ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 51

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Maggiore Dante Belotti
Comandante del Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Premesso, come è risaputo, che il 26 gennaio 1943 segna una delle giornate più sanguinose, ma anche più gloriose per gli alpini, artiglieri, genieri e servizi della Divisione Tridentina, non è difficile comprendere, per chi attraverso una lunga esperienza di comando, ha potuto acquisire una profonda conoscenza dello spirito, dei sentimenti e del forte carattere dei nostri alpini, come essi abbiano potuto continuare una lotta disperata sin dai primi giorni del ripiegamento dalla linea del Don, per quel senso radicato del dovere e del sacrificio che è proprio dei temperamenti forti e generosi dei montanari, usi sin dalla prima giovinezza alle durezze più che alle piacevolezze della vita.

Parlano i fatti: quarantacinque ore di accanita resistenza dell’Edolo, sul Don, contro i reiterati e sanguinosi attacchi dell’avversario deciso ad annientare la nostra difesa per poter, attraverso una breccia nel nostro schieramento, sfruttare il successo con il dilagare dei suoi battaglioni carri alle spalle delle nostre linee.

Ma l’Edolo, fedele al suo motto Dur per dura non cede, non può cedere perché intuisce che sarebbe la fine: l’aver impedito che il nemico si aprisse un varco ha consentito l’ordinato ripiegamento del battaglione e degli altri reparti del reggimento quando venne l’ordine alle ore 17 del 17 gennaio 1943, di abbandonare le nostre posizioni. E poi il fermo ed eroico comportamento nei numerosi combattimenti sostenuti durante tutta la ritirata sino al decisivo attacco e sfondamento di Nikolajewka.

E ancora il giorno dopo, 27 gennaio, quando l’Edolo viene richiesto dal comandante il 6^ Alpini in avanguardia per sbaragliare elementi russi che impedivano il cammino della colonna tenendo la pista sotto il fuoco di due mitragliatrici pesanti e un pezzo anticarro; catturate le prime e ridotto al silenzio il secondo dalla breve, decisa ed audace azione della 51ª Compagnia e della Compagnia Comando dell’Edolo.

Ciò però che mi sembra particolarmente degno di essere messo in giusto rilievo (date le circostanze estremamente gravi e tragiche in cui si è verificato), per dimostrare la forte unione esistente fra comandanti ed alpini e per far risaltare la fortezza d’animo e il senso del dovere di tutti gli “edolini”, è il fatto che il battaglione per accorrere al tragico appuntamento di Nikolajewka (il 26 gennaio l’Edolo era di retroguardia alla divisione) pur
dovendo attraversare la marea di decine di migliaia di sbandati di tutte le nazionalità si è trovato compatto e disciplinato sul luogo del combattimento.

So io quanta energia, forza di volontà è costato anche a me personalmente il fendere quella muraglia umana che non voleva mollare la pista per non essere costretta a fermarsi nella neve alta, sino a quando le sorti della giornata non fossero volte in nostro favore. Fui costretto ad usare i mezzi più energici possibili per riuscire a scavalcare questa marea che non aveva più alcun vincolo disciplinare.

In questo frangente sarebbe stato molto facile a qualcuno ancora efficiente per combattere, intrufolarsi fra gli sbandati (l’esempio di essi, senza più alcuna disciplina, avrebbe potuto attrarli) e sottrarsi così ai combattimenti che certamente ci aspettavano ancora. Ho la certezza che questo non è avvenuto ad eccezione forse di pochi stremati di forze, feriti gravi o congelati; e la conferma l’ho avuta quando, giunto in prossimità del terrapieno della ferrovia ed incontrato il generale Reverberi che mi ragguagliava sulla precaria e grave situazione, ordinai lo spiegamento dei reparti dell’Edolo ancora e come sempre organicamente efficienti, per poter procedere decisamente all’attacco senza esitazioni che avrebbero continuato a favorire il nemico.

Infatti l’Edolo, sebbene provato e logorato dalla lunga ritirata, portatosi a distanza di attacco investe con impeto l’abitato (verso le ore 14,30) con la 51ª Compagnia spiegata a destra, la 50ª a sinistra e la 52ª di rincalzo che rinforza la 51ª per poter meglio colpire l’avversario sul suo fianco. Il valido appoggio di due pezzi del Gruppo Bergamo spintosi audacemente avanti, di un pezzo del Gruppo Valcamonica e delle armi della 110^ Compagnia Armi Accompagnamento, bene ed accortamente piazzate, favorisce l’attacco. Ciò è avvenuto perché frutto di spirito di disciplina, fermezza di carattere ed intenso addestramento, ma soprattutto per quel sentimento di umana comprensione, affetto ed unione esistente fra ufficiali sottufficiali graduati ed alpini.

Quale antico comandante di questo battaglione di ferro e soprattutto quale comandante dell’Edolo a Nikolajewka, sento il sincero dovere d’esprimere a tutti indistintamente, la mia più viva ed affettuosa riconoscenza per quanto hanno fatto e dato, anche nelle più tragiche circostanze, per l’onore della bandiera del reggimento che è la bandiera della patria.

Alpino Andrea Rico Fedriga
50ª Compagnia, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Arrivai in vista di Nikolajewka che il combattimento era già in atto. Non posso dire che ora fosse poiché avevo perso la nozione del tempo, anzi non sapevo nemmeno che giorno fosse; seppi soltanto al mio rientro in Italia che quella famosa battaglia avvenne il 26 gennaio. Da parecchi giorni camminavo con i piedi avvolti in stracci e in quelle condizioni avevo partecipato a quasi tutti i combattimenti della ritirata; dapprima con il mio reparto, poi nel caos, unito a chi il destino mi faceva incontrare. Quel giorno ero completamente disarmato.

