ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 62

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Alpino Giovanni Dal Borgo
54ª Compagnia, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento Alpini

Il giorno 1^ novembre 1942 incominciava per noi il calvario destinato al Battaglione Val Chiese, alla 54ª Compagnia che si trovava in linea sul Don. Destinato alla squadra portaferiti agli ordini del caporale Serafini e tutti i giorni al recupero di legname (travi per coprire le baracche di ricovero formate con scavi sotto terra) poi di turno di notte in linea per scavarci camminamenti. Verso la metà di dicembre fui scelto per formare un plotone, e con un capitano partiti di sera siamo andati oltre il Don. Prelevate le sentinelle russe, siamo ritornati all’alba con dei nostri feriti. Tutti i giorni c’era sempre qualcosa di nuovo, radio “scarpa” diceva che si doveva rimpatriare.

Arriva il giorno 17 gennaio ’43, il comandante della compagnia, dice che dobbiamo ritirarci per formare una seconda linea. Alle ore 18 si parte; ogni due uomini un paio di sci, costruiamo una slitta per caricare gli zaini e poi via! Dopo aver fatto 12, 14 ore di cammino, siamo arrivati, mi sembra, al comando divisione, e là, dopo aver riposato, il comandante del battaglione ci raduna e ci dice che siamo circondati dall’Armata Rossa. Così dovemmo combattere per aprirci la strada il giorno 19 (battaglia di Opyt) e poi tutti i giorni di sèguito, e qui ci furono molti morti.

Il 25 notte rimango ferito a tutte e due le gambe, all’alba si riparte e mi caricano su di una slitta, andiamo verso Nikolajewka. Là ho potuto trovare il tenente colonnello Carlo Camin, sotto la ferrovia in mezzo alla colonna ferma, che incitava tutti ad andare avanti. Saliti sulla ferrovia ho potuto vedere cosa era successo. Il giorno dopo non c’erano più mezzi per portarci avanti, ognuno doveva arrangiarsi da sé. Mi trovai senza scarpe, allora spaccai in due una coperta, trovata nella casa dove mi avevano portato, la misi attorno ai piedi, trovai
un amico con un cavallo e mi caricò sopra, e lui teneva in mano la corda e via per tre giorni, poi rimasi a terra, il cavallo non ce la faceva più.

Dovevamo mangiare qualche patata se si trovava, e avanti senza scarpe, finché trovai uno stivaletto e uno scarponcello appartenenti ai nostri congelati che li avevano gettati via; in quel tempo, le mie ferite si erano scaricate dal pus, e bisognava camminare in fretta. Le prime cure le ebbi all’ospedale di Karkow. La notte tra il 5 e il 6 febbraio del 1943 siamo partiti con la tradotta per l’Italia.

Sottotenente Luigi Grossi
253ª Compagnia Alpini, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento

Avevamo combattuto per tutta l’interminabile notte dal 25 al 26 gennaio tra le isbe di Arnautowo, insieme con gli artiglieri del Bergamo. Quando le munizioni erano pressoché esaurite e si faceva strada il pensiero che invano erano stati spesi tanti sacrifici, ecco sopraggiungere il Tiràno: ci aveva scavalcato e aveva risalito il pendio verso la selletta, incontro al suo destino.

Subito la battaglia era esplosa di nuovo cruenta. Più tardi, intervenuti mortai e artiglierie, la strada era stata aperta a durissimo prezzo. Ora, dietro al capitano Gaza, marciamo veloci su una pista parallela alla colonna, nella neve alta. Il freddo è polare. Ho i piedi congelati e seguo gli altri a fatica.

Da lontano, di fronte a noi, giunge l’eco di scoppi fitti, secchi, incessanti, è il segno inconfondibile della battaglia che infuria. Dev’essere passato mezzogiorno quando giungiamo su un dosso che sovrasta Nikolajewka: s’infittiscono gli spari, qualche colpo di artiglieria esplode nelle vicinanze. Ed è già dal mattino (lo veniamo a sapere adesso) che la 255ª Compagnia del capitano Zani, i resti del Vestone e del Verona si stanno dissanguando
nell’attaccare la posizione munitissima, che ha un formidabile elemento di difesa nel terrapieno della ferrovia, oltre il quale si estende l’abitato da conquistare.

Sotto la loro pressione, il nemico si è ritirato lentamente, disputando palmo a palmo il terreno con furioso accanimento; mentre il tenente Ferroni, della 255ª Compagnia, raggiunta la stazione ferroviaria, vi ha piazzato le sue “pesanti”. Gli alpini hanno travolto gli ostacoli, hanno raggiunto la chiesa: il cerchio di ferro sembra ancora una volta spezzato. Ma a quel punto la 255ª Compagnia e gli altri reparti hanno consumato tutto il loro slancio offensivo. Il nemico, avvertita questa situazione di crisi, ha sferrato immediatamente un contrattacco vigorosissimo, concentrando sui nostri il fuoco simultaneo di tutte le armi.

