioni avanzate da Faurisson a proposito di quest’ultime, solo quella relativa all’uso che Kremer fa della parola draussen (“all’esterno”) nella citazione del 2.9.1942 (cit. 1) presenta qualche apparente problema: Faurisson si chiede come si possa conciliare il fatto che l’azione speciale si svolgesse all’aperto con l’ipotesi della gassazione. Resta da vedere se con un minimo di buona volontà cooperativa da parte dell’interprete sia possibile superare l’ostacolo testuale senza dover necessariamente scartare l’ipotesi interpretativa proposta dalla storiografia ufficiale.

La genericità e l’ambiguità di un termine come Sonderaktion facevano in effetti parte del progetto nazista di far sparire le tracce delle proprie azioni dopo la guerra. Le camere a gas sono state definite come gli anti-monumenti per eccellenza, in quanto il modo stesso in cui erano costruite racchiudeva ll progetto della loro mimetizzazione e della loro successiva distruzione.

Analogamente, tutte le comunicazioni interne al regime nazista circa le modalità concrete della soluzione finale erano mirate a confondere gli eventuali esegeti contemporanei o futuri. Detto altrimenti, il regime nazista aveva già posto le basi per il negazionismo di oggi.

 La Sprachregelung

La Sprachregelung era il codice cifrato impiegato dalla burocrazia nazista. Su ordini precisi di Hitler e di Himmler, tutti i documenti ufficiali dovevano essere tradotti nel linguaggio della propaganda, che occultava sistematicamente la vera natura delle operazioni citate consentendo così agli esecutori materiali dei crimini nazisti di comunicare direttamente con i loro mandanti senza dover impiegare i nomi esatti per designare le proprie azioni.

Gli scopi di un simile mascheramento erano evidentemente di favorire l’obbedienza della popolazione civile e delle vittime stesse, di tranquillizzare l’opinione pubblica internazionale e di far sparire le impronte storiche dei propri delitti.

Ad esempio, con il termine Gleischschaltung (coordinamento) ci si riferiva all’eliminazione degli avversari politici e al controllo nazista delle agenzie di stato e delle organizzazioni pubbliche. Per Umsiedlung (cambiamento di residenza) Si intendeva la deportazione e la stessa “soluzione finale” (Endlösung) è un esempio di espressione in cifra che occulta la vera identità del proprio significato sotto l’apparenza nebulosa e ambigua del linguaggio burocratico.

Uno dei grossi vantaggi del Newspeak nazista era (ed è) la sua intima negabilità: è sempre possibile sostenere che con “soluzione finale” non si intendeva affatto parlare di genocidio, bensì di deportazione e risistemazione in colonie extraterritoriali. Non a caso i negazionisti odierni sguazzano nelle possibilità offerte dalla Sprachregelung.

Per quanto riguarda il prefisso Sonder- (speciale) che i nazisti anteponevano ad alcuni termini tecnici relativi alla gestione dei lager (Sonderaktionen, Sonderbehandlung), l’interpretazione quasi unanimemente accettata è che esso designasse dei casi di esecuzioni collettive che in qualche modo si distinguessero dalle ordinarie fucilazioni.

Generalmente si collega questo prefisso all’impiego di gassazioni nei campi di sterminio nazisti. Anche all’interno del paradigma storiografico ufficiale c’è spazio per il dibattlto. Ad esempio, non è univocamente stabilito se per Sonderaktionen Kremer intendesse parlare delle gassazioni stesse oppure delle selezioni per le camere a gas, come sostiene Wellers.

È probabile che il medico si riferisse all’intera sequenza relativa alle esecuzioni collettive nelle camere a gas, la quale può essere scomposta in una serie di scene che vanno dalla selezione dei condannati all’arrivo dei convogli all’estrazione dei cadaveri a opera dei Sonderkommandos. Una spiegazione esauriente dell’uso di questi termini nel contesto concentrazionario nazista ci viene fornita da Jean-Claude Pressac, ex negazionista riconvertito dopo avere compiuto un’accurata analisi dei documenti originali concernenti la gestione del lager di Auschwitz.

