ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 58

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Alpino Genesio Rama
53ª Compagnia, Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

Penso che mi salvai per miracolo non solo dalla ritirata di Russia ma anche dai combattimenti precedenti sulle sponde del Don che mi videro quasi sempre in trincea in prima linea nel freddo e sotto il fuoco dei russi. Ricordo che passai anche un giorno e una notte di sèguito aggrappato alla mitragliatrice con due compagni morti ai fianchi. Quando il 17 gennaio anche la mia compagnia iniziò la ritirata, fui lasciato come retroguardia a sparare in continuazione verso il fronte russo con la mia mitragliatrice assieme ad una decina di altri soldati, allo scopo di occultare lo sganciamento dei nostri commilitoni.

Quando, verso sera, sentimmo che il fronte al di là del Don era quieto, ci mettemmo noi pure sulla pista dei compagni. Già avevamo uno straordinario appetito e passammo proprio presso le cucine dov’era caporale maggiore il mio compaesano Celestino Gaiga. Lì trovammo delle marmitte piene di pastasciutta cotta: ma era un blocco di ghiaccio che si riusciva a spezzare faticosamente con la baionetta. Nessuno s’arrischiò poi a mangiarne, anche perché ci colse lo strano sospetto che fosse avvelenata. Il giorno seguente raggiungemmo gli amici della nostra compagnia ed arrivammo a Podgornoje.

Qui ebbi modo di rifocillarmi un poco senza ubriacarmi di cognac e morire assiderato dal freddo come tanti soldati che precipitandosi nei magazzini e nelle cantine s’erano illusi d’essere arrivati alle porte del paradiso. Qui trovai anche un mulo ed incontrai uno dei miei più cari amici: Bonfaini.

Egli avrebbe condiviso con me lunga parte di quella vicenda. Dei giorni che precedettero Nikolajewka non voglio qui ricordare nessuna avventura particolare, se non la comune vicenda di fame, di tormento, di paura. Paura di non farcela più, paura che ci faceva gettare il fucile qualche volta per non essere mandati a perire in certi assalti, che ce lo faceva raccogliere dalle braccia di qualche soldato morto quando, spersi nella steppa, ci prendeva il terrore d’essere aggrediti dai russi e fatti prigionieri.

Quando s’arrivava in un paesetto ci si precipitava come lupi rapaci nelle isbe in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti: una gallina, un’altra che caricavamo sulle spalle ma che lungo la strada qualche soldato divorava così, penzolante, ingoiando anche le penne più piccole per la insaziabile fame; una scorza di rapa, del miele.

Ricordo che tre miei compagni uccisero una mucca in un villaggio per prenderne un pezzetto. Chi poi era più innanzi aveva maggior possibilità di trovare qualcosa, e sopravvivere; chi invece rimaneva indietro, era inesorabilmente condannato a morire di fame e di disperazione. Lungo il cammino a volte poi ci si doveva accontentare d’una zampa di mulo su cui ci si avventava a decine come avvoltoi.

Fu durante quelle giornate che incominciò a congelarmisi un avampiede, che mi sarebbe stato poi amputato al ritorno dalla Russia. Assieme a Bonfaini ed al mulo che ci era stato fedele compagno, giungemmo a Nikolajewka sul far della sera del 26 gennaio. Poco dopo il nostro arrivo si levò un grido: “Arretrare! Arretrare!”. La folla parve ritirarsi indietro di qualche decina di metri, ma subito dopo, come se assistessi a un imponente moto di flusso e riflusso marino, essa si spinse in avanti. Assieme a Bonfaini mi precipitai anch’io verso quella meta ancora indistinta che tutti attirava, strascicando il mio piede dolorante, barcollando e incespicando contro innumerevoli cadaveri irrigiditi.

Finalmente arrivammo alle prime isbe di Nikolajewka pieni di fame e morti di freddo e trovammo rifugio in una chiesetta dove ci accovacciammo per trascorrere la notte assieme a un centinaio di altri soldati. La mattina seguente si partì. Mentre la colonna procedeva, ogni tanto si levava una voce: “Signor tenente, siamo fuori dalla sacca?”. “Sì” annuiva un uomo raggomitolato tra brandelli di coperte e vestiti femminili. Ma tante volte s’era sentita una tale risposta vana, e subito smentita da colpi di parabellum che costringevano anche il tenente a precipitare a terra e rialzarsi guardandosi intorno disorientato.

