ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 56

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Alpino Eraldo Bongiovanni
Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

Appartenevo alla Compagnia Comando del Battaglione Vestone. Arrivai con i complementi e giunsi in linea verso il 5 novembre 1942 e raggiunsi il battaglione che era a riposo a 3 km dal Don in località Dacia. Eravamo pochi piemontesi ma subito ci trovammo come a casa nostra tra i bravi ragazzi bresciani, bergamaschi e veneti. Il maggiore Bracchi, comandante del battaglione, saputo che in patria ero stato alla mensa ufficiali, mi volle con sé e così presi possesso dell’isba destinata a mensa.

Durò poco il nostro riposo; la notte del 16 dicembre, si sloggiò e andammo a dare il cambio al Battaglione L’Aquila della Julia. Il mio compito in linea era di preparare qualcosa di caldo agli ufficiali, di servire cognac e caffè ai numerosi prigionieri che ogni mattina attraversavano il Don e si presentavano, sventolando fazzoletti bianchi, ai nostri reticolati. Questo era un ordine tassativo del mio maggiore: “Piuttosto restiamo senza caffè noi, ma diamolo ai prigionieri”.

Quando vi era qualche caposaldo impegnato, il maggiore mi mandava a portare, se non c’erano portaordini liberi, qualche borraccia di cognac come pure qualcosa di caldo alla vedetta che montava proprio sopra il nostro bunker; quindi mi ritenevo un semi imboscato. La notte del 17 gennaio 1943 lasciammo la linea in sèguito alla rottura del fronte tenuto dai romeni e ripiegammo verso Podgornoje dopo due giorni di intenso fuoco dalle nostre postazioni tanto da far desistere i russi dall’idea di sfondare dalla parte del settore alpino.

Podgornoje era la prima nostra base, quindi magazzini, sussistenza e concentramento di tutti noi che si arrivava dalla linea; il problema più grave era trovare un posto in un’isba. Quindi bivacchi all’aperto con fuochi alimentati da quanto si poteva trovare da ardere, magazzini dati alle fiamme per non lasciarli in mano ai russi, assalti ai viveri e al cognac che provocò parecchie morti; uomini di ogni corpo e nazionalità in una mischia disordinata; ci voleva fatica a tenerci uniti e così tutti si urlava Tridentina per cercare di raggiungere qualche località dove concentrarci.

Fu in questo caos che trovai un mulo bianco che apparteneva, come ho letto sulla matricola, alla Divisione Sforzesca. Come mi avvicinai, mise il muso sotto il mio pastrano in segno di amicizia e ci accompagnammo così fino a Nikolajewka. Quando, attaccati da carri russi, mi buttai a terra lo persi nella mischia, con grande dispiacere. Devo dire che quando sentiva arrivare gli aerei che venivano a mitragliare la nostra colonna, il mulo si fermava ed io, mettendomi sotto la sua pancia, ero protetto dalle pallottole. Era anche il mio portatore perché qualunque cosa da mangiare si trovava, la caricavo sul suo basto, come pure coperte e pastrani.

Proprio il mattino che attaccammo Nikolajewka, eravamo nell’attesa di andare avanti; una nostra compagnia, mi pare la 54ª era riuscita ad arrivare sotto la ferrovia, ma il nostro cappellano mi aveva fatto vedere parecchi portafogli di alpini morti per raggiungere tale obbiettivo. Io la sera prima avevo preso in una isba del pane e del formaggio, una specie di ricotta in un mastello, e l’avevo messa sul basto del mulo. Nell’attesa di ordini di avanzata con la punta della baionetta cercavo di sbriciolare quella ricotta e quel pane gelati per dividerli con chi mi era vicino.

Fu qui che mi accorsi di avere accanto il generale Martinat. Accettò di buon grado un pezzo di quei surgelati, mi ringraziò e mi disse, mi ricorderò sempre: “Iddio ti benedica”. Poi si avvicinò ad altri comandanti mentre piovevano colpi di katiuscia seminando la morte. Noi del Vestone puntavamo al centro, alla nostra destra avevamo i Battaglioni Morbegno ed Edolo, alla nostra sinistra (se non erro) il Val Chiese ed il Verona. Qua e là si vedevano dei semoventi tedeschi che martellavano le postazioni russe e già incominciava ad arrivare la sera, eravamo allo scoperto in una immensa pianura, davanti a noi, oltre il lieve pendio, si vedeva la ferrovia ed una casa rossa che immagino fosse la stazione.

Buona parte dei nostri erano riusciti ad arrivare al terrapieno della ferrovia non senza un enorme sacrificio di vite umane, ma non si potevano muovere dato il martellamento ininterrotto delle armi russe. Ad un tratto si vide arrivare un carro armato tedesco, ne scese il generale Reverberi comandante la mia divisione, vidi giungere parecchi alti ufficiali e comandanti di battaglione, e, siccome non ero troppo distante, riuscii a sentire una frase che mi rimane ancora oggi nelle orecchie: “O si sfonda a Nikolajewka o si crepa qui stanotte”. Passò poco tempo e vidi ritornare gli alti ufficiali vicino ai propri uomini; tra le nostre file si sentì un mormorio e si intuì che qualcosa stava per succedere.

Intanto il nostro grande comandante, risalito sul carro armato tedesco, gridò: “Tridentina, avanti!”; fu un urlo tremendo e tutti avanzammo. Il fuoco dei russi si faceva più rabbioso e intenso; si sentivano urla di dolore e si vedevano uomini cadere, ma i russi mollarono le prime posizioni di fronte a una marea di gente urlante che avanzava. I nostri, appostati sulla ferrovia, balzando come lupi, riuscirono a portarsi avanti a suon di bombe a mano; Nikolajewka era crollata e, man mano che si avanzava, si vedevano i russi fuggire o darsi prigionieri.

Riuscimmo a stento a tenerci uniti e ognuno gridava forte: “Tridentina, forza scet! (ragazzi)”; così man mano si caricavano feriti sulle slitte e sentivamo purtroppo le notizie dei nostri morti. Si seppe subito della morte del generale Martinat, del nostro cappellano, padre Lino e di molti molti alpini di tutte le squadre. Il mio maggiore aveva una piccola scheggia nella spalla, l’aiutante maggiore tenente Schileo una scheggia non tanto grande in una gamba; ricordo che lo medicai con il mio pacchetto di medicazioni.

Appena riuscimmo ad unirci un po’, sempre vicini ai nostri ufficiali, andammo in cerca di un posto per pernottare e mettere al caldo i nostri feriti. Strada facendo si vedevano cadaveri di tutte le nazionalità, ma quello che mi colpì di più, fu un gruppo di 5 o 6 russi attorno ad un pezzo di artiglieria distrutto; parevano ancora vivi ed il maggiore, passando davanti, li salutò militarmente, come ha sempre fatto passando davanti a tutti i morti di qualsiasi nazionalità fossero.

Siccome io ho avuto l’onore di essergli al fianco durante tutta la ritirata, ho avuto modo di sentirgli dire più volte che ogni combattente, quando ha dato la vita, anche se è nemico, va onorato. Non so se sono stato chiaro, troppo lungo o monotono; io non sono uno scrittore; ho fatto appena la quinta elementare e le cose le spiego come posso.

Tenente Martino Occhi
comandante la 53ª Compagnia, Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

In qualità di tenente comandavo il caposaldo “Salò” al centro dello schieramento della 53ª Compagnia Alpina del Battaglione Vestone. Si trascorre la vita di linea e di azioni di pattuglie notturne nostre e russe fino al 16 gennaio 1943; non abbiamo nessuna perdita, nel frattempo; catturiamo solo qualche prigioniero dopo l’Epifania 1943. Al mattino del 16 gennaio 1943 i russi attaccano; tentano di attraversare il Don preceduti da un forte tiro di artiglieria sulle nostre postazioni.

Faccio appena in tempo a dare i dati di tiro all’artiglieria alpina a me collegata telefonicamente e subito saltano i fili telefonici. Subito esco all’aperto e mi sposto tra le mie varie postazioni. Saranno usciti dal bosco circa un reggimento di russi. Noi ne facciamo un macello. Della nostra compagnia cadono il sergente maggiore Simula, caporale Rosato, alpino Bonera. Sono feriti: capitano comandante Bruno Givanni, sottotenente Nosari e subito vengono ricoverati all’ospedale di Podgornoje.

Nel tardo pomeriggio i russi ritentano un colpo di mano sperando che noi avessimo esaurite le munizioni. Ma il nostro pronto intervento permette a ben pochi di ritornare fra le loro linee al di là del Don nel fitto bosco ceduo. Mi viene assegnato il comando interinale della 53ª Compagnia. Alla sera arriva l’ordine di ripiegare fino a Podgornoje ove rintraccio al mattino seguente il maggiore Bracci nostro comandante di battaglione e con lui si prosegue fino a Opyt.

Alla sera ricevo regolare ordine di portare il mio plotone di mitraglieri a guardia delle isbe dove si devono riunire tutti i generali delle varie nazionalità chiusi nella sacca. Mando il sottotenente Grigio con tutti i suoi alpini; più tardi mi avvicino per curiosare. Dato il clima e la distanza da percorrere si ritiene una pazzia il tentare l’uscita dalla sacca: si parla di resa; il colonnello Signorini comandante del 6^ Reggimento Alpini si rifiuta di ubbidire; a tale categorica affermazione tradotta dall’interprete del comandante supremo, un generale tedesco, quest’ultimo fa chiedere dall’interprete che cosa intende fare il colonnello Signorini.

Questi risponde ad alta voce: “L’Italia è ad ovest ed io parto alla testa del mio reggimento”. Dopo alcuni minuti di silenzio il generale tedesco da ordine al colonnello Signorini di iniziare immediatamente l’azione. E’ da questa decisione che gli alpini riescono a riportare in patria i loro gloriosi vessilli imbattuti. Nella giornata del 20 gennaio 1943 il Battaglione Verona frontalmente, il Val Chiese a destra e noi del Vestone a sinistra attacchiamo i russi verso Postojalyi: abbiamo la meglio ed inizia la serie dei combattimenti degli alpini per raggiungere le loro alpi. Noi del Vestone siamo già privi di quasi tutta la 54ª Compagnia rimasta in mano ai russi con la batteria del capitano d’artiglieria Vinco.

Alla sera sempre del 20 gennaio 1943 noi del 6^ occupiamo Karkowka, nella notte siamo attaccati dai partigiani, abbiamo la meglio; parecchi sono presi prigionieri e mandati indietro. Si prosegue subito per Krazowka presa dal Battaglione Val Chiese. Il 22 gennaio 1943 il Vestone parte alla testa della colonna, io alla testa della 53ª Compagnia supero con poca difficoltà, ma grande decisione dei miei alpini un paese, prendendo prigionieri dei partigiani armati di parabellum.

Più avanti si avvista un paese molto ben difeso con tanti carri armati. Dopo un nutrito tiro della nostra artiglieria quattro carri armati russi fuggono a nord sulla destra del nostro schieramento, noi attacchiamo ed i miei alpini catturano e mandano a pezzi tre fucili mitragliatori, due mitragliatrici, parecchi parabellum ed immobilizzano due carri armati russi. Si arriva verso sera a Scheljakino.

Nella giornata del 23 faticosa marcia, si vive mangiando miele. Il 24 ancora in testa al Vestone; con la 53ª Compagnia catturiamo un centinaio di prigionieri e molte munizioni (quest’ultime e i relativi parabellum saranno la nostra salvezza a Nikolajewka); a sera ci ricoveriamo alla meglio in stalle con tetti di paglia tra Malakjewa e Romankowo. Dei partigiani appiccano fuoco al tetto che nella notte crolla e troviamo al mattino 8 cadaveri carbonizzati, non possiamo identificarli, parecchi altri restano ustionati. Mattino rigidissimo. Si prosegue. Varie scaramucce con partigiani anche fra boschi. A sera si arriva a Nikitowka.

26 gennaio 1943 si parte all’alba, si sa che c’è un ultimo caposaldo russo, si giunge presto in vista di Nikolajewka. Si sosta in attesa di precisi ordini. Si sa che il Battaglione Edolo, a retroguardia, è impegnato coi partigiani. Gli alpini sono impazienti di proseguire l’azione. Finalmente il maggiore Bracchi da ordine d’attacco. I due panzer tedeschi aprono il fuoco e noi proseguiamo l’azione; la reazione nemica è vivacissima. Avanziamo affiancati: la 55ª Compagnia comandata dal capitano Signori la Compagnia Comando comandata dal tenente Pendoli, la 53ª Compagnia comandata dal sottoscritto.

Immediatamente si accende una intensissima sparatoria con tutte le armi efficienti; io mi accorgo che il port’arma di una mia squadra di fucilieri cade colpito da un colpo anticarro, balzo sul posto raccolgo l’arma e vuoto il caricatore contro i russi che vicinissimi impongono l’alzata delle mani.

Ricarico il mitragliatore e scaricandolo sui serventi del pezzo anticarro russo posto vicino al cavalcavia della ferrovia li faccio smettere di sparare, inseguo di corsa i russi fuggitivi; un russo nascosto da un cespuglio mi spara a bruciapelo e la pallottola strisciandomi sul petto mi trapassa un braccio e mi getta a terra; in un primo momento mi impressiona il sangue che mi scorre lungo il braccio, ma il pronto accorrere dei miei alpini mi da coraggio e mi rialzo e con loro e le altre due compagnie scavalchiamo la strada ferrata rialzata e perlustriamo le prime isbe.

Siamo al di là della ferrovia; urla di feriti e di moribondi da ambo le parti. I russi stessi sono sorpresi dal nostro persistere nell’azione. Alcuni fuggono in varie direzioni, ad un certo punto io stesso non so dove dirigermi, il braccio mi duole, cerco di far ricoverare in una isba alcuni feriti poiché nonostante la giornata di sole c’è molto freddo. Due colpi anticarro attraversano il tetto dell’isba incendiandolo. Ci salviamo riparando in un’altra, dove l’un l’altro cerchiamo di tamponarci le ferite.

Mando il caporal maggiore Melzani a chiedere rinforzi dal maggiore Bracchi. Nel frattempo so che il sottotenente Fugalli e il sottotenente Grigio della mia compagnia sono caduti gloriosamente; così pure il tenente Pendoli e il capitano Signori. Rimaniamo tutti nelle isbe, alpini e russi, tutti disorientati, gli uni prigionieri degli altri. Nel frattempo i russi hanno la meglio: mentre prima stavano per fuggire, viste quasi esaurite le nostre forze tentano di riprendere contatto fra loro. Dalle finestre ne vediamo alcuni correre da un’isba all’altra.

Numerose sono le scariche di parabellum e di fucile che si sentono in ogni direzione. Numerose sono le espressioni dei feriti: “Sior tenente mi spari piuttosto che lasciarmi in mano ai russi”. “Sior tenente stia sempre con noi, non ci abbandoni”, “Siberia.” Io col braccio al collo tento di calmarli. All’imbrunire mi accorgo che la colonna che in mattinata, mentre noi abbiamo scavalcato la strada ferrata sopraelevata e rimanevamo immobilizzati per morti, per feriti e per mancanza di munizioni, si era arrestata ed aveva anche retrocesso creando un vuoto tra noi e loro, ora stava dirigendosi alla nostra volta.

Il morale si alza, la guerriglia riprende, io esco all’aperto con i meno feriti e cerco di dar ordini precisi nelle direzioni da dove i russi sparano. I miei alpini li fanno tacere, giunge in nostro aiuto la colonna, su una slitta trainata da muli faccio caricare i feriti. Si raggiunge la chiesa piena di feriti. Fuori, tra isbe in fiamme, urla e sparatorie, sembra una vera battaglia infernale. Trovo il maggiore Bracchi, si congratula con me, ma assieme rimpiangiamo i nostri cari alpini caduti al nostro fianco.

27 gennaio 1943: si prosegue prestissimo, vedo parecchi scarponi al sole. Ormai il Vestone ha dato tutto, non si vedono che pochi elementi spersi e sbandati; sono in marcia con il buon Rassega a cui è morto il fratello minore, gridava: “Cosa dico a mia madre se lascio il fratello qui”. A notte inoltrata sosto in un pagliaio con alcuni miei alpini. Alle due di notte tralasciando stanchezza, sonno e dolori alle ferite si riparte per non rimaner vittime del freddo.

Si giunge verso un caposaldo tedesco; si crede di essere fuori completamente, ma contrariamente radio scarpa dice che un caposaldo ungherese ha ceduto ed arrischiarne di essere di nuovo accerchiati. Purtroppo siamo malconci fisicamente e siamo privi di viveri e di munizioni. Si decide di tenersi nascosti passando attraverso delle balke e si arriva così a Towolosanka.

29 gennaio. Mio compleanno, giornata infernale per colica provocata dall’aver mangiato mezza rapa congelata. Il capitano Marcolini mi fa da mamma e mi incoraggia a sopportare ogni cosa pur di proseguire; si arriva a Besserab. Nei giorni 1, 2, 3 febbraio riesco a precisare che su 347 alpini presenti alla 53ª Compagnia il giorno 15 gennaio ne sono sicuramente caduti 23 di cui due ufficiali; 78 sono stati caricati sui camion per l’invio agli ospedali.

Presenti siamo solo in 96, tanti anche di questi con ferite più o meno gravi. Il rimanente dispersi. Il 4 febbraio siamo chiamati a rapporto, noi ufficiali, dal nostro colonnello comandante. Purtroppo pochissimi siamo presenti, e tutti con ferite. L’ottimo nostro comandante colonnello Signorini, certamente colpito dai nostri funebri rapporti, muore d’un infarto. Viene a mancarci il nostro caro papà alpino.

Aiutante di battaglia Silvio Cristeli
53ª Compagnia, Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

17 gennaio 1943. Base logistica del Battaglione Vestone, a pochi chilometri dal Don, fronte ad est di Ssergejewka. Il battaglione era stato duramente attaccato già nella giornata del 16 e durante la notte sul 17 gennaio. Il comandante della 53ª Compagnia, capitano Bruno Givanni di Milano, rimane ferito gravemente e viene ricoverato all’ospedale da campo in Podgornoje. (E pensare che il capo di S. M. della Difesa, generale Enzo Marchesi, comandò
proprio la 53ª Compagnia poco prima del grande conflitto ed in terra di Spagna, e pianse allorquando, in quel di Vipiteno, dovette per necessità superiori lasciare ad altro il comando.)

Sono le 13 circa, quando giunge l’ordine di smontare la base, e di tenersi pronti a ripiegare su Podgornoje. Ad un tratto arriva una slitta con quattro militari caduti nel combattimento
della notte, con l’ordine di dare loro sepoltura. Subito riconosco la salma del mio carissimo collega sergente maggiore Francesco Simula di Pozzomaggiore (Sassari), al quale era stata conferita una medaglia d’argento sul campo per il fatto d’arme del 2 settembre 1942. Con questo forte, giovane sardo io condivisi tutto il mio passato di guerra, dalla Spagna alla Francia, dalle montagne aspre d’Albania per finire in terra di Russia.

Il suo corpo era tutto d’un pezzo e non mostrava alcuna ferita, se non alla testa, la quale dalla bocca in su era formata da un blocco terroso saldamente gelato, mentre il caporale che con lui venne colpito da un proiettile anticarro, mentre sparavano con il fucile da una feritoia, aveva la testa completamente formata da una grossa pietra che si era sostituita alla vera testa completamente fulminata.

Come si vede dalla mal riuscita fotografia scattata dal sergente maggiore maniscalco Nicolò Vitale da Palermo, con delle tavole recuperate dallo smontaggio della base, venne costruita una rudimentale bara per il mio amico Simula, mentre le altre salme vennero collocate ai lati della stessa bara avvolte negli stessi teli da tenda che forse per più tempo furono per loro riparo dalla pioggia, dalla tormenta e dal freddo intenso della steppa russa.

Dopo questa mesta cerimonia, io ed un caporale sciatore che credo si chiamasse Zanini della Val Trompia, su ordine del comandante della base, capitano Scano, già sul calar della sera, estremamente fredda, con una marcia in sci, di circa trenta chilometri, raggiungemmo Podgornoje, ove erano i nostri automezzi, per dar loro l’avvertimento di tenersi pronti a muoversi al sopraggiungere del battaglione, che nella notte stessa dava inizio al movimento di ritirata. Giunti alla periferia di Podgornoje, alla vista dei numerosi incendi, comprendemmo subito che la situazione era alquanto grave.

All’alba del 18 ci riunimmo alla nostra compagnia per raggiungere la località di Opyt, ove vi era la base delle salmerie di tutto il 6^ Alpini. Da qui, si può affermare, la Tridentina ha iniziato il suo calvario, che finì a Belgorod, dopo la morte per sfinimento del valoroso colonnello Signorini, comandante del 6^ Alpini. Ho voluto descrivere questo primo giorno di ritirata dal Don, per rendere onorata memoria al mio carissimo amico Simula ed ai suoi compagni di sventura.

Colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che mi sono stati vicino e mi hanno aiutato a superare i momenti decisivi per la mia esistenza, ossia dopo la battaglia di Nikolajewka, ove anch’io rimasi ferito gravemente e pertanto divenuto di peso non potendo camminare. Il mio primo grazie è per il mio comandante di battaglione maggiore Enrico Bracchi, il secondo grazie al tenente Martino Occhi di Vezza d’Oglio divenuto comandante di compagnia, ed infine a tutti gli alpini della 53ª Compagnia che mai mi abbandonarono anche se condannato su una troica; per qualche giorno in compagnia, legati come due salami, col tenente Schileo, congelato ai piedi.

Tenente Danilo Bajetti
Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

In forza al Battaglione Vestone del 6^ Alpini, ma temporaneamente aggregato al comando di Reggimento del 6^, ricevetti l’ordine di trasportare, prima del ripiegamento della divisione, tutti gli incartamenti riservati e materiali vari del comando, a Repiewka, località a 25 chilometri circa da Podgornoje. Avevo con me il sergente maggiore Cattaneo, di Provaglio d’Iseo con alcune autocarrette. Alla colonna si era aggregato anche il capitano Scolari.

Caricato il materiale, partimmo di buon mattino, il 17 gennaio il freddo era veramente eccezionale e ad un certo momento dovetti fermare la colonna, lasciando naturalmente accesi i motori dei veicoli, e far scendere gli alpini per compiere un po’ di movimenti, poiché eravamo tutti mezzi assiderati per il gelo ed il freddo intenso. La marcia delle autocarrette si svolgeva faticosamente: la strada era innevata e ghiacciata ed ingombra di uomini e colonne in movimento.

Finalmente, attraversato un magnifico bosco di betulle, arrivammo al paese, un piccolo centro di alcune centinaia di casette russe, le isbe, e dove non vidi che donne, vecchi e bambini che ci accolsero vorrei dire con cordialità, come succedeva sovente con le truppe italiane. Tuttavia, per misura precauzionale, esplorai accuratamente il paese, ma di soldati o di partigiani russi neppure l’ombra.

Un fatto insolito attirò però la mia attenzione: due slitte cariche di russi collaborazionisti, gli ausiliari dei tedeschi dal lungo pastrano grigio con il bracciale, mi sfrecciarono dinnanzi velocissime senza fermarsi e penetrarono nel bosco; possibile – pensai – che non si fossero arrestate vedendo dei soldati italiani? Comunque detti l’ordine di addossare le autocarrette alle isbe, per ogni evenienza, e di cominciare a scaricare il materiale che avremmo successivamente accantonato in due isbe abbandonate. Ma improvvisamente si udirono dei colpi di cannone abbastanza vicini, e alcune raffiche di mitragliatrice.

Presi allora con me il sergente e tre alpini e raccomandato agli altri di stare tranquilli ma vigili, cominciai a salire verso un’altura da oltre la quale mi sembrava provenissero i colpi. Dopo aver arrancato per un buon quarto d’ora nella neve che giungeva alle ginocchia arrivammo sul bordo di un boschetto e mi appiattii con gli altri al riparo di alcune grosse piante. In quel momento, mi si presentò davanti agli occhi uno spettacolo che non riuscirò più a dimenticare.

Sul fondo di una vasta depressione erano state innalzate alcune grandi tende bianche, con ben visibili grosse croci in rosso; era un ospedale da campo, non riuscii a capire di quale reparto, ed era su queste tende, che ospitavano feriti, congelati, ammalati, che venivano sparati colpi di cannone da una decina di carri armati russi; per di più, alcune centinaia di fanti si dirigevano verso le tende, sul basso, sparando raffiche di mitraglia. Lo spettacolo, improvviso ed agghiacciante, mi lasciò allibito: non riuscivo a comprendere il motivo di una tale azione. Guardai di sfuggita i miei alpini: erano immobili e pallidi, quasi impietriti, sembrava non si rendessero conto di quanto stava accadendo.

Intanto riflettevo sulla nostra situazione: cosa dovevo, cosa potevo fare? Potevo dirigermi verso Ostrogosk, dove erano gli ungheresi e avrei trovato la strada libera secondo quanto dettomi da un abitante di Repiewka, ma questo non equivaleva ad un atto di diserzione? Oppure avrei potuto battermi contro i russi, ma in 20 contro una decina di carri armati e alcune centinaia di fanti equivaleva ad un suicidio, ed inoltre v’era il problema del materiale che avevo in consegna; potevo anche tornare indietro, ma questo significava disobbedire ad un preciso ordine!

Mentre questi pensieri mi attraversavano la mente mi accorsi che alcuni carri deviavano a mezza costa della depressione e si dirigevano proprio nella nostra direzione. Il tempo ormai stringeva, stetti ancora qualche istante a guardare l’atroce spettacolo, poi chiusi un attimo gli occhi, e afferrando rabbiosamente il fucile decisi di tornare alle autocarrette, seguito dagli alpini che, ancora muti, rabbrividivano per l’orrenda visione e per il freddo intenso. Rimisi in colonna le autovetture e ripresi immediatamente la via del ritorno verso Podgornoje.

Appena vi giungemmo mi precipitai al comando, dal colonnello, che dapprima restò incredulo, poiché mai più si immaginava che i russi fossero già alle nostre spalle e così vicini. Era, se ben ricordo, il terzo giorno di ritirata: era mattina e camminavamo di buon passo con un freddo come al solito eccezionale; per di più un vento gelido soffiava contro di noi così che ci rendeva la marcia ancora più faticosa e penosa. Stavamo attraversando un piccolo paese, quando improvvisamente venimmo attaccati da un numeroso gruppo di russi che, sbucando attraverso le isbe e facendo un fuoco infernale ci piombarono addosso, per fortuna stavolta senza la scorta dei famosi e micidiali carri T 34.

Ritirata di Russia 1943

Passato tuttavia il primo momento di sorpresa gli alpini, come al solito, reagirono energicamente e duramente, e si ingaggiò un breve, ma violento combattimento; i morti ed i feriti d’ambo le parti cominciavano ad essere numerosi, ma improvvisamente i russi batterono in ritirata. Davanti a me notai un alpino che mi sembrava barcollasse: mi avvicinai e vedendo che stava per cadere a terra feci appena in tempo a prenderlo tra le braccia; poi lo adagiai lentamente per terra e piegandomi al suolo feci poggiare la sua testa sulla mia gamba destra.

Nel sorreggerlo e nello spostarlo gli avevo appoggiato la mano sinistra sul petto: mi accorsi ad un tratto che era sporca di sangue, mi chinai verso di lui e vidi che la sua divisa all’altezza del petto era tutta una gran macchia di sangue, che filtrava sul davanti. Il viso, un bel viso fiero e deciso di montanaro incorniciato da una folta barba nera, era diventato pallidissimo; lo chiamai, gli dissi a voce alta: “Chi sei? rispondimi!… Io sono il tenente Bajetti del 6^…”.

Egli non diceva nulla, solo mi fissava negli occhi. Il suo viso era divenuto ancora più pallido, e la sua mano destra si era posata sulla mia che gli toccava il petto, orribilmente ferito. “Chi sei?” gli chiesi ancora, quasi gridando “di che reparto sei?” ed allora, con uno sforzo supremo, con voce ormai velata mi disse, in bresciano: “Sò del Quinto, sò de la Valcamonega”. Gli dissi ancora alcune parole, ma non mi rispose: solo mi fissava con due occhi sbarrati, capivo che la vita stava ormai per abbandonarlo. Improvvisamente, stringendomi forte la mano, in un ultimo anelito di vita ebbe ancora la forza di sussurrare: “Sior tenent, el me salude el me paesi”, poi reclinò bruscamente il capo: era morto. Gli toccai la fronte: era già diventata gelida.

Mi feci aiutare da un soldato e lo trascinai dentro un’isba, sistemandolo come meglio potevo su di un mucchio di paglia. Guardai quel corpo inanimato, mi chinai e gli feci rapidamente un segno di croce sulla fronte; poi uscii all’aperto. Venni investito da una ventata d’aria gelida e vidi intorno a me i segni del breve ma cruento combattimento che si era svolto poco prima: armi abbandonate, alcuni muli uccisi e molti cadaveri di soldati italiani e russi, ormai impietriti dal gelo, sparsi un po’ dovunque.