Secondo Pressac, l’atto di dare la morte in se stesso era detto “trattamento speciale” o ”trasferimento della popolazione ebraica”, mentre la globalità dell’operazione — comprendente selezione, trasporto degli inabili e gassazlone omicida — si definiva “azione speciale”, termine che non è tuttavia specificamente criminale potendosi applicare ad un operazione che non lo era. (Pressac, 1993)

La lettura di Faurisson

Non potendo contestare la veridicità del documento in questione, Faurisson propone una sua chiave di lettura da contrapporre a quella sostenuta da Georges Wellers e da tutti gli esponenti della storiografia ufficiale:

“Il dottor Kremer dovette ugualmente partecipare a quindici riprese ad azioni speciali. Si può sospettare che questa espressione vaga dovesse dar luogo a ogni genere di speculazione. Ne parlerò. Cerchero di mostrare che si trattava, in base al contesto, di cosa diversa da quella che vi vede M. G. Wellers, per il quale queste azioni speciali erano — è lui che l’afferma senza darne la prova — una “selezione per le camere a gas”, seguite, naturalmente, dalle gassazioni di esseri umani: operazioni alle quali il medico avrebbe assistito di persona”. (Faurisson, 1980)

A testimonianza del suo scrupolo metodologico, Faurisson dichiara di voler restituire il testo “nella sua forma autentica e nel suo contesto immediato” (principio di per sé ineccepíbíle) per dimostrare come gli orrori che sconvolgevano Kremer ad Auschwitz altro non fossero che gli effetti devastanti dell’epidemia di tifo del settembre-ottobre 1942.

Seguendo questa linea di interpretazione, Faurisson afferma che una delle forme delle azioni speciali di cui parla Kremer nei suoi quaderni consisteva nella “cernita dei malati e dei sani”. Non è chiaro il motivo per cui dovesse esser necessario impiegare un’espressione indiretta e asettica come Sonderaktion per riferirsi a un’attività legittima quale la separazione dei detenuti infetti da quelli sani per impedire il contagio.

Osserviamo di passaggio che le altre forme di “azione speciale” secondo Faurisson sono: “assistere alla presa in carico di un convoglio, all’esecuzione di una pena, alla selezione dei malati nelle sale dell’ospedale ecc.”. Si tratterebbe insomma di qualunque circostanza che esuli dalle mansioni abituali del medico di campo, così come “nell’esercito francese ogni genere di prestazione supplementare, non strettamente previsto nell’impiego del tempo, porta il nome pomposo di “missione eccezionale”.

Con questa estrema banalizzazione del significato del termine Sonderaktion (talvolta la banalizzazione è il primo passo verso la negazione) Faurisson non ci spiega il motivo per cui Kremer dovesse diligentemente registrare le azioni speciali a cui assistette in ordine numerico; ciò infatti suggerisce che vi fosse un legame forte tra le varie azioni speciali menzionate nel testo. Inoltre, quando Kremer parla delle fucilazioni alle quali assiste in qualità di medico di campo, non fa alcun accenno all’espressione “azioni speciali”.

Non ci soffermeremo sul fatto che, durante la sua deposizione in Polonia, Kremer confermò l’interpretazione ufficiale del suo diario e, anzi, arricchì ciascun episodio riportato nel testo con ulteriori particolari, i quali peraltro non facevano che confermare ciò che risultava dalle altre testimonianze nonchè dai registri nazisti trovati nel campo di Auschwitz.

