ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 67

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Sergente Giancarlo Vanini
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Il pomeriggio del 22 gennaio 1943, dopo il combattimento di Scheljakino, il mio reparto comandato dal capitano Benfatti viene inviato d’avanguardia. Nell’attraversare la pianura, subiamo un attacco di carri armati. Rispondiamo e poi riusciamo a proseguire. Dopo qualche chilometro occupiamo un paese e liberiamo parecchi soldati italiani, già prigionieri dei russi. In quel momento mi sento chiamare dall’amico Carlo Frigerio: fra i prigionieri aveva trovato mio fratello, ma con i piedi completamente congelati e senza alcuna possibilità di camminare.

Anche oggi, dopo tanti anni, non mi è possibile descrivere lo stato d’animo del momento in cui rividi mio fratello: ci siamo abbracciati e abbiamo pianto. Mi riprendo in fretta dall’emozione, sistemo mio fratello su di una slitta e corro ad avvertire il comandante. A questo punto avviene un altro miracolo che solo l’amicizia alpina può far capitare. La notizia della liberazione di mio fratello è sulla bocca di tutti e, mentre il reparto si mette in marcia e mi sfila davanti, mi sento offrire dagli amici quel poco cibo di cui ancora disponevano.

In pochi minuti mi trovo in mano: gallette, scatolette di carne, lardo; un ben di Dio conservato dopo l’ultima distribuzione di viveri nel reparto avvenuta ben quattro giorni prima. Io personalmente, il giorno precedente non avevo mangiato e il mattino, prima del combattimento, mi era stata offerta dall’amico Dario Marazzi una coscia di capretto cruda e congelata per il freddo. E così il nostro calvario continua: camminando, combattendo, soffrendo il freddo e la fame. Io, però, mi sento le forze centuplicate e i miei compagni fanno a gara per aiutarmi ad assistere mio fratello.

Qualche giorno dopo ho un’altra prova della solidarietà, dell’amicizia alpina e dell’aiuto di Dio. La sera del 25 gennaio il grosso della colonna si ferma a Nikitowka; il nostro reparto deve proseguire in avanguardia fermandosi ad Arnautowo. Arrivati in questo piccolo villaggio, ci sistemiamo alla meglio nelle poche isbe per trascorrervi la notte. Verso mezzanotte siamo svegliati da urla e spari: i russi ci stanno attaccando. Tutti gli uomini del reparto sono pronti e rispondono al fuoco con tutte le armi a disposizione. Nonostante la nostra accanita resistenza i russi si fanno più sotto strisciando sulla neve e colpiscono con precisione.

Per diverse ore siamo investiti da una pioggia di colpi di mortaio e traccianti. Ad un tratto l’isba che ho a fianco si incendia e mi rendo conto che siamo divenuti un facile bersaglio. I morti e i feriti aumentano sempre, la situazione comincia ad essere insostenibile anche perché una fredda alba inizia ad illuminare il cielo; i russi si intravedono oramai a poche decine di metri; il pendio è cosparso di corpi. Io sparo attraverso una siepe, ma appena vengo individuato i russi mi scaricano addosso una sventagliata di colpi.

Una pallottola mi colpisce il mento, di striscio per fortuna; mi stordisce per qualche istante. I compagni riescono a togliermi da quella pericolosa posizione e poi mi fasciano alla meglio con un pacchetto di medicazione. Si spara ancora e la situazione sembra stia precipitando quando fortunatamente arrivano i rinforzi del Battaglione Tiràno i quali, dopo parecchi assalti sanguinosi, riescono a mettere in fuga i resti dei reparti russi.

Sopraggiunge intanto il grosso della colonna che prosegue serpeggiando per la steppa gelata. Con molta fatica si radunano i superstiti del reparto, si sistemano sulle slitte i feriti e abbiamo appena il tempo di rivolgere un mesto saluto a tutti i compagni che quella notte si sono sacrificati per noi. Stanchi e sfiniti ci incamminiamo sperando di poterci fermare presto per una sosta ristoratrice dopo una notte tanto travagliata. Purtroppo non è così.

