ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 44

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Alpino Andrea Gavotte
9^ Compagnia, Battaglione Mondovì, 1^ Reggimento Alpini

Sono desideroso di dare anch’io l’apporto. Il 5 dicembre ho fatto prigioniero un soldato russo, vicino al fiume Don. Il 17 gennaio 1943 venne l’ordine di ripiegare. La notte dal 18 al 19 sono stato ferito ad una gamba da schegge. Fasciatala alla meglio ho continuato la marcia finché dopo giorni, a tratti, ho potuto usufruire di una slitta. Intanto la marcia continuava. Sul volto di ognuno vi era impresso il dolore.

Ogni tratto si vedevano cadaveri lungo la pista e soldati privi di forze sdraiati sulla neve; c’era chi chiedeva aiuto, ma invano data la situazione, nessun poteva soccorrerli. Spesso venivo assalito dal pensiero che un giorno o l’altro anch’io mi sarei trovato nelle medesime condizioni ed allora il pensiero dei genitori e familiari mi assillava ed il dolore morale superava quello fisico.

La mattina del 26 gennaio trovandomi sulla slitta un po’ distanziata dalla colonna; attraversando un paese, vidi che i partigiani sparavano da tutte le direzioni; e per sfuggire fummo costretti a deviare per una scorciatoia. Ad un tratto ci imbattemmo in un ostacolo: fitti cespugli ed un corso d’acqua, non potendosi attraversare con la slitta i conducenti tagliarono i tiranti lasciando la slitta ed i feriti. Con l’aiuto di un compagno attraversai il corso d’acqua finendo con i piedi a bagno. Mi trascinai un po’ a piedi un po’ in ginocchioni finché raggiunsi gli altri.

Quel giorno il capitano Battaglia è rimasto ferito gravemente da schegge; la stessa sera è spirato vicino a noi. Il cavallo che trascinava la slitta ove giaceva il capitano Battaglia, fu ferito, mentre il conducente, Battista Pastorelli, rimase illeso. La sera del 31 gennaio eravamo fuori della sacca; un ufficiale smistava le divisioni. Poche isbe bastavano per alloggiarsi. Il sottoscritto e i compagni: Nasi, Dalmazzo, Grosso ed altri ci rifugiammo in un’isba.

Appena sistemati ci togliamo i calzari, ma purtroppo sono un unico blocco gelato. Con l’aiuto dei compagni le scarpe si sono staccate però portandosi dentro di esse non solo le calze ma anche la carne, lasciando vedere i piedi neri in parte scarni. Non mi soffermo su tutti i particolari della ritirata, è stato un vero calvario per tutti coloro che l’hanno provata.

Ogni anno a gennaio sento in me un rinnovamento di quell’epoca triste e tragica, passando in rassegna i miei compagni colà rimasti, che da anni condividevano le nostre fatiche, ansie, fame, battaglie e vita bruta. Ricordo il capitano Pogliano (tornato), e i non tornati, il tenente Arturo Carino (in Albania ero il suo portaordini), gli ero molto affezionato; il tenente Mario Laponaro e altri ufficiali; il sergente Giuseppe Alessandria, fin dal primo giorno di recluto fummo assieme; ricordo Musso, Casco, nonché tutti i miei compaesani roccafortesi: Garelli, Dho, Magnaldi, Cerri, Ciana, Gavotte mio cugino e molti altri che alla patria han dato tutto. Voglia il Signore lasciare sempre impresso nella mente, vivo e perenne il ricordo di così tragiche esperienze.

Caporal maggiore Armando Molinari
10^ Compagnia, Battaglione Mondovì, 1^ Reggimento Alpini

Facevo parte del Battaglione Mondovì della Divisione Alpina Cuneense, schierata fino a metà gennaio 1943 sulla riva del Don nel settore di Nowo Kalitwa, allorché venne l’ordine di lasciare il fiume e cominciò la ritirata del Corpo d’Armata Alpino. Il mio comandante di compagnia era il capitano Ponzinibio. Facemmo una terribile marcia camminando ininterrottamente giorno e notte, con trenta e quaranta sotto zero, fino a quando superammo la zona di Rossosch e ci trovammo nel territorio di riunione delle truppe alpine e ci riunimmo alle altre due nostre divisioni.

