ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 49

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Tenente Arturo Vita
46ª Compagnia, Battaglione Tiràno, 5^ Reggimento Alpini

Chi ha avuto la ventura di partecipare (e di fare poi ritorno a casa) all’epica battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio 1943, difficilmente potrà scordare quell’immensa piana, limitata su due lati dalle basse colline su cui sorgeva l’abitato di questa importante via di comunicazione; il suo viadotto ferroviario con il famoso sottopassaggio, attraverso il quale irruppero i primi animosi; lo sbarramento di fuoco delle armi automatiche appostate dietro le due vaste isbe rosse, che con il loro tiro incrociato bloccavano chiunque avanzasse dal terrapieno della ferrovia; ed infine ancora i mitragliamenti russi contro la massa dei soldati, il morso del gelo, l’ansia e la disperazione che gravavano nel cuore di tutti noi.

Ma era soprattutto il freddo a congelare il nostro spirito in quella grigia giornata, iniziata, per noi del Tiràno, con lo sfondamento alla selletta di Arnautowo, nella stessa mattinata, delle prime resistenze nemiche; fu un’azione impetuosa e prepotente, che costò il quasi totale smembramento del battaglione. Ben sei le medaglie d’oro concesse agli eroi del Tiràno; ma la via fu così aperta alla colonna in fremente attesa.

Era il freddo che penetrava nelle ossa, protette a malapena dagli insufficienti cappotti col finto pelo e dalle malfatte scarpe del regio esercito, era il gelo che paralizzava la mente di chi aveva dovuto combattere da 9 giorni senza possibilità di riposo, di vitto e di caldo; erano i quaranta sotto zero che ti agghiacciavano l’intelletto, per cui desideravi solo stenderti sulla neve, sederti ai bordi della pista, abbandonare la colonna, per immergerti felice nel tepore di un sonno ristoratore che ben presto si sarebbe tramutato in morte sicura ed immediata…

E così li lasciammo, i nostri alpini, lungo la gelida steppa, appoggiati ai muri delle isbe, seduti o sdraiati sulla neve, in attesa di un soffio caldo che non riuscivano più a ricevere da nulla e da nessuno; li lasciammo addormentati nel sonno eterno, mentre la neve scendeva fitta e ben presto li avrebbe ricoperti col suo candido manto di pietà infinita.

Ed ora di fronte a noi si ergeva Nikolajewka, baluardo che sembrava imprendibile: la massa attendeva immota, mentre le prime ombre della sera acuivano ancor più l’incubo di quelle ore di ansia e di incertezza, per cui un’altra notte all’addiaccio, in quelle condizioni di spirito e di ambiente, avrebbe certamente significato la morte certa per assideramento! E venne improvviso un urlo a rompere quell’atmosfera, un urlo lanciato da uomini come noi ma più coraggiosi, che si erano avventati contro le difese nemiche al sèguito del generale Reverberi, il quale, in piedi sulla torretta dell’unico carro armato tedesco ancora efficiente, urlava “Avanti Tridentina – Avanti – Di là c’è l’Italia…”.

E la massa si mosse, dapprima lentamente e poi sempre più veloce, rincuorandosi a vicenda, col volto atteggiato ad un mesto sorriso, il cuore aperto ad un nuovo alito di speranza… “Avanti, avanti…” si udiva gridare da più parti, “Forza ragazzi… avanti alpini!..” e gli uomini intorpiditi, stanchi, affamati, congelati, feriti, si buttarono, nel gelo del tramonto, contro le mitragliatrici russe asserragliate nel loro abitato.

Ed anche noi entrammo a Nikolajewka, dopo aver perso ancora tanti dei nostri alpini, primo fra tutti il tenente Piatti, che con gli uomini ancora validi della sua 48ª Compagnia, non aveva esitato a buttarsi attraverso il tragico sottopassaggio della ferrovia. E fu la settima medaglia d’oro del Tiràno quel giorno: le altre sei corrispondono ai nomi di Grandi, Briolini, Slataper, Nicola, Perego e Soncelli.

La sera stessa riuscimmo a sistemare in un’isba, a protezione delle morse del gelo, oltre 28 alpini del nostro battaglione: il medico li curò e li medicò… ma un cerino inavvertitamente lasciato cadere sulla paglia provocò l’immane tragedia! Perirono tutti quanti in un tragico rogo, fatale destino per loro, mentre le fiamme dell’isba maledetta illuminavano sinistramente Nikolajewka immersa nel silenzio della notte.