Proprio il giorno innanzi un mio compagno, vedendo che non ce la facevo più a camminare, mi tolse il moschetto che portavo a tracolla, mi svuotò le giberne: una bomba a mano e tre caricatori per il ’91 buttò tutto nella neve dicendomi: “Non riesci più a stare in piedi e ancora ti ostini a portarti dietro tutto questo peso inutile. Oltre ai piedi ora hai anche le mani congelate e non riusciresti più nemmeno a reggerlo, il fucile; lascia tutto, qui si tratta di salvare la pelle ad ogni costo”.

Non aveva torto, ma fintanto che avevo un’arma mi sentivo ancora forte abbastanza per potermi difendere, ma così ero solo come una bestia braccata che doveva fuggire, solo fuggire in balia del nemico. Quella notte, come successe altre volte, persi di vista quel mio amico e al mattino mi rimisi in marcia fra sconosciuti, dolorante ed affamato, senza una parola di conforto né di incoraggiamento; solo fra tanti che come me avevano di umano soltanto la forma; non ci parlavamo, non ci guardavamo, ognuno per conto suo, pur cercando di stare vicini e uniti per paura di perdersi in quel gelido deserto di neve.

Quando la colonna si fermò io continuai a camminare, volevo andare avanti il più possibile, andare in cerca del mio reparto o per lo meno di qualcuno che conoscevo, di qualche volto amico. Ad un certo punto si scendeva ed in fondo c’era un terrapieno che attraversava il nostro percorso. Al di là una cittadina, Nikolajewka, ed era occupata dai russi. Sul terrapieno passava una ferrovia. Alla sinistra della colonna c’era un sottopassaggio per il quale si entrava in paese. Il rumore della battaglia giungeva a noi attutito dalla distanza: crepitio di armi automatiche, colpi di mortaio e di pezzi di artiglieria leggeri, scoppi di granate che arrivavano dal paese.

A quella distanza, due chilometri circa, gli uomini sembravano formiche che correvano su di un grande lenzuolo bianco. Dalla base del terrapieno i combattenti cercavano di salire alla sommità, ma si vedeva che erano troppo pochi; per sfondare bisognava che tutta la colonna fosse partita all’attacco, ma nessuno si muoveva. Ad un tratto si sentono avvicinarsi degli aerei, difatti sulla sinistra in alto sbucano quattro o cinque caccia russi che scendono in picchiata su di noi.

Istintivamente mi nascondo sotto la pancia di un mulo. Un soldato tedesco in piedi, facendosi scudo del corpo della bestia, punta il suo mitragliatore contro il primo apparecchio e spara, ma è colpito e si affloscia vicino a me; un fiotto di sangue gli esce dalla bocca e dalle narici. Gli aerei, rombando, uno dopo l’altro quasi ci sfiorano mitragliando, indi puntano verso l’alto e scompaiono. Esco da sotto il mulo e sento una voce che grida: “Avanti l’Edolo, quelli dell’Edolo avanti”.

Quel richiamo mi porta alla realtà, laggiù i miei compagni stanno combattendo, si stanno sacrificando e forse stanno morendo per tutti noi, per procurarci un posto al caldo e salvarci dalla morte certa per assideramento nella gelida notte. Non posso lasciarli soli, devo raggiungerli ad ogni costo, è mio dovere, e nonostante la mia incapacità di agire posso essere utile in qualche cosa.

Mi incammino, ma fatti pochi passi qualcuno mi afferra per un braccio, è il mio amico. Siamo felici di esserci ritrovati. “Dove vai?” mi chiede. “Vieni, andiamo laggiù; non hai sentito? Hanno chiamato quelli dell’Edolo” dico io. “Ma sei diventato matto? Non vedi che macello? Poi, nelle condizioni in cui ti trovi credi di poter giovare ai nostri compagni? Vieni con me, raggiungiamo quel pagliaio, bisogna allontanarsi dalla colonna, quegli aerei di poco fa ritorneranno.”

Avrei voluto protestare ma non me ne lasciò il tempo, tirandomi per il cappotto si diresse verso il pagliaio distante un centinaio di metri. Ci eravamo allontanati di poco dal grosso quando di nuovo sentiamo il rombo degli aerei in picchiata. “Ritornano!” si sente gridare. Il mio amico mi lascia mettendosi a correre, incitandomi a seguirlo. Mi misi a correre, ma era come se qualcuno mi trattenesse; la neve mi arrivava quasi alle ginocchia e nonostante gli sforzi riuscivo ad avanzare di poco avendo poi ai piedi quei fagotti pesanti per l’umidità.

Lui invece era più veloce avendo ancora le scarpe e continuava a distanziarmi. Quando sentiamo che gli apparecchi sono quasi vicini ci buttiamo distesi sulla neve. Giro la testa all’indietro, voglio vedere cosa succede. Come falchi che piombano sui pulcini scendono rombando e sputando fuoco dalle armi di bordo; vedo le fiammate che escono dalle canne delle mitraglie poste ai lati del motore, attorno a noi la neve ribolle; mi sembra quasi di vedere il pilota che sogghigna soddisfatto per la sua superiorità.