Intanto avevo perso l’amico Bonfaini ed ora mi trascinavo avanti assieme ad un altro commilitone: Bombieri Isidoro. Lui pure soffriva di congelamento ai piedi. Finalmente a Karkow sia io che Bombieri il 7 febbraio partimmo su un treno che ci avrebbe riportato in Italia: eravamo tra i primi superstiti di quella drammatica ritirata a tornare in patria.

Con me l’avevano vissuta molti miei compaesani: i più periti o dispersi, alcuni ritornati e morti in sèguito, pochi i superstiti. Se mi è possibile, li vorrei qui ricordare, sono alpini di un piccolo paese della montagna veronese, che conta 600 abitanti. Gli alpini periti o dispersi durante la ritirata sono: Aldegheri Arcangelo, Ramponi Giovan Battista, Gaiga Ottavio, Zocca Giuseppe, Ambrosi Celeste, Gugola Giulio, Presa Marino. I superstiti oltre a me e all’amico Gaiga Celestino: Gaiga Adelino, Gaiga Vito, Aldegheri Bruno, Anselmi Domenico.

Alpino Simone Bertoli
Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

Ha preso il comando della 111ª Compagnia Armi Accompagnamento il capitano Comini Aldo. Breve riposo a Dacia via Podgornoje, indi di nuovo in prima linea. Il Vestone fa in tempo a salutare gli alpini fratelli del Battaglione L’Aquila e corre a dare il cambio al Battaglione Val Cismon. Il 14-15-16 gennaio 1943 il Vestone viene attaccato ripetutamente da forze russe. Di qui non si passa. Questa è la determinazione di noi alpini. L’ordine di ripiegamento su nuove posizioni giunge inaspettato, il precedente era quello di resistere ad ogni costo sul posto. Dove andremo? Quale sarà la nostra sorte? Con una stretta al cuore il Vestone lascia le posizioni che aveva eroicamente difeso e mai perduto.

E’ il 17 gennaio. Podgornoje è il punto di concentramento della Tridentina. Il 18-19 gennaio il Vestone è attestato nella conca di Opyt. Qui lascia per primo il segno del suo valore. Sono sul costone, osservo Opyt alle mie spalle. Due apparecchi russi mitragliano da bassa quota. Uno è abbattuto.

E’ il 20 gennaio, avanza a grandi falcate il mio comandante maggiore Enrico Bracchi, con fare paterno e deciso mi dice: “Andiamo, tocca a noi”. Il Vestone scende in un canalone ed attacca Postojalyi alle spalle puntando subito su Karkowka che conquista con brillante manovra. E’ il 22 gennaio, il Vestone è pronto per l’attacco. In fondo alla conca si vedono i mulini a vento, è Scheljakino.

Con impeto il Vestone s’è scagliato contro questo nuovo ostacolo ed ha conquistato il paese. Al chiaro di una lampada a olio un ufficiale, credo del Reggimento Artiglieria a cavallo, mi chiama. Mi avvicino, sento che è congelato. Non può infilare i calzari, il male avanza inesorabilmente. Intorno a lui molti altri in peggiori condizioni. Con voce strozzata mi dice: “Alpino, hai qualcosa da mangiare?”. Sulla porta di un’isba avevo preso un rotolo di cipolle infilate con uno spago, le avevo gettate frettolosamente al collo mentre avanzavo combattendo. Dovevano essere il mio pasto frugale. Le guardai, e ingoiando la saliva le misi nelle mani tese di quel capitano. Mi baciò e mi disse: “Alpino, saluta per noi l’Italia”.

Non risposi, due lacrime rigarono il mio volto, uscii correndo. Trascorsi la notte all’addiaccio, giravo come un automa. Il Vestone non ha tregua, il 23-24 gennaio passa a Malakijewa e via Romankowo punta deciso su Nikitowka. E’ il 25 gennaio. Non ci sono soste per gli alpini del Vestone, ed il 26 gennaio, allo spuntare, dell’alba, per primi ci si affaccia sulla conca di Nikolajewka. Il Vestone scende lungo il pendio, privo di ogni naturale riparo, si attesta lungo la linea ferroviaria.