Cominciammo allora la marcia che avrebbe portato i superstiti (ma naturalmente lo sapemmo molto più tardi) a giungere a Nikolajewka e a salvarsi dalla sacca. Io però sulla strada per Nikolajewka devo dire che misi soltanto il piede e compii i primi passi, perché ben presto furono proprio i miei piedi a darmi atroci dolori e a impedirmi di camminare. Sostai qualche ora in un’isba, e quando riuscii a togliermi le scarpe e le calze i miei piedi erano insensibili e bianchi come il marmo.

Non mi reggevo in equilibrio, ero disperato, qualche altro alpino intorno a me era su per giù nelle mie stesse condizioni, ci facevamo coraggio a vicenda ma capivamo che per noi era finita. Quando sentimmo le fucilate dei partigiani in arrivo ci trascinammo a nasconderci in una stalla; allorché uscimmo per cercare qualche cosa da mangiare io per muovermi dovetti legarmi alle ginocchia degli stracci di coperta, e d’allora in poi mi trascinai strisciando sulle ginocchia; dopo qualche giorno mi trovai separato dai miei compagni di sventura; andavo di isba in isba domandando la carità, vivevo di quello che mi davano i contadini russi, i soldati russi non mi catturavano neppure; vedendo com’ero conciato pensavano certamente che sarei morto da solo sulla neve e che potevano quindi lasciarmi anche dov’ero.

Col passare dei giorni la cancrena ai piedi mi fece andare in sfacelo la carne tanto che si vedevano le ossa delle dita, e il fetore era terribile; io stesso capivo che la cancrena si sarebbe a poco a poco diffusa e mi avrebbe distrutto. Allora con una lametta da barba che per fortuna avevo ancora mi tagliai ad una ad una tutte le dieci dita dei piedi facendomi saltare via anche gli ossicini fino ad arrivare alla carne viva e sana con un dolore che mi faceva impazzire, ma intanto il sangue vivo usciva ed era la salvezza.

Mi tamponai con pezzi di camicia e tirai avanti: certe notti incontravo nelle stalle qualche altro alpino congelato e pieno di cancrena, dovetti anche a questi tagliare le dita, me lo chiedevano perché il risultato che vedevano su di me pareva buono anche se la piaga restava aperta, per disinfettarla in qualche modo orinavamo sulla piaga; dava un bruciore tremendo ma forse faceva qualcosa. Passai per settimane da isba a isba, da stalla a stalla; dicendo che ero italiano trovavo comprensione e pietà; cominciai a fermarmi fuori dalle isbe, col venire della primavera, e cantavo qualche canzone italiana, soprattutto “Mamma son tanto felice”; le contadine mi davano un bicchiere di latte cagliato, o una patata, qualche volta una zuppa.

Ma ero sempre sfinito, mi trascinavo sulle ginocchia nel fango del disgelo. Un giorno mi accolsero in sosta in un’isba, un russo si impietosì talmente del mio stato che in mezza giornata mi confezionò sotto i miei occhi un paio di stampelle; mi parve di rinascere quando mi aiutò a rizzarmi e mi accorsi che appoggiandomi a quei legni potevo riprendere una posizione umana, manterrò riconoscenza per quel russo finché vivrò.

Ma i piedi buttavano sangue, avevo bisogno di cure, mi decisi a presentarmi a un treno ospedale russo carico di militari; non mi accolsero, una infermiera mi gettò delle bende già insanguinate, delle vere bende colle quali potei fasciarmi un po’ meglio. So che non è quasi credibile, ma quando mi avvicinai a qualche campo di concentramento per darmi prigioniero le guardie mi scacciarono sempre, evidentemente ero un rottame da non prendere in considerazione.

Soltanto dopo l’otto settembre, quando cominciò a circolare la voce che l’Italia aveva fatto la resa e l’armistizio anche con la Russia, pensai che non ero più un nemico, che mi dovevano accogliere e possibilmente sfamare, curare. Insistetti tanto dinnanzi al campo 52 finché mi fecero entrare; diventai finalmente un prigioniero regolare, e da allora seguii la sorte degli altri prigionieri italiani, e con questi a suo tempo venni rimpatriato. Una lunga strada, certamente; la strada di un alpino della Cuneense che a Nikolajewka non è mai arrivato ma che assieme a tanti suoi compagni alpini in un certo senso c’è passato vicino.