Lottando con le ultime bombe a mano o all’arma bianca, gli alpini hanno ripiegato passo a passo, talvolta contrattaccando con disperato valore. E’ a questo punto che Zani, protetto in qualche modo dalle Breda del tenente Ferroni, torna indietro per sollecitare di persona quei rinforzi che non arrivano mai e senza i quali la partita si deve considerare perduta. Mi trovo presso il capitano Gaza che ci ha fatto un breve resoconto della situazione, quando vedo Zani che risale dal paese come una furia urlando: “Dov’è il mio colonnello? Bisogna andare giù o li ammazzano tutti!”.

L’ordine è perentorio, unico, immediato per tutti, senza distinzione di grado o di reparto: scendere alla ferrovia a dare man forte a quei poveri cristi che si stanno scannando da ore per aprire la sacca a se stessi ed agli altri. Si parte di corsa. La neve è solida, gelata, non si affonda. Appena i russi ci scorgono, anche su di noi si scatena l’inferno: mortai, cannoni, mitragliatrici c’inquadrano nel loro campo di fuoco ed i tiri micidiali spargono intorno la morte.

Un’esplosione vicinissima: mi trovo a terra stordito, vicino a me un alpino letteralmente squarciato, che forse mi ha salvato, con il suo corpo, la vita. Rotolo in una buca per potermi osservare la gamba destra colpita da schegge. Non sembra una cosa grave. Apro il pacchetto di medicazione, ma le mani congelate non mi consentono di fasciarmi: perciò infilo la garza nello strappo dei pantaloni. “Hanno fregato anche me!” è il sottotenente Coerezza che ha la testa fasciata alla meglio. “Avanti, sono ferito anch’io, ma bisogna andare giù” urla Zani. Mi rialzo a fatica. Coerezza corre avanti seguendo Zani. Una esplosione li investe in pieno. Zani ha le gambe orrendamente straziate; mormora ancora: “andate avanti, andate avanti”.

Coerezza ha una mano quasi stroncata: cerco di stringergli il polso per fermare il sangue, ma per le ferite di Zani non so da dove incominciare. Occorrerebbe un medico, una slitta. Risalgo l’erta zoppicando e giungo in vista della colonna, ma ecco un rombo lacerante di aerei in picchiata: mi tuffo, vedo fiammelle lungo le ali: mitragliano, spezzonano, ritornano sull’obiettivo: una vera carneficina. Finalmente spariscono all’orizzonte. Trovo alcuni alpini che conosco. Hanno una slitta. Mi seguono, subito.

Raggiungo Zani e Coerezza. Non sanguinano più: il freddo ha funzionato da emostatico. Zani è immobile, non parla, non si lamenta: sembra svenuto, forse è morente. “Per me è finita” dice Coerezza “non c’è più niente da fare.” “Sciocchezze, vedrai che non è nulla di grave” li carichiamo sulla slitta. Sta calando la sera quando avviene il miracolo: la colonna si mette in movimento, rotola verso la ferrovia, passa come una valanga tutto schiantando.

Anche la nostra slitta si accoda. La seguo per un po’, poi nella calca ci perdiamo. Entro nel paese dal sottopassaggio, mentre la battaglia si placa. Solo alcuni spari in lontananza… Il 6 febbraio, sul treno ospedale n. 3 in partenza da Karkow, nel lettino accanto al mio ho ritrovato Zani. E’ gravissimo. Ferroni, Coerezza e tanti altri sono restati a Nikolajewka.

Alpino Albino Miotto
255ª Compagnia, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento Alpini

C’ero anch’io, alpino Miotto Albino, Battaglione Val Chiese, 3^ Squadra Mitraglieri, 255ª Compagnia al comando del tenente Ferroni morto al mio fianco alla stazione di Nikolajewka. Questo è il mio indimenticabile episodio.

Arrivati all’altura di Nikolajewka di mattino presto, c’era un po’ di foschia ma si vedeva lontano, ci viene l’ordine di andare giù noi non sapevamo cosa era chiamato quel paese, come tanti altri paesi pur avendo combattuto. Giù fra le cannonate, da un buco all’altro delle stesse, io avevo sulle spalle l’arma, zaino ecc.; sotto a questo inferno arrivammo allo steccato della ferrovia di fronte alla stazione, in quel tratto è stato ferito il primo porta munizioni, non so come si chiamava, mi sembra Bagaria.

