ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 45

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Sergente maggiore Eraldo Rovetto
Compagnia Comando 2^ Reggimento Alpini

Ero addetto all’ufficio matricola del comando reggimento. Il 17 gennaio 1942, iniziammo da Topilo il ripiegamento, dapprima sull’autocarretta del comando di compagnia guidata dall’alpino Capra di Narzole. Assieme abbiamo viaggiato per il resto della notte e l’intero giorno 18 gennaio grazie alla benzina che siamo riusciti a prendere ai tedeschi. Da questi abbiamo pure potuto avere due pagnotte, questa volta in modo regolare, ma non le  abbiamo potute addentare, perché gelate.

Giunti a Rossosch siamo entrati in una casa composta di due camere occupate una da tedeschi e l’altra da alpini della Julia. Dopo un’ora, un sottufficiale della Julia diede l’allarme perché i russi, già entrati in città erano molto vicini. Siamo usciti all’aperto; le pallottole fischiavano fitte sulle nostre teste. Eravamo senza benzina; decidemmo di cercarne per scappare col nostro automezzo. Ci dividemmo per due direzioni opposte ma, ritornato al punto di partenza senza esito non trovai Capra.

Lo chiamai ad alta voce, ma il mio grido si confondeva con gli scoppi sempre più forti. Consigliai i miei compagni di abbandonare la nostra macchina per proseguire a piedi, ma non venni ascoltato. Proseguii da solo la marcia e mi infilai in una colonna composta di italiani appartenenti a parecchie armi, di tedeschi e romeni. Qui incominciò il mio calvario. Non facevo parte di nessun reparto organizzato; vivevo di razzia (cetrioli e patate); la carne di cavallo non mancava ma non si poteva cuocere.

In una casa in aperta campagna, ebbi la fortuna e la sorpresa di mangiare minestra molto buona e carne congelata. Questa grazia di Dio era stata preparata da tre donne, impaurite dalla nostra vista ma subito rimessesi vedendo le nostre buone intenzioni e le nostre miserissime condizioni di salute e di abbigliamento. Così ristorato, con i piedi avvolti in due mezze coperte fermate alla gamba con dello spago, ho ripreso il cammino.

La colonna era quotidianamente “mitragliata e bombardata dagli aerei e difficilmente i compagni di un giorno erano quelli dell’indomani. Un giorno mi imbattei in un mio compaesano, l’alpino Renzo Sterpone, conducente di una slitta trainata da due muli. Ci abbracciammo e Renzo mi diede una mezza galletta sottratta alla scorta del suo reparto e una scatoletta di carne. Dopo un’ora dal nostro incontro arrivarono gli aerei; Renzo fermò la slitta e si stese lungo di essa per ripararsi e, come lui, fecero i suoi compagni.

Io riuscii a raggiungere una casa non tanto lontana. Dopo il bombardamento ritornai sui miei passi per raggiungere l’amico ma di lui non c’era più traccia né della slitta (e a casa non è più tornato). Ogni volta che si usciva da un paese eravamo presi di mira dai fucili dei partigiani. Non sono mai stato ferito. Vivevo di neve che aveva il solo effetto di diminuire sempre più le mie forze. Ero carico di pidocchi e, benché affetto da ulcera duodenale, sono riuscito a tenermi in piedi.

Alpino Nicola Bertelotti
21ª Compagnia Battaglione Saluzzo, 2^ Reggimento di Alpini

Nel lontano 19 gennaio 1943 mi trovavo nelle vicinanze di Popowka, durante la ritirata dell’Armir, già iniziata da due giorni. Ero praticamente senza scarpe, in quanto quelle avute in dotazione all’inizio della campagna erano ormai consunte e inadeguate a consentirmi la marcia di ritorno, in considerazione anche del freddo micidiale. Non sapevo proprio come potermi procurare un nuovo paio di scarpe, mancandoci ormai ogni sussistenza ed essendoci inoltre trasmesso l’ordine perentorio di conservare solo le armi.

Ebbi la fortuna, in tale disperato frangente, di incontrare sul mio cammino il cappellano militare, padre Guido Turla, il quale commosso dello stato pietoso dei miei piedi, mi volle donare il paio di scarponi di riserva, con i quali, eccezionalmente comodi e resistenti, potei attraversare l’immensa campagna russa e giungere salvo e sano in patria. Senza il provvidenziale dono del padre suddetto, ben difficilmente sarei potuto scampare al sicuro congelamento degli arti inferiori, causa responsabile della morte bianca di tanti miei sfortunati commilitoni.