Infatti, Faurisson ritiene che tutto il materiale documentario risalente al dopoguerra sia il frutto di un’abile contraffazione storica. Per attenerci al testo del diario, ricordiamo piuttosto che l’1 marzo 1943 (dopo aver terminato il suo periodo ad Auschwitz), Kremer scrive:

Citazione 5. Essendo andato a farmi registrare dal calzolaio Grevsmuhl, vi ho visto un volantino del Partito socialista di Germania che gli era stato indirizzato da Kattowitz (Katovice) e dal quale risultava che avevamo già liquidato milioni di ebrei con pallottole o con gas. (1.3.1943)

Lontano dal lager, si potrebbe ipotizzare che Kremer si sentisse meno tenuto a rispettare le direttive provenienti dalle alte gerarchie del Terzo Reich che proibivano di menzionare esplicitamente le modalità concrete della soluzione finale. Il frammento dell’1.3.1943 “fa sistema” con l’ipotesi interpretativa ufficiale, che ne risulta rafforzata. Non altrettanto si può dire della lettura proposta da Faurisson, il quale si limita a screditare la fonte dell’informazione (il Partito socialista tedesco, nemico del regime) con un ragionamento un po’ contorto:

J. P. Kremer non fa alcun commento. Se ha potuto avere notizia di questo volantino, è perché apparentemente il suo calzolaio non considerava il professore un accanito partigiano del nazismo.

“Il volantino era stato indirizzato al calzolaio. Quest’ultima precisazione tende a dimostrare: 1. che il destinatario poteva essere un oppositore del regime in atto; 2. che il dottor Kremer non teme di confidare al suo diario delle informazioni molto delicate. Se una “camera a gas” fosse esistita ad Auschwitz, l’avrebbe scritto a chiare lettere”. (Faurisson, 1980)

Tuttavia, il fatto che J. P. Kremer non faccia alcun commento dopo aver ricevuto la notizia dei due milioni di ebrei uccisi “con pallottole o con gas”, lungi dall’indicare un suo atteggiamento di scetticismo o di distanziamento nei confronti di tale notizia, dimostra che essa non provoca in lui alcuna sorpresa. essendo egli già al corrente delle modalità concrete della soluzione finale.

Senza contare che, anche durante il suo soggiorno ad Auschwitz, Kremer non aveva nessun motivo per dichiarare a chiare lettere in che cosa consistesse un’azione speciale: non dimentichiamo che un diario è un documento scritto per il proprio uso personale e quindi non richiede quei principi di ridondanza e di massima esplicitazione semantica che invece caratterizzano i documenti ufficiali.

Nel contesto di Auschwitz, se accettiamo la lettura ufficiale del diario di Kremer (e non abbiamo motivo di non farlo, a meno che quest’ultima non si riveli insostenibile alla luce del principio della coerenza testuale) è abbastanza normale che il medico impiegasse l’espressione correntemente usata nel lager per designare le gassazioni.

Per Kremer stesso, l’espressione non aveva alcunché di ambiguo, e quindi non richiedeva di essere definita univocamente. Se lo avesse fatto (ad esempio, “ho assistito a un’azione speciale, ovvero a una selezione per le camere a gas, seguita dalla gassazione”, oppure: “ho assistito a un’azione speciale, ovvero alla selezione dei malati di tifo per separarli dai detenuti sani”), sarebbe sorto nel lettore il legittimo dubbio circa la genuinità di questa comunicazione diaristica: se non altro avrebbe potuto chiedersi se per caso Kremer non fosse consapevole di scrivere per un pubblico più ampio.

Insomma, se Kremer fosse stato esplicito così come lo vorrebbe Faurisson, il testo in questione avrebbe creato quell’effetto comico che constatiamo ogni volta che leggiamo un giallo in cui gli assassini si scambiano inutili notizie sulle modalità del crimine commesso a vantaggio di un ascoltatore clandestino.

Senza poi contare che, all’interno del lager, c’era sempre il rischio che il diario fosse letto da qualcuno che avrebbe potuto denunciare Kremer per aver disobbedito agli ordini provenienti dalle alte gerarchie delle SS che, come abbiamo già ricordato, proibivano la circolazione per iscritto di informazioni esplicite concernenti la soluzione finale.