Medicato alla meglio, siamo andati al di là degli steccati, dentro in stazione, scaldato l’arma, si comincia a sparare, si vedevano i russi a ritirarsi da una casa all’altra, le pallottole fischiavano da tutte le parti, le munizioni si stava finendo, all’incitamento del tenente si sparava ai fuggitivi che si vedevano dalle finestre della stazione, in quel momento vidi il tenente colpito a morte da una raffica, lo lasciai con il suo attendente e mi spostai sulla sinistra, sparai con un fucile che non so come mi sia capitato fra le mani, vedo degli alpini che vanno ancora verso sinistra e mi accodai, traversai ancora le rotaie, e dietro una piccola altura da un falsopiano mi trovai ancora al punto di partenza.

Stanco e insanguinato mi credevano ferito, mi buttai a pancia alta, i colonnelli e generali e tutti i comandanti gridavano, alpini bisogna andare giù se si vuol andare in Italia, giù c’è la stazione. In quel momento ho visto degli apparecchi sganciare delle bombe sopra noi. Dagli urli, dal fracasso, dalle incitazioni dei comandanti, i feriti, le slitte la massa degli alpini si è mossa verso giù. Non so da dove sono entrato a Nikolajewka, mi sono trovato a tarda sera a un sottopassaggio, a sinistra di questo c’era una piccola fabbrica di miele, i borghesi stavano ancora lavorando. Occupata la fabbrica, a turno abbiamo riposato, e con tutto ciò la dura giornata a 40 sotto zero è finita.

Alpino Guerrino Tregnaghi
255ª Compagnia, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento Alpini

Non ho bisogno di sforzarmi per ricordare la guerra combattuta sul fronte russo e in particolare i momenti tragici di Nikolajewka, Poco riesco a scrivere con la penna, ma nella mia mente rivedo con perfetta visione quei momenti vissuti. Poche cose erano ancora in mio possesso, e per conservarle erano continui gli sforzi di ogni genere e continua la sofferenza.

Ma queste poche cose erano tutto, la speranza di poter continuare ad andare oltre, non dico alla liberazione dalla sacca, non si pensava quasi mai a questa, ma a difenderci da ogni continuo ostacolo che si presentava. Il superare tutto ciò, ravvivava ogni nostra fraterna e compatta speranza di finire le sofferenze vissute e patite insieme. Ma cosa ci attendeva ora che ci avvicinavamo a Nikolajewka? Un grande sbarramento nemico chiudeva ogni nostra speranza. Le poche armi che ero riuscito a conservare: una Breda calibro 37, quattro bombe a mano e quattro caricatori, erano poca cosa per superare il colossale sbarramento nemico.

Il comandante del mio plotone mitraglieri, tenente Ferroni, un gran bravo ragazzo, era molto speranzoso di ritornare nuovamente a casa e di riuscire a cavarsela dall’inferno russo. Appostato in una buca di bomba esplosa a una distanza di circa 300 metri dal nemico, mi diede l’ultimo suo ordine: “Tregnaghi, spòstati sulla sinistra e prendi posizione”.

Presa questa fra pallottole nemiche, che arrivavano da ogni parte, ho cominciato con colpi precisi a sparare. Il comandante mi supera e si porta in avanti. Sono bastati pochi metri e scopertosi al tiro nemico, lo vedo cadere colpito e rimanere esanime sul pendio; allora una forza istintiva mi ha preso, ed incito i miei uomini ad avanzare verso la ferrovia, entrando così in Nikolajewka.

Prima di passare oltre, verso il paese, che si trovava al di là della stazione, incontro il mio capitano Luciano Zani, gravemente ferito probabilmente da un colpo di mortaio. Chiedo aiuto ad altri alpini e lo carichiamo su una slitta adibita al trasporto dei feriti; lo saluto e spero che si salvi. Faceva parte del mio plotone un mio caro amico al quale ero legato da fraterna amicizia, essendo cresciuti assieme, sempre vicini in ogni difficoltà e in ogni reciproco aiuto necessario in terra russa.

Superati con alterne vicende questi duri momenti di lotta, entrato in Nikolajewka, cercavo, chiedevo di lui, come al solito per riunirci e continuare assieme il ritorno verso casa. Ma ogni mia speranza venne delusa. Ritorno di nuovo indietro quasi dentro al maledetto paese, ma devo rinunciare alla ricerca, sperando di incontrarlo forse più avanti. Purtroppo non l’ho più visto e così lui è ancora vivo in me nel ricordo della vita vissuta insieme fino a Nikolajewka. Non sei morto, ma vivo ancora è il tuo esempio. Come troverò la forza di dire dove sei rimasto alla tua mamma?