Tenente cappellano alpino don Guido Turla
Battaglione Saluzzo, 2^ Reggimento Alpini

Ogni anno, in questo periodo, rivivo, come fosse un fatto recente, il calvario della ritirata del Don. Forse qualcuno, leggendomi, potrà sorridere di compatimento, perché non conosce la storia degli alpini combattenti sul fronte russo, che ha raggiunto livelli di drammaticità inconcepibili. Come quest’oggi mentre scrivo, il 26 gennaio 1943, sull’imbrunire, è morto il capitano Camillo Valleise, comandante la compagnia cannoni anticarro.

E’ caduto tra Nikitowka e Waluiki. Posso testimoniare la circostanza che ha determinato la morte del povero Valleise, ufficiale in gambissima, morto eroicamente, nel disprezzo del pericolo che incombeva a poche centinaia di metri. Un carro armato russo si era infiltrato nella colonna dei superstiti del 2^ Alpini, in cammino verso la città di Waluiki. Il capitano, coadiuvato dai suoi alpini e ufficiali, era riuscito a portarsi dietro, dopo circa 200 chilometri, un pezzo anticarro.

Avvertito il grave pericolo del carro armato russo, Valleise metteva in posizione di tiro il cannone e compiva personalmente l’operazione, allo scoperto. Dal carro armato russo partivano raffiche di mitragliatrice che colpivano in pieno l’audace ufficiale, il quale moriva in breve. Mi trovavo a pochi metri di distanza e potei somministrargli i conforti della religione.

Il fatto costituisce uno dei tanti episodi di guerra della campagna di Russia rimasto ignorato. Il nome del capitano fa onore al senso di dovere e al valore delle penne nere della Cuneense. Avrei altri episodi da documentare, ma non sfuggono nell’anonimato del tempo che cancella tante realtà vissute.

Alpini, ad esempio, che vanno al combattimento in una tormenta di neve e di ghiaccio, che rimangono accecati, colpiti da improvvisa congiuntivite, e ricorreranno all’unica cura di acqua calda, nella quale erano state bollite patate, per decongestionare gli occhi, tra dolori lancinanti. Il sergente maggiore Tarabella sarà uno dei più colpiti e non potrà proseguire la marcia.

Tra gli ufficiali, che hanno fatto onore al loro grado con la morte, si è distinto brillantemente il capitano Roberto Barbarani, comandante la compagnia cannoni del Saluzzo, caduto alla testa dei suoi alpini, che vanno all’assalto dei russi, all’arma bianca. La compagnia aveva ricevuto l’ordine di lasciare a valle, momentaneamente, i cannoni per partecipare al disperato combattimento di Kopanki. E’ caduto mentre io gli gridavo di buttarsi sulla neve, nella breve pausa concessa, dopo la quale si attendeva l’ordine di fare un altro balzo, al grido scandito: “Avanti Saluzzo”.

Ricordo con amore il sottotenente Paolo Marubbi, della 13ª Compagnia del Battaglione Borgo S. Dalmazzo, incontrato la notte del 21 gennaio, ferito gravemente a tutte e due le braccia, dopo il combattimento di Kopanki. Era stato medicato sommariamente, ma urlava per gli spasimi, invocando l’aiuto di un medico, introvabile, e rifiutò di salire su una slitta, per lasciar posto a soldati feriti e congelati. La storia degli alpini impegnati nella campagna di Russia è tutta caratterizzata da episodi di valore e di altruismo, di cui è dovere prendere nota.

Sergente maggiore Pierino Comaschi
Compagnia Comando Battaglione Borgo San Dalmazzo 2^ Reggimento Alpini

Dal 17 al 23 gennaio rimasi con una decina di uomini, superstiti dai vari combattimenti sostenuti dal mio battaglione contro i carri armati russi, in sèguito ai quali il battaglione stesso perse il 95% dei suoi effettivi. Proseguii la marcia verso ovest. Dopo un giorno perdetti anche quei pochi compagni che mi seguivano, in sèguito ad altri attacchi dei carri nemici.

Fra le maglie di questi ultimi riuscii a sfuggire. Dopo aver camminato, da solo, ancora per un giorno ed una notte, raggiunsi il 26 gennaio 1943 i resti della Tridentina che si trovavano fermi temporaneamente inchiodati dal tiro dei mortai e dell’artiglieria russa sull’altura davanti a Nikolajewka. Una massa di superstiti di altre divisioni, precedentemente logorate e distrutte, sopraggiungeva in quel mentre e ingrandiva sempre più il bersaglio.