Gli attacchi si succedono agli attacchi, si combatte con accanimento da ambo le parti, i russi per chiuderci definitivamente nella sacca, gli alpini per poter uscire e tornare in patria. Giungono il Val Chiese ed i resti del Verona, tutto il 6^ combatte lungo l’arco della giornata. Scendono i resti del Tiràno e del Morbegno e verso il tramonto giunge l’Edolo; con la sua venuta tutto il 5^ Alpini è attestato di fronte a Nikolajewka. Il 2^ Reggimento Artiglieria Alpina, privo ormai di munizioni, scende con noi sul terrapieno, la Tridentina è pronta per l’ultimo balzo.

Sfondare significa rivedere l’Italia. Intorno, disseminati sul terreno, i morti. I feriti si trascinano sulla neve, si avvicinano ai morti, prendono le munizioni dalle giberne e dalle cassette e le portano strisciando a chi ancora illeso combatte. Il generale Reverberi, comandante della Tridentina, monta su un carro cingolato, avanza lentamente, incita i suoi battaglioni che elettrizzati dal suo esempio balzano su Nikolajewka e la conquistano.

Alpino Angelo De Siasi
53ª Compagnia, Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

Il mio comandante si chiamava maggiore Bracchi. Dopo essere stati in prima linea sul Don, siamo stati accerchiati dai russi e presi nella sacca. Dopo che i battaglioni si furono riuniti occorreva ogni giorno cercare di sfondare la sacca, in un suo punto. Il nostro battaglione ancora completo attaccò per 11 giorni consecutivi, nel tentativo di aprire sempre un nuovo varco. Il 26 gennaio, all’alba, la mia compagnia e una del genio alpini ebbero l’ordine di occupare il paese di Nikolajewka.

C’era molta neve e si camminava a stento; dopo due ore arrivammo nei pressi di una ferrovia, procedevamo tranquillamente, quando dopo pochi minuti alcune granate scoppiarono dietro le nostre spalle. I russi accorciarono a poco a poco il tiro per costringerci ad avanzare. Tutti ci sparpagliammo nella neve, ma poco dopo i russi incominciarono a mitragliare dalla ferrovia; anche noi sparavamo con i nostri fucili, ma vedendo che la situazione peggiorava il tenente Occhi ci mandò all’assalto della ferrovia. I russi si ritirarono nel centro del paese abbandonando molte armi.

Eravamo rimasti una cinquantina. Di tutte le staffette che venivano mandate al comando per chiedere rinforzi, nessuna tornava. Dopo mezz’ora di sosta i russi ripresero ad attaccare, noi intanto ci eravamo appostati nelle case sempre all’erta. Sparavamo stando dietro i muri delle case, ma le munizioni cominciavano a scarseggiare; sparammo fino all’ultima cartuccia. Il comandante del genio alpini ci dava coraggio e toglieva le cartucce dalle tasche dei morti.

Poi venne ferito e portato in una stanza. Finite le munizioni il nostro tenente ci disse di ripiegare e di cercare di raggiungere il nostro comando. Dovevamo abbandonare i feriti. I russi quando si accorsero che ci ritiravamo sparavano ancora di più. Superata la ferrovia sentii una raffica di mitraglia e una pallottola mi perforò la caviglia del piede destro, rimasi inchiodato; chiamai un mio amico che accorse subito, occorreva sfuggire immediatamente al tiro; senza guardarmi la ferita mi accorsi che il sangue usciva dai buchi della scarpa.

Aiutato dal mio amico mi misi in cammino. Dopo un’ora avevamo fatto ben poca strada, ma mi sentivo mancare le forze e non riuscivo più a camminare. Perdevo tanto sangue, ci fermammo un momento perché non ci vedevo più; dalla scarpa non usciva più il sangue perché era congelato. Mi sentivo morire. Dissi al mio compagno di mettersi in salvo, e pregai la Madonna del Carmine di aiutarmi. Egli però non se ne andò e mi strofinò della neve sulla faccia. Così mi ripresi un po’.

Aiutato da un altro, il mio amico mi aiutò fino al posto di medicazione dove venni fasciato col mio pacchetto di medicazione, perché il medico non aveva più niente. Le nostre truppe intanto occuparono il paese. Venni caricato su un cavallo e marciammo per tutta la notte. Il giorno dopo avevo anche l’altro piede congelato. Dopo alcuni giorni di slitta arrivammo all’ospedale di Karkow dove ci fermammo tre giorni. Poi dovemmo ripartire perché i russi bombardavano. Arrivati alla stazione il treno ospedale era partito, così caricarono i feriti su un treno merci.