Ecco, sono sopra la colonna, la sfiorano a non più di dieci o quindici metri d’altezza. Dal primo esce qualcosa da sotto, sono bombe che cadono diritte in mezzo a quei poveri soldati. Una strage. Il mulo che poco prima mi aveva fatto da scudo lo vedo innalzarsi a pezzi e la stessa fine lo è di tutti gli uomini che in quel punto non avevano pensato ad allontanarsi o buttarsi almeno a terra; e mentre quegli avvoltoi continuano la loro opera di morte si sentono urla di dolore e imprecazioni, mentre brandelli di carne umana e di stoffa
vòlano nell’aria.

Con raccapriccio affondo la faccia nella neve quasi a voler dimenticare quell’orribile visione e per non sentire quelle urla e quei lamenti che mi martellano il cervello. Non vorrei più alzarmi, vorrei sprofondarmi nella neve, nella terra, sparire. Il cuore mi martella forte, i polmoni mi fanno male, sembra stiano per scoppiare, un freddo sudore per tutto il corpo mi manda continui brividi. “Non ce la faccio più, non ce la faccio più” continuo a ripetermi. Ma perché non hanno colpito anche me? Perché non sono ancora morto? Finirla una buona volta con questa vita d’inferno!

Desiderare di morire a vent’anni sembra assurdo, ma chi non ha provato non può capire quello che ci si sente in certi momenti, in certi stati d’animo che fanno dimenticare tutto: niente, non importa più niente, ci si sente svuotati di tutto, rimane solo un forte desiderio di chiudere gli occhi e addormentarsi per sempre. Una voce mi distoglie da questa abulia, una voce insistente sempre più forte e quasi con rabbia mi chiama. Alzo la testa e vedo il mio compagno che sta per venire verso di me. “Sei ferito?” mi domanda; gli faccio segno di
no con il capo, non riesco più a parlare. “Ho visto che non rispondevi, temevo che ti avessero beccato. Ma allora muoviti, vieni presto, vedrai che quei disgraziati ritorneranno ancora e non sempre ci andrà bene se rimaniamo allo scoperto. Ma che ti succede? Stai diventando come una femmina? Coraggio!” Con uno sforzo mi rialzo e avanzo quasi barcollando mentre lui corre.

Una femmina io? No, finché sono stato in forze non ho mai avuto paura, non era il pericolo che mi rendeva così, e nemmeno la scena di poco prima, ormai mi ci ero abituato, da parecchi giorni si vedevano morti e uomini a pezzi dappertutto; ma ora non ne potevo più, ero sfinito, da dieci giorni camminavamo senza tregua, con la neve che ci legava le gambe, la tormenta che ci martoriava, mangiare poco o niente quando ci capitava di trovarne, dormire solo qualche ora di notte se ci lasciavano in pace, pieni di pidocchi che ci molestavano anche in quelle poche ore di riposo, le membra intirizzite da un freddo che variava dai trenta ai quaranta gradi sotto zero. Tutto questo contribuì a portarmi a quella prostrazione.

Il pagliaio è ancora lontano, mi sembra irraggiungibile. Lui, il mio amico, è quasi arrivato ma io avrò ancora una trentina di metri da percorrere. “Giù, bùttati a terra” mi grida mentre si tuffa nella neve. Di nuovo sono lungo e disteso mentre gli apparecchi nemici ci stanno ancora mitragliando, sembra si divertano a giocare con la nostra vita. Il destino vuole che mi trovi sempre nel mezzo delle loro pallottole, difatti vedo la neve che a spruzzi si alza ai miei fianchi.

Riprendono quota. Ancora una volta sono incolume. Con un ultimo sforzo giungo al riparo. Ma fu una corsa inutile, gli aerei se ne vanno e non ritornano più. Con noi ci sono tanti altri soldati di tutte le nazionalità: tedeschi, ungheresi, romeni e come noi sono tutti malandati, infagottati in stracci e coperte, incapaci di ogni reazione, inebetiti dal dolore, dalla fame e dal gelo. Tutti guardiamo verso il paese con la speranza che quel gruppo di eroi riesca ad aprirci il varco. Molti sono piazzati sulla ferrovia e fanno un fuoco accelerato con tutte le armi disponibili, altri salgono per la scarpata per raggiungere i primi, ma il continuo martellamento dei mortai nemici rallenta l’avanzata facendo dei vuoti tra i nostri.

Ma ecco che due carri armati tedeschi arrivano in aiuto, salgono il terrapieno, su di uno mi sembra di vedere un uomo che muove le braccia (più tardi saprò che era il nostro comandante di divisione, il generale Reverberi). La vista dei mezzi corazzati e l’esempio di quell’uomo sembra diano nuovo coraggio e decisione. Si sente un urlo che sembra il segnale atteso; tutti balzano in piedi e partono all’attacco. In quel momento non sento più né stanchezza, né fame, né dolori; non penso a coloro che cadono, non penso a quelli che avanzano vittoriosi, penso alla gioia che fino a pochi giorni prima provavo ogni volta che entrando combattendo in un paese vedevo il nemico volgere in fuga, battuto.

Sento dentro di me un senso di colpa per non esser stato vicino ai miei amici nella lotta, una nostalgia per non poter partecipare alla loro soddisfazione di entrare in paese, vincitore come loro. Oggi penso che erano delle soddisfazioni puerili, ma a quell’età era un
orgoglio che ci invadeva tutti. L’intensità della battaglia diminuisce a poco a poco. La colonna comincia a muoversi. L’entrata in paese è libera. Torniamo sui nostri passi per raggiungere il grosso e sbandati fra gli sbandati scendiamo verso Nikolajewka.