Scrivendo queste poche righe, rivedo nitidi nella mia mente quei tremendi momenti, che nessuno se non li ha vissuti, può neppure immaginare. Alpini, fratelli di sofferenze e patimenti, morti uno sull’altro, uno vicino all’altro, come se la morte li volesse conservare sempre uniti, vicini nella loro spontanea fraternità. Come non si può piangere ogni volta che ripenso a loro, là rimasti: non morti, ma angeli e grandi eroi.

Alpino Gabriele Bazzani
255ª Compagnia, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento Alpini

La mattina del 26 gennaio giungemmo (la compagnia era comandata dal tenente Zani) sulla strada che portava a Nikolajewka. Ricordo che vi erano pure il tenente Ferroni e il sottotenente Baccarin. Fummo schierati a distanza di 4 metri l’uno dall’altro sulle colline di fronte alla stazione. Il tenente Ferroni che godeva di grande ascendente guidò l’attacco alla stazione; io seguivo con le cassette delle bombe per mortaio da 45. Mentre scendevo dall’altura vedevo molti miei compagni cadere e dato la discesa molto ripida, cadevano con la testa e il corpo nella neve di modo che sporgevano solo le gambe, rivolte verso l’alto.

Quando giungemmo a poca distanza dallo steccato di pali che circondava la stazione eravamo ridotti a circa un terzo. Sostammo qualche minuto – per riprendere fiato e per studiare il modo più adatto per occupare la stazione – riparandoci sotto alcune fitte piante di amarene. Sulla nostra destra lo steccato era interrotto da un breve varco; il tenente Ferroni e alcuni alpini riuscirono ad allargare il passaggio e in tal modo potemmo raggiungere le rotaie e la stazione.

Il fuoco dei russi era incessante; tuttavia riuscimmo a scorgere dove erano asserragliati e a
mettere in posizione una mitragliatrice e un mortaio da 45: eravamo solo in tre: uno alla mitragliatrice e due al mortaio. Dopo un breve fuoco che provocò delle perdite, i nemici fuggirono abbandonando la casetta. Mi voltai indietro e scorsi il tenente Ferroni e il sottotenente Baccarin e gli altri miei compagni caduti entro il recinto della stazione. Il tenente Ferroni mi chiamò e mi disse di prendergli – per ricordo – l’orologio e il portafoglio, perché per lui ormai tutto era finito. Mi accorsi allora di essere rimasto l’unico
superstite.

Mentre cercavo di avvicinarmi scorsi alcuni russi che ritornavano rioccupando la stazione: riuscii ad abbattere il primo, ma vedendo che erano sempre più numerosi, attraversai le rotaie e saltai al di là del varco dello steccato rifugiandomi in mezzo alle piante di amarene. Dopo qualche istante mi avviai di corsa verso la cima dell’altura dove erano attestati gli alpini e i fanti che non avevano preso parte all’attacco contro la stazione.

Lungo la salita fui raggiunto da una pallottola che bucò il pastrano senza recarmi alcun danno. Giunto in cima, mi misi a piangere, non capivo più nulla. La sera dello stesso giorno andammo di nuovo all’attacco della stazione: una scena apocalittica che è impossibile descrivere: un fuoco d’inferno, grida, urla, invocazioni di “mamma, mamma!”. Finito l’attacco riuscii ad entrare in una casa dove trascorsi la notte in bianco a causa dei continui spari; io avevo perduto il fucile e le munizioni. All’alba partii con la colonna per proseguire la ritirata.

Alla sera del 27 raggiunsi un mio amico che trascinava su una slitta il tenente Zani ferito: ad un certo momento mi disse che non ce la faceva più a trascinare la slitta e me la affidò. Alla fermata dovetti anche darmi d’attorno per cercare qualche cosa da mangiare: sotto il pavimento dell’isba trovai, per fortuna, delle patate. Accesi il fuoco e incominciai a far cuocere le patate; ci mettemmo a divorarle prima ancora che fossero interamente cotte: imboccavo il tenente Zani – che non era in grado di muoversi – come se fosse stato un bambino. Continuai a trascinare la slitta per due giorni, finché il mio amico non mi disse di sentirsi meglio e così gli riaffidai la slitta. Qui finisce il mio racconto dei tre più terribili giorni che io abbia trascorso.