Dopo quattro giorni di treno arrivammo in Polonia, a Brest. Ci scaricarono e ci misero in un baraccone. Lì mi amputarono entrambi i piedi. Spero di aver contribuito un po’ alla stesura del libro: “Nikolajewka: c’ero anch’io”.

Sergente Mario Zagni
Comando Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

Quando il generale Reverberi diede il famoso ordine “Tridentina, avanti”, io mi trovavo a fianco del mezzo corazzato tedesco dal quale lanciava l’ordine. Vicino a me si trovava il tenente Ruggero Schileo, aiutante maggiore del battaglione e mio diretto superiore. Dopo aver collaborato ad avviare tutti i mezzi e gli uomini possibili, il tenente Schileo prese un Breda a venti colpi, io presi una cassetta munizioni di detta arma e fiancheggiando la colonna sul lato sinistro ci avviammo da soli verso Nikolajewka.

Fatto un centinaio di metri, un colpo di mortaio ci buttò a terra ferendo alla gola e ad una gamba il tenente. Lo aiutai e gli levai la scheggia dalla gamba trapassata chiedendogli se dovevo accompagnarlo al posto di medicazione. Mi ordinò di procedere. Si salverà e lo ritroverò a Brescia, era bresciano pure lui. Abbandonai la cassetta e, sempre solo col mio ’91, proseguii.

Arrivato al terrapieno della ferrovia, vicino alla famosa “casa rossa”, lo risalii e lì trovai una postazione di mortai ancora fumanti. Mi fermai in attesa del Vestone, ed al sopraggiungere dei miei comandanti maggiore Bracchi e capitano Marcolini entrai assieme a loro nelle prime case di Nikolajewka. Io credo che sia stato chiaro. Di date non ne ho fatte, ma sono rimaste nel sangue.

Alpino Guerrino Malizia
56ª Compagnia, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini

Il giorno 18 gennaio 1943 il mio Battaglione Verona fu mandato ad attaccare nella zona di Opyt; all’alba del 19 attaccammo a Postojalyi, e dopo otto ore di cruento combattimento corpo a corpo, senza nessun appoggio dell’artiglieria, rimase ferito sul campo di battaglia il capitano della 58ª Compagnia, Venier, e il capitano della 57ª, Ridolfi. Quando il maggiore Bongioanni ordinò di ripiegare in ritirata, non trovo le parole adatte per spiegare e descrivere in quali condizioni ci trovammo, i russi erano ben appoggiati dentro il paese, con le armi ben puntate e con un continuo tiro dei mortai.

Qualche più precisa informazione può darla il generale Dona, il mio capitano di allora. Il giorno 20 gennaio passò da quei luoghi tutta l’intera Divisione Tridentina; tutti videro e potrebbero testimoniare quanti e quanti erano i morti sulla neve, e quasi tutti del Verona. Di questo non è mai stato parlato. Come mai?

Sottotenente Giobatta Danda
Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

Noi, nel ricordare quelle difficili giornate, pur nell’amarezza del ricordo dei molti amici che non sono tornati, sentiamo l’animo pervaso da una grande calma e dalla riconoscenza per il loro sacrificio e per la bontà di Chi è sopra tutti noi, nell’avere permesso il nostro ritorno ed oggi darci ancora la possibilità di ricordare con animo sereno quelli che, rimanendo lassù, hanno fatto molto più di tutti noi.

Questo struggente nostro ricordo dovrebbe in tutti vivificare riconoscenza ed amore. Lontani nel tempo, lontani dalla possibilità di rimediare agli errori ineluttabili di ogni periodo bellico, solo questi ci pare siano i sentimenti che contano e solo questi i sentimenti che dovrebbero consentire di costruire positivamente.

Tanti hanno scritto di cose nostre, anche purtroppo con penne e su fogli ispirati a sentimenti che non possiamo condividere. Siamo dell’opinione che costoro non hanno partecipato e vissuto col cuore le nostre vicende e così per loro tutto si è risolto talvolta a merito o demerito di personaggi o di reparti. E’  stata in realtà una vicenda immane, che ha coinvolto migliaia e migliaia di uomini, un numero cospicuo di reparti, anche non alpini, e molti soldati, anche non italiani.