Non riuscendo a scardinare l’ipotesi interpretativa ufficiale, secondo cui le azioni speciali sono collegate all’uso delle camere a gas (sia che Sonderaktion si riferisca alla selezione, sia che indichi la gassazione stessa), Faurisson tenta di costruire un nuovo piano di coerenza semantica accostando i riferimenti alle azioni speciali alle descrizioni che altrove nel diario Kremer fa dell’epidemia di tifo :

“Il 3 ottobre, scriverà: “Ad Auschwitz, strade intere sono annientate dal tifo”. Lui stesso contrarrà quella che chiama la malattia di Auschwitz”. Dei tedeschi ne moriranno. La cernita dei malati e dei sani era la “selezione” o una delle forme dell’azione speciale del medico”. (Faurisson, 1980)

Pur mantenendo l’equivalenza tra azioni speciali e selezioni, Faurisson sposta il campo semantico attivato da queste espressioni: non si tratta più di selezioni per le camere a gas ma, come abbiamo visto, di precauzioni mediche. Occorre ora sondare le possibilità che questa ipotesi interpretativa ha di trovare conferma in altri segmenti testuali: bisogna insomma capire se altrove nel testo è suggerito un qualche legame tra le Sonderaktionen alle quali assiste il medico e l’epidemia di tifo.

Come osserva Vidal-Naquet, non vi è alcun passo nel diario di Kremer in cui l’autore parli di tifo in collegamento alle azioni speciali. Inoltre, non si capisce perché le misure precauzionali contro il tifo debbano necessariamente coincidere con l’arrivo di nuovi convogli dall’estero (c’era un’epidemia in Olanda? chiede Vidal-Naquet).

Infine, non è chiaro il motivo per cui il medico dovesse essere tanto turbato dalla visione dei malati di tifo, visto che altrove ci ha dato la netta impressione di essere tutt’altro che delicato d’animo: basti pensare alla freddezza con cui selezionava, tra i pazienti dell’ospedale di Auschwitz, i soggetti da uccidere con iniezioni di fenolo per prelevare dai loro cadaveri cellule fresche da osservare al microscopio.

Citazione 6. Ho proceduto oggi alla conservazione di materia vivente proveniente da fegato e da milza d’uomo, nonché da pancreas. vi ho aggiunto dei pidocchi conservati in alcol assoluto prelevati su malati di tifo. (3.10.1942)

La chiave di lettura suggerita da Faurisson non trova conferma né a livello del profilo psicologico dell’autore iscritto nel testo, né a quello della coerenza semantica del discorso. Infatti, non si riscontra alcun segnale che indichi l’esistenza di un nesso causale tra l’epidemia di tifo e gli orrori descritti a proposito delle azioni speciali.

Non solo Faurisson scarta un’ipotesi interpretativa economica a favore di una chiave di lettura molto più macchinosa. Nel farlo, egli incorre inoltre in alcuni errori o distorsioni palesi: ad esempio, affermando che lo stesso Kremer si sia ammalato di tifo, egli sorvola sul fatto che la “malattia di Auschwitz”, che Kremer dichiara di avere contratto il 3.9.1942 e il 14.9.1942, non è affatto il tifo (nelle sue due forme — esantematica e addominale — contro le quali Kremer viene vaccinato), bensì una banalissima dissenteria.

Citazione 7. Mi sono ammalato per la 1a volta, vittima delle crisi di diarrea che affliggono tutti nel campo e che sono caratterizzate da vomito e attacchi dolorosi di una specie di colica. (3-9-1942)

Citazione 8. Sono colpito per la 2a volta dalla malattia di Auschwitz. Temperatura 37,8. Oggi mi hanno somministrato la 3a e, di conseguenza, l’ultima iniezione contro il tifo esantematico. (14.9.1942)

Nonostante in quest’ultima citazione il termine “tifo” possa apparire come una specificazione di “malattia”, a livello di coerenza testuale non è posto alcun collegamento tra la “malattia di Auschwitz” e il tifo esantematico. L“iniezione” di cui parla Kremer non è una cura contro la malattia di Auschwitz alla quale il medico fa accenno subito prima, ma è una vaccinazione preventiva.