Il mattino successivo si riprese il cammino in direzione degli avamposti ungheresi ed ogni tanto volgevamo il capo alla coda della colonna, lungo serpente nero snodantesi sull’immacolata pista…: alcune isbe di Nikolajewka ardevano ancora, qualche sporadico colpo di fucile rintronava nel gelo e spaccava il silenzio di una grigia alba: la libertà per noi era oramai vicina.

Maggiore Franco Maccagno
Comandante del Battaglione Tiràno, 5^ Reggimento Alpini

Partiti da Nikitowka, all’alba, mandai in ricognizione un tenente, il quale mi riferì subito dopo che i russi stavano attaccando sul fianco sinistro. Rammento di aver disposto sulla selletta di Arnautowo una compagnia sulla sinistra (la 49ªcomandata dal capitano Briolini), al centro la 46ªcomandata dal capitano Grandi, in attesa che la 48ª comandata dal tenente Piatti, giungesse sul posto, essendo stata mandata in rinforzo al comando di divisione a Nikitowka.

Ricordo che il sottotenente Giuliano Slataper, medaglia d’oro, mi chiese il permesso di partecipare con i suoi alpini (era alla compagnia comando) alla lotta contro i russi, i quali si avvicinavano sempre di più sulla sinistra. Poco dopo cadeva colpito a morte, nel tentativo di trattenere il nemico. Ricordo che nel frattempo era stato ferito alla schiena il capitano Bonomi, ingegnere, che comandava la compagnia cannoni.

Una delle tante granate, scoppiate nelle immediate vicinanze, aveva tentato di colpire il sottoscritto; un alpino mi chiese se ero ferito, ma risposi che non mi era capitato nulla, all’infuori di una sbrecciata al mio pastrano con un foro nella giacca a vento che portavo sotto, all’altezza dell’ascella destra. Un alpino, con un braccio completamente, o quasi, staccato dal busto, fu ricoverato su di una slitta e non so che fine abbia fatto.

Il tenente Del Curto, intanto, era stato ferito anche lui, al collo; mi chinai su di lui; vidi che la ferita, se pur grave, non interessava la gola; per persuaderlo, gli diedi un pezzetto di galletta dicendogli: “Se non fuoriesce dal foro, vuol dire che la gola non è intaccata…”. Il tenente Del Curto poté inghiottire il pezzetto di galletta, così tutto andò bene; egli fu poi caricato su di una slitta e posto in salvo. Sulla selletta, un artigliere di montagna, accovacciato sul suo cannone, era morto; un proietto entratogli nel petto era fuoruscito dalla schiena, formando come un fiore con la lana del cappotto trapassato.

Intanto cadevano il capitano Briolini, medaglia d’oro; il tenente Soncelli, medaglia d’oro; il capitano Grandi, medaglia d’oro; il tenente Nicola, medaglia d’oro; il tenente Perego, medaglia d’oro ed altri. Davanti a Nikolajewka il valoroso comandante del 5^ Alpini, colonnello Adami, mi diede ordine di scendere sulla sinistra con i resti del battaglione. Moriva nella mischia il tenente Piatti (medaglia d’oro), mentre il tenente Alessandria, mi pare che se la sia cavata con una ferita. Seppi che con le salmerie era caduto anche il tenente Astolfi.

Mi rifaccio alla relazione fatta dal capitano Stucchi, firmata dal colonnello Adami, comandante del 5^ Alpini, nella quale è detto che la difficile prova avrebbe potuto compromettere la salvezza di tutta la colonna, se non fosse riuscita. Ricordo il tenente Monti, caduto a Skororib, forse il primo ufficiale del Tiràno morto durante il ripiegamento, e il tenente Ripamonti. E tanti altri…

Alpino Giulio Gianoli
Reparto Comando 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Sentimmo impartire ordini su ordini, ma dal comando generale la radio tacque. Anche loro sono in movimento e non facciamo che affidarci al comando dei nostri ufficiali. A questo punto credetti che le iniziative di movimento venissero prese dai vari comandanti presenti. Ricordo che mentre discutevamo arrivò una slitta con il comando di Corpo d’Armata Alpino, ivi compreso il generale Nasci.