Vedevo le fiammate dei colpi in partenza dai pezzi russi situati di fronte a noi oltre il terrapieno della ferrovia; udivo il ronzio delle granate in arrivo, durante la traiettoria e, poi, lo scoppio di esse in mezzo alla massa degli uomini in attesa di passare. Una delle tante granate colpì in pieno una rudimentale slitta del Gruppo Val Camonica, al mio fianco, facendo saltare in aria brandelli di carne e d’indumenti. Aerei russi spuntarono in cielo e falciarono ripetutamente a bassa quota.

Uno dei due semoventi tedeschi che trovavansi ravvicinati, a pochi metri da me aprì il fuoco con proiettili traccianti, colpendo ripetutamente la zona al di là del terrapieno della ferrovia, di dove partivano le granate russe a noi dirette. Avvenne che i reparti della Tridentina in grado di sostenere altri combattimenti attaccarono disperatamente: scesero in massa l’altura, entrarono in città e travolsero la resistenza avversaria. Più che la stanchezza, la fame mi aveva tolto tutte le forze.

Era già notte. Vagai per Nikolajewka, in cerca di cibo fra i cadaveri gelati a terra e i materiali d’ogni genere sparsi ovunque. In un magazzino trovai del frumento: ne masticai alcune manciate per far tacere lo stomaco onde riposare e poter trascorrere la notte. Entrai quindi in una casa gremita di soldati tedeschi, sdraiati sul pavimento. Sorpassando un corpo e l’altro, giunsi in una seconda stanza, nella quale potei riposare e scaldarmi stando in piedi, appoggiato al muro, in un angolino poiché non c’era posto per sdraiarmi.

Quando alle prime luci dell’alba filtrate nel locale dai vetri delle piccole finestre, i tedeschi si accorsero della mia presenza gridarono: “Un italiano!… raus!”. Due di essi, afferratomi con una mano per il di dietro, con l’altra per il bavero del pastrano, mi scaraventarono fuori in mezzo alla neve ed il gelo, alla temperatura di quella notte. Erano le prime ore del mattino del 27 gennaio 1943. Ancora nessuno aveva ricominciato la marcia. Ripresi a vagare per la periferia della località con la speranza di rinvenire per terra qualcosa da mangiare.

Capitai in una piazzetta ove vidi un grande cerchio formato da una quarantina di cadaveri tedeschi, seviziati e parzialmente denudati, giacenti sulla neve. Pur non essendo capace di odiare alcuno, tuttavia per un attimo mi venne di riflettere che quello spettacolo poteva forse anche aver vendicato indirettamente quel selvaggio atto da me poco prima subìto dagli alleati… Quella strage era stata compiuta dai sovietici durante la notte per evidente rappresaglia, con la quale essi certamente avranno inteso contraccambiare ciò che i tedeschi fecero in precedenti occasioni nei riguardi di loro compatrioti.

Alpino Sabato Carbone
Gruppo Pinerolo, 4^ Reggimento Artiglieria Alpina

Sono un reduce della Divisione Alpina Cuneense. Fui fatto prigioniero il giorno 21 gennaio 1943 (avevo da poco avuto la notizia della nascita del mio secondo figlio) a Waluiki e rientrai in Italia il 21 novembre 1945. Il mio gruppo era schierato sul fronte del Don nel tratto Staro KalitwaNowo Kalitwa unitamente al Battaglione Dronero del 2^ Alpini.

Il giorno 17 gennaio ’43, del tutto inatteso, ci venne l’ordine di ripiegare e da allora fino al giorno in cui venni fatto prigioniero fu un ripiegamento disordinato, marce estenuanti ed infine, unitamente al generale Battisti e lo stato maggiore della Divisione Cuneense, fummo fatti prigionieri. Per noi tutto era finito; avevamo cercato di sostenere i continui attacchi nemici ed i continui accerchiamenti, ma alla fine, sfiniti dalla fame e dal freddo, dovemmo arrenderci.

Alpino Domenico Giubergia
11ª Compagnia, Battaglione Mondovì, 1^ Reggimento Alpini

Mi trovavo sul Don. Partito per la ritirata la sera del 17 gennaio 1942 alle ore 19,20 da Karabut. Il più che mi ricordo bene è il giorno 19, che siamo andati al primo attacco. Non ricordo bene il nome del paese, mi pare sia Postojalowka; comunque lì abbiamo lasciato tutti i materiali, e muli, e slitte cariche di congelati e malati. Verso sera, all’imbrunire, abbiamo sentito gridare “si salvi chi può”.