Quanto all’altra forma di tifo, il 3 ottobre Kremer scrive di essersi fatto somministrare la prima vaccinazione contro il tifo addominale, senza fare alcun accenno ai suoi disturbi intestinali di pochi giorni prima. Vediamo ora da vicino come Faurisson legge tre dei passi in cui Kremer si dichiara impressionato dopo aver presenziato a un’azione speciale (cit. 1, 3 e 4). La traduzione che Wellers (Le Monde, 29.12.1978) fornisce del frammento del 2.9.1942 presenta alcune omissioni, che Faurisson puntigliosamente segnala.

  • Prima omissione: “In confronto l’Inferno di Dante (mi) pare (quasi come) una commedia” (le parole in corsivo sono quelle tralasciate da Wellers). Secondo Faurisson, vi è una sfumatura tra “parere come” e «parere», la prima espressione essendo più attenuata e meno affermativa (lo stesso vale per “quasi”). Inoltre, l’omissione di «mi» trasforma “un’impressione personale del testimone (ed espressa come tale) in un’impressione comune a un gruppo umano», mentre Kremer intende dire che lo spettacolo al qua le ha assistito era orribile per lui, e non in senso assoluto. Secondo Faurisson, il riferimento che Kremer fa all’Inferno dantesco riguarda inoltre la temperatura molto alta registrata ad Auschvvitz nell’estate del 1942 (come dire: “qui fa un caldo infernale!”). Il manoscritto originale, infatti, parla di una temperatura di 38 gradi, erroneamente trascritta dagli editori polacchi: “alla data del 31 agosto 1942, il medico annota che la temperatura di Auschwitz, devastata dal tifo, è di 38 gradi all’ombra e non di 28. È, se si può dirlo, l’». Faurisson sfrutta ogni minimo errore di stampa o di traduzione per trovare elementi sostegno della sua tesi, insinuando sempre la non casualità del refuso.
  • Seconda omissione: “Non per nulla Auschwitz viene chiamato (il) campo di (della) VernichtungIl testo originale non parla di “campo di sterminio” (Vernichtungslager) bensì di “campo dell’annientamento” (das Lager der Vernichtung). A chi sfuggisse la sottile distinzione concettuale, Faurisson spiega che “nel senso etimologico del termine, il tifo annienta coloro che ne vengono colpiti” (ma questo si può dire di ogni malattia mortale). Amputando il testo dei due articoli determinativi “il” e “la”, Wellers incoraggerebbe invece il riconoscimento da parte del lettore dell’espressione (coniata successivamente) di “campo di sterminio”, indirizzandolo univocamente nella sua interpretazione in favore di una delle accezioni di Vernichtung.

  • Terza omissione: “Stamattina, alle tre, ho assistito per la prima volta ad un’azione speciale (all’esterno)”. L’intera citazione del 2.9.1942 si riferirebbe quindi a una selezione per separare i detenuti infetti da quelli sani. L’ipotesi sarebbe corroborata dal fatto che, secondo la traduzione francese l’operazione avvenga all’aperto (draussen), mentre è noto che le gassazioni debbano aver luogo in ambienti chiusi. Faurisson si attacca a questo particolare per suggerire che gli storici e i magistrati, in combutta, abbiano tentato di occultare questo dettaglio dissonante rispetto alla versione ufficiale dei fatti. Tuttavia, abbiamo già visto come l’espressione Sonderaktion si riferisse all’intero processo industriale della gassazione, a partire dalla selezione della materia prima (i “musulmani” e i nuovi arrivi), attraverso il trasporto delle unità selezionate, fino al procedimento chimico stesso, seguito dall’estrazione delle scorie (i cadaveri) a opera dei membri del Sonderkommando. All’interno di questa catena di (s)montaggio, a ciascuna componente del processo globale era assegnato un ruolo specifico. Compito del nostro medico era di assistere dalla macchina alla selezione degli inadatti al lavoro nel lager e di rimanere a disposizione nei paraggi del bunker durante la gassazione per curare le SS che per errore fossero rimaste intossicate dal gas omicida. Di conseguenza, per lui la Sonderaktion era un’operazione che si svolgeva all’esterno. Per i membri del Sonderkommando, d’altra parte, l’azione speciale si riferiva all’ultima parte del processo complessivo, e si svolgeva a metà tra l’interno e l’esterno delle camere a gas. È così che il “draussen” di Kremer, che costituisce il principale punto d’appoggio della tesi di Faurisson ritrova un suo posto all’interno del paradigma storico accettato.