Tutti i presenti si salutarono e chiesero cosa dovessero fare; poi domandarono al generale Nasci: “Come mai eccellenza si trova qui, quando lei avrebbe potuto essere al sicuro?”. Rispondendo Nasci esclamò: “Ho lasciato Rossosch, sede del comando alpino quando fuori dalle mie finestre ho visto i carri armati russi. Poi voglio seguire le sorti dei miei alpini in una situazione che definisco grave”.

In sèguito avrei saputo che l’iniziativa di rompere l’accerchiamento fin dal primo giorno la si dovè al compianto colonnello Signorini del 6^ Alpini, il quale morì non in battaglia, ma per i dispiaceri e il dolore nel vedere la situazione in cui erano rimasti coinvolti i suoi uomini nella dura lotta per aprirsi un varco. Nella zona affluivano ogni sorta di colonne di varie nazionalità.

Le vie d’accesso erano piene di slitte, e automezzi che rimanevano col motore acceso fino all’arrivo dei russi. Arrivarono anche i mezzi della Divisione Vicenza: buoi che tiravano le slitte; era la visione più umiliante del nostro esercito; e poi pretendevano di fermare i russi! Non c’era tempo da perdere. In mezzo a tanto caos c’era qualcuno che stava pensando; erano i nostri umili ufficiali che si davano da fare; una parola di plauso a loro perché erano in maggioranza all’altezza dei loro compiti, salvo uno sparuto numero minati più dalla paura che dall’incapacità.

Tutto era distruzione, il freddo e la tormenta facevano il resto. Entrammo ancora in un villaggio appena occupato; qua e là i segni caldi della battaglia; alcuni nostri alpini a terra frammisti a soldati russi; altri morti; per lo più civili, presi nella morsa di fuoco durante la battaglia. Giacevano supini uno contro l’altro, vecchi e giovani, senza scarpe. Entrai in una casa per avere un po’”d’acqua per dissetarmi, nel fondo del locale una povera donna raccoglieva in sé una piccola creatura, non parlava, era affranta, in questo momento stava vivendo attimi di angoscia.

Il piccolo piangeva; mi avvicinai e chiesi dell’acqua; lei mi indicò nel forno un recipiente contenente latte. Il pianto del piccino mi colpiva il cuore; in questo momento eravamo delle belve affamate, stanche. Ritrovai ancora un momento di lucidità; respinsi il latte che era l’alimento del bambino, e mentre continua a piangere, mi avvicinai a quella mamma e con modi modesti le feci capire che era la guerra che ci distruggeva, ma il cuore rimaneva intatto.

Assistei poi nelle vicinanze ad un fatto increscioso: un piccolo russo stava avviandosi verso un pozzo con un secchiello; certo era stato inviato da qualcuno per attingervi acqua. Una secca scarica di pistola automatica lo fece cadere, mi voltai, era un tedesco che gli aveva sparato, così, freddamente; mi fece capire che era un partigiano. Avrei rivolto la mia arma contro di lui molto volentieri, ma ormai non volevo creare altre vittime oltre a quelle esistenti. Chissà se quel tedesco sarà uscito dalla sacca, o se una scarica simile alla sua l’avrà tolto per sempre. In quel momento mi tornò alla mente il monito di mia madre, la quale mi pregava di essere sempre buono, di non uccidere, di non far del male a nessuno. Povera mamma se avesse visto ciò che succedeva in quei momenti: erano cose da impazzire.

Rimanemmo qualche minuto fermi in attesa, quando incominciò un fuoco concentrato su tutta la collina: erano i mortai che ci presero sotto il loro tiro. Stavano spazzando metro per metro mietendo vittime; non si poteva nemmeno scostarsi, perché tutto ribolliva di colpi. Un maggiore venne urlando, ci invitò tutti al combattimento perché eravamo attaccati dai russi da ambo le parti. Raggiunsi subito un posto assegnatomi e mi trovai davanti ai russi.

Eravamo in tre a dover difendere un avvallamento; io, Cordioli e Panizza. Facemmo subito un buco nella neve (era l’unica nostra possibilità di difesa). Intanto i russi si avvicinavano, li vedevo strisciare sulla neve, avevo le bombe a mano già pronte; cercai di sparare, ma con stupore vidi che i nostri fucili non sparavano: avevano la molla dell’otturatore gelata. Cambiai continuamente colpo nella speranza che la molla ritornasse efficiente; intanto i russi erano a dieci metri da noi. Pensai che andando così le cose per me tutto era finito. Riprovai a sparare e i colpi schizzarono via.