Così, come nel visitare quei lindi cimiteri di certe città e di certi paesetti di montagna, si sente come la cura delle tombe corrisponde al civile ricordo di chi sopravvive, altrettanto siamo amareggiati nel constatare che talvolta, purtroppo spesso, la patria ufficiale, proprio nei sentimenti che per noi sono i più importanti, non fa molto per ricordare alle giovani generazioni lo spirito, i sentimenti e le ansie che animarono coloro che hanno vissuto quelle lontane vicende.

Ecco perché ci sforziamo di esprimere per chi non ha vissuto quelle vicende pensieri e sentimenti che dovrebbero giovare a tutti. Se così avremo contribuito a nuovi e più nobili pensieri nell’animo di molti giovani, avremo giovato a tutti e ancor più avremo degnamente ricordato i nostri amici che non sono tornati.

Dopo queste considerazioni, che costituiscono soprattutto uno sfogo dell’animo, raccontare le vicende dall’angolo di visuale molto modesto del giovane sottotenente al comando di un plotone di fucilieri, indurrà forse al sorriso chi, da posizioni più elevate, aveva allora altri elementi di giudizio ed ora ricordi ancor più completi. Non pretendiamo di dire la parola conclusiva o di dare il giudizio completo a fatti d’arme così vasti, ma solo ricordare con brevi pensieri le impressioni che le vicende vissute allora hanno lasciato in noi.

Ci spinge anche il timore che, come fino ad ora sembra sia avvenuto, i pochi vivi del Battaglione Vestone, fra i protagonisti a Nikolajewka, preferiscano mantenere ancora il loro dignitoso silenzio di ricordi. Sono tutti, o quasi tutti, bresciani, gente abituata ad operare in silenzio, che affida i ricordi delle glorie del Vestone in Russia, dal combattimento del 1^ settembre ’42 alla battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio ’43, alla gente della loro terra e per quanto possibile ai volonterosi che tramandano i ricordi stessi nei reparti alpini.

Era l’alba del 26 gennaio di quasi trent’anni fa. Al comando del maggiore Bracchi, in testa alla colonna che da molti giorni lottava nella sacca, provenienti da Nikitowka, eravamo arrivati la sera del 25 gennaio in un abitato non molto lontano da Nikolajewka ed avevamo pernottato. Bisognava, col Battaglione Val Chiese e coi resti del Battaglione Verona, attaccare la città, espugnarla ed eliminare, per la colonna nella sacca, l’ultimo ed il più duro ostacolo verso la salvezza.

Abbastanza stanchi, non molto ben equipaggiati per quei climi, ormai con poche armi e munizioni, ma sorretti da una volontà decisa, gli alpini del Vestone ebbero così l’ordine di attaccare. Il Val Chiese ed il Verona a sinistra della rotabile che conduceva alla città, ed il Vestone sulla destra. La consistenza della difesa nemica si manifestò subito eccezionale, facilitata dalla forte posizione difensiva costituita dal bastione della ferrovia che correva avanti alla città, sul quale era ben appostato il nemico con cannoni e mitragliatrici.

La situazione fu presto difficile perché, di fronte a tale difesa dx forze ben organizzate, si doveva arrancare affondando nella neve, morbida al di fuori delle piste, e ci si doveva affidare alla Provvidenza nei lunghi balzi tra una breve attesa e l’altra, per prendere respiro. Senza indugi a soccorrere feriti e morenti, con grande slancio si arrivò al bastione, lo si espugnò e superò entrando alla disperata nell’abitato. Solo allora il primo lungo respiro consentì il primo bilancio, con la speranza che i troppi mancanti fossero solo feriti.

Ma il nemico non dava tregua. Chi ci stava di fronte, favorito dalla conoscenza delle strade e dalla posizione difensiva, assottigliò nel combattimento fra le strade e casa dopo casa i nostri gruppi rimasti. Le isbe sopravvanzate rimanevano presidiate dai feriti meno gravi. Col passare del tempo, nella feroce lotta casa per casa, si fecero però dei buoni progressi, anche se fu netta la sensazione che la situazione si faceva sempre più grave perché, con attacchi ai fianchi e filtrando tra i nostri gruppi, il nemico aveva rioccupato in più tratti il bastione della ferrovia alle nostre spalle, isolandoci in città.