Prima di arrivare al sottopassaggio, man mano che si avanzava, si vedevano gli effetti del furioso combattimento, un’orribile carneficina. Ovunque morti e feriti, gemiti di agonizzanti, urla di dolore, richiami di chi sperava nell’aiuto dei compagni. Era buio, quasi notte. Un continuo andirivieni di slitte che facevano la spola da lì al paese e l’accorrere di portaferiti con le barelle che cercavano di fare tutto il possibile per portare aiuto un po’ ovunque; chiazze di sangue dappertutto. Ma non bisognava fermarsi, e anche se si avesse voluto non si poteva perché si veniva sospinti da tanti altri. Bisognava essere come sordi e ciechi e pensare a se stessi, continuare a camminare per raggiungere un posto che ci offrisse un po’”di caldo e qualcosa da mettere sotto i denti.

Entrammo in una delle prime case disponibili e dopo aver mangiato quel poco che potemmo trovare (patate cotte e polenta di farina di frumento trovata chissà dove) ci sdraiammo per terra e ci addormentammo. Quella notte fu tranquilla, almeno per noi; può darsi che ci sia stata qualche sorpresa in qualche altro luogo; gruppi di partigiani venivano sempre in piena notte a darci fastidio.

Al mattino seguente, quando uscimmo dall’isba, la colonna era già in cammino e iniziammo un nuovo giorno di marcia. Mentre si attraversava il paese constatammo che non solo noi avevamo avuto grosse perdite, ma i russi forse ci superavano. I morti non si contavano, tutte le vie ne erano piene. A testa bassa, strascicando i piedi come vecchi cadenti ci incamminammo verso una meta che per qualcuno si chiamava Italia, ma per molti ancora purtroppo fu la steppa russa.

Alpino Giacomo Federici
50ª Compagnia, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Appena risolta quella situazione precaria di quel passaggio che ho lasciato alle spalle, che è stato molto cruento e dove ho perduto molti compagni, o perlomeno non ho saputo la loro fine (un Bassi, un Nodari, un Scalvinoni ed altri). E così ci incamminammo verso Nikolajewka, a prima vista pareva che fosse una meta. A un certo punto sopra un traino vediamo la figura del generale Reverberi che incitava di essere pronti, passando per il sottopassaggio in isba in isba per schierarsi. Pure con noi c’era il leggendario Gruppo Bergamo con i suoi pezzi.

Prima di imbrunirsi la sera del 26 gennaio, i russi cominciavano i loro tiri sicuri in quella marea di uomini di qua e di là del nodo ferroviario. Ricordo l’incitamento del generale Martinat (che cadde) e il famoso grido del generale Reverberi fra lamenti non quasi sentiti. Dopo di che, l’avverarsi della via d’uscita. Questa era la sera del 26 gennaio ’43. E intanto, d’altra parte, ormai si stava scivolando lungo una china dell’intervento voluto da un Mussolini terrorizzato dall’idea di arrivare troppo tardi a spartirsi il bottino, facendo il contrario di tutti i sistemi. Così il giorno fatale si avvicinava per i poveri italiani. Gli ufficiali che posso ricordare: tenente Gariboldi che aveva una scarpa e uno stivale di feltro; tenente Cosana, questo ferito; capitano Pasini.

Tenente Nico Frugoni Battaglione Edolo, aggregato in ritirata alla Compagnia
Comando del 5′ Reggimento Alpini

Avete mai sentito dare del fesso ad un ferito? Mi è capitato a Nikolajewka nel pomeriggio di quel 26 gennaio, nella fase conclusiva della presa della città. Alla ferrovia c’ero arrivato sano e salvo con buona parte dei miei alpini, dopo aver corso lungo tutto il pendio di quella dannata balka, senza purtroppo poter dare il benché minimo aiuto ai molti che incontravo a terra lungo il mio percorso o a quelli che mi cadevano a fianco. E per riprendere fiato mi ero appiattito, coi miei pochi rimasti in piedi, contro il terrapieno della ferrovia, che rappresentava un ottimo riparo.

Qualche momento di sosta per decidere quale centro di resistenza attaccare e poi fuori di scatto, insieme, oltre il terrapieno verso la direzione prestabilita fra lo scrosciare infernale di colpi di ogni calibro. In corsa, un pugno secco al torace mi fa stramazzare a terra… Ricordo di essermi ripreso al tiepido di un’isba stipata di alpini, mezzo accovacciato sulla rete metallica di un vecchio letto arrugginito. Era venuta la calma, interrotta dal lamento dei feriti e di tanto in tanto dallo sgranocchiare di qualche automatica. Rivedo nella stanza i volti amici degli ufficiali del comando di reggimento: ricordo il colonnello Lantieri, il capitano Novello, i colleghi Pasini, Calderari, Gariboldi, Bartoccini, Farioli.

Qualcuno, in attesa del tenente medico mandato a cercare, visto dalla camicia aperta un brutto foro sanguinante in pieno petto, mormora: “Povero Nico, non c’è più niente da fare!”. Madonna santa, le sento anch’io quelle parole…: è mai possibile sia la fine? Eppure non provo gran dolore; sono stordito sì, ma non mi sembra di essere più di là che di qua! Come mi ritorna ora ben chiara alla mente la volontà di restare in vita in quel momento, per uscire a tutti i costi dalla sacca, il ricordo della nostra terra, della famiglia…

Ma ecco il medico (perdonami, dottore, se non ricordo più il tuo nome: sono passati quasi 30 anni! e se ti capitasse di leggere queste righe, scrivimi, ti prego). Anche lui conferma ai presenti la diagnosi precedente e decide per una fasciatura attorno al torace. Farioli si da da fare per togliermi gli indumenti, quando all’improvviso prorompe in pretto emiliano in una violenta esclamazione, allungandomi una potente manata di soddisfazione sulla spalla: “Boia d” n mund leder, pezzo di cretino, non vedi che non hai niente?”. Che cos’era successo? Aveva scoperto un altro foro non lontano, il foro provvidenziale di uscita di quella intelligente pallottola russa.