Che gioia, potevo almeno difendermi! Sparammo vari colpi, i russi che prima si erano avvicinati fin troppo, ora erano accovacciati e ogni tanto lasciavano partire delle raffiche con i loro parabellum. Alzai la testa dal buco e vidi una fiammata uscire dalle loro armi, mi abbassai lestamente per non essere colpito; vidi Cordioli che si piegò su di sé esclamando: “Maria!” (la fidanzata che doveva sposare) “l’ho presa!”. Iniziò a recitare l’Ave Maria, ma non riuscì a terminarla. Si accasciò su un fianco; guardai lui che non si muoveva più, il volto cereo; provai a chiamarlo, ma non rispose, era morto.

Dovevo sparare se non volevo averli addosso; intanto era passato un po’ di tempo. Il Tiràno, più avanti, stava aprendosi un varco su Arnautowo; la lotta era cruenta e con stupore udii cantare una nostra mitragliatrice. Volsi uno sguardo indietro e vidi il capitano Gallarotti della 32ª Batteria che, in piedi, a dispetto di ogni pericolo scrutava col suo cannocchiale la zona al di là.

Dopo poco tempo il primo colpo di cannone ci appoggiò, seguirono altri colpi che andavano verso le postazioni avversarie e vidi i soldati russi, che mi stavano davanti sempre ben guardati, mettersi a scappare, scendendo la collina di corsa. In quel momento stavano per essere accerchiati dai compagni del mio reparto. Appena ebbi la certezza che potevo muovermi accorsi verso Cordioli; provai a sollevarlo, lo vidi sanguinare dal pastrano; lo baciai e lo deposi.

Gli tolsi alcuni effetti personali e mi promisi di riportarli alla sua fidanzata, con le sue ultime parole. Ritornai dove ero partito. Passai in una zona dove vidi a terra molti volti amici del mio reparto, poveri ragazzi come me. Quante volte avevamo scherzato, quante volte avevamo riso assieme! Ora erano lì distesi, la morte li aveva colti ancora giovani! Tra la colonna passò la voce giunta dall’avanguardia: richiedeva il pronto intervento dell’Edolo, delle batterie del Gruppo Bergamo e Valcamonica con urgenza. Erano alpini come noi, avevano uno sguardo stanco, sapevano che sarebbero stati chiamati a fronteggiare altri attacchi; era l’attacco a Nikolajewka e si preparavano a scendere verso quella zona.

Assistemmo alle fasi salienti di quella battaglia che ci avrebbe dato modo di uscire dalla sacca. Ogni sforzo era fatto per riuscire; così vedemmo i leoni dell’Edolo trascinarsi fin sotto il terrapieno; scorgemmo quei pezzi d’artiglieria del Bergamo e del Valcamonica giungere sotto il cavalcavia, quel cavalcavia che ricorderemo sulla sinistra scendendo, e poi la battaglia combattuta da tutti. La massa scendendo aveva aiutato a vincere quella lotta. Scesi con la colonna verso Nikolajewka. La vidi con le sue case davanti a me.

Arrivai al terrapieno; era fatto di terra o di morti? Mi sembrava impossibile ma era veramente un terrapieno di morti. Erano uno sopra l’altro, accatastati, frammisti a nevischio; questo era stato il contributo di sangue per arrivare al paese, per dare modo al grosso di arrivare fin laggiù. Era stata la vittoria dello spirito sulle armi. Ero stato tra i più fortunati della ritirata essendo arrivato fino in fondo senza essere colpito. Avevo però un dito del piede che cominciava a dar segno di essere congelato.

Ero sano ma non avevo più forza, ero sfinito. Facevo fatica a sollevare i feriti quando si stipavano sulle slitte e sui muli. Non riuscivo neppure ad alzare le braccia tanto ero stanco; eppure ero tra i più sani ancora in vita…

Filippo Bianchi Battaglione Tiràno, 5^ Reggimento Alpini

E’ il 25 gennaio 1943. Dopo un breve, ma intenso combattimento il Tiràno si mette in marcia: la 49ª e la 46ª avanti, la comando al centro mentre la 48ª chiude la colonna. Passiamo ai margini di un boschetto ed intravediamo, giù nella balka, un paese che a noi valtellinesi ricorda un poco il nostro Livigno visto dal passo d’Eira. Così ci appare Nikitowka: una lunga pista appena segnata, costeggiata da isbe per chilometri e chilometri.