Capitano Luciano Zani, medaglia d’oro al V. M.
Comandante 255ª Compagnia, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento Alpini

Sono passati 30 anni da quelle tremende giornate nelle quali, attanagliati dal freddo, dalla fame, con scarse munizioni, incalzati dal nemico reso baldanzoso dalla sensazione dello sfacelo delle Armate Tedesche che si ritiravano in disordine, chiusi in una sacca dalla quale non sapevano come sarebbero usciti, i magnifici soldati del Corpo d’Armata Alpino seppero scrivere nelle gelide steppe della pianura russa una delle più belle pagine della loro storia, seppero aggiungere un’altra magnifica gemma a quelle di cui è costellata la loro storia di montanari, di indomiti figli di quelle vallate che li avevano cresciuti.

26 gennaio 1943: dalle 8 del mattino reparti della Divisione Tridentina si stavano generosamente dissanguando nel tentativo di riuscire a spezzare il cerchio di fuoco e di acciaio che li rinserrava in una tragica e insuperabile morsa: l’ordine ricevuto era quello di uscire dalla sacca e forzare lo sbarramento nemico per dare modo alle armate che si ritiravano di aprirsi la strada verso la salvezza, verso la Patria.

Gli alpini avevano alle spalle nove giorni di disperati combattimenti, una allucinante marcia nella steppa a 40/45 gradi sotto zero. Erano laceri, affamati, ubriachi di sonno, macerati dalle fatiche ma andavano ugualmente all’assalto, scendevano per il dolce declivio della balka punteggiando di feriti e di morti la bianca distesa, affrontando impavidi l’implacabile bufera di fuoco che si abbatteva su di loro, superavano il terrapieno della ferrovia con sublime ostinazione.

Punta di diamante in questa sanguinosa lotta per lo sfondamento della sacca era la 255ª Compagnia Alpini del Val Chiese, la compagnia che, formata da solidi montanari delle valli bresciane, io avevo l’onore di comandare sul fronte russo. Sotto la pressione dei nostri plotoni, lanciati anche all’arma bianca in furiosi corpo a corpo, il nemico si stava ritirando lentamente, disputando il terreno palmo a palmo, con feroce accanimento; mentre il tenente Gino Ferroni, raggiunta e occupata la stazione ferroviaria, vi piazzava le sue mitragliatrici pesanti che spazzavano il terreno sostenendo così il fianco sinistro del nostro schieramento.

Anche gli altri reparti, per quanto provatissimi, avevano guadagnato terreno, si erano avventati sulle prime case, puntando alla chiesa che si vedeva all’estremo limite del villaggio. In breve il combattimento si era esteso a tutta la linea, era divenuto asprissimo con furiosi corpo a corpo che nascevano ovunque si riusciva ad agganciare il nemico. I miei alpini, travolta la prima linea, erano piombati di slancio sopra una batteria anticarro al completo, catturandola, e avevano raggiunto anche la chiesa: sembrava che il cerchio si fosse finalmente spezzato!

Ma in quello stesso momento, quando sarebbe stato necessario spingere a fondo l’attacco per sfruttare quanto più possibile il successo iniziale, era stato invece necessario sostare: avevamo consumate tutte le munizioni e anche lo slancio offensivo si era affievolito per le gravissime perdite subite negli assalti sino dalle prime ore del mattino; erano caduti molti ufficiali ed i reparti erano stati quasi maciullati dalla furiosa reazione avversaria. Il nemico, accortosi della situazione, aveva sferrato un immediato e vigorosissimo contrattacco concentrando sui nostri reparti il fuoco di tutte le sue armi.

Ma anche sotto quell’uragano di fuoco i miei alpini, come tutti gli altri eroici compagni, avevano tenuto duro, avevano resistito abbarbicandosi alla terra come radici di alberi, erano diventati roccia riuscendo a contenere la schiacciante pressione avversaria. Io, rimasto miracolosamente illeso, stavo chiedendo rinforzi e munizioni a mezzo di un mio portaordini, per salvare la difficile situazione, per quanto ogni tenue speranza stesse per crollare, allorché, per lo spostamento d’aria causato da una esplosione vicinissima, venni scagliato a terra così come il tenente Grossi con alcuni alpini.

Per quanto stordito il Grossi si era rotolato in una buca ed aveva tentato di aprire il pacchetto di medicazione perché aveva la gamba destra colpita da una scheggia di mortaio. Ma le mani semigelate non gli avevano consentito alcun movimento e lui, alla fine, aveva infilato la garza nello strappo dei pantaloni dal quale colava il sangue. “Hanno fregato anche me!” gli aveva gridato il sottotenente Coerezza che aveva già la testa fasciata e si trascinava carponi nella neve alla testa del suo plotone. “Avanti! Bisogna andare avanti!” avevo gridato io rialzandomi a fatica, indolenzito dal colpo ricevuto.