Caro e buon Farioli, quella tua scoperta, quel tuo colpo, quel tuo epiteto mi hanno ridata la vita e con essa la certezza di poter proseguire verso la libertà, che ho potuto raggiungere camminando coi denti stretti per altri tre giorni, appoggiato al generoso braccio dell’indimenticabile amico Aldo Germiniasi.

Alpino Luigi Pezzutti
50ª Compagnia Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Ricordo benissimo il giorno 26 gennaio che ho vissuto a Nikolajewka. Erano le 3 pomeridiane, io portavo ancora il fucile e giberne con bombe a mano. I comandanti schierarono le compagnie e cominciammo a combattere, camminando per circa due chilometri. Arrivammo poi fra case di legno, su strade coperte di neve ghiacciata. Non osavamo entrare nelle case per paura che ci fosse il nemico e che ci facessero prigionieri. Rompevamo vetri, c’era chi gridava per far uscire la gente che era in casa, ma non si vedeva nessuno.

In quel momento giunse l’ordine di ritirarci. C’erano quasi 30°di freddo, ma dovevamo camminare ugualmente. A un certo punto spuntarono delle auto blindate russe, correvamo per non restare in coda e per non correre il rischio di essere fatti prigionieri. Subito poi ci schierammo, e piazzati i cannoni, cominciammo a sparare per fermarli. Furono fatti prigionieri, v’erano dei morti e dei feriti della nostra compagnia. Dopo quella battaglia difensiva, ci riunimmo e ricominciammo la marcia per il ritorno. Il freddo era forte, ma fortunatamente quel giorno avevo mangiato sufficientemente, cosa che capitava di rado.

Erano quasi le 20, eravamo arrivati in paese di Nikolajewka; si vedevano case che bruciavano. Io non ne potevo più, un po’ per il freddo e per la stanchezza. Mentre gli altri continuavano il cammino, cercai un posto per dormire; lo trovai in una stanza di una casa di legno. In quel ricovero con me, unico italiano, 5 tedeschi, 2 romeni, 3 ungheresi. Mi tolsi gli scarponi per potermi adagiare su una panca, ma in quel preciso momento delle cannonate vennero verso quel rifugio, fortunatamente finirono in una casetta vicino.

Subito mi rialzai, senza curarmi di allacciare gli scarponi, poiché sapevo benissimo che appena sarei uscito al freddo, questi si sarebbero gelati, e non avrei potuto perderli. Mi misi a correre, sbucavano soldati da altre case, correvo senza sapere dove andavo, e così fino alle due del mattino seguente; arrivai in un altro paesino e lì ritrovai tutti i miei compagni. Della mia squadra eravamo restati in nove, dopo la battaglia, tre erano stati feriti e due i morti.

Trovammo un fienile dove poterci riposare, ma dopo una mezz’oretta che ci eravamo coricati alla meglio, un ufficiale ci avvisò che se non ci fossimo alzati e allontanati dal paese, ci avrebbero fatti prigionieri. Non c’era tempo da perdere! Non sapevamo più da che parte andare, c’era un subbuglio enorme, cannonate arrivavano ovunque, non si capiva più niente. Lì ci trovammo radunati ancora tutti, in un’ampia pianura, vi erano molte migliaia di alpini italiani, tedeschi e pochi romeni. Improvvisamente un carro armato russo spuntò, si sentiva un lontano rumore, ma non si vedeva ancora nulla, poiché erano solo le 3,30 del mattino.

Questo carro armato arrivò improvvisamente, non sparava, ma schiacciava soldati, cavalli e muli, tutto insomma ciò che trovava davanti; si muoveva a forma di S lasciando dietro di sé un’orrenda strage. Cercai di mettermi in salvo su una scarpata di una strada adiacente la pianura. Vidi però il carro armato avvicinarsi, tentava di arrampicarsi su per la scarpata, ove io e pochi soldati eravamo accovacciati. Gli alpini che erano con me si erano allontanati, io invece, rimasto solo, mi feci d’animo e lanciai due bombe a mano sul carro armato russo. Questi si fermò per qualche minuto, forse per le bombe che gli lanciai, o per altro motivo, poi indietreggiò e ricominciò a fare stragi nella pianura.

Cominciava a venir chiaro, ero solo con il mio caporale, non sapevamo più che fare, dove andare! Stanchi, impauriti, insonnoliti ed anche affamati, camminavamo in pianura in mezzo alla neve ed al freddo. Ogni tanto ritrovavamo altri soldati, bisognava sempre camminare, e camminare ancora per la neve delle pianure russe! Non capivo più niente, ero in uno stato di alterazione psichica, avevo sempre con me il fucile e delle bombe a mano nelle giberne. Avevo paura di restar prigioniero dei russi.

Il mio caporale ci faceva coraggio, ci incitava ancora a marciare. Erano le 16-17 circa del 27 gennaio e ci rifugiammo al caldo in una casa di una famiglia russa. C’erano delle donne, alcune anziane, e anch’esse avevano figli e mariti in guerra; lì mangiammo quel poco che avevamo potuto portare in un tascapane. Riprendemmo il cammino, e continuammo tutti insieme la ritirata.