Nel pomeriggio giungiamo in vista di Nikolajewka dove è già in corso un furioso combattimento. Spinto dalla marea di soldati anch’io rotolo sul pendio sotto il fuoco micidiale di sbarramento. Come Dio vuole, con a fianco mio fratello a cavallo di un mulo, giungiamo in fondo e ci mettiamo al riparo contro il terrapieno della ferrovia. Quando è notte si riparte e tutta la città viene occupata; i russi hanno dovuto ripiegare. Il nostro reparto trova rifugio in un edificio in muratura, forse una chiesa; sistemo accanto a me mio fratello, ma quando finalmente posso distendermi un po’ e ripensare alla mia situazione dopo gli ultimi avvenimenti, vengo preso da una crisi di sconforto.

Continuo a pensare al fratello e mi assilla la tormentosa idea di non poterlo aiutare proprio ora che l’ho ritrovato. Prego, ma mi ritorna lo sconforto. Penso alla ferita che mi fa male, ai pericoli di un’infezione; i piedi sono gonfi e ho paura del congelamento; le mani sono bianche e completamente insensibili al tatto; l’anulare della mano sinistra è congelato e già tutto nero; la tensione nervosa di quelle 24 ore mi ha distrutto; inoltre anche la debolezza fa sentire i suoi effetti.

Ho dovuto spiegare lo stato d’animo di quel momento perché, dopo poche ore di riposo, con tutti quegli incubi, veniamo svegliati dal grido di “allarme” e io ho preso una decisione. Sicuro ormai di non poter resistere e quindi di non poter aiutare mio fratello, ho cercato il paesano Armando Rusconi e gli ho confidato i miei timori. Mi ha incoraggiato e mi ha rassicurato. Infatti, insieme a un altro amico, Regonesi, hanno compiuto un’impresa che ha del miracoloso.

Per giorni e giorni hanno accompagnato mio fratello a cavallo di un mulo, gli hanno procurato da mangiare, alla sera sono sempre riusciti a trovargli un riparo. Fuori dall’accerchiamento riuscirono a caricarlo su di una tradotta che l’ha trasportato in un ospedale di Varsavia. Io per due giorni di marcia ho camminato come un automa finché ho perso il contatto con il reparto. Sfinito, sentivo solo un grande bisogno di accasciarmi sulla neve ed addormentarmi, sicuro che la “morte bianca” mi avrebbe liberato. I miracoli non erano ancora finiti.

In mezzo alla confusione della colonna in marcia mi sentii chiamare: era il maresciallo La Rosa che, presomi per un braccio, mi convinse a seguirlo. Ripreso il cammino con indicibile pena e sofferenza, continuai la marcia insieme all’amico fino a tarda sera, finché ritrovammo il nostro reparto.

Artigliere alpino Mario Turcatti
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Il 25 gennaio 1943, in mattinata, avevo raggiunto con la mia batteria Nikitowka, città del miele, dove, trovandomi in testa alla colonna, con alcuni compagni ho avuto la possibilità di ristorarmi, dopo lunghi giorni di digiuno. Dopo poche ore di sosta siamo ripartiti puntando su Nikolajewka. A metà strada i superiori, sapendo che c’era un caposaldo nemico fortificato e pensando di non riuscire a sfondarlo, ci hanno fatto pernottare ad Arnautowo. A sera inoltrata siamo stati attaccati.

Io mi trovavo nella prima isba verso la quale era diretto l’attacco nemico. A un certo punto, uno dei miei compagni che, non trovando posto all’interno dell’isba, s’era rifugiato sotto il tetto di essa, rimase ferito. Si lamentava, ma nessuno si preoccupava di lui; finalmente mi decisi a portarlo al posto di medicazione, distante un’ottantina di metri. Durante il tragitto, al chiaro del riverbero della neve, vidi che la situazione si faceva molto critica per l’incrociarsi degli spari provenienti dai due fronti opposti, e i nostri sparavano a zero per contenere gli attacchi nemici. Giunto all’infermeria la trovai brulicante di feriti.

Tornai quindi all’isba per informare i compagni sulla difficile nostra situazione. Quindi ne uscii armato per partecipare col grosso della batteria all’azione di controffensiva, seguito da un compagno. L’uscita dall’isba fu provvidenziale. Infatti, giunto sulla soglia, scorsi, presso la stalla dove si trovavano i nostri muli, tre o quattro ombre. Mi fermai un istante e una di esse avanzò verso di me e giunta a pochi passi in lingua russa m’intimò “mani in alto” e nello stesso tempo sparò ed io risposi al fuoco.