Sogno di tutti noi è di giungere presto nell’abitato con la speranza, essendo i primi, di trovare qualcosa da mangiare, poiché ieri, sotto questo punto di vista, non siamo stati fortunati. Il freddo è intenso ed il cielo sereno; nonostante la fame e la stanchezza si sentono qua e là delle allegre battute e delle franche risate. Qualcuno, per sentito dire, afferma che ci stiamo avvicinando ai capisaldi tedeschi. La voce corre e da tutte le parti si alzano grida di gioia. Io e Piero ci guardiamo in faccia e decidiamo di metterci alla ricerca di qualcuno che sappia di più.

Incontriamo Cesare, l’attendente di Vita, che di novità ne sa sempre tante; ma questa volta, alle nostre domande, neppure lui sa rispondere. “Dio car, se al fos vera, quandu an va a baita, an fa dir una Mesa in vai de Sac.” E” tutto quello che Cesare sa dire. Comunque noi tre decidiamo di stare insieme e cerchiamo altri compaesani. Troviamo il Ros, Mafè, Romeri e tutti insieme continuiamo la marcia con rinnovata speranza. Il paese è un paradiso per orsi affamati come noi; infatti è un vero, immenso alveare: ogni isba è un autentico deposito di miele.

Prendiamo d’assalto le prime case; ogni vaso che viene alla luce è subito lavato da decine di mani inguantate e sporche. Dopo pochi chilometri siamo tutti sazi, ma, pensando al domani, ci portiamo via, legati allo zaino o assicurati a tracolla con pezzi di filo di ferro, interi favi. Mi sembra che questa sia la marcia più corta e tranquilla di tutta la ritirata. Giunti in fondo al paese troviamo il generale Reverberi e gli ufficiali del 5^ che ci assegnano, per la prima volta nella ritirata, gli accantonamenti compagnia per compagnia. Su ordine del tenente Alessandria, Slataper guida il comando verso una costruzione in muratura che avrebbe potuto essere una scuola o un edificio pubblico.

Occupiamo uno stanzone al primo piano e depositiamo in un angolo, sul pavimento di legno, le nostre poche cose, lasciandovi di guardia Romeri, il più anziano di noi, mentre, dividendoci i compiti, ci diamo da fare per procurare la cena. Piero va alla ricerca di qualche animale, Mafè e Cesare pensano alla legna e al recipiente per la cottura, mentre io ed il Ros scaviamo sotto la terra delle cantine sperando di trovare qualche patata.

Siamo fortunati: ognuno di noi assolve brillantemente il proprio compito. Una latta piena d’acqua è già sul fuoco e ci ritroviamo con un agnello, una gallina, un cesto di patate e cinque pani di miglio. Decidiamo di fare un bel “fricò” e così buttiamo nella latta tutto quello che essa può contenere. L’esperienza ci ha insegnato a non sprecare energie e così, mentre la cena cuoce, riposiamo a turni. Io e Piero facciamo il primo turno di cuochi mentre gli altri schiacciano un pisolino.

Quando la cena è pronta svegliamo tutti e, attorno al fuoco, iniziamo quello che a noi sembrava un lussuoso banchetto. Adeguandoci alle usanze russe, non usiamo né piatti né gavette, ma anche noi attingiamo direttamente dalla “tola” con cucchiai di legno o di alluminio. Il “fricò” è caldo, appetitoso e abbondante; sazi e soddisfatti io, Piero e Romeri ci mettiamo a riposo mentre il Ros fa la guardia e Cesare, con Mafè, prepara il bollito per l’indomani.

Lo stanzone è caldo; la pancia piena e la convinzione di essere ormai liberi, per non parlare della stanchezza, fanno si che subito sprofondiamo nel più duro dei sonni. Non so dire quante ore siano passate quando Cesare mi sveglia con uno spintone; sento il tenente Slataper che grida: “Sveglia, ragazzi, allarme”. In risposta riceve un grugnito da parte degli alpini che cercano di riprendere il sonno. “Sveglia, ho detto, non sentite? Qui ci ammazzano tutti.” Di colpo ci troviamo completamente svegli; udiamo in vicinanza le esplosioni dei colpi di mortaio ed il gracchiare delle mitragliatrici e dei parabellum.