Tenente Ugo Pini
50ªCompagnia, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Una massa compatta ed informe di uomini, di slitte, di carriaggi, causò spesso rallentamenti nello sfilamento e nei movimenti dei reparti ancora organici e, peggio ancora, divise i reparti, riducendone la forza d’impeto nei momenti in cui tale forza si faceva necessaria ed indispensabile. Così avvenne per l’Edolo; ricordo la marcia faticosa degli uomini di Belotti, per aprirsi la strada; così fu per il Morbegno che subì la distruzione a Warwarowka.

Con il mio reparto salmerie del’Edolo subii quasi ugual sorte. Le salmerie vennero suddivise, i contatti saltarono, e fu il caos indescrivibile. Uscivamo dalla battaglia di Scheljakino, quando la nostra marcia venne rallentata ed interrotta da una fiumana di uomini urlanti. Ad un bivio un troncone del reparto prese sulla sinistra verso Warwarowka, l’altra invece, intuito l’errore, venne da me indirizzata sulla destra. Tra le slitte ricordo quella del comando di battaglione con l’alpino Caminada, quella sulla quale giaceva il tenente Gei ferito a morte.

Nella speranza di ristabilire i contatti e di riprendere l’esatta direzione mi trovai sui passi del Morbegno che si ritirava per riorganizzarsi. Al bivio incontrai la 8^Compagnia A. A. di Sebregondi. La scena che mi si presentava non era nuova; una landa buia solcata da nugoli
di lucciole micidiali, le traccianti, mentre uomini si riunivano attorno al comandante. Ordini secchi, apostrofi, voce conosciuta ed amica. Era il maggiore Romualdo Sarti, comandante del Morbegno, già capitano della 50ªCompagnia dell’Edolo. Dagli ordini, dalle imprecazioni e dal suo apostrofare mi rendo conto della situazione di crisi in cui si trova.

Scatto sull’attenti, nel saluto impeccabile di un tempo, ma guardandolo negli occhi capisco perché è così preoccupato: Warwarowka. “Pini, mi disse, buona fortuna” parole agghiaccianti che mi fanno prevedere la sua prossima fine. A Sarti mi sentivo legato d’affetto, l’ammiravo e lo veneravo. Ritenevo di conoscere profondamente la sua persona. Carattere strano, a volte scorbutico e ombroso, a volte umano, spavaldo, ardito ed orgoglioso.

Aitante nella persona; di portamento signorile, fermo il passo, parlare incisivo, frasi tronche, quasi scultoree; amava il suo soldato e da lui era amato tanto da dimostrare una reciproca dedizione. Warwarowka fu la tomba del Morbegno, che vi profuse l’impegno, l’abnegazione, l’ardimento impedendo l’attacco al fianco della colonna principale. A voi “Nappine Bianche” vada il nostro vivo riconoscimento. Ci avete permesso di ritornare a casa.

Alpino Samuele Vielmi
50ªCompagnia, Battaglione Edolo, Reggimento Alpini

Da due giorni mi trovavo a Nikolajewka perché rimasto prigioniero dei russi dopo l’attacco dei carri armati sul famoso ponte che io non ricordo più il nome e la località dopo il massiccio intervento dei carri armati che ha fatto strage su di noi. Siamo stati dispersi dal grosso della colonna mentre abbiamo recuperato alcune slitte per caricare dei feriti, almeno i più pietosi, dopo le lunghe e drammatiche ore di dolore e di sangue, e morti in tutte le condizioni, con le nostre slitte con i cari fratelli che continui strappi del cuore infliggevano anche se della vita non si contava più niente.

Incominciava ad imbrunire quando ci siamo trovati di fronte al fosso anticarro, e di lì non si passa. Dopo un baleno di ogni pensiero, abbiamo deciso di tentar di passare, messe insieme le coperte abbiamo cominciato a calarci nel fondo del grande fosso alto due metri e largo quattro, tutto in cemento lisciato. Calati nel fondo bisogna tentare di salire dalla parte di là, perché si sentono ancora troppo vicine le cannonate ed era già notte ormai. Per i feriti non c’era nessuna probabilità di portarli via, loro hanno capito tutto, e visto come si presentava la loro sorte ci imploravano per nome: “Non avrete il coraggio di lasciarci qui vivi, uccideteci per carità. Fatelo!”. Lascio a voi il giudizio di questi momenti, sento ancora nelle orecchie: “Vielmi! uccidimi”.

Con alla testa un colonnello tedesco si è formata una piccola colonna e per tutta la notte nella gelida steppa interrotti da gruppi di partigiani abbiamo viaggiato con temperatura 38-40 sotto zero. Arriviamo ad avvistare qualche casa. Credevamo di essere in buone acque, sennonché abbiamo sentito gridare “mani in alto”. Erano i russi. Ci hanno disarmato, e lì piantonati abbiamo atteso il plotone con la baionetta in canna di minuto in minuto; ma invece via, e dopo due giorni siamo arrivati a Nikolajewka pensate in quali condizioni.