Rimasi ferito di striscio al collo, mentre l’amico che mi seguiva contribuì a debellare interamente l’imboscata della pattuglia russa, salvando la vita ai compagni che si trovavano nell’isba. Fino al mattino, quando giunse il 5^ Alpini la mia batteria sostenne il peso dell’attacco nemico.

Tenente Giuseppe Capriata
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Il ferimento del maggiore Meozzi a Nikitowka nel pomeriggio del 25 gennaio, provoca un terremoto nel Gruppo Bergamo, il capitano Benfatti lo sostituisce ed il sottoscritto deve assumere il comando della 33ª Batteria, mi trasmette l’ordine il tenente Faglia del Comando Gruppo. Gli uomini tutti sono al limite delle loro possibilità, disponiamo di poche munizioni salvo le granate a pallette (per buona fortuna racimolate a Opyt…).

Porto la batteria avanti 4-5 chilometri, battendo neve fresca, ricevo l’ordine di attestarmi un po’”indietro, sulle alture di Arnautowo ove ci sono 5-6 isbe. Dispongo i pezzi, le guardie armate, due serventi per pezzo, le mitragliatrici; a fatica si sistemano gli uomini ammucchiati dentro le isbe. C’è con noi il R. M.V. del nostro gruppo; arriveranno poi, sul tardi, pattuglie del Val Chiese. Le guardie catturano a un certo punto due prigionieri, li passo in consegna al capitano Comolli, fuggiranno dopo un po’ di tempo!

Digiuno pressoché dal giorno prima, quando tutto è a posto mi butto per terra per riposare. Dopo una mezz’ora circa, alle ore 22, una guardia mi scuote: signor tenente sparano, corra… Do l’allarmi – serventi ai pezzi! – mando due portaordini sciatori indietro a Nikitowka a chiedere rinforzi: il caporale Pranzini modenese, l’artigliere Colombo bergamasco. Verrà su il Battaglione Tiràno sette ore dopo… sette ore di calvario per noi! Il Tiràno avrà le difficoltà ad adunarsi e mettersi in moto, difficoltà che palesa anche la batteria a schierarsi, cosa si può pretendere da uomini così provati e stanchi?! Alcuni, tramortiti dagli stenti, si renderanno conto di quanto sta succedendo anche una o due ore dopo. Taluni accorrono subito, il sottotenente Mazzaggio tra i primi.

Mi trovo poi con alcuni ufficiali delle pattuglie del Val Chiese, si tiene un rapido consiglio di guerra: articolare pattuglie per individuare la direzione di un probabile attacco russo, la batteria ne mandi una sulla destra in basso da dove anche si spara. Volontario parte Mazzaggio con dietro i caporali Giudici e Cairoli, mitra in spalla con la tuta bianca, li vedo fantasmi allontanarsi dietro l’autoblindo tedesca sopraggiunta non so da dove. Non li vedremo più…

Tento di far spostare il 2^ pezzo più a destra oltre una rete metallica; non si riesce, desisto, verrà poi portato alcune ore dopo e farà strage. D’accordo con gli alpini incomincia a sparare il 1^ pezzo di Panazza, direzione strada per Nikolajewka dove si vedono luci e spari di traccianti, si vuole anche rallentare l’attacco russo facendo capire che si dispone di artiglieria. A un certo punto iniziano i russi con i mortai, colpi sulle isbe poi sulla linea pezzi; mi rendo conto che un mortaio sta inquadrando il 1^ pezzo: colpo lungo, colpo corto… dal 4^ pezzo corro verso il 1^: “Sospendete il tiro…”; arriva il colpo a forcella; colpiti il capopezzo Ruggeri, il tiratore Tirinzoni, il tenente Panazza, ed io a una trentina di passi.

Accorre Capacci, mi porta e ci porta nell’isba infermeria che incomincia a riempirsi di feriti e di morti… Segue un po’”di disorientamento… i pezzi tacciono, poi riprendono a sparare, dopo un po’”mi si presenta un ufficiale mai visto: “Sono il capitano Capitò del comando Corpo d’Armata Alpino, la batteria è in crisi, voi tutti feriti…, se credi ne prendo io il comando…”. “D’accordo!” Dopo un’ora anche lui sarà colpito a morte. Seguono ore convulse, alla linea pezzi come alle armi automatiche si succedono i giovani ufficiali della batteria che verranno metodicamente feriti: Celesia, Fiocca, Forchielli, Bughi. Sottufficiali e soldati vi si prodigano assieme, senza mai perdere la calma, seppure momenti di entusiasmo si accompagnino a momenti di disperazione… le munizioni si riducono, i rinforzi non arrivano…