In un lampo raccogliamo le nostre cose e ci troviamo radunati dietro la casa con il tenente Slataper che ci spiega come, oltre all’attacco dei russi contro il paese, su ad Arnautowo la 33ª Batteria del Gruppo Bergamo già da mezzanotte è costretta a sparare a zero sul nemico che ormai è sotto. Bisogna andare là. Ci avviamo sotto un grandinare di colpi di mortaio, attraversiamo un ponticello ed iniziamo la salita lungo una pista tracciata in mezzo a un frutteto. Giunti in vicinanza delle prime slitte dell’artiglieria siamo presi d’infilata dagli anticarro russi. E’ un macello! Mi trovo a correre nella neve trascinato da Piero che mi tiene per mano; di Cesare e degli altri non so più niente.

Avanziamo per gli ultimi metri, raggiungiamo le slitte che sono affiancate lungo la pista e ci appiattiamo dietro ad esse. Il combattimento è in pieno svolgimento; la potenza di fuoco del nemico è impressionante mentre da parte nostra c’è poco più della decisa volontà di passare. “Plotone collegamenti avanti con me.” E’ Slataper che, mitragliatore in spalla, chiama a raccolta i suoi alpini. Io e Piero, con le cassettine delle munizioni, seguiamo lui e Soncelli che, scavalcate le slitte, hanno cominciato ad avanzare. Strisciando sulla neve scendiamo giù nella balka sotto un grandinare di pallottole e rispondiamo al fuoco.

Passiamo alternativamente i caricatori ai nostri tenenti; mi procuro un’altra cassetta e torno giù; passo il primo caricatore a Slataper e mi guardo attorno: non vedo più né Soncelli né Piero, ma non mi preoccupo molto convinto che siano lì vicino. Cerchiamo di avanzare; Slataper spara due o tre raffiche e poi, colpito, si accascia sulla neve; dopo un solo attimo, con feroce volontà, vedo che si rialza addirittura in piedi: “Viva l’Italia, viva il 5^ Alpini” urla sparando l’intero caricatore.

Una seconda raffica lo abbatte per sempre. Sono stordito, forse impaurito. Chiamo Piero, ma non ricevo risposta. Adesso, poco più in là di Slataper, vedo Soncelli anche lui immobile nella neve e vedo ancora decine e decine di alpini caduti. Con lo spirito di conservazione, più che col ragionamento, mi ritrovo su alle slitte e, mentre sto per scavalcarle, una mano mi afferra e mi costringe ad accucciarmi. E’ Cesare: “Sta già che chilo i scherza miga. In dò el Piero?”.

Passano i minuti; io e Cesare teniamo lo sguardo fisso sulla neve, oltre le slitte, con la speranza di vedere spuntare la grossa faccia di Piero. Non vogliamo credere, non riusciamo a credere, poi Cesare per primo si rende conto e mi abbraccia. Adesso anch’io capisco che Piero non tornerà più e piango. Cesare mi dice: “Ades, bociascia, an sta insema mi e ti”. Appiattiti dietro le slitte non sentiamo neppure i 40^ sotto zero, mentre i nostri pensieri, credo, sono rivolti ormai solo verso una fine che sia la meno dolorosa possibile. “Compagnia Comando qui con me.”

E’ il tenente Alessandria che ci chiama. Andiamo verso di lui e ritroviamo gli amici Mafè e Ros. L’ufficiale ci spiega il suo piano: si tratta, nel tentativo di sbloccare la situazione, di prendere con noi una mitragliatrice, passare dietro le isbe dove si trovano gli artiglieri, scendere giù nella balka, raggiungere un canalone che sale dalla parte opposta e prendere i russi alle spalle. Siamo in pochi, ma il piano ci piace e lo approviamo.

Si uniscono a noi i sergenti Milani, Calcaterra, Pedrana, un alpino gigantesco che porta la sua Breda in braccio come fosse un bambino, il caporale Salatenna ed alcuni altri di cui, a distanza di 30 anni, purtroppo non ricordo il nome. Passando dietro le isbe ci rendiamo conto dell’eroica resistenza degli artiglieri e di quanto sia stata cruenta la loro battaglia. Vediamo mucchi di cadaveri di uomini frammisti a carogne di muli dai bianchi denti sporgenti che li fanno assomigliare a fantasmi ghignanti. Il tutto ormai… surgelato.