Rinchiusi in un edificio, ammassati stretti da non poter nemmeno sederci, e senza né mangiare né bere, anche il morale degli alpini stava per calare. Arriva l’alba del secondo giorno e si comincia a sentire colpi: arriva la colonna, martiri come noi, e han dovuto incominciare, senza armi o pochissime, a combattere per tutto il giorno. Con alla testa il suo padre, generale Reverberi, e col nome di tutti i morti, i superstiti degni alpini hanno finito anche qui i russi, e liberato la via del rimpatrio. In parte a noi c’era un cannone russo e a tutti i colpi che sparava faceva lo strazio per le vittime che faceva nella colonna, che pur con tutte le sue perdite avanzava, vedevamo che scendeva passo per passo a poco a poco.

Dove eravamo noi rinchiusi anche le soffitte erano crollate. Arrivata la sera, tutti improvvisamente ci accorgemmo che non c’erano più le sentinelle e allora fuori a gran corsa, nella strada per primi arriva la mia compagnia con alla testa il sottotenente Martino Poli di Niardo, era toccato a lui il comando della compagnia perché non c’erano più altri ufficiali. Abbiamo riposato un po’ lì asserragliati nelle case, ed al mattino incominciava di nuovo la marcia, piedi e mani congelati, e per scarpe un pezzo di coperta.

Alpino Amadio Colombi
52ªCompagnia, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Col mio battaglione, l’Edolo, ho passato la notte del 25-26 gennaio 1943 a Nikitowka, eravamo pigiati almeno in un centinaio in una piccola isba, ogni tanto a turno usciva qualcuno per tener d’occhio i muli ed i conducenti che più o meno li sorvegliavano; c’erano troppi sbandati che cercavano di prenderli sia per montarci sopra avendo magari i piedi un po’”congelati, sia anche per farli fuori e farne bistecche. Di notte abbiam sentito dare l’allarmi al Battaglione Tiràno che è partito in rinforzo, più avanti, della 33ªBatteria che era stata attaccata la sera prima da battaglioni russi.

Si è dormito poco quella notte; verso le 6 del mattino il battaglione si trovava già in marcia per Nikolajewka. Più avanti, dopo un’ora di cammino abbiamo piegato a destra lasciando da parte Arnautowo dove avremmo poi saputo si era combattuto tutta la notte per impedire che i russi tagliassero la strada alla colonna; il Tiràno era stato distrutto, adesso sarebbe toccato a noi…

Siamo in vista di Nikolajewka verso le 13, subito accolti da raffiche di mitra. La città si presentava molto ampia; giù in fondo a un pianoro che andava declinando fino a un terrapieno che la proteggeva e che vedremo poi trattarsi di una strada ferrata. Il maggiore Belotti, nostro comandante, decise subito di portare il battaglione a ridosso dello schieramento russo che si delineava dietro la ferrovia; mi chiamò il paesano capitano Bertocchi, si formarono varie squadre che avanzarono in ordine sparso sparando sui centri di fuoco nemici; l’avanzata fu lenta, i russi non scherzavano, erano armati meglio e più di noi, i loro mortai aprivano paurosi vuoti nelle nostre file.

Invidiai il loro equipaggiamento: fucile a cannocchiale, parabellum (un tipo di mitragliatore non tanto preciso, ma pratico e che non si inceppava mai per il gelo, cosa che
invece capitava con il nostro mitra anche se molto più accurato nel tiro), bombe a mano e poi stivali di feltro di lana (“valenki”), pantaloni di feltro grossi come di cuoio, giaccone di pelliccia fino al ginocchio, cappuccio di pelliccia e guantoni.

Per due ore almeno durò l’avvicinamento alla ferrovia, un’eternità a tu per tu con la morte, con i feriti che ti cadevano vicino ed ai quali non potevi fare nulla anche se urlavano, se piangevano; ti chiamavano invocando Dio e la mamma, per carità non abbandonateci… Occorreva andare avanti, era già tardi; bisognava entrare in città prima di notte altrimenti sarebbe stata la fine per tutti. Così incitavano gli ufficiali, così voleva il maggiore Belotti presente dappertutto a far coraggio a tutti. Eravamo carichi di bombe a mano, le OTO nostre e tedesche, il mitra Fiat, la carabina.

Gli scarponcelli ci avevano fiaccato i piedi, piaghe e gelo ci accompagnavano, ogni passo era un dolore. Così a sbalzi arrivammo fino a 20 metri circa dal terrapieno della ferrovia e ci fermammo. I russi si erano ritirati tutti al di là; sarebbe stato affar duro lo scavalcarlo. Con la mia squadra ci riparammo un po’”dietro a un muretto diroccato e di lì lanciammo bombe a mano oltre il terrapieno della ferrovia; ma poi un colpo aggiustato di mortaio fece volare per aria il riparo e ci trovammo completamente scoperti.

Intanto dietro di noi il pendio si animava di alpini di tutti i reparti ancora efficienti anche di soldati senza reparto che si aggregavano volontari a dare un loro contributo, consci di giocare l’ultima carta. Su in cima si schierarono dei pezzi, quelli del Gruppo Valcamonica: la 29ª Batteria del capitano Moizo, la 28ªe la 30ª Assieme anche la 32ªdel Gruppo Bergamo (capitano Gallarotti) e la 33ªo meglio quello che rimase di essa. L’artiglieria apri il fuoco e batté la ferrovia e oltre; questo ci rincuorò, mitraglie russe appostate lungo le rotaie sparavano rabbiosamente; ce n’erano anche sotto un ponticello sopra il quale passava la ferrovia; fu poi un pezzo della 33ªBatteria a centrare il ponticello e la mitraglia che lo bloccava.