Da segnalare i tenenti Magnolini, Apostoli, Martinelli, Offeddu del R. M.V., essi pure impegnati a fondo ai mitragliatori a mantenere coi denti posizioni disperate, cadrà Magnolini, cadrà pure colpito in pieno petto da un anticarro, il nostro indimenticabile sergente maggiore Guicciardi di Spilamberto; cadranno tanti, tanti soldati nostri e anche delle pattuglie Val Chiese. Italiani e russi affratellati nella morte…

Nell’isba, ad Arnautowo, è notte, una lanterna rischiara a mala pena l’interno: due stanzette con le pareti di legno e fango impastati, intercomunicanti; crostoni di ghiaccio, il classico cassonestufa spento, dalla parte opposta all’ingresso, ci son sopra seduti appoggiati spalla a spalla, tre alpini, bei ragazzi con barbone, dormono, penso, beati loro che si son allontanati un momento dall’inferno di spari, traccianti e grida che tutto attorno frastuona…

L’attacco russo è in pieno sviluppo, affluiscono i feriti… già non c’è più posto, il pavimento è zeppo di gemiti e di sangue… io vi sono arrivato da poco portatovi a braccia dal tenente Tossi e dall’aiutante di sanità Trussardi di Clusone, sono nel bel mezzo steso per terra e medicato alla bell’e meglio, ai miei piedi un ragazzo aggomitolato, dorme e geme a tratti, è ferito dicono, un alpino della val Brembana, non gli do più di quindici anni… chi ti ha scaraventato fin qui… ragazzo!

Intravedo il Malossini, otorino, che si fa in quattro a tamponare e fasciare… non certamente per disfunzioni orecchionasogola. Mi scavalcano fantasmi imbottiti che entrano ed escono con armi automatiche, si gelano fuori e s’inceppano… di là c’è qualcosa di acceso. Vedo Apostoli; Nannino Offeddu di Nuoro, tenente, entra gridando: “Medicatemi e corro fuori… c’è bisogno di uomini… di uomini validi!”. Gli cola sangue dietro, dal collo; gli uomini validi ad uno ad uno se ne vanno scarpe al sole… quando non ce ne saranno più vedremo qualcuno affacciarsi all’uscio e spedirci con una raffica nel paradiso di Cantore…

Incomincio a dubitare dell’arrivo di rinforzi, se c’è gente a Nikitowka appena dietro di pochi chilometri, dovrebbero essere già arrivati… guardo il mio Zenith quadro da polso, sono le due, forse l’ultima notte che mi resta da vivere! Un tenentino attraversa l’isba, mi schiaccia una costola, gli lancio un accidenti, grida rivolto ai tre sul cassone: “Venì fòra Cristo…” e fa il nome di uno, graduato; “venì fòra cò i altri…” ne strattona uno per il bavero, il primo che gli viene alla mano…; rompe un equilibrio che era instabile… i tre gli ruinano addosso… morti! Rabbrividisco…, mi prende un brivido di gelo… E di paura.

Uno spintone spalanca l’uscio di nuovo, due artiglieri portano un altro ferito, lo riconosco, l’ottimo caporal maggiore Pedroncelli di Verceia; “non c’è più posto…” qualcuno lamenta. “E dove lo mettiamo, fuori sparano… non è questa l’infermeria?” Mi sposto scavalcando con uno sforzo il tenente Panazza di Brescia che è steso alla mia sinistra e dico: “Mettiti qui Pedroncelli… anche tu validissimo sei finito.” “Tenente, mi hanno preso al ginocchio.” Non ha finito di dirlo che un tonfo scuote l’isba e Pedroncelli emette un urlo. Un colpo anticarro ha attraversato le pareti e lo ha colpito al tallone di nuovo! L’avrei preso io se non mi fossi mosso. Ne ho rimorso!

C’è uno dietro che delira… “mama mama… aiuto… i me capa!” si drizza, ricade supino. Mamma, mamma… Cosa faranno in questo momento le nostre mamme in Italia… Pregheranno… Ora anche il ragazzo ai miei piedi si è svegliato, si stira sul dorso, sbarra gli occhi, emette un grido lancinante e nitido, invoca: “Saludim me pader e me mader… saludim me pader e me mader, cà more… more… mòre!”. Un sussulto e rimane lì stecchito, con gli occhi grandi spalancati che non vedranno mai più! Era ferito alla pancia… “Poaret a lò!” commenta uno, e prosegue: “Per lò la ritirada l’è finida… e po’ a la guera, sta bròta guera, ca l’an fa sconta a noter lance illusiù… e (ance pecacc!”) Capacci entra parlottando con qualcuno, sento sussurrare… Mazzaggio… Magnolini… capisco che dev’esser loro capitato qualcosa.

Feriti, morti? Capisco anche che non mi si vuol mettere al corrente dei fatti per non impressionarmi, la faccia di Capacci è grave, così penso al peggio… morti… oh Dio oh Dio! Chiedo a Nodari che pure va e viene, fa di tutto per tutti, non mi risponde… poi: “Al sere giò i òcc, sciur tenent… i rierà i rinfors… i rierà!”. Sogni e realtà! Quante realtà si concludono attorno, quanti sogni si spezzano.

Ognuno di noi una sua storia, storia che per molti si sta chiudendo inesorabilmente anonima; senza testimonianza si dissolvono fatti e uomini senza i quali nessuno sarebbe sopravvissuto a raccontare oggi a tanti anni di distanza. La storia di Capitò come mai si trovava lì ad Arnautowo, qual senso del dovere lo spinse ad offrirsi, in piena battaglia, ad assumere il comando della 33ª conscio che le probabilità di uscirne vivo erano quasi mille, come si può essere così corretti e riguardosi di volere un crisma ufficiale, una consegna da parte del comandante ferito prima di buttarsi nella mischia… lo vedo ancora entrare, cercarmi, uscire deciso a tutto, conscio di un grave compito da assolvere per il bene di tutti.

Non me ne accorgerò, più tardi, quando Mainetti di Mandello Lario, capo pezzo del 3^ pezzo, lo trascinerà lì ferito, paralizzato agli arti inferiori da un colpo alla spina dorsale… poche medaglie d’oro alla memoria saranno state così ben concesse sul campo e meritate! Intanto fuori la battaglia continua accanita, sento soffocati dalla neve i colpi a shrapnel dei miei 75/13; i russi si fanno sotto, penso.

Qualcuno fuori grida: un colpo ha incendiato l’isba sul davanti… ci son dentro dei feriti… maledizione… Colpi arrivano vicino, le pareti tremano, la fiammella è al limite, non ha più petrolio… si spegne, tutto ora è buio., dentro e fuori di noi… forse è la fine… miserere nobis Domine… miserere nobis! Alle 5 del mattino finalmente si diffondono voci: arriva il Tiràno… Arriverà anche il Valcamonica e la 29ª Batteria di Moizo…

Verso le 7 i russi sono annientati; il loro attacco tenace e violento durato una lunga notte è fallito. La strada è di nuovo aperta e di lì ricominceranno a passare i reparti che erano dietro a noi, e precisamente, i Battaglioni Verona e Vestone, una compagnia del Val Chiese, il comando del 6^ Alpini, la colonna della divisione col comandante, generale Reverberi, colonna che raggiungerà Nikolajewka, giusto in tempo per l’attacco decisivo sull’ultimo caposaldo dell’accerchiamento russo.

Fu evidente lo sforzo nemico di bloccare nella notte una parte della colonna in ritirata a cavallo tra Nikitowka ed Arnautowo; a Nikolajewka sarebbe stato più agevole contrastare gli altri reparti superstiti. Merito della nostra batteria l’avere impedito una manovra così insidiosa, merito anche dei migliori elementi del R. M.V. del Bergamo, degli alpini del Val Chiese caduti al nostro fianco, dell’apporto ultimo decisivo del Tiràno che immolò su quelle alture il fior fiore dei suoi uomini: capitano Briolini, tenente Soncelli, tenente Slataper e decine e decine di altri valorosi, come il capitano Grandi e il tenente Perego.

La batteria in quella notte sparò oltre 200 colpi (ne rimasero 19 per Nikolajewka!…). La mitragliatrice Fiat 914/37 di Gafforelli sparò più di 3.000 colpi! 27 gennaio. Una colonna disordinata, slitte di feriti, muli con o senza conducente carichi di larve d’uomini sfiniti o con i piedi congelati, non ci son capi, non ci son gregari, la sciagura ha livellato tutti, solo l’istinto di conservazione li fa proseguire assieme sulle orme della massa che dopo i fatti del 25-26 gennaio si è buttata in un andare affannoso verso ovest, verso ipotetici capisaldi tenuti ancora, si spera, da truppe amiche.

E’ un fortunato mattino di sole, una nevicata cancellerebbe la pista segnata sulla neve e taglierebbe inesorabilmente ogni via di scampo agli sbandati che arrancano ultimi e dimenticati! Queste e altre cose penso, supino a lato di Panazza e di Forchielli su una delle slitte che cercano di salvare noi feriti della 33ª Batteria: penso a un brodo caldo, a un cicchetto di grappa, a un cuscino sotto le ginocchia che attutisse i sobbalzi del legno che mi ospita e rendesse meno lancinanti le ferite; alle nostre case, alle nostre madri.

I bollettini di guerra non potranno tacere questo disastro o forse annunceranno che gli alpini stanno attestandosi su nuove posizioni! I comandi logistici predispongono tutto in tempo di pace, i piani sembrano perfetti sempre, la guerra rivela i difetti, gli imprevisti capovolgono le situazioni e chi c’è di mezzo subisce. Quando la va bene tutti ti si accodano, se la cambia rimani solo a lottare e buon per te se hai fiato a sufficienza. Un medico di batteria poc’anzi mi ha chiesto i miei scarponi con le suole di gomma, “tanto tu non puoi più camminare…”.

Non poter più camminare in questa fuga è un po’ come essere incatenati in una casa che brucia, in un battello che affonda… forse morirò… Anche gli aerei ora… uno si abbassa, punta dritto su di noi che stiamo discendendo una balka, d’infilata una raffica… “Dio, se devo morire, un colpo al cuore netto, non me la sento più di soffrire.” “Nodari, Seghezzi… buttatevi sotto nel bosco…” mi raggomitolo, trattengo il fiato… la raffica s’abbatte a un metro sulla destra, siamo salvi anche stavolta. Avanti, avanti fin che le forze reggono. Anche i muli arrancano a mala pena, i nostri magnifici muli delle vallate alpine, reclutati assieme ai loro valligiani con tanto di cartolina precetto…

La loro sopportazione e resistenza, lo scuotere che fanno ogni tanto del pesante testone come a levarsi di dosso un po’”di stanchezza e di fame fanno compagnia e spronano anche i conducenti… “fin ca Iva i müi a “nva anca noter…” borbottano ogni tanto i due Seghezzi conducenti del mulo di punta e di stanga della slitta che ci trascina. Qualche ciuffo d’erba secca che spunta fuori dal bianco viene morsicato al volo o portata dai conducenti che vagano a farne mazzetti sprofondando fino al ginocchio nella neve.

Per cento motivi ed esigenze, la colonna coi feriti procede lentamente, una decina di slitte che a volte s’insabbiano o per la neve, le buche, il pendio troppo ripido da superare… In un momento ben determinato abbiamo anche lo sconforto di vederci negare l’aiuto a una spinta per arrivare in cima a un dosso, era già sera, ultimi… gli ultimissimi. Sbandati ci superavano incuranti e sordi, certo temevano che uno sforzo suppletivo li avrebbe stroncati e, come tanti altri, paventavano di minare ai margini.

Così, debole, due lagrime mi solcano le ciglia, i denti segnati, le croste alle labbra, alle narici, i polpastrelli coperti da vesciche per congelamento, la fame, la febbre, mi manca tutto, darei non so cosa per un fazzoletto da naso, un po’ di bambagia con alcool, un limone… A un certo punto mi vedo dinnanzi Olivelli! “Tu qui? Come mai? La 31ª Batteria… Bartolozzi il comandante, De Rege il sottocomandante, Nidasio di Cassano d’Adda il medico, tutti amici carissimi che mi ricordano l’altro duro inverno sui Ciaf d’Albania, dove sono?” “Capriata, non ne parliamo… cose terrificanti… col Morbegno siamo stati tagliati fuori in azioni di retroguardia… non ne so più nulla… nulla.

Speriamo che i superstiti siano in salvo, sono giorni che vago, mi fa piacere trovare facce amiche, starò con voi… usciremo assieme dalla sacca!” Olivelli, che la ferocia nazista stroncherà poi a Mauthausen privando l’Italia di uno dei suoi giovani migliori, educato nelle file dell’Azione Cattolica a Roma, comasco d’origine, in quel momento rappresentava davvero il solo uomo che avrebbe avuto le probabilità maggiori di trarci in salvo, naturalmente mettendosi egli stesso nei guai perché rimanere con i feriti voleva dire restare cogli ultimi, perdere terreno, incappare in altri agguati, forse morire.

Lo conoscevo da pochi mesi, giovane sottotenente assegnato alla 31ª Batteria del Gruppo Bergamo, si era subito fatto apprezzare per l’elevatezza del suo pensiero e una cultura enciclopedica, profondo in qualsiasi campo. Conversare o discutere con lui era un piacere, alcune serate in linea ospite della nostra batteria rimarranno indimenticabili. E dimostrò veramente cosa egli era. Aveva le saccocce piene di zucchero, dove l’aveva preso non si sa, qualche residuo di sussistenza… Lo distribuì tutto, con le mani a pugno ce lo infilava tra le labbra, e quello zucchero ebbe il potere di rianimarci non poco… almeno per quel giorno!

La parola confortevole per ognuno, e duro nello stesso tempo con gli usurpa tori; alcune volte lo ricordo con la rivoltella impugnata: “Fuori voi… lasciate posto ai feriti”; era un invito categorico che non ammetteva replica! Trovar posto ai feriti per passare la notte non
all’addiaccio… che tragedie… tutte le sere una lotta contro il tempo e contro tutti! Poi trovar qualcosa di che sfamarli… il ripartire di notte se c’eran degli spari o all’alba, ritrovando slitte, muli e conducenti e i pochi che di loro volontà accompagnavano, l’incubo di non perdere la pista durante l’andare, di soccorrere chi veniva meno, di aiutare; il senso assoluto di correttezza verso di me, che comunque ero il più elevato in grado, per cui ogni tanto me lo vedevo dinnanzi a rendermi conto, proporre, volere un parere, un’approvazione a decisioni che potevano anche decidere della sorte di noi tutti.

Povero, grande Teresio Olivelli, cos’hai fatto in quei giorni! Ma il fatto che rivelerà un Olivelli veramente al di sopra degli eventi che resero ciechi molti, in quei frangenti, ciechi ed egoisti, è ancora da raccontare. Era il 31 sera, ma buio, freddo intenso e neve tutto attorno, mentre la colonna di noi feriti sostava sotto le stelle in un villaggetto qualunque di
rade isbe. Mi si avvicina Olivelli, come faceva ogni tanto, per tenermi informato, “Capriata, manca all’appello la slitta che portava il capo pezzo e il tiratore del primo pezzo: Rocco Ruggeri di Ranzanico e Giovanni Tirinzoni di Talamona.

“Stamane la slitta c’era…” Occorre notare che l’ansia di quei giorni non permetteva uno scorrere regolare dei reparti, specie negli ultimi momenti poi era uno scavalcarsi, inframettersi, mescolarsi di mezzi, uomini e muli per cui controllare e tener assieme un reparto era cosa pressoché impossibile. “Speriamo che arrivi, Olivelli. Sono in giro Nodari e Marcolungo alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, e di un buco per ripararci stanotte; magari li trovano in qualche posto…”

Passa del tempo, tutto zeppo ovunque, le slitte sono sempre lì sotto il cielo vitreo stellato, con il loro carico dolorante. Dove andremo stanotte? Per di più si odono spari lontani, magari occorrerà pistare di nuovo. Si avvicina nuovamente Olivelli: “Capriata, Ruggeri nessuno lo trova, la mia coscienza mi dice di andare indietro a cercarlo, prenderò qualcuno con me…”. “Olivelli, la probabilità che tu riesca a scovarli è minima, vorrei dire assurda. Ti rendi ragione, andare solo nella notte, all’indietro? Lo vedi che siamo gli ultimi della ritirata? chi ti potrà indicare la via? Ti faranno fuori i partigiani. Mi senti? Abbandoni cinquanta uomini per cercarne due, dispersi come aghi in un pagliaio. Noi senza di te che faremo?”