Siamo ormai in prossimità del canalone e avanziamo strisciando sotto le raffiche di mitraglia. Sono vicino a Cesare e lo sento mormorare: “Dio se i spara” mentre mi fa vedere la punta del suo scarpone che una pallottola ha tranciato di netto senza toccargli il piede. “Dai che an fa amò un sali. Pront? An va?” Raduniamo le nostre forze e tentiamo lo scatto verso il canalone che ormai è a pochi metri. Sento una mazzata in testa e rimango stordito per alcuni minuti; quando mi riprendo non ho più l’elmetto e sento Cesare vicino a me che si lamenta. Mi chino su di lui che mi dice: “Adio Pierino, saluda la mia Anna, la mia Cecilia, l” pà e la mama” “Podes miga saludai ti?” gli rispondo. “No, Pierino, l’è finida: san ferì a na spala”.

Con l’aiuto di Mafè trascino Cesare nel canalone e solo allora vedo il sangue che, scendendo lungo il braccio, cola sulla neve. Gli taglio la manica del cappotto: davanti, sulla spalla, c’è solo un piccolo foro, ma dietro la ferita è orribile, poiché la pallottola, uscendo, ha frantumato la scapola. Tamponiamo la ferita con tutti i pacchetti di medicazione che possiamo trovare per arrestare l’emorragia, ricopriamo il braccio alla meglio e appoggiamo
Cesare ad una parete del canalone dicendogli di aspettare li che, se riusciamo a passare, torneremo a prenderlo.

Dopo un’ultima raccomandazione di non muoversi, raggiungo gli altri. Dalla cima del canalone vediamo i russi appostati dietro i pagliai che, con tutte le loro armi, bersagliano gli alpini sulla china di fronte. Pedrana piazza la Breda, arma il carrello e spara. I colpi non partono. L’arma si è inceppata. Il sergente dice che è per il freddo e che bisogna scaldarla. Cerchiamo di fare pipì sopra la canna, ma purtroppo, sarà per il freddo, per la fatica, per la paura, di pipì ne abbiamo solo poche gocce ciascuno ed anche quelle più gelate dell’arma. Prendiamo due coperte e strofiniamo energicamente la Breda.

Pedrana riarma il carrello; rimaniamo col fiato sospeso perché dal funzionamento della mitraglia dipende la nostra vita, ma il sergente, che conosce bene la sua arma, ci rassicura volgendosi verso di noi e sorridendoci tranquillo. Tira il grilletto e partono i primi colpi; Pedrana si apposta meglio, prende accuratamente la mira, ci dice di tenere ben saldo il treppiede ed inizia il fuoco rapido, una lastrina dopo l’altra. I russi, colti di sorpresa alle spalle e sotto il nostro fuoco micidiale, abbandonano le armi pesanti, si danno alla fuga infilandosi in una specie di pista incassata fra due alte muraglie di neve.

La battaglia di Arnautowo è finita; il Tiràno è stato magnifico: con pochi uomini stanchi per nove giorni di marcia durissima tra sofferenze inaudite, con l’appoggio di pochi mezzi pesanti, contro un nemico fresco, ben armato ed equipaggiato, col sacrificio supremo di tanti alpini e di quasi tutti gli ufficiali, ha saputo vincere la battaglia di Arnautowo dal cui esito dipendeva la salvezza dell’intero corpo alpino. Volgo lo sguardo intorno: la neve è grigioverde!

Prendo dallo zaino i cinque pani di miglio, li divido coi compagni e ci abbracciamo. Ritorno al canalone per riprendere Cesare, ma la colonna, rotto l’accerchiamento, è ormai in marcia ed il mio amico è già stato medicato e caricato sopra una slitta. “Battaglione Tiràno, avanti! Adami ci aspetta e Reverberi ha bisogno di noi!” sento gridare da un ufficiale. In un attimo siamo di nuovo in marcia più sicuri ora, più decisi e pronti. Siamo rimasti in pochi perché il Tiràno ha riempito coi suoi alpini migliori la balka di Arnautowo. “Addio tenente Slataper, addio tenente Soncelli, addio Piero, addio compagni!” Un ultimo sguardo indietro e poi mi avvio anch’io verso Nikolajewka.

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