Il maggiore Belotti ordinò l’assalto al terrapieno: “Coraggio ragazzi, avanti a qualunque costo!”. L’Edolo si mosse, le squadre si buttarono sulla ferrovia e oltre. Fu il momento più terribile perché molti vennero falciati appena superato il ridosso; quanti compagni lasciammo lì su quella tragica ferrovia? Dietro arrivava tutta la massa della Tridentina; era un inferno. Ufficiali e graduati che urlavano ordini; vociare di soldati, di feriti, spari nostri e russi in una bolgia, sembrava di non capirci più niente.

Io mi buttai dopo aver fatto un segno di croce e di aver pensato un attimo al mio paese lontano. Fui fortunato, riuscii a scavalcare il terrapieno incolume, mi buttai giù a rotoloni e finii in una siepe; mi rialzai, sparai col mitra all’impazzata; dalle finestre di alcune case vicine altri russi ci tirarono addosso, mi portai sotto con altri, combattendo casa per casa; arrivavano altri alpini; sfondai una porta e salii su, a far tacere un cecchino, ritornai in strada, tutti sparavano… i russi che si ritiravano e gli alpini che avanzavano.

Per noi era questione di vita o di morte, per loro era un’azione come un’altra, contro nemici da far fuori perché così voleva in quel momento la guerra. Verso le nove di sera la città fu ripulita; i russi si erano ritirati sulla destra. Speravamo che non tornassero più e ci lasciassero finalmente tornare alle nostre case. Mi trovai con alcuni dell’Edolo e… con alcune galline scovate in qualche cortile. Le sbranammo mezze crude, senza sale, arrostite alla bene meglio su un fuoco; le penne si attaccavano ai peli della barba e dei baffi; sembravamo dei mostri o dei fantasmi colle facce magre, sporche, stanche… Finalmente si
dormiva a pancia piena!

Al mattino si ripartì prima che tornassero i russi; si “pistò” tutto il giorno; il giorno dopo, improvviso, ci fu un altro attacco russo, l’Edolo lo respinse deciso; purtroppo sarebbero tornati ad attaccare la coda della colonna, rinforzati da mezzi corazzati e motorizzati, infliggendo pesanti perdite.

Sergente maggiore Gregorio Baffelli
52ª Compagnia, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Il 26 gennaio ’43, mentre, lasciate le isbe alla periferia di Nikitowka ci incamminavamo per l’adunata, fummo fatti segno ad un micidiale fuoco di parabellum proveniente dalle stesse isbe appena abbandonate. I partigiani avevano pernottato nell’intercapedine esistente tra il pavimento in legno e il terreno, uscendo dal nascondiglio subito dopo la nostra partenza.
Raggiunto il posto stabilito per l’adunanza senza nessun ferito, ricevetti l’ordine di rimanere in retroguardia al battaglione (già retroguardia del reggimento); con una certa soddisfazione, accendemmo il fuoco per far bollire una gallina, mentre gli altri reparti del battaglione iniziavano la marcia.

La gallina non era ancora cotta che già le truppe regolari russe, unitamente ai partigiani, incominciarono ad avanzare e fummo costretti, dopo breve resistenza, ad abbandonare il villaggio prima del tempo stabilito. Attraversammo di corsa un ponticello, ma subito venimmo intrappolati in un fuoco incrociato; gli sfortunati che ancora si trovavano al di là del ponte, dovettero, per essere coperti, attraversare a guado il torrente gelido.

Dopo aver marciato fra decine di cadaveri caduti in occasione della resistenza trovata durante la notte dai reparti già avanzati, ci ricollegammo al battaglione sull’altipiano che sovrasta Nikolajewka, proprio nell’istante in cui due aerei russi mitragliavano la marea di soldati in attesa. Per spirito di conservazione mi buttai sotto la pancia di un mulo e uscii quando sentii gridare: “Avanti Edolo”.

Impossibile descrivere come feci a percorrere, in lieve discesa, il tratto che ci separava dalla ferrovia. Ricordo di aver visto volare per aria soldati a pezzi, poiché nell’abitato di Nikolajewka le artiglierie russe sparavano a zero. Dopo aver oltrepassato la ferrovia all’inizio della città, a fine combattimento mi imbattei a faccia a faccia con il maggiore Belotti, il quale mi chiese perché mi trovassi lì, mentre stando agli ordini, avrei dovuto essere ancora in marcia da Nikitowka.

Cercai di giustificarmi, ma mi rispose che ne avremmo riparlato e mi ordinò di presentarmi al generale Reverberi che, sebbene fosse a pochi passi da noi, non avevo riconosciuto perché di spalle. Tremando perché temevo di essere rimproverato, mi accostai al generale dicendo: “Comandi Eccellenza”. “Vorrei dell’acqua; ho una sete da morire” mi disse; tranquillizzatomi gli risposi che sarei andato in cerca di pozzi, ma feci notare il pericolo d’inquinamento e aggiunsi che avrei cercato del latte.

Mi presi come scorta due alpini e fatti duecento metri, vista una capretta, incominciai a mungerla meravigliandomi di essere riuscito ad ottenere mezza gavetta di latte senza far morire la bestiola. Mentre consegnavo il latte al maggiore Belotti affinché lo passasse al generale, mi venne assegnata una isba alla periferia a monte della città. Nel cammino sentimmo un buon profumo di pane; andammo nella direzione dalla quale proveniva l’odore e trovammo delle belle pagnotte ancora calde. L’isba assegnataci era già occupata; facemmo insistenti tentativi per entrare. Sfondammo allora la porta e, cacciati gli invasori (sbandati ma non italiani) mangiammo il pane con il miele trovato in un vaso nascosto sotto l’isba.

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