Pochi secondi dopo un’altra esplosione ci investiva in pieno, cancellando il mondo intorno a noi. La neve era rossa di sangue, fiochi lamenti si levavano dai corpi disseminati nel raggio della esplosione. Io mi sono ritrovato con le gambe straziate da decine di schegge di mortaio, ma ho continuato ad invitare gli alpini ad andare avanti, sino a quando mi sono sentito mancare. Quando mi riebbi, il combattimento continuava ancora ma le mie ferite non sanguinavano più per quanto il dolore fosse lancinante: il gelo aveva coagulato il sangue.

Stava calando la sera e la fine, la nostra sconfitta era già segnata allorché avvenne il miracolo: tutta la colonna si era messa improvvisamente in movimento, incitata dalla voce del generale comandante la nostra divisione alpina che gridava: “Tridentina avanti!”. La massa rotolava nella balka verso la ferrovia, la superava e passava oltre come una valanga tutto schiantando e sommergendo cacciando dal villaggio il nemico in disordinata fuga.
Avevamo vinto!

La strada verso la patria era libera! Questo miracolo lo si deve, soprattutto, all’epica lotta, alla tenace resistenza che gli alpini hanno sostenuto per tutto il giorno: dall’alba al tramonto impegnando sino allo spasimo il nemico e logorandone le forze sì da rendere possibile agli altri reparti della Tridentina, sopraggiunti in sèguito, di gettarsi nella mischia con una forza più travolgente di penetrazione e di poter così concludere vittoriosamente questa tragica e sanguinosissima battaglia che rimarrà scolpita nella storia degli alpini come l’Ortigara della steppa russa.

Era, la mia compagnia, la 255ª del Val Chiese; ed io vi vedo ancora, miei eroici alpini, vi ho veduti cadere ad uno ad uno intorno a me, vi vedo ancora quando gravemente ferito non voleste abbandonarmi, ma a prezzo del vostro sangue generoso mi portaste con voi, superando lo sbarramento nemico, durante altri lunghi tormentosi e tormentati giorni che impiegammo per raggiungere Karkow, base arretrata.

Ti vedo ancora eroico colonnello Paolo Signorini che non sapesti resistere allo strazio della visione dei tuoi alpini morti senza preghiera e senza pietà. Ti vedo ancora mio buon tenente Gino Ferroni che ricevuto l’ordine da me, dopo un affettuoso abbraccio, di sparare con le tue mitragliatrici sino all’ultimo colpo, cadesti con i tuoi serventi abbarbicato alle tue armi dopo aver falcidiato le orde nemiche.

Sono passati 30 anni, ma il ricordo di quei giorni è ancora vivo nella mia mente, è ancora vivo il ricordo dei miei alpini che, senza speranza e con la sola visione della morte hanno saputo sacrificarsi scrivendo una delle più belle pagine della nostra storia, della storia dei figli della montagna, una di quelle pagine che lo stesso nemico nel bollettino di guerra n. 630 dell’8 febbraio 1943 non ha potuto a meno di riconoscere.

Tenente Gianni Bernardi
253ª Compagnia, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento Alpini

A Nikolajewka, in quel tragico 26 gennaio 1943, eravamo in due: io e mio fratello Eugenio. Entrambi tenenti alla 253ª Compagnia del Battaglione Val Chiese del 6^ Alpini (Divisione Tridentina). Ma la nostra storia di guerra incomincia molto prima: al fronte occidentale, nel giugno 1940, lui era all’Edolo ed io al Reparto Autonomo Valligiani Monte Bianco; poi, sul fronte grecoalbanese, lui era al Val Chiese ed io col Battaglione Sciatori Manierosa.

Questa volta, durante la ritirata di Russia, eravamo insieme, proprio nella stessa 253ª Compagnia del Val Chiese. Troppo lungo sarebbe descrivere qui le innumerevoli epiche vicende di quei giorni. Mi limito perciò ad alcuni pochi episodi che riguardano principalmente noi due fratelli.

Il 20 gennaio attaccavamo di corsa un paesino, io con i miei alpini e lui, sulla destra, con i suoi. Ed ecco che arrivò sul suo gruppo un colpo di mortaio. Ricordo bene la mia trepidazione quando scomparve in una nuvola di nevischio e di terriccio. Non tutti gli alpini proseguirono, ma lui, finalmente, riapparve sempre di corsa…

Il 22 gennaio, a Scheljakino, non lo vedevo discendere dal famoso colle verso le prime case alla sinistra del paese. In pieno combattimento un alpino striscia nella neve verso di me e mi dice all’incirca: “Il tenente Bonardi è morto”. Ma poi si corregge e precisa: “No, è il sottotenente Pais!”. Un giovane, infatti, che comandava il plotone alla mia sinistra, caduto da eroe insieme al mio sergente Tonassi di Collie e a tanti altri.