La presenza di un’apparente anomalia che sembra contrastare con l’interpretazione accettata (come lo è l’espressione “draussen” in rapporto alla lettura ufficiale del diario di Kremer) non richiede un immediato cambiamento paradigmatico, bensì stimola l’interprete a cercare una soluzione più economica del rompicapo.

Al contrario, l’affrettata manovra con cui Faurisson si appiglia all’elemento dissonante per dichiarare trionfalmente la caduta del vecchio paradigma sa di furia demistificatrice, di ragionamento aprioristico mascherato da ipotesi scientifica.

Si può forse estendere il discorso e sostenere che una delle caratteristiche del metodo interpretativo impiegato dai negazionisti è che ogni rompicapo della scienza normale viene assunto come sintomo del crollo del paradigma ufficiale.

Ancora una volta, si intravedono chiari legami tra il modello ermeneutico proprio dei negazionisti e la nevrosi interpretativa tipica dell’ermetismo: entrambi i modelli risentono infatti di una sindrome del sospetto (a sua volta influenzata da una teoria della cospirazione) che impedisce di leggere i testi così come i testi stessi desiderano farsi leggere.

Per quanto riguarda la sua interpretazione della prima citazione che Kremer fa delle azioni speciali, Faurisson riesce per lo meno a costruire un piano di microcoerenza interna del discorso: basta isolare il frammento di testo dal suo contesto più ampio per sostenere che esso non si riferisca alle operazioni di sterminio nelle camere a gas ma a un’innocua visita medica.

Le citazioni 3 e 4 presentano qualche problema in più: Faurisson deve infatti cercare di convincere il lettore che al loro interno avvenga un cambiamento di tema il quale tuttavia non viene segnalato dal testo.

Prendiamo la citazione del 12 ottobre:

Ho assistito durante la notte ad un azione speciale su gente proveniente clall’Olanda (1600 persone). Scene spaventose davanti alI’ultimo bunker! Era la mia decima azione speciale.

Secondo l’interpretazione comunemente accettata, le scene spaventose di cui parla il medico sono quelle dell’uccisione dei detenuti che si rifiutavano di entrare nella camera a gas e che venivano separati dal resto del gruppo e fucilati affinché non seminassero il panico fra gli altri.

Lo sforzo di Faurisson consiste nel separare il primo periodo che secondo la sua interpretazione riguarda la selezione dei ma lati di tifo, dal secondo, ambientato nel famigerato bunker n. 11

Infine, le scene atroci davanti all’ultimo bunker (si tratta del cortile del bunker n. 11) sono esecuzioni di condannati a morte, esecuzioni alle quali il medico è obbligato ad assistere. (Faurisson, 1980)

Un’analoga operazione viene compiuta sull’ultima citazione:

Questa domenica mattina, con tempo piovoso e freddo, ho assistito alla 11a azione speciale (olandesi). Scene orribili con tre donne che supplicavano di lasciar loro salva la vita. (18.10.1942)

È da notare la struttura pressoché identica delle due citazioni: in entrambi i casi abbiamo un primo periodo in cui il soggetto parla in prima persona, palesandosi e introducendo l’espressione Sonderaktion, e una seconda frase ellittica, priva di soggetto esplicito e di verbo. Sembra chiaro che vi sia un legame di continuità tra i due periodi, e che il secondo faccia da commento al primo.