Ben pochi siamo riusciti a salvarci da quel formicaio di carri armati. Gli scampati, siamo partiti sulla nostra destra disperatamente per raggiungere la Tridentina. Avevamo ancora in testa il generale Emilio Battisti comandante della nostra Divisione Cuneense. A un certo punto un reparto di russi ci ha tagliato la colonna in metà, e io mi trovai a faccia a faccia con loro, mi hanno preso prigioniero; tentai di scappare, e subito ricevetti una raffica di parabellum tra le gambe.

Mi credevo ferito, son rimasto per un quarto d’ora a terra nella neve facendo il finto morto, e loro mi hanno preso tutto quanto avevo in tasca, poi sono andati via. Dopo un po’ sono riuscito a farcela per la seconda volta; e camminando da solo ho raggiunto la Divisione Tridentina, dove abbiamo ancora avuto molti attacchi. Per venire fuori dalla sacca ho camminato 16 giorni. Voglio ancora dire che il giorno 26 a Nikolajewka c’ero anch’io; ho passato anche dei minuti molto tristi ma il destino ha voluto lasciarmi tornare a casa salvo.

Capitano Lino Ponzinibio, medaglia d’oro al V. M.
Battaglione Mondovì, 1^ Reggimento Alpini

Le vicissitudini del ripiegamento dalla linea del Don hanno fatto sì che reparti più o meno consistenti delle nostre divisioni (Tridentina, Julia, Cuneense e Vicenza) hanno perso contatto con la propria divisione per seguire la sorte di quelle alle quali si sono aggregati. Io a Nikolajewka non c’ero. Posso però egualmente affermare che essa fu la più grande battaglia fortunata combattuta in terra di Russia dal Corpo d’Armata Alpino, e per esso quasi esclusivamente dalla Tridentina.

Io però c’ero a Nowo Postojalowka! Questa sanguinosa, disperata battaglia che doveva durare, quasi ininterrotta, per più di trenta ore ed in cui rifulse il sovrumano e sfortunato valore dei battaglioni e dei gruppi della Julia e della Cuneense che ne uscirono poco meno che distrutti.

Di questa battaglia quasi nessuno dei molti che hanno scritto sulla campagna di Russia si è occupato, quantunque essa sia stata, senza dubbio alcuno, la più dura, lunga e sanguinosa fra le molte sostenute dagli alpini sia in linea sia nel corso del ripiegamento: ritengo quindi necessario affermare che essa, anche se al moltissimo sangue che fu sparso non corrispose il meritato successo, costituì una delle pagine più gloriose che gli alpini abbiano mai scritto nella loro lunga storia e fu certamente la più splendida fra le molte di cui si compose l’epopea della Julia e della Cuneense in terra di Russia.

La lotta davanti a Nowo Postojalowka era costata alla Cuneense la distruzione pressoché completa di quattro battaglioni, di due gruppi di artiglieria e del battaglione genio e alla Julia circa eguali perdite, sebbene i suoi reparti fossero stati già assottigliati in sèguito a precedenti duri e sanguinosi combattimenti. Questo il tragico bilancio della battaglia di Nowo Postojalowka dei giorni 19 e 20 gennaio 1943.

Ma non fu un inutile sacrificio perché attirando su di sé ed impegnando a lungo notevoli e poderose forze russe impedì loro di accorrere più a nord e di gettarsi sulla Tridentina che poté così superare meno duramente le numerose resistenze russe e uscire dalla sacca traendo in salvo, sulla sua scia, qualche migliaio di superstiti delle divisioni sorelle. A queste ultime, invece, la sorte fu meno benigna ed i superstiti, nella maggior parte feriti o congelati, dovettero subire la triste sorte della prigionia. Non senza aver resistito e combattuto fino oltre ogni estremo limite e possibilità di resistenza.

Infatti, prive di collegamenti con la Tridentina e quindi con il comando del Corpo d’Armata Alpino, ignare perciò del dirottamento su Nikolajewka, le superstiti colonne della Cuneense e della Julia proseguirono il cammino puntando sulla meta originaria, Waluiki, che raggiunsero attraverso combattimenti pressoché continui alternati a estenuanti marce compiute soprattutto di notte, ben spesso fra violente bufere, sempre accompagnati dalla fame e dal gelo.

E ciò in una crescente progressione di atroci disagi fino al 27 gennaio, allorché dinanzi a Waluiki, nonostante il quasi totale esaurimento delle munizioni i generali Battisti e Ricagno e i loro superstiti alpini si impegnarono in combattimento ad oltranza e infine vennero catturati dai russi.