L’animo si rincuorò quando si avvertì che artiglieri dei Gruppi Vicenza e Bergamo avevano rioccupato in più punti il bastione ferroviario e lo tenevano saldamente. La reazione del fuoco nemico impedì purtroppo a questi nostri rincalzi di entrare in città, ma era già qualcosa per noi sentire il crepitio di armi amiche a non molta distanza, e quindi sempre con la speranza che si potessero saldare i collegamenti.

Avevamo già combattuto negli abitati nei giorni precedenti, ma le sensazioni provate in quelle lunghe ore, con nel cuore il pensiero che fosse arrivato anche il momento nostro, perché pochi e soli eravamo rimasti, e con poche munizioni, sono veramente agghiaccianti anche oggi nel ricordo. Solo le necessità del combattimento, che non consentono disattenzioni e rilassamenti, ci distraevano da quei nostri pensieri ed aiutavano molto nel lento, troppo lento passare del tempo.

Certi momenti i colpi di cannone, il crepitio delle mitraglie e gli altri rumori della battaglia, alla nostra sinistra sembravano infittire ed aumentare, ridandoci speranza, e subito dopo si assottigliavano e affievolivano, precipitandoci nell’ansia. Il nemico non era riuscito e non sarebbe riuscito a fiaccarci e ricacciarci dall’abitato, ma anche noi trovavamo sempre nuove difficoltà a proseguire nella lotta verso il centro della città.

Sapemmo poi che il Val Chiese ed il Verona, fermi dal mattino di fronte al munitissimo bastione ferroviario nella zona sinistra della città, arrivati nel pomeriggio i battaglioni del 5^ Alpini, avevano sferrato l’attacco decisivo e, guida ed anima il nostro generale Reverberi, avevano conquistato il bastione ed erano entrati in città.

Sull’epilogo di questa battaglia, risolta all’imbrunire, tanto è già stato scritto. Il nemico fu sopraffatto e noi del Vestone, al calare delle tenebre eravamo arrivati, i pochi rimasti, verso il centro. Fu una notte brutta. Stanchi molto, sdraiati sul nudo e gelido pavimento della chiesa principale tutti i feriti che ebbero la ventura di essere colà trascinati, o di essersi potuti trascinare; passammo ore di ansia, di trepidazione, di speranza. Ed eravamo tra i più fortunati, e tale convinzione sorreggeva le nostre scarse forze e soprattutto stimolava le residue volontà.

All’alba del 27 in qualche modo si raggiunse il comando del Vestone ed il maggiore Bracchi, sempre molto felice di vedere i suoi, ci abbracciò a lungo, come solo un vero padre poteva fare. Un abbraccio, una parola, e quegli occhi luminosi e buoni che parlavano per lui. Tanti dei suoi ufficiali subalterni, giovani del ’21, ai quali aveva dedicato con amore ed affetto l’insegnamento del suo grande cuore, non erano più tornati a lui, ed a molti non aveva potuto dare l’ultimo addio. Così, quando uno tornava, nel suo sguardo si riconosceva
l’affetto sincero e profondo del padre.

Così dal mattino del 27 gennaio, ancora col Vestone in testa alla colonna, fu ripresa la marcia lenta ed affaticata verso ovest. Una nuova forza però sorreggeva tutti. Era la speranza che il più fosse passato e che, rotto il cerchio esterno della sacca, cioè il baluardo più agguerrito della cintura nemica, gli alpini della Tridentina volgevano finalmente verso paesi amici. Non voglio qui ricordare nomi di colleghi ufficiali, di sottufficiali, di amici anche semplici alpini, perché involontariamente qualcuno verrebbe tralasciato.

Ma ringraziamo Brescia, gloriosa città che al proprio battaglione diede sempre i figli più generosi, per il ricordo annuale di quella gloriosa battaglia, esprimendo l’augurio di sincero amico che in momenti duri ha apprezzato il grande cuore della sua gente, che anche in futuro non venga dimenticato come, soprattutto a Nikolajewka, il Battaglione Vestone seppe essere degno della “leonessa”.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento