ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 55

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Tenente colonnello Carlo Camin
aiutante maggiore 6^ Reggimento Alpini

Opyt, 19 gennaio 1943. Pomeriggio triste e gelido. Situazione quanto mai fluida, notizie scarse ed incerte. Non si sa ancora nulla del 5^, atteso da Skororib. Sono con l’amico e collega tenente colonnello Felice Prat, nei pressi della grande isba nella quale sostano il Comando del Corpo d’Armata Alpino, della Tridentina e quello dell’ormai ridottissimo XXIV Corpo Corazzato germanico. I generali Nasci, Reverberi ed Eibi sono riuniti ed appartati in una stanzetta dell’isba stessa. Con loro vi è anche il comandante del nostro 6^, colonnello Paolo Signorini. Attendiamo ordini. Colpi di artiglieria in arrivo da sud.

Signorini esce e ci chiama, scuro in viso: “Le cose peggiorano; tutto può precipitare da un’ora all’altra. Dobbiamo raggiungere al più presto l’Armeestrasse che corre ad ovest, molto lontana: è per ora il nostro obiettivo, ma bisognerà combattere duro per aprirci la strada perché l’accerchiamento del Corpo d’Armata Alpino da parte dei russi è in atto. Tu, Camin, incàricati di custodire la bandiera: per nessun motivo cada in mano al nemico, e portala in Italia, se ci arriveremo. Sarà bene scomporre il vessillo in modo che non sia individuabile”.

Costituisco sul posto il Gruppo Bandiera ai miei ordini diretti, ripartendo gli elementi: la freccia in consegna al sottotenente Fait di Trento, quale alfiere; drappo, decorazioni e nastri divisi tra il maresciallo Moretto di Soave (Verona) ed il sergente maggiore Cattaneo di Provaglio d’Iseo (Brescia), sottufficiale di scorta. Il tutto viene sistemato sotto le uniformi, rimanendo così celato alla vista di chiunque.

All’imbrunire del giorno 20 la pista che percorriamo è affollata ed ingombra: uomini, automezzi tedeschi, slitte stracariche, slitte-ambulanza, muli, slittini trainati a mano. Atmosfera tesa, colpi di parabellum dalle boschine adiacenti, bagliori d’incendi. Ricevo da Signorini l’ordine d’incolonnarmi col Gruppo Bandiera seguendo il Comando del 5^ Alpini. Il colonnello intanto raggiunge il Vestone e il Val Chiese in avanguardia ed avanzanti su Nowo Karkowka. Il Verona è impegnato alla retroguardia di tutta la colonna.

Gli alpini vanno nella notte incombente ma abbastanza serena e limpida. Un’esplosione ci scuote: lo scoppio è avvenuto qui, sulla pista a pochi passi, alle mie spalle. E’ ferito, non gravemente, il tenente colonnello Peis; ma purtroppo l’alfiere sottotenente Fait è a terra e perde copiosamente sangue da una gamba. La neve si arrossa rapidamente: un piede è pressoché asportato, lo rivela la fortissima emorragia. Si carica l’ufficiale sulla slitta più vicina: ai richiami ci raggiunge un ufficiale medico del 5^, ma purtroppo non c’è più nulla da fare, al dottore manca ogni mezzo per tamponare l’ampio squarcio. “Signor colonnello, per carità, non mi abbandoni, non voglio morire così” implora disperato il caro e bravo giovane, mentre la vita lo abbandona insieme al fiotto del suo sangue generoso.

La slitta prosegue come può ma lentamente, poi è inghiottita nella notte dalla caotica marea umana che incalza e sommerge, inesorabile. La freccia della bandiera viene presa in consegna dal tenente Danilo Bajetti di Brescia, nuovo alfiere, che la custodirà per tutto il ripiegamento e dopo, in tutte le successive vicende, finché il 2 aprile 1943, tra la più calda e commovente accoglienza e la profonda nostra emozione, la bandiera attraversa il centro di Verona e raggiunge la vecchia caserma del Pallone, dove alla presenza del generale Reverberi, di tutte le autorità militari e civili e con l’omaggio della popolazione viene consegnata al comandante delle truppe al deposito.

Scheljakino, 22 gennaio 1943. Lasciamo Limarewka che è ancora notte. Poche ore di riposo, per modo di dire, nell’isba che poi dobbiamo sgombrare in fretta e furia, perché minacciata da uno dei tanti incendi che stanno distruggendo il paese. Fumo, faville, odore di bruciato, aria rovente che penetra nelle narici e nei polmoni. Il 6^ riprende il suo compito di avanguardia, scavalcando il 5^. Per uscire dal paese bisogna con fatica farsi strada tra sbandati d’ogni genere che costituiscono un continuo ostacolo al movimento dei reparti organici. Sono col colonnello Signorini: finalmente col concorso di tutti riusciamo a disimpegnare dagli intoppi e dal caos il Vestone; segue il Val Chiese, Bracci e Chierici fanno miracoli.

Ora si procede con le compagnie in ordine sulla pista per Scheljakino. Si sa che tra breve dovremo incontrare il nemico e superare un nuovo sbarramento. Comincia a schiarire, è sereno e la giornata si preannuncia bella. Si avvertono colpi lontani: Bracchi comunica di aver preso contatto con i russi e che sta per impegnarsi a fondo. Ci segnala anche la presenza di mezzi corazzati in movimento sulla piana di Scheljakino, verso di noi. Ora il Vestone attacca sulla destra dell’ampia sella che si apre di fronte a noi, proprio sulla nostra direttrice. Vedo gli alpini del mio caro e vecchio battaglione avanzare spiegati sul dosso nevoso: il fuoco dei nostri è rapido e vivace; vedo Chierici col suo Val Chiese entrare anch’esso in azione sulla sinistra, sotto il fuoco nemico mentre interviene anche la nostra artiglieria.

Sono vicino a Signorini quand’ecco sopraggiungere il generale Reverberi: eccoci sulla sella. Una piana ampia ed estesa ci appare dinnanzi, e giù, più in basso, Scheljakino colle sue isbe: ecco i carri armati russi che sfilano dalla sinistra e minacciano il nostro fianco esposto coi due battaglioni impegnati. La situazione diviene pericolosa. La 76ª Batteria anticarro divisionale del capitano Migletti, prende posizione e spara: esito più che brillante, un carro è presto in fiamme, ed un altro ben centrato si arresta. Il generale mi manda a sollecitare l’arrivo del 5^ che sta già serrando sotto.

Parlo con il colonnello Adami che ci viene incontro e raggiunge Reverberi. C’è Calbo comandante del Gruppo Vicenza, al quale sinora è stata celata la notizia della morte del suo aiutante maggiore capitano Polo. Due pezzi cingolati tedeschi prendono posizione in una balka sottostante. Tensione in tutti. Ma ecco che si sviluppa superba, direi leggendaria, l’azione a largo raggio dell’Edolo, che vedo svolgersi nitida sotto i nostri occhi.

Belotti lancia le sue compagnie in perfetta formazione di combattimento: puntano rapidamente, dalla sinistra, sulla piana di Scheljakino dirette sul nemico. Gli alpini appaiono svelti, agili, decisi sul biancore della neve. Così li vediamo tutti. E’ una visione che commuove. Sembra quasi di assistere ad una esercitazione e non ad un atto di uomini disperati, già duramente provati da altre giornate di dura lotta, d’improbe fatiche in un clima intollerabile.

Dal generale al semplice alpino, ai soldati germanici vicini si esprime l’ammirazione più grande e profonda: bravo l’Edolo! Il nemico sgombra e ripiega. I suoi carri sono già stati raggiunti ed assaliti dagli alpini; quelli efficienti si allontanano sulla pista di Warwarowka; rimangono alcune fumanti carcasse, e qualche carro abbandonato: gli equipaggi sono stati annientati.

I reparti raggiungono l’abitato. Vedo gruppi di uomini in grigioverde che ci vengono incontro. E’ mai possibile? Sono i nostri, catturati prigionieri dai russi nei giorni precedenti e da questi concentrati a Scheljakino, liberatisi durante il combattimento! Commosso e felice c’è anche con loro l’amico dottor Galli, maggiore medico: l’hanno privato di tutto quanto aveva con sé, cappotto compreso. Ha tanto freddo, ma è felice. Ci abbracciamo.

La notte di Romankowo, 24 gennaio 1943. Notte di tregenda. Mi trovo in un’isba di questo paese, flagellato da una infernale tormenta che ci ha implacabilmente aggredito per tutta la marcia da Malakijewa a qui, dopo un combattimento per nostra fortuna felicemente risolto. Ho un principio di congelamento alla faccia: il mio passamontagne è una compatta, durissima gelata da elmo medioevale. Ora però si sta man mano ammorbidendo e cola: seduto su di un duro e stretto divano prettamente russo, in questa stanzetta stipata e maleodorante sono almeno al riparo dal vento e dalla neve, ad una temperatura sopportabile.

Passerò la notte qui, se sarà possibile. Accanto a me c’è don Carlo Gnocchi, gomito a gomito; gli altri, in terra stretti l’un l’altro, cercano un po’”di riposo; tra loro un medico del
5^. Sono oltretutto preoccupato perché non mi è stato possibile collegarmi col colonnello Signorini e col generale Reverberi. So che stanno attendendo Bongioanni col Verona, che ultimato il durissimo servizio di retroguardia a tutta la colonna, da Postojalyi rientra al reggimento. Ma dove sono? E’ possibile che con questa bufera che si scatena tuttora, siano entrambi andati soli incontro al battaglione senza avvertirci?

Nella stanzetta si parla poco: siamo tutti sfiniti. Le ore passano: mi desto dal torpore in cui ero caduto, di soprassalto. Dal di fuori qualcuno bussa alla porta e grida: “Al fuoco! Al fuoco! Bruciano le isbe!”. Infatti il vento impetuoso alimenta vari incendi, i tetti di paglia ardono ed il flagello si propaga con incredibile rapidità. Allarme per tutti. Siamo nelle mani di Dio. Don Carlo prega. Si bussa ancora alla porta disperatamente: il nostro rifugio è per il momento ancora risparmiato dalla furia che si scatena. Apriamo. Entrano vento, fumo e forme umane: sono alpini del Vestone, il loro stato è spaventoso e miserevole insieme. Ustioni terribili. Sorretti da altri alpini, vengono distesi sul pavimento, dove si viene miracolosamente a fare un po’ di spazio.

La scena è terribile. Il dottore si prodiga come può, ma le condizioni di questi poveretti sono disperate: sono quattro, tutti egualmente colpiti. Non vi sono bende, non medicinali e tantomeno acqua, nulla che possa calmare gli atroci dolori, forse più intensi di quelli provocati da ferite. L’angusto locale è impregnato dal soffocante, nauseante lezzo delle carni bruciate insieme al panno umido delle uniformi, in un unico impasto. Lamenti, pianti, invocazioni, imprecazioni si fondono nel rantolo della morte. Un’indicibile angoscia mi serra la gola.

Don Carlo solo porta il conforto di una sommessa preghiera affidando i morenti alla bontà e alla pietà del Signore. Forse egli sta già precorrendo la sublime futura opera che l’attenderà in patria. Passano le ore della notte, i lamenti si affievoliscono, i rantoli cedono ad una graduale calma. Quando inizia il nuovo giorno ogni segno di vita terrena ha abbandonato i poveri corpi straziati.

Fuori la tormenta è cessata, l’aria è calma, il cielo sereno. Si riprende la marcia ad ovest: portiamo con noi per sempre il tremendo ricordo. Nikitowka, Nikolajewka. Notte. Col colonnello Signorini e col collega Prat sostiamo da qualche ora in una delle isbe prossime all’uscita ovest da Nikitowka, dove siamo giunti nel pomeriggio. Il generale ha tenuto da poco rapporto: sono già in atto gli ordini ricevuti per la notte e per il proseguimento della marcia su Nikolajewka, nostro obiettivo attuale.

Vestone e Val Chiese sono già in marcia al comando di Bracchi e Chierici. Nikolajewka risulta, da informazioni ricevute via radio, fortemente occupata da forze russe che ci attendono, decise a chiuderci definitivamente nella morsa ed annientarci. Nonostante la serietà della situazione siamo tutti relativamente tranquilli: ci si muoverà col comando e col Verona non appena ci sarà un po’ di luce. La notte è serena e freddissima. Gli alpini sono stipati nelle isbe e attendono. Ad un tratto (che ore saranno?) ecco la voce di Reverberi: “Signorini, Camin, Prat! Allarme! Siamo attaccati! Presto: riunire subito i reparti! Fuori tutti dalle isbe! L’avanguardia è impegnata, la colonna è spezzata in due dai russi! Partenza immediata: tutto è anticipato, incolonnarsi secondo le note disposizioni, ma presto!”.

Siamo tutti fuori nella notte: raffiche di armi automatiche e fucilate vicinissime. Prat corre avanti da Bongioanni, io riunisco gli uomini del Gruppo “Bandiera”, gli alpini già pronti ed armi alla mano s’incolonnano sulla pista e si muovono, l’oscurità comincia a cedere all’alba del nuovo giorno.

Passa il Tiràno; Signorini precede col generale Reverberi in automezzo per raggiungere l’avanguardia (Vestone e Val Chiese) impegnata ad ovest, verso Nikolajewka. Poche, confuse e incerte giungono le notizie lungo la colonna: si apprende però che vi è un grosso ostacolo da superare tra noi e Nikolajewka, ad Arnautowo, dove nella notte il nemico ha rotto, spezzando in due la colonna stessa. Arrivano colpi di mortaio sulla pista. Salgo, seguito dagli alpini del mio gruppo lungo il dosso innevato su cui si svolge il percorso, man mano che procedo l’ingombro aumenta.

Ci si muove a fatica, sotto il fuoco di elementi nemici appostati tra le basse piante che coprono più o meno fitte la nostra destra: il tiro per nostra fortuna è scarsamente efficace, poi rallenta fino a cessare del tutto. Cammino accanto a Prat; si è unito a noi il tenente colonnello Pruneri di Tiràno, addetto al comando della Tridentina. Siamo tutti vicini, io, Prat, Pruneri, Lanfranconi, Bajetti; seguono gli altri. Nonostante tutto, c’è ancora in noi tanta speranza che ci tiene su.

Eccoci ad un gruppo di isbe che sembrano affacciarsi dal piccolo bosco sul limite della pista; ecco i pezzi della 33ª Batteria del Bergamo piazzati e puntati ad ovest. Orrenda visione: sulle bocche da fuoco e a terra sulla neve i corpi crivellati e massacrati dei capi pezzo e dei serventi. Ecco il capitano Giorgio Gaza del Val Chiese, mi viene incontro sconvolto: “Venga” mi dice “venga a vedere in che stato sono ridotti i miei alpini: abbiamo tenuto testa ai russi per tutta la notte, ci hanno attaccato in forze; ci siamo difesi disperatamente, i vivi sono ormai ben pochi, non ne possiamo più. Ormai che si deve fare?” “Coraggio, accodatevi e proseguiamo.”

Ci sorpassa, fuori pista, il generale Martinat, capo di stato maggiore del Corpo d’Armata e si rivolge a me: “Come vanno le cose? Che succede?”. “Ci siamo in mezzo: guardate là anche su quei campi di neve a sinistra” rispondo. Intatti nuclei di russi con slitte e quadrupedi si muovono bene in vista, nel nostro stesso senso e parallelamente alla colonna: sembra anzi che tendano ad avvicinarsi, per poi riprendere distanza. Il generale ci saluta e risale rapidamente la colonna, deciso e sereno come sempre.

Noi invece siamo costretti a sostare. Avanti sono tutti fermi, la pista è più che mai ingombra: bisogna lasciare il passo a mezzi corazzati tedeschi con qualche pezzo d’artiglieria ancora efficiente. E’ ciò che rimane del XXIV Corpo Corazzato agli ordini del generale Eibi. Ora il nemico spara su di noi con armi automatiche e fuciloni anticarro. Una
raffica centra il nostro gruppo. Pruneri cade sulla neve: “Camin, sono ferito, non mi posso più muovere! Per me è finita!” egli grida. E’ ferito al ventre.

“Dai, Pruneri, non fare così, sei ferito, si vede, ma coraggio, te la caverai”. Purtroppo, e giustamente, non crede alle mie parole. Anche Lanfranconi è a terra con una gamba spezzata. E” tranquillo nonostante la grave ferita, stoicamente sereno. Due alpini sono pure a terra, tra cui Stella, uccisi sul colpo. Con Prat ed altri riusciamo a caricare i due feriti gravi su due slitte. Il buon Pruneri, “vecio del 5^”, morirà pochi giorni dopo all’ospedale di Varsavia, dove poté essere trasportato collo stesso aereo sul quale venne fatto salire il generale Eibi, ferito a morte anch’esso.

Lanfranconi invece se la caverà, superando le dure giornate di slitta: il freddo intenso gli rallenterà lo sviluppo della cancrena. Le salme degli alpini caduti vengono deposte a lato della pista. Addio care “penne nere” del 6^, ormai già “mozze”. Si riprende a fatica lungo la costa nevosa che sembra non debba avere mai termine. Intanto, la battaglia continua. Passo dappresso a due pezzi cingolati tedeschi di medio calibro: tirano a rilento, è evidente che la scorta di munizioni è assai scarsa.

Vedo centrare un’isba su di un breve dosso sulla destra, più in alto; alcuni russi scendono in fuga lungo il pendio, figurine nere su fondo bianco. Il fragore del combattimento si fa più forte, è il Tiràno di Maccagno impegnato a fondo. Sulla pista ed ai lati di essa corpi di soldati mongoli, grottesche e tristi forme nelle pose più strane nelle quali la morte li fermò,
colle armi ancora in pugno colti dal destino in inutili buche scavate in fretta nella neve. Il tempo passa, il sole è alto, il freddo è meno mordente, ma non avverto il trascorrere delle ore.

Raggiungo Ambrosiani, Adami e Signorini. Automezzi blindati e cingolati sulla pista, una radio di bordo chiama. Ci scuote l’urlo di due lanciarazzi multipli tedeschi in azione (li chiamano katiusce come i famosi “organi di Stalin” impiegati dai russi) che aggiunge al quadro un nuovo tono di drammaticità. Ammiro gli artiglieri addetti al funzionamento di queste armi: mi domando se si stia svolgendo un’esercitazione a fuoco e non una battaglia disperata per la sopravvivenza di tutti!

Finalmente il lunghissimo dosso nevoso che scende in buona pendenza sulla piana di Nikolajewka è superato. Masse d’uomini incuranti esauriti ed inerti si accalcano ed attendono. Ecco davanti a noi il grosso abitato, ecco il rilevato della ferrovia che con ampia curva ne protegge l’accesso. Tirano le nostre batterie dal costone, più in basso fucileria e raffiche intermittenti di armi automatiche, dagli alpini attestati sul rovescio del terrapieno ferroviario.

Il colonnello Signorini per incarico del generale Reverberi mi ordina di risalire il costone incontro all’Edolo in retroguardia, perché si porti al più presto in linea a concorrere all’attacco conclusivo. La pista che ripercorro in salita è piena di gente sbandata, slitte con feriti e congelati, mezzi d’ogni genere italiani e tedeschi, quadrupedi di tutti i reparti. Vedo anche qualche ungherese. Mi faccio largo a fatica e a spinte.

Ecco Belotti che mi viene incontro coi suoi: “Vengo giù, più presto che posso! Ma guarda che far passare gli alpini tra questa gente che ritarda il movimento ad ogni istante è un grosso e tremendo problema! Dillo pure al generale e al colonnello Adami! In certi punti bisogna sfilare per uno con tutto il battaglione!”. Ed il bravo Belotti supera finalmente tutti gli ostacoli e procede. Torno dai miei, Signorini è andato già avanti verso il terrapieno a raggiungere i battaglioni impegnati. Ecco Bongioanni coi suoi del provatissimo Verona.

Con altri ufficiali, sul posto, si cerca di riunire ed inquadrare gli sbandati ancora armati; ve ne sono di tutte le unità della colonna. Fatica improba, irta di difficoltà. Viene passata la voce: “Avanti tutti, avanti così come siete e subito!”. E via giù per il pendio. Ora il fuoco è meno fitto, i colpi in arrivo più rari. Il mio piede incontra qualcosa di duro e resistente sotto lo strato di neve battuta in piena pista: mi sembra di calpestare quasi del cartone. Mi soffermo e guardo: è un tronco umano, o meglio una metà di esso, dal bacino in giù, spianato come una foglia secca dai cingoli di un carro armato. Un paio di valenki appiattiti formano un tutt’uno colle gambe, del rimanente nessuna traccia.

Intanto da Nikolajewka è cessato il fuoco. Vedo solo delle colonne di fumo alzarsi dal centro del paese, verso la chiesa. Uomini, quadrupedi slitte si gettano avanti scendendo l’ultimo pendio: il terrapieno ferroviario è oltrepassato, siamo sulla piana, i primi battaglioni sono già passati tra le isbe, e gli alpini del Val Chiese per la seconda volta. Si serra sotto. Quanti caduti! Signorini mi ordina di riunire i reparti del 6^, prima di incolonnarci verso l’abitato.

E’ scesa rapida, quasi inattesa la notte. Siamo a Nikolajewka. Verso Nowyi Oskol, 28 gennaio. Due giorni sono passati da quando, dopo poche ore di sosta, abbiamo lasciato Nikolajewka. La colonna si muove sempre in direzione ovest: la minaccia nemica, però, per quanto allentata, è tuttora in atto. Man mano che la marcia procede i reparti si ricompongono riordinandosi, malgrado le precarie condizioni. Secondo quanto ci è stato ordinato ieri nel paese di Uspenka, dobbiamo raggiungere Nowyi Oskol, sul fiume omonimo, e là dovremo incontrare le unità tedesche organizzate in nuove posizioni difensive.

Si procede. Ma ecco che ci viene incontro, risalendo la colonna, un motociclista tedesco. Ci informa in fretta che a Nowyi Oskol ci sono i russi, e riparte a grande velocità. L’euforia di poco fa sparisce di colpo. Si fa silenzio. Alt! La notizia corre. Poi: “Avanti ancora per poco”. Il cielo è diventato grigio come i nostri pensieri.

Rapporto dei comandanti dal generale Reverberi nei pressi del ponte. “E’ necessario compiere un ultimo sforzo, costi quello che costi: attaccare i russi e passare!” Non siamo ancora giunti alla fine del dramma? Siamo di nuovo chiusi a breve raggio? Così pare. Il generale ordina di costituire sul posto un battaglione con elementi del 5^ e del 6^ Alpini ed una batteria del 2^ Reggimento Artiglieria Alpina. Ne prende il comando il maggiore Cesare Paroldo. Il 6^ fornisce la 53ª Compagnia del Vestone, agli ordini del suo comandante, capitano Marcolini.

Si sta per giocare l’imprevista ultima carta con uomini più che provati, scarsissime munizioni. Gli alpini intanto si preparano in silenzio al nuovo sacrificio che presenta ben scarse speranze di successo. E tutto questo essi comprendono benissimo, ed io comprendo a mia volta ciò che essi sentono. Ecco gli alpini. Li guardo, li ammiro e mi commuovo. Paroldo è già pronto. Ma ecco: sulla pista che sale arriva arrancando un portaordini del comando di reggimento che al momento si trova più in basso, al ponte: “Il colonnello comandante la vuole subito giù da lui: ci sono nuovi ordini”.

Corro e mi presento. “Sospeso tutto” mi dice in fretta Signorini “bisogna riprendere immediatamente il movimento verso ovest.” “E il battaglione che sta preparandosi per l’attacco?” “Ho già incaricato Chierici di portare il contrordine a Paroldo, perché faccia rientrare tutti gli uomini nella colonna che sta già muovendosi. Tu stà qui con me, per ulteriori emergenze”.

E via, si va. Si avvicina rapidamente la sera, si marcia nel più assoluto silenzio, rispettato da tutta la massa perfettamente conscia del rischio che andiamo correndo. Nessuno fiata. Sfiliamo infatti a brevissima distanza dai russi i quali per nostra fortuna non danno alcun segno della loro presenza. Nel silenzio che incombe, non una fucilata, non una raffica. E’ andata così. A notte profonda, siamo alla tappa. Fuori della sacca, 30 gennaio. A Besserab le residue truppe germaniche e ungheresi sbandate sono state avviate su altro percorso. E’ tutto calmo. Un apparecchio sovietico ci sorvola ad alta quota.

Nessun altro segno di attività da parte del nemico. Si è in marcia da poche ore quando un automezzo tedesco sorpassa lentamente la colonna. Breve sosta. Sul pesante veicolo, con altri ufficiali, ecco il generale Gabriele Nasci, comandante del Corpo d’Armata Alpino. Appare stanco ed emozionato. Si rivolge a Signorini e a noi, in testa al 6^: “Vi posso finalmente dare la notizia, avvertite pure gli alpini: siamo usciti dalla grande sacca! Coraggio dunque e avanti. Andiamo a casa. Siano ridotte al minimo le misure di sicurezza”.

Qualcuno si appoggia alla macchina, vinto da un attimo di debolezza; qualche altro da sfogo alla propria commozione e piange. Il generale Nasci ci informa inoltre che ci stanno venendo incontro autoambulanze ed autocarri per il trasporto e lo sgombro dei feriti dei malati e dei congelati, e per i primi rifornimenti. E’ sogno o realtà? Ci si sente leggeri e si riprende allegramente la marcia.

Più avanti incontriamo il generale Gariboldi comandante dell’Armir che ci porta il suo caldo saluto. Mi chiede notizie di suo figlio Mario, che ci segue col 5^. Ecco, abbiamo visto la prima automobile italiana che viene da ovest. A BolscheTroitzkoje si dormirà tranquilli, ci si laverà e si mangerà. Tutto diventa gradito e sopportabile, anche i pidocchi. 1 febbraio, Logowoje. E’ mattina. Ci si sveglia presto, non ancora convinti del tutto del nuovo evento. Anche Signorini è sveglio, dopo una notte agitata.

Abbiamo dormito vicini nella stessa isba. Mi dice: “In quanti saremo ancora? Arriveranno in giornata ordini dalla divisione? E questi famosi viveri ci saranno sul serio? I feriti e i congelati devono essere sgombrati più in fretta! Ci vogliono molte ambulanze. La cancrena col clima più mite fa progressi”. Poi pensa ai caduti lasciati nella steppa, e alle famiglie lontane: “Povera gente! Che pena! Quanti aspetteranno inutilmente un ritorno! Speriamo che si possano ancora recuperare dei ritardatari.

Che ne dici? Ti ricordi quando, alla stazione di Brescia, in quel giorno di fine luglio, nella breve sosta del treno, sulla banchina affollatissima vennero a salutarci in tanti, commossi e sereni perché ci videro fiduciosi? – Torneremo tutti, vedrete, andrà tutto bene. Aspettateci, che torneremo presto. Così fu detto. Ed ora? Il reggimento torna sì, dopo aver compiuto fino all’ultimo il suo dovere nell’immane dramma. Ma come torna?!”. Poi parla della sua Maria e del suo Sergio e fa progetti per l’avvenire.

Condivido le sue ansie, la sua grande tristezza. Ma adesso bisogna pensare a tutto quello che c’è da fare subito, per tutti gli alpini rimasti e per una più rapida ripresa della vita dei nostri reparti. Arriva un’autovettura: c’è il maggiore Cano del comando della Tridentina. Viene da Schebekino per ordine del generale Reverberi, a prendere contatto coi reggimenti in sosta. Egli ci preannuncia l’arrivo in mattinata di ambulanze e di autocarri per il servizio viveri; procede poi verso il 5^ che è sistemato non lontano da noi.

Infatti, poco dopo, ecco gli autocarri. Il capitano Ciuffarin incaricato della “spesa” fa salire sui mezzi una congrua corvée di alpini e via a Schebekino per il prelevamento di tutto il possibile e disponibile. Torna Cano dal 5^ e Signorini ne approfitta per recarsi con lui dal generale per riferire e ricevere ordini. “Vado e torno” dice a me e agli altri presenti “aspettatemi, mangeremo qualcosa insieme, non appena sarò di nuovo qui.” Abbiamo infatti trovato delle patate e una scatoletta di carne che un alpino della mensa sta scaldando. Il colonnello sale in vettura e va.

Se ben ricordo è quasi mezzogiorno. L’attesa del ritorno si prolunga ma non ci preoccupa. Al comando della Tridentina il colonnello avrà molto da sentire e da dire; quindi… pazienza. Arrivano gli autocarri colla spesa. Cuistarni corre subito da me agitatissimo: “Vada subito al comando, a Schebekino, il colonnello Signorini sta male, molto male. Il generale La vuole al più presto possibile da lui. Ma presto!”. Corro a piedi, gli autocarri sono già tornati indietro. Sulla pista per Schebekino (due chilometri circa) mi sorpassa un’auto germanica. Cerco di salire. Non mi è consentito, la vettura procede senza nemmeno rallentare.

Ecco le prime isbe del paese, il comando è quasi sulla strada, lo trovo subito: don Carlo Gnocchi sta uscendo dall’isba e mi viene incontro. Mi guarda e: “Il tuo colonnello è mancato da pochi momenti”. “Mancato? Come? Ma cosa dici? Non è possibile, non ci credo!” Mi precipito dentro. Reverberi sconvolto e disperato mi abbraccia. Mi accenna lì, a pochi passi, sulla sua brandina da campo… Egli mi mormora:”Si è tentato tutto quello c “Non c’è più nulla da fare”. he si poteva nel brevissimo tempo” mi dice un maggiore medico di Gorizia che era stato chiamato d’urgenza.

Sono accanto al corpo inanimato, ancora caldo. Si attende un’ambulanza per trasportare la salma all’ospedale di Karkow, per la sepoltura. Mi sembra di aver ricevuto una mazzata in testa. Bacio quella fronte bellissima come in un sogno. Ecco l’ambulanza. Don Gnocchi ritira il cappotto di lui. Lo porterà alla sua Maria. Addio Signorini, addio indimenticabile comandante ed amico. Ricevi, col mio, l’ultimo saluto di tutti i tuoi alpini che non sanno ancora nulla. L’ambulanza parte e scompare sulla pista per Karkow.

Sergente Albino Cobelli
Battaglione Vestone, 6^ Reggimento Alpini

Il giorno 15 gennaio 1943 il capitano Bruno Givanni comandante della 53ª Compagnia ebbe l’ordine dal maggiore Bracchi comandante del nostro Battaglione Vestone di prepararsi al ripiegamento; infatti, le nostre salmerie per tutta la notte furono al lavoro per trasportare nelle retrovie verso Podgornoje le munizioni di scorta; si parlava di un ripiegamento di una trentina di chilometri; il resto della compagnia doveva preparare gli zaini con il minimo indispensabile, abbandonando il materiale in più; anch’io feci preparare quel materiale sanitario che si poteva portare, il più indispensabile, tanto che ho
dovuto lasciare sul posto casse intiere di anticongelante.