Indubbio, c’era anche una punta di egoismo nel mio dire; ma, se pure ferito, avevo sempre una responsabilità verso tutti e paventavo la fine di tutti in una improvvisa bufera, in un agguato, in un errore di orientamento. Ma l’uomo fu irremovibile. “Torno indietro a cercarli.” I “qualcuno” interpellati si rifiutarono di seguirlo; andò solo, si allontanò, grave, conscio del pericolo che stava per affrontare. In quel momento Olivelli esprimeva tutto se stesso, il condensato di tanti anni di studio, condotto a ritmo serrato con metodiche levatacce alle quattro di mattino, due lauree, il rettorato ultimo, al Ghislieri di Pavia, venticinque anni… e la realtà presente che sconvolgeva anche i suoi ideali, ordine con giustizia.

Il buio della notte lo inghiottì ed un incubo ci avvolse tutti. Passò del tempo ancora, quanto? Si riuscì a porre qualche ferito al riparo; quella notte Nodari, Seghezzi, Marcolungo e qualcun altro non dormirono, vigili fuori a curare i muli e le slitte, qualcuno poteva farcele sparire. Nel pieno della notte una voce. “Trentatré… Trentatré!…” Era Olivelli. “E’ qui la trentatré. Avanti!” “Capriata, ho rifatto parte della pista di oggi, nessuna traccia della nostra slitta e degli uomini che la occupavano; a un certo punto ho incontrato un gruppetto di artiglieri alpini del Bergamo, venivano essi pure dal villaggio ove noi si era sostato nel pomeriggio, mi hanno assicurato che là non vi è rimasto più nessuno.

Allora mi son reso ragione dell’inutilità del mio andare e della responsabilità che mi ero assunta di voi, la mia coscienza poteva dirsi tranquilla di fronte alla loro testimonianza e sono tornato sui miei passi.” La coscienza… quando questo nome voleva dire coraggio, e coraggio sacrificio, e sacrificio olocausto… pochissimi sapevano realmente interpretarla; e lo sanno tutt’oggi.

Il 6 febbraio 1943 a Karkow. La città è investita dai russi e sta per capitolare; ciò avverrà il nove. Colonne tedesche in ritirata la paralizzano, la stazione è assalita da militari di tutte le nazionalità che vogliono fuggire a ogni costo dall’inferno del gelo e della steppa; i feriti che
possono reggersi da soli sono stipati su vagoni destinazione ovest… il fronte est sta crollando, l’Ucraina orientale è coperta di desolazione: a migliaia i morti, i feriti, i congelati, i dispersi erranti alla macchia!

Nell’ospedale militare di Karkow fatti partire il 4 e il 5 i meno gravi, i restanti si disperano; gli alti comandi non hanno disposto nulla, i ricoverati sono dimenticati da tutti; nella maggior parte si tratta di feriti del Corpo d’Armata Alpino, della Divisione Tridentina, bergamaschi e bresciani, veneti e modenesi della collina, comaschi, varesotti e valtellinesi, ragazzi tutti dai venti ai trenta e più anni che han forzato, pagando di persona, l’accerchiamento russo dando possibilità a se stessi e a tanti altri di sottrarsi a sicura morte.

Improvvisa una voce si diffonde: “E’ arrivato un treno ospedale” anche per noi un posto e una barella… è vero, non è vero. E” verissimo: da Stalino, quelli del treno ospedale n. 3 dell’Ordine Militare di Malta, avuto sentore della situazione senza uscita degli ultimi degenti nell’ospedale di Karkow, senza esitazione, d’iniziativa, sfidando arruffati ordini di servizio e i pericoli connessi a puntare su una città già data per persa, ce l’hanno fatta, sono qui, ci caricheranno!”

Chi erano? Forse non si saprà mai; alcune crocerossine giovani, un’anzianissima contessa, Maria Vittoria Roberti di Primero: “Ho raccolto i vostri padri sul Montello sul Grappa e sul Piave… raccolgo voi in Russia”. Un vecchio padre cappuccino, piccolo tarchiato e barbuto: fermi nella notte tra il sei e il sette nella stazione di Karkow dilaniata da esplosioni e da lampi di un bombardamento aereo impartirà tra le carrozze a tutti l’assoluzione – in articulo mortis. Un capitano medico che taglia e incide di giorno e di notte le nostre orrende lacerazioni!

In quanti fummo salvati? quanti giunsero vivi al Brennero dopo sette giorni via Leopoli e Vienna? Alcuni giunsero morti: il maresciallo Tempesti, il caporal maggiore Pierino Piantoni di Palazzolo sull’Oglio. I superstiti oggi, a tanti anni di distanza hanno un dovere di riconoscenza da esternare a questi silenziosi eroi, all’Ordine di Malta che ve li condusse.

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