Il 24 gennaio, a Malakijewa, ancora una volta parto con i miei verso il centro del paese. Prima i soliti mortai, poi le mitragliatrici e i micidiali parabellum russi. Nuovo cruento, disperato combattimento. Lui è a sinistra. Altri caduti e, fra essi, uno dei miei migliori: sergente Giuseppe Rambaldini di S. Colombano di Collie. Si era spostato, chissà perché, verso il plotone di mio fratello e morì di schianto, senza un lamento (me lo racconteranno più tardi). Noi due fratelli: ancora illesi!

Ed eccoci alla notte del 25 gennaio. gli alpini ammassati, sfiniti, nelle poche isbe sull’altura di Arnautowo, mescolati agli artiglieri del Gruppo Bergamo. Il Val Chiese si trovò diviso in due per ragioni di accantonamento: il comando e la 255ª Compagnia più avanti verso ovest: a Terinkina. Noi della 253ª e altri: qui a Arnautowo. Più indietro, il grosso della colonna in ritirata: a Nikitowka. Si pensava, finalmente, a un certo riposo. Invece – alle 23,30 – allarmi! I russi attaccano. Esco con alcuni dall’isba. Sono ferito.

E’ l’inizio di una nuova tragedia. Per 6 ore circa si protrasse il furioso, cruento combattimento all’arma bianca, per respingere i ripetuti assalti del nemico che circondava le nostre isbe da ogni lato. Sarà mio fratello, questa volta, a credermi perduto. Così, infatti, gli avevano detto. Altri invece caddero in quella tremenda notte fra i 600 difensori delle isbe di Arnautowo. Ed altri ancora, alla mattina, quando i prodi del Tiràno del 5^ giunsero al paese, incapparono nello stesso nemico e s’immolarono per aprire la strada verso ovest al grosso della colonna proveniente da Nikitowka.

Fra essi v’era don Chiavazza che, vent’anni dopo, scriverà: “Mi spingo con lungo giro verso le isbe di Arnautowo. Mi trovo davanti a uno spettacolo raccapricciante: decine e decine di morti sono ammucchiati tra le case, altri corpi sono congelati sui pezzi di artiglieria come se stessero ancora sparando. Sono alpini del Val Chiese e artiglieri della 33ª Batteria del Gruppo Bergamo. Hanno combattuto tutta la notte (…) non hanno ceduto un metro”.

Aggiungo soltanto che ben nove medaglie d’oro saranno decretate fra i caduti di Arnautowo. La mia ferita non era grave. Proseguii a piedi, con i superstiti di Arnautowo e il grosso della colonna, alla volta di Nikolajewka. Qui, da qualche tempo, quei primi elementi del 6^ Reggimento in avanguardia, dei Battaglioni Val Chiese, Vestone e Verona, che avevano pernottato a Terenkina e a Sruzkaja, avevano già iniziato l’assalto al paese.

Ennesimo decisivo sbarramento nemico, nel tentativo di sbaragliare definitivamente i 40.000 in ritirata. Sarà la più triste ed eroica giornata. Chi mai avrebbe immaginato che quel nome e quella data sarebbero diventati imperitura leggenda? Come poi riassumere l’uragano in poche telegrafiche righe? I feriti, i congelati, le invocazioni alla mamma e ai commilitoni che spesso li dovevano abbandonare nella neve; gli aerei che mitragliavano la marea; gli incendi; le poche armi sempre più inservibili per il gelo dei 40 sotto zero; i mezzi motorizzati italiani ormai abbandonati da più giorni; i muli superstiti sventrati dalle cannonate; le statue di ghiaccio formate da alpini e muli; la fame degli “sbandati” che seguivano i reparti ormai solo in parte organici; la pazzia di tanti… E i più validi che, disperatamente, osavano ancora combattere, con le poche armi, col calcio dei fucili, e con le unghie, per sé e per gli altri.

I caduti infine, che man mano andavano accumulandosi nelle alterne vicende della battaglia. Certo la mia penna non riesce a ricostruire qui un quadro, direi visivo, dell’epica scena. Corsi, nella neve alta, giù per il declivio verso il famoso sottopassaggio del terrapieno della ferrovia, che sbarrava l’ingresso a Nikolajewka. Avevo con me uno straccio per cappello, due bombe a mano, una pistola al posto del mio prezioso parabellum russo perduto nel precedente combattimento notturno, il sangue fin sul pastrano, la disperazione e la patria lontana… Dapprima mi sentii come isolato dai pochi rimasti dei miei. Ma poi vennero altri alpini.