Sottotenente Giambattista Orlando
comandante del plotone mortai da 81 101ª Compagnia A. A. del Battaglione Ceva, 1^ Reggimento Alpini

Sono le ore 16 del 17 gennaio 1943. Dal comando della 101ª Compagnia Armi Accompagnamento giunge al plotone mortai da 81 l’ordine di smontare la rete telefonica, che collega il caposaldo “Fontane” al suo osservatorio sulla riva destra del fiume Don. Faccio eseguire l’ordine. Bisogna proprio ripiegare. Gli uomini, in preallarme da diversi giorni, hanno già sistemato gli effetti personali e le munizioni individuali e lubrificato fucili e pistole. Ora sono pronti a lasciare il caposaldo.

Abbraccio con uno sguardo pieno di riconoscenza e di rimpianto i capaci bunker ormai vuoti, che per quattro mesi ci hanno offerto un riparo valido e confortevole contro le bombe nemiche e contro il freddo, ed essendo calate le prime ombre della sera impartisco l’ordine di movimento. Si va verso Karabut, sede del comando del battaglione Ceva del 1^ Reggimento Alpini; di là parte alle 19 tutto il battaglione in direzione nordovest.

Alcune squadre fucilieri sono rimaste scaglionate lungo i sette chilometri di fronte tenuto fino ad allora dal battaglione. Per qualche ora esse cercheranno col fuoco intermittente delle armi automatiche di mascherare al nemico appostato sull’altra sponda del fiume l’abbandono delle posizioni, poi raggiungeranno al più presto le rispettive compagnie. Il morale degli alpini è alto, l’andatura è svelta. Ma per poco.

Non sono trascorse molte ore che già centinaia di automezzi tedeschi fermi per mancanza di carburante o per noie meccaniche rallentano la marcia del battaglione, al quale nel frattempo si sono aggiunti altri reparti del 1^ Reggimento Alpini. Le soste sono frequenti e lunghe, perché l’ordine è di dare la precedenza agli automezzi. Si pèrdono ore preziose, mentre il ripiegamento dovrebbe svolgersi con la massima rapidità.

Si va avanti così per tutta la notte, ci si accorge del gelo dal fiato ghiacciato sulla barba, intorno agli occhi e alla bocca. E’ l’alba del 18 gennaio. La colonna snodata attraverso la steppa ci appare simile ad un lunghissimo serpente. La notte trascorre indisturbata, ma l’improvviso crepitio delle armi automatiche annuncia che le avanguardie russe ci sono alle calcagna e sui fianchi. Il plotone arditi sciatori agli ordini del tenente Giovenale Curti, incaricato di allontanare le pattuglie nemiche dai fianchi del battaglione, agisce con pieno successo.

Il ripiegamento continua lento per tutta la mattina e per il pomeriggio, sempre intralciato dall’irrimediabile caos dei mezzi meccanici. Tra gli alpini del mio plotone e del battaglione nessuno accusa ancora la fatica, la fame è calmata grazie ai viveri della scorta individuale. Tutta la colonna appare compatta ed efficiente. Alle prime ore della sera il nemico riprende le azioni di disturbo, tentando di infiltrarsi nella colonna; viene fatto desistere dal pronto ed energico intervento di plotoni fucilieri del Ceva. Ci giunge la notizia delle prime dolorose perdite di uomini. Si ripiega da oltre 24 ore, ma non si prevedono soste.

Affrontiamo la seconda notte di marcia sotto turbini di neve, sostando di quando in quando, come al solito, più a causa degli ingorghi stradali dovuti agli automezzi che a causa dei russi. Ad un crocevia altra fermata, per dare la precedenza ad un reparto tedesco di artiglieria anticarro motorizzata. Al chiarore della luce biancastra che si sprigiona dalla neve riconosco il tenente Spini della 84ª Compagnia A. A. Reggimentale, scambio volentieri con lui qualche impressione.

A pochi passi da noi è un artigliere tedesco, alto e giovane; sembra una statua tanto è immobile. Improvvisamente egli si abbatte al suolo. In un attimo siamo su di lui e cerchiamo di aiutarlo a rialzarsi, ma invano; è morto per assideramento. Si ritorna a camminare e verso le 4 del 19 gennaio si arriva ad una località, dove si farà tappa. Sento dire che si chiama Popowka. Cerchiamo un riparo, per riposare finalmente al coperto almeno alcune ore. Ma le isbe e gli edifici in muratura sono già stracolmi di soldati germanici e di alpini della Divisione Julia. Ci sistemeremo a gruppetti un po’ qui un po’ là.