A turno le nostre armi automatiche ed i mortai sparavano sul Don per dimostrare ai russi che nulla era cambiato sul nostro fronte. Il giorno 16 gennaio 1943 verso le sette i russi incominciavano un bombardamento intenso sulle nostre linee; dopo tre ore di fuoco attaccarono in massa, addirittura in piedi; i nostri alpini rispondevano al fuoco; il Don ghiacciato favoriva l’avanzata dei russi; in poco tempo la superficie del Don era coperta di morti e feriti, raro era colui che poteva raggiungere il nostro reticolato; davanti ai nostri alpini vi era poco da avanzare.

Il pensiero del capitano Givanni erano le limitate scorte di munizioni; il più era stato trasportato nelle retrovie, e il suo compito, da generoso e coraggioso comandante, era di girare da postazione a postazione, dando ordine di sparare a colpo sicuro, perché non si sapeva quanto durava l’attacco russo; ma non si passava, ed erano pochi quelli che riuscivano a venire a morire vicino ai nostri reticolati. Alle ore undici un portaordini ci avvisò che il nostro capitano Givanni, sempre allo scoperto per dirigere le operazioni, era stato ferito al corpo da uno scoppio di una granata in un camminamento; con la medesima granata morì il sergente maggiore Simula, sardo.

Come aiutante di sanità della compagnia e su ordine del tenente medico Colombo mandai sei portaferiti, e dopo ore di calvario nei vari camminamenti durante la battaglia, questi ritornarono con il capitano al pronto soccorso (una buca); constatammo con tristezza che il capitano aveva tutte e due le gambe fratturate e il corpo flagellato di schegge; gli tagliammo gli stivali con le forbici; lo abbiamo steccato alla bell’e meglio; proprio una medicazione da campo di battaglia.

Il pensiero del capitano era quello di dover lasciare i suoi alpini in un momento così delicato; la compagnia rimase in mano ad un altro buon ufficiale il tenente Martino Occhi. Io ebbi ordine di accompagnare lo sfortunato capitano al più vicino ospedaletto da campo, e qui cominciò il calvario. Lo misi su una slitta a pattini, tipo ambulanza, trainata da un mulo e partimmo in cerca di qualche ospedale; dopo 3 o 4 chilometri trovai il primo ospedaletto ma non poterono ricoverarlo perché anche loro stavano sgomberando per ripiegare.

Allora ho proseguito il cammino; si possono immaginare le sofferenze del povero capitano dati i salti che la slitta faceva sulla neve ghiacciata ed irregolare, piangeva silenziosamente ma non si lamentava, credo solo per educazione, però si vedeva che non ne poteva più, oltre il male da combattere vi era anche il freddo, 35-40 gradi sotto zero. Il peggio era quando sulla strada si incrociava un’altra slitta dovendo fare tutte quelle manovre per mettersi da parte, bisogna pensare, che non era un motore da comandare ma bensì un mulo.

Ci siamo rivolti a quattro altri ospedali ma nessuno accoglieva il capitano, sempre a causa del ripiegamento e per i troppi feriti che avevano da trasportare; ci facevano capire che il più fortunato era lui, perché almeno aveva una barella e una slitta. Dopo 30 chilometri e diverse ore di supplizio, non per me ma per il mio povero capitano, siamo arrivati all’ospedale 622 di Podgornoje; era strapieno, ed anche lì non lo volevano, ma di forza lo scaricai, lo portai dentro e lo misi per terra nella nostra stessa barella in un corridoio; non lo guardarono neanche per curiosità, se voleva lamentarsi non poteva perché non aveva nemmeno la forza, l’unico sollievo era, che le gambe fratturate stavano ferme; solo lui saprà cosa avrà sofferto.

Lo spettacolo che vidi in questo ospedale (in muratura), il n. 622 restò molto impresso in me, e credo per sempre. Feriti e congelati a non finire, lamenti e suppliche a chi li salutava per l’ultima volta prima del ripiegamento, mancanza di personale e di materiale sanitario, ed il pensiero di rimanere prigionieri in quelle condizioni a più di quattromila chilometri dalla loro bella Italia. E il trattamento che avrebbero avuto, a contatto con i russi? Evito di rispondere.

Riposai anch’io con il conducente del mulo vicino a lui e la mattina salutai il mio capitano che aveva le lacrime agli occhi, lo baciai e lo abbandonai al suo destino, per ritornare al fronte con la slittaambulanza, l’unica che aveva in dotazione la mia compagnia. Il capitano Givanni venne fatto prigioniero dai russi; sopravvisse come Dio volle, venne rilasciato claudicante qualche anno dopo. Lo rividi a Brescia e per me l’incontro fu molto commovente.

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