Rabbiose sparatorie, cannonate, colpi di mortaio e di katiuscia, balzi improvvisi tra una casa e l’altra, urla selvagge. Alla fine venne la sera. Ed ecco il grido del generale Reverberi: “Tridentina avanti!”, l’ultimo decisivo attacco della massa senza nome; è la vittoria!… Le armi tacciono. Ora incomincia l’assalto alle isbe, trascinandovi i feriti, i moribondi, i congelati, e la ricerca affannosa dei propri reparti, dei compaesani, dei fratelli. Anche io cercai, a casaccio. Invocavo: “Val Chiese, 6^ Alpini!”.

Su di una slitta, sopra al mucchio, vidi disteso un giovane ufficiale, sicuramente morto. Non era mio fratello. Era del 5^. “Buttalo giù”, gridai al conducente, “non vedi che soffoca gli altri?” (Più tardi, in Italia, si dirà: “Non piangere mamma. L’abbiamo sepolto noi commilitoni… c’era il dottore e anche il cappellano… poi abbiamo messo una croce vera…”) Poi, come per caso, mi infilai in un’isba qualunque. Vi erano già 70 o 80 alpini del Val Chiese: il caporal maggiore Codenotti di Gavardo, il sottotenente Fusaro di Venezia e altri. Non sapevo ancora che ben 6, soltanto fra gli ufficiali del mio battaglione, erano stati colpiti a morte in quel giorno. Triste primato!

E neppure sapevo che, fra di essi, il capitano Frugoni di Brescia e il sottotenente Gabrielli di Savona giacevano morenti in un’isba vicina. E che, l’indomani, quando la colonna dei superstiti si rimise faticosamente in marcia verso ovest, Frugoni disse al più giovane: “Se passerà una slitta e avrà un solo posto, vai tu; chissà che non conosca tua figlia in Italia; per me è tutto finito”. Passò infatti una slitta. Era del 5^, e Gabrielli disperatamente vi si aggrappò. Tutto ciò mi ha raccontato il tenente medico Redaelli vent’anni dopo, al XX anniversario di Nikolajewka a Brescia.

“Riconobbi il povero Gabrielli” mi disse “l’ho recuperato e riuscii a sistemarlo sopra una nostra slitta. Era gravissimo. Passai la notte del 27 al suo fianco. Nel delirio invocava la figlia (aveva in tasca la lettera della moglie che ne annunciava la nascita). Poi mi sono assopito, e quando mi sono svegliato, ho constatato che Gabrielli era morto”. Nel gennaio 1963, a Brescia, conobbi la figlia del caduto. Aveva vent’anni precisi e sul petto una medaglia d’argento. Ma ecco ora, nel buio dell’isba di Nikolajewka, fra le invocazioni dei feriti, sento una voce nota. Mio fratello! E” straordinario: ancora una volta vivi, entrambi!

Ma quanti altri fratelli non si sono più ritrovati! Alcuni li ho ancora negli occhi. I due Raissoni di Castelletto di Polpenazze, per esempio: il 22 gennaio, a Scheljakino, il più anziano, Giovanni, morente, invocava il fratello. Angelo lo vide mentre macchiava di rosso la neve, cercò di confortarlo con pietose inutili parole (il dottore non c’era!), finché dovette lasciarlo perché questo era l’ordine. E i Botticini di Brescia a Nikolajewka? Luigi che, conosciuta la sorte del fratello maggiore Felice, ritornò alla sua ricerca e scomparve pure lui e per sempre nella notte gelata! E i quattro figli della Bonometti di Mazzano.

Ho scritto “quattro”. Lettore, pensaci per un momento! Tre furono inghiottiti dalla sterminata steppa russa; il quarto cadde in Jugoslavia. E quelli di tanti altri battaglioni? E i nemici stessi, caduti per la loro patria? E le mamme, le spose, i figli di tutti insieme, affratellati nell’immenso dolore? 13 febbraio 1943. Con i primi feriti e congelati, transitai per il Brennero. Vietato scendere dal treno.

Ma il comandante di tappa l’amico Perrucchetti di Brescia, mi permise nientemeno che di telefonare a casa. La mamma! Commozione… “Anche Eugenio è salvo… arriverà dopo…”, riuscii a dire. La mamma poi mi chiese di Frugoni e di Bonicelli, figli delle sue amiche, le quali proprio in quei giorni cercavano di consolarla, perché soltanto lei aveva due figli in Russia. “Sono caduti eroicamente a Nikolajewka il 26 gennaio” risposi. “Santo cielo!”… sentii. Poi un pianto lontano.

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