Preparazione del rancio in un campo di aviazione della caccia e della ricognizione italiana in Russia nell’estate 1942

Mi incamminai su una pista che saliva dolcemente e sulla quale una turba di soldati laceri, affamati ed infreddoliti si muoveva lentamente; cercavo nella calca l’aitante figura del mio colonnello, di Signorini: essendo io alfiere del reggimento non avrei dovuto abbandonarlo nemmeno per un attimo! Finalmente lo vidi ed allungando faticosamente il passo lo potei raggiungere. All’inizio della ritirata il colonnello Signorini, nostro indimenticabile ed impareggiabile comandante, mi affidò la bandiera del reggimento, assegnandomi, come scorta, i sottufficiali Cattaneo e Moretta.

In un’isba, alla presenza sua e di altri bruciai l’asta di legno e raccolsi il puntale con le medaglie e relativi nastrini azzurri in una robusta custodia che mi sistemai sul petto, sotto il pastrano. E ricordo come fosse ora, le parole che Signorini, presomi in disparte, quasi mi sussurrò: “La mia slitta è a tua disposizione e farò in modo di lasciarla sempre vuota così che il cavallo sia in ogni momento riposato; e quando ci accorgeremo che la situazione è ormai disperata saltaci su con la tua scorta e fila veloce verso occidente, senza mai fermarti, tenendo ben presente che hai la bandiera del reggimento simbolo dell’onore militare. Essa non dovrà mai cadere nelle mani del nemico! Non conta che tu possa anche soccombere, l’essenziale è che tu prima possa farla sparire”.

Era commosso nel pronunziare queste parole e gli giurai che stesse tranquillo che i suoi ordini sarebbero stati eseguiti a qualunque costo! Ed ora eccoci al fatto. Era un mattino, come al solito freddissimo e la ritirata era già in atto da alcuni giorni. Avevamo avuto un breve ma violento scontro con un gruppo di partigiani e di russi che si erano asserragliati in un gruppo di isbe e poco dopo, passando davanti ad una di esse, mi sentii chiamare per nome da un soldato e allora entrai.

Vidi alcuni alpini, una decina, che golosamente e affrettatamente mangiavano della minestra che era in un grande recipiente sopra il tavolo. Un gruppetto di russi in un angolo, un vecchio, alcune donne e dei bambini ci guardavano attenti ma non sembravano nemmeno spaventati. Mangiai anch’io alcune cucchiaiate di quella zuppa calda (era una minestra di miglio che mi sembrò deliziosa) ma poi ricordandomi improvvisamente del colonnello e delle sue continue, assillanti raccomandazioni (non staccarti mai da me!) corsi fuori.

Avvenne allora una cosa stranissima! Le gambe si rifiutavano di muoversi e per quanti sforzi facessi, restavo lì, inchiodato al terreno e vedevo con angoscia davanti a me (la pista era ora in leggera salita) l’aitante figura di Signorini che sempre più si allontanava! Per fortuna si fermò vicinissima, sia pur per poco, una slitta dove erano alcuni uomini, probabilmente feriti o congelati e allora feci uno sforzo addirittura sovrumano e riuscii a caderci letteralmente sopra! Il conducente mi vide, borbottò qualcosa, ma poi, forse anche perché aveva scorto sul mio pastrano i gradi da ufficiale, si zittì e fece proseguire la slitta.

Me ne stavo intanto seduto sul bordo posteriore di quello scomodo… veicolo, con le gambe penzoloni, e mi tenevo attaccato con le mani alle assi. La stanchezza, lo sfinimento causato dalla fame e il freddo intensissimo mi fecero come assopire, ma ad un tratto, ad un violento sobbalzo della slitta, mi svegliai da quel torpore e istintivamente mi toccai subito il petto: la bandiera era sparita.

Restai per alcuni attimi come terrorizzato, poi sentendomi all’improvviso ritornare tutte le energie, saltai di colpo giù dalla slitta, misi concitatamente al corrente del fatto i due sottufficiali che mi seguivano sempre come ombre, e mi buttai contro la colonna avanzante di uomini e di slitte cercando affannosamente la preziosa custodia. Finalmente, dopo alcuni attimi affannosi la vidi per terra, semisommersa dalla neve!

Mugolando di gioia mi precipitai, e districandomi tra le zampe dei muli e gambe di uomini, riuscii tutto trionfante ad afferrarla saldamente! Me la strinsi al petto, e di corsa, quasiché le energie mi sembravano addirittura centuplicate, me ne andai avanti cercando affannosamente il colonnello Signorini. Era già tutto preoccupato perché da un po’ di tempo non mi vedeva e mi chiese: Ma dove sei stato benedetto figliolo!

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