La colonna del 1^ Alpini resisteva ancora dinanzi a Waluiki, all’alba del 28 gennaio, quando il colonnello Manfredi venne ucciso dai russi; e il battaglione Mondovì, sopraggiunto a metà giornata, combattè aspramente fino a notte, prima di essere sopraffatto dalle strapotenti forze nemiche che portavano a compimento l’effetto di dieci giorni di patimenti inauditi, accumulati dal rigore del clima e dalle quasi inverosimili circostanze nelle quali si trovarono infossati gli alpini nella sacca sul fronte russo.

Tenente cappellano don Rinaldo Trappo
I Battaglione Complementi

Sono trascorsi circa trent’anni dalla ritirata del Corpo d’Armata Alpino in Russia. A questa ritirata ho partecipato anch’io e l’ho vissuta tutta, istante per istante, in tutti i suoi dolori, in tutti i suoi orrori, in tutto il suo tragico svolgimento. Sono uno di quei pochi che sono riusciti a tornare in Italia, non per virtù propria ma, come tutti quelli che son tornati, per grazia di Dio, perché quella non era ancora la nostra ora. Non sappiamo neppure noi come abbiamo fatto a salvarci. Siamo tornati, ecco tutto.

Molto s’è scritto e molto s’è detto della campagna italiana in Russia, ma c’è ancora qualcosa da dire di quella leggendaria impresa, di quella lunga battaglia per la salvezza e per l’onore. Sono cose che noi reduci sappiamo e non dimenticheremo mai, ma penso sia bene ricordarle, perché tutti conoscano quale fu la forza e la resistenza degli alpini e soprattutto quale fu l’eroismo dei nostri caduti.

Voglio precisare che quella leggendaria impresa, che nella opinione corrente è ricordata come un’umiliante disfatta, la ritirata di Russia, è stata invece la più fulgida vittoria di noi alpini, che pure tante altre gloriose battaglie abbiamo nella nostra storia centenaria. Infatti quella durissima marcia di ripiegamento nella neve, a 40 gradi sotto zero, fu in realtà una continua avanzata contro un avversario che aveva già salde linee di difesa sulla via del nostro ritorno; che, attaccato e respinto, si ritirava ogni volta su altre munite posizioni per contrastare di nuovo il nostro passaggio.

Credevamo di trascorrere l’inverno sul Don, nei camminamenti sotto terra che avevamo battezzato coi nomi dei nostri paesi, in attesa della primavera per riprendere le azioni. Invece a metà dicembre 1942 i russi sfondarono a sud e la Julia fu inviata a tamponare la falla. Intanto arrivavano i battaglioni complementi per colmare i vuoti. Il fronte sembrava ristabilito, quando il 14 gennaio 1943 lo sfondamento operato dai sovietici nel settore tedesco “Fegelein” e in quello della 2^ Armata Ungherese portò i carri armati russi alle nostre spalle nell’interno della città di Rossosch, dove aveva sede il comando del Corpo d’Armata Alpino.

Il mattino del 15 gennaio ero andato a Rossosch con una colonna di slitte per prelevare materiali e viveri. Stavo girando da un magazzino all’altro, quando mi giunse la notizia dei carri armati russi che circolavano per la città. Ripartito immediatamente per Ssuchowka Babka, sede del comando del mio battaglione, durante il viaggio mi raggiunse il portaordini del comando di divisione con il seguente ordine che ancora conservo tra le mie carte:

“Comando 4^ Divisione Alpina Cuneense – Ufficio Stato Maggiore – Sezione Operazioni e Servizi – N. 164/Op. di prot. – P. M. 203 li 15 gennaio 1943 XXI. Oggetto: trasferimento del 1^ Btg. Complementi a Rossosch – Al comandante del 1^ Battaglione Complementi.

Vi prego voler provvedere perché il vostro battaglione parta non più tardi delle ore 14 per Rossosch, dove passerà a disposizione del Comando Corpo d’Armata Alpino. Per il trasporto dei materiali vengono inviate 8 slitte; nel caso che non fossero sufficienti, provvedete a requisire e ad utilizzare tutte le slitte disponibili nel paese di Ssuchowka e dintorni. A Rossosch recuperate i militari che ieri sono stati mandati al Q. G. del C. A.A. per frequentare il corso di addestramento della compagnia contro carri. Il movimento del battaglione dovrà essere effettuato con le dovute misure di sicurezza in quanto qualche carro armato russo scorrazza nella zona della periferia di Rossosch.
Il generale comandante: Emilio Battisti

Fu una partenza precipitosa, perché occorreva fare presto. A notte si raggiunse la periferia di Rossosch e si pernottò in baracche nei pressi dell’aeroporto. Lasciando Ssuchowka Babka ci avevano detto che a Rossosch avremmo trovato le armi e le munizioni necessarie per fare fronte ai carri armati russi. Trovammo invece soltanto l’ordine con le direttive di circondare e penetrare nella città, compiendo l’operazione in accordo col Battaglione Monte Cervino.