Ecco come Faurisson interpreta quest’ultima citazione:

Quando Kremer parla di tre donne fucilate, gli voglio senz’altro credere. Poteva succedere, io penso, che un convoglio di 1710 persone comprendesse tre persone da fucilare sul posto, ad Auschwitz. Ma quando Kremer, dopo la guerra, ci dice che si trattava di donne che si rifiutavano di entrare nella ‘camera a gas, non ci credo per niente. (Faurisson, 1980)

Faurisson

Nel paragrafo in questione, viene introdotto un cortocircuito che non è presente nell’interpretazione accettata di questo passo del diario di Kremer. Mentre questa può essere scomposta nei seguenti punti:

1) Kremer assiste a un’azione speciale (= selezione per le camere a gas e gassazione)

2) tre donne implorano di non essere fatte entrare nella camera a gas

La lettura che ne fa Faurisson richiede per lo meno un anello supplementare, che il testo avrebbe lasciato implicito:

1) Kremer assiste a un’azione speciale (= selezione dei malati di tifo tra i nuovi arrivi dall’Olanda)

2) di questi, tre donne devono essere giustiziate

3) le tre donne supplicano di essere risparmiate.

Come si vede, il punto 2) non presenta un legame di continuità causale con il punto 1); non essendo parte della normale sequenza “selezione dei malati di tifo”, non si vede perché Kremer debba averlo omesso.

Si potrebbe facilmente ribattere che l’omissione di passaggi logici è tipica dello stile ellittico della comunicazione autodiretta. Ciò nonostante, rimane da considerare il principio di economia interpretativa: per scambiare un’interpretazione più semplice (a due punti) con una interpretazione più complessa (a tre punti, di cui il secondo è lasciato implicito) bisogna che vi siano seri motivi per dubitare della validità della prima.

Si sa infatti che, quando interpretiamo un testo, andiamo alla ricerca di significati impliciti solo allorquando avvertiamo che il contenuto esplicito di un enunciato presenta gravi anomalie logiche. In caso contrario, abbandonare il lineare per il tortuoso è scarsamente produttivo.

In generale, il metodo esegetico impiegato da Faurisson presenta alcune caratteristiche salienti, che poi sono quelle che ritroviamo nella sua attività di critico letterario: tentativo di individuare (o di creare) le zone di resistenza che il testo a prima vista presenta nei confronti della sua lettura ufficiale — nel caso in cui il testo non presenti dei seri problemi di interpretazione, questi ultimi possono essere creati mediante un confronto tra le sue diverse traduzioni; accentuazione di tali punti di resistenza, unita alla rinuncia totale di assorbirli nell’ambito del paradigma storiografico  dominante mediante minimi sforzi interpretativi, ansia demistificatrice ed ermetismo complottardo; fiducia incrollabile nel proprio modello esplicativo alternativo.

2.4.5. La lettura di J.-G. Cobn-Bendit

Sebbene si proclami “sterminazionista”, Jean-Gabriel Cohn-Bendit nega l’esistenza delle camere a gas e dunque può essere agevolmente inserito nel novero degli autori negazionisti. La sua lettura del diario di Kremer si distingue da quella fornita da Faurisson per il diverso signifìcato che egli attribuisce all’espressione “azione speciale”, che per lui sta per “convoglio”.

Per giustificare la sua ipotesi di lettura, Cohn-Bendit osserva come nella versione tedesca del diario l’espressione Sonderaktion sia talvolta seguita immediatamente dalla particella “AUS` (da): Sonderaktion dall’Olanda“, “Sonderattion dal F.K.L.”

Ciò significherebbe che non sono le persone (musulmani o 1600 persone) a essere messe in relazione diretta con le azioni speciali, bensì sono i luoghi di provenienza, segnalati dalla presenza di “aus”, a entrare in rapporto con le Sonderaktionen. In altre parole, Kremer si riferirebbe a “Sonderaktion proveniente da — (gente)” e non a “Sonderaktion sulla gente (proveniente da…)”.