Verso le 4 del 16 gennaio iniziò la manovra di accerchiamento della città per liberarla dai carri russi. Ma cosa potevano fare i nostri vecchi ’91 e qualche bomba a mano, contro i T4? E così le due compagnie, quella del capitano Dominoni e quella del capitano  Peirone, che erano partite prime per incontrarsi col Battaglione Monte Cervino si imbatterono in una colonna corazzata russa e si sacrificarono fino all’ultimo uomo per sbarrare la strada ai carri armati. Neppure un alpino, di quelle due compagnie, tornò indietro.

Intanto cinque carri armati avanzavano verso l’aeroporto raggiungendo le altre due compagnie che stavano dirigendosi verso la parte opposta della città. La lotta fu improvvisa e furibonda e a nulla servì l’eroismo dei nostri ragazzi contro l’acciaio dei carri armati. Spettacolo spaventoso: la neve si fece rossa del sangue dei nostri alpini che si lanciavano contro i carri armati con le sole bombe a mano. La guerra è guerra, ma questa volta più orrenda che mai.

I prigionieri furono pochi e vennero disarmati e messi in fila indiana con le mani in alto, davanti a un carro col cannoncino puntato a zero. I più caddero, ma molti furono i feriti, e allora incominciò la sadica gimcana dei carri russi che passavano sui feriti per dilaniarli coi cingoli. I pochi superstiti ripiegarono su Popowka e in serata raggiunsero Podgornoje. Ci contammo: di tutto il battaglione eravamo ancora 147. Di questi solo 46 torneranno a casa; gli altri cadranno nei successivi combattimenti per aprirsi un varco verso l’Italia.

Siamo tornati in pochi, ma quelli che non sono tornati sono qui con noi, vivono nel nostro ricordo e continuano a vivere nel volto dei nostri alpini di oggi, che sono come i nostri alpini che caddero in Russia. Per tutti questi miei alpini non ci furono né croci né lacrime. La steppa russa è diventata una tomba muta per questi bei ragazzi che hanno dato la loro vita per la salvezza degli altri ed hanno pagato con il sacrificio estremo l’onore di essere alpini e perché qualcuno potesse rientrare in Italia, tornare a casa a dire a tutti che i figli delle nostre vallate si erano comportati da eroi.

Mentre accadevano queste cose, le tre divisioni alpine erano ancora ferme sulla linea del Don. Soltanto alle ore 11 del 17 gennaio giunse a Podgornoje, dove aveva ripiegato il comando del Corpo d’Armata Alpino, l’ordine di ritirarsi. Quell’ordine poteva essere dato 24 o 48 ore prima, salvando così migliaia e migliaia di alpini, ma i tedeschi lo dettero tardi, contando sull’estrema resistenza degli alpini, per mettersi in salvo. L’ordine venne in ritardo e gli alpini restarono coraggiosamente ai loro posti fino all’ultimo, quando alle loro spalle vi era già una marea di sbandati di ogni nazionalità, inseguiti dalle truppe regolari russe. Nessuno si perse d’animo.

E ciò che stava per accadere era fuori di ogni immaginazione. Rimasto del tutto isolato, il Corpo d’Armata Alpino, la sera del 17 gennaio, lasciate le posizioni sul Don, e senza cedere allo scoraggiamento o alla disperazione, anche se “radio naja” aveva percepito la gravità della situazione, iniziò il ripiegamento, camminando e combattendo ogni giorno per aprirsi un varco verso casa.

E’  impossibile descrivere ciò che avvenne in quell’ultima decade di gennaio. Durante tutto il ripiegamento la fame, la sete, il gelo e le continue bufere di neve resero più duri i combattimenti di ogni giorno. La cronistoria di quei combattimenti sarebbe troppo lunga. Dirò soltanto che la Tridentina riuscì a sfondare a Nikolajewka, grazie al quasi totale sacrificio della Julia e della Cuneense. Per ricordare la forza ed il coraggio dei nostri alpini, dirò soltanto ciò che avvenne a Waluiki, ai resti della Cuneense.

La marcia verso ovest continuava con un clima insopportabile – 40 gradi sotto zero – in una lunga battaglia che durava da 10 giorni contro un nemico poderosamente armato ed equipaggiato. Molti si trascinavano tra gli spasimi del congelamento e delle ferite, tutti senza mangiare, senza riposarsi, e il numero dei morti era già spaventoso, quando si giunse a Malakijewa, dove i resti di tutta la Cuneense si riunirono, respinsero 27 squadroni di cosacchi e puntarono su Waluiki.

Là avrebbero dovuto unirsi alla Tridentina e alla Julia. Così era l’ordine di marcia. Vi fu un contrordine: non si doveva più puntare su Waluiki, ma su NikitowkaNikolajewka – lo sapemmo dopo – ma questo contrordine non giunse mai alla Cuneense e alla Julia. All’alba del 28 gennaio i superstiti che si avvicinavano a Waluiki furono di nuovo circondati dai russi. Ancora una volta i nostri alpini non vollero arrendersi. Gli uomini che restavano alla Cuneense spararono quasi in quadrato, intorno al generale Battisti che dirigeva le operazioni, finché non ebbero più proiettili.

Fu a questo punto che si sentì un grido: “Tutti i vivi all’attacco”. E fu uno spettacolo spaventoso, come di forsennati; tutti: sani, feriti, congelati, ufficiali e soldati si scatenarono per fare massa contro il nemico, avendo lasciato dietro solo i moribondi ed i morti. Nessuno si arrese, qualcuno riuscì ancora a rompere questo accerchiamento ma i più caddero combattendo.

Nel trasportare i feriti in un’isba constatammo che uno degli ufficiali era deceduto durante il trasporto; il secondo, febbricitante per causa di ferite che lamentava alla spina dorsale, lo adagiammo su un cassettone. Andai alla ricerca di un medico, tra quella confusione di soldati che si apprestava a passare la notte: lo trovai occupatissimo attorniato dai molti feriti ed ottenni di essere accompagnato da un suo infermiere per medicare i feriti. Giunti all’isba dovemmo purtroppo constatare che il collega da noi soccorso era deceduto.

Sottotenente Ugo Bergagna
Comando Gruppo Mondovì, 4^ Reggimento Artiglieria Alpina

A Nikolajewka c’ero, con il sergente maggiore Carlo Stramesi e dieci artiglieri alpini del comando Gruppo Mondovì del 4^ Reggimento Artiglieria Alpina Divisione Cuneense, con due slitte trainate ciascuna da un mulo. Eravamo giunti colà dopo esserci ricercati e raggruppati nelle tappe precedenti, in quanto ognuno era scampato alle dure battaglie sostenute dal nostro glorioso Gruppo Mondovì nei giorni precedenti.

Ricordo i volteggi degli aerei russi che ci hanno ripetutamente mitragliato. L’attesa estenuante dello svolgersi della battaglia, rivedo gli alpini dei vari battaglioni della Tridentina partire all’attacco. Rammento la ferale notizia, subito circolata, della morte del generale Martinat. Raccogliemmo sulle nostre slitte due ufficiali feriti dal mitragliamento aereo e, al sèguito del carro blindato tedesco dal quale il generale Reverberi incitava al combattimento, ci buttammo giù per il pendio verso la ferrovia sotto il grandinare delle bombe dei mortai.

Una scheggia mi colpì al fianco sinistro e restò fortunatamente impigliata alla pelliccia senza ferirmi, una seconda scheggia ferì un artigliere all’inguine per cui lo adagiammo su di una slitta. Vidi ragazzi generosi che con i polli spennati a tracolla si gettarono all’attacco con le poche munizioni rimaste. La discesa ci parve non dovesse mai finire, ovunque nostri feriti e morti irrigiditi dal freddo intenso. Poi la salita verso il paese di Nikolajewka e la ricerca disperata di un posto nelle isbe per pernottare.

Geniere alpino Alfredo Galbiati
4^ Battaglione Misto Genio Alpino, 114º TRT

22-23 gennaio. Sono con due compagni e un mulo. Facciamo parte della lunga fila che procede in qualche modo e non sa per dove. Fame, sete, sonno, stanchezza e paura, tanta paura. Noi tre siamo tra i più fortunati, abbiamo il mulo, qualche coperta, poche sigarette, ma i viveri trovati nell’ultima sussistenza sono finiti da qualche giorno. Si pensa al mulo. No, è troppo utile.

Ad un tratto arriva un aeroplano e subito la fila si sbanda in attesa di un ennesimo mitragliamento, ma questa volta non è russo, gira un po’ su noi e vedo qualche paracadute che scende a circa un chilometro dalla colonna. Viveri? Spero di sì, mi stacco dalla colonna (ma perché non mi segue nessuno?) e dopo mezz’ora mi trovo davanti a qualche cassetta e al paracadute. Ne sto aprendo una, contiene cioccolato in scatolette rotonde, quando un “raus italianski” mi fa voltare di scatto. Due tedeschi a cavallo, con le armi puntate, mi fanno capire molto bene le loro intenzioni.

La cassetta era aperta, il bene di Dio a portata di mano, ma che potevo fare? Con qualche parola di tedesco, di russo e d’italiano cerco di convincerli a darmi almeno qualche cosa. Ci riesco. Prendo poco e in fretta; maledicendoli rientro in colonna, ritrovo i miei compagni ma non il mulo, è morto. In queste circostanze il mulo è la vita e durante la notte ne rubiamo uno; è bianco. Stiamo approntandolo per partire quando arriva un tedesco che con parole e gesti ci fa capire che il mulo è suo riconoscendolo dai finimenti.

Siamo in tre e con qualche pugno mi vendico dell’affronto subìto il giorno prima. Ancora in colonna; di muli bianchi c’è solo questo. Ma perché il tedesco mi indicava i finimenti? Mah, l’importante era avere il mulo, ma purtroppo la gioia è durata poco. Il giorno dopo arriviamo in una specie di palude con un ponte da passare, ma da un lato ci sono i partigiani russi che sparano con la mitragliatrice.

Tutti avanti ugualmente, imbocco il ponte mentre il fuoco aumenta (il mulo bianco attira l’attenzione dei russi?), mi riparo dietro al mulo, sento una fitta nella gamba destra, però sto in piedi, trascino il mulo nell’altra scarpata del ponte; cadiamo insieme travolti dalla colonna; dopo un po’”mi rialzo, ma lui, il mulo bianco, no. Forse mi ha salvato la vita. Ho camminato ancora tanto da quel giorno, ma i miei compagni non li ho più visti. Forse sono rimasti col mulo.

Alpino Angelo Vassarotti

Forse tutti gli alpini che si sono salvati dalla marea russa sono transitati da Nikolajewka, forse anch’io transitai in quella località. Difficile è ricordarsi i particolari di quel paesaggio, poiché come tutti i sopravvissuti sanno, in mezzo a un mare di neve e ghiaccio si trovavano i centri abitati con isbe sempre bianche disposte parallele a una grande strada, come non mancavano mai i pozzi per attingere acqua con i loro rudimentali bilancieri; faceva sovente spicco anche una chiesa con campanile dalla cupola a forma di cipolla.

Anche la steppa non cambiava mai, costellata da lande, pianure, avvallamenti, promontori e balke. La visuale su questa landa? Era sempre tragica, ossessiva: alpini feriti che gridavano, alpini morti per chissà quale causa: freddo, fame, sete, o bucati da pallottole russe, tutto contribuiva ad annientare. Non mancavano le carcasse dei muli già spolpate dagli affamati alpini e ovunque materiali da guerra che facevano da quadro a questi tristi e desolanti drammi.

Oltre tutto anche i venti, con forti turbini di neve, alzavano una miriade di ghiaccioli da riempirci gli occhi, era giocoforza camminare per lunghi periodi uno dietro l’altro con la testa china su quel manto di neve che sprigionava una accecante gamma di colori e così ogni faticoso passo ci dava la sensazione di essere ancora un qualche cosa di vivente in cerca di salvezza. Certamente anche la zona di Nikolajewka era uguale e non meno tragica di Warwarowka, di Popowka, di Nowo Postojalowka e Waluiki dove perirono quasi tutti gli alpini della Cuneense e Julia.

Chi di noi poté ancora essere di aiuto a rompere i successivi accerchiamenti? Pochi, per la cattiva sorte a noi toccata nelle sopra descritte zone, dove, alla mercé continua dei russi, in noi tutto si esaurì. Ecco allora per noi non rimaneva che seguire la tragica pista di neve ghiaccio e alpini morti, forse gli stessi che perirono per rompere gli ultimi diaframmi russi che ancora ci tenevano prigionieri nel cerchio di Nikolajewka.

Siamo rimasti in pochi e poiché i nostri calvari cessarono a Belgorod è ovvio che pure noi transitammo a Nikolajewka. Poveri alpini; il 90 e più per cento non fecero ritorno, parte ghermiti dalle fauci della insidiosa steppa, la cosiddetta “morte bianca”, altri finirono i loro giorni dietro i reticolati; forse noi pochi superstiti fummo gli ultimi a transitare a Nikolajewka e dopo di noi scese come un sipario che divise la steppa in due mondi, quello dei vivi e quello dei morti.

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