Ne conseguirebbe che “Sonderaktion non puo significare altro che convoglio, deportazione in senso proprio trasporto, spostamento di persone dall’esterno verso il campo o dal campo verso l’esterno”. Così, quando Kremer dichiara di avere assistito a un’azione speciale su gente proveniente dall’Olanda (cit. 3), egli sta in effetti parlando di un convoglio di 1600 olandesi.

Inoltre, Cohn-Bendit elenca una serie di elementi che a suo parere escludono le ipotesi di Wellers, da un lato, e di Faurisson, dall’altro:

  • l’orario: spesso il medico viene svegliato in piena notte per assistere a un’azione speciale;

se quest’ultima dipendesse dall’amministrazione del campo, perché verrebbe fissata in orari così inverosimili?

In effetti, questa constatazione funge da ulteriore elemento a confutazione della tesi faurissoniana – secondo la quale le Sonderaktionen non nascondevano nulla di particolarmente compromettente – mentre essa non fa altro che rafforzare la cosiddetta tesi storiografica ufficiale. Le testimonianze del dopoguerra confermano che le gassazioni avevano spesso luogo nelle ore di inattività notturna del campo per passare inosservate.

  • “… quasi (fast) come una commedia” (cit. 1).

Come Faurisson, anche Cohn-Bendit attribuisce grande importanza a questo “quasi”, che secondo lui attenua la forza dell’accostamento con l’Inferno dantesco e dimostra che gli orrori descritti da Kremer non hanno nulla a che fare con le uccisioni di massa. Le scene che sconvolgono Kremer riguarderebbero dunque le pessime condizioni igieniche in cui si trovavano i prigionieri trasportati dai convogli.

  • La terza volta che Kremer assiste a un’azione speciale (3.9.1942), spiega che “per effetto della razione speciale che ne consegue composta da 1/5 di litro di schnapps, da 5 sigarette, da 100 g di salsiccia e da pane, gli uomini si spintonano in tali operazioni”. Ora, Cohn-Bendit vorrebbe convincerci che, data la scarsità della razione-premio, sia assolutamente impossibile che gli uomini che si battono per lavorare nelle operazioni speciali siano delle SS.
  • D’altronde, egli aggiunge, non è forse la storiografia ufficiale ad averci detto che i membri del Sonderkommando erano i detenuti stessi? Ciò significa automaticamente — sempre secondo la logica di Cohn-Bendit — che la Sonderaktion non poteva essere una selezione per le camere a gas: infatti, come potevano i detenuti stessi operare la selezione tra gli altri detenuti ?

Questa lettura fa acqua da tutte le parti. In un certo senso rappresenta una caricatura delle strategie interpretative dei negazionisti. Essendo un lettore molto meno accorto di Faurisson, Cohn-Bendit cade in palesi contraddizioni, sia per quanto riguarda la coerenza interna del testo che pretende di interpretare, sia per quanto concerne il rapporto del diario con altri documenti.

In particolare, rimangono irrimediabilmente aperti alcuni quesiti: perché un convoglio dovrebbe essere definito azione o operazione? Perché un dottore dovrebbe assistere a un convoglio? Perché l’azione speciale dovrebbe riguardare anche donne provenienti dal campo stesso? Cohn-Bendit sostiene che tali donne vengano indirizzate verso altri campi. Ma allora, perché trasferire delle “musulmane”, visto che stanno per morire di inedia?

Un unico paradigma negazionista ?

Le evidenti incompatibilità tra le due letture appena analizzate ci fanno dubitare che esista un unico paradigma negazionista. La base comune ai vari autori che si identificano con questo movimento non va tanto cercata nelle risposte concrete che essi forniscono circa i problemi storiografici individuati nei documenti, bensì nell’operazione stessa del diniego storico.

Come sottolinea Vidal-Naquet, è curioso che Faurisson aderisca all’interpretazione fornita da Cohn-Bendit nonostante essa sia molto diversa dalla sua: “Qualsiasi interpretazione è buona, purché neghi”.

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