Raccomando ai miei alpini di non disperarsi troppo e soprattutto di non avvicinarsi troppo alle stufe per evitare i congelamenti. Appena albeggia molti preferiscono uscire all’aperto, per non perdere contatto col proprio reparto, data la confusione. Mattina e pomeriggio sono utilizzati da noi subalterni per riordinare i rispettivi plotoni e per controllare che siano abbandonati gli zaini e le cassetteufficiali ancora in possesso ed ogni altro materiale diverso dalle armi e dalle munizioni. E’ l’ordine.

La partenza del Battaglione Ceva avviene a sera inoltrata. Il battaglione è di avanguardia alla Divisione Cuneense. L’andatura lungo la strada che sale lievemente è alquanto lenta; c’è nell’aria l’odore della battaglia, perché il cannone tuona sempre più vicino e con maggiore frequenza. Corre voce che lo scontro col nemico sarà decisivo ai fini dell’accerchiamento, che minaccia le unità del Corpo d’Armata Alpino. Scavalcato il pendio, si vedono subito i bagliori della battaglia, che si sta combattendo qualche chilometro più avanti.

L’andatura si fa più veloce e presto è raggiunta un’altra località. Ne decifro il nome scritto a caratteri slavi sopra una cancellata di legno: “Kolkhoz Nowo Postojalowka”. Da alcune ore vi combattono aspramente il Battaglione Tolmezzo e il Gruppo Conegliano della Divisione Julia, contro il nemico annidato nell’abitato e nel bosco contiguo e appoggiato da carri armati. I lampi dei proiettili e gli incendi illuminano sinistramente uomini e cose; gli scoppi sono assordanti, ma tra gli alpini che mi sono accanto non noto segni di debolezza. Adesso siamo fermi, in attesa, di ordini.

Gli ordini non tardano a giungere: il Battaglione Ceva darà il cambio al provato Tolmezzo.
Questo è il risultato del colloquio rapido tra il colonnello Cimolino, comandante dell’8^ Reggimento Alpini ed il tenente colonnello Avenanti, comandante del Ceva. Per tutta la notte la 1^, la 4^ e la 5^ Compagnia Fucilieri del Battaglione Ceva attaccano a turno, addentrandosi nell’abitato per snidare il nemico, ma cozzano contro i mezzi corazzati e contro le innumerevoli armi automatiche.

Parecchie mitragliatrici vengono neutralizzate e diversi carri sono messi fuori combattimento, ma l’esito della battaglia si profila incerto. Nel frattempo il plotone mortai da 81 mm, i due plotoni anticarro con cannoni da 47/32 ed il plotone comando, tutti appartenenti alla 101ª Compagnia A. A., hanno assistito da distanza ravvicinata alla lotta, bivaccando dentro e dietro alcuni capannoni.

E’ quasi l’alba, ma la battaglia divampa più che mai. Il colonnello Cimolino ed il tenente colonnello Avenanti parlano di nuovo tra loro: il plotone mortai da 81 del Ceva sostituirà il gemello del Tolmezzo, che ha esaurito le munizioni. Mentre anche i plotoni di cannoni anticarro si tengono pronti, chiamo a raccolta i miei alpini e li esorto a seguirmi. Scavalcato un breve pendio, scendo di corsa dalla parte opposta per una cinquantina di metri e mi fermo nel punto indicatomi in precedenza; gli uomini mi hanno seguito, ma il nemico attento ci ha già causato le prime perdite.

Favoriti dalla luce ancora scarsa e dalla foschia, poniamo prontamente mano ai corti badili da campo e lungo il tratto di terreno scoperto assegnatoci scaviamo una trincea profonda qualche decina di centimetri e lunga una cinquantina di metri. Mettiamo quindi in postazione i 4 mortai, nelle piazzuole improvvisate, e trasmetto i dati di tiro. Frattanto alla nostra sinistra si sono affiancati i pezzi anticarro da 47/32. Alla nostra destra sono già schierati gli obici da 75/13 a proiettile controcarro della 2^ Batteria del Gruppo Mondovì, comandata dal capitano Silvio Sibona. Più a destra ancora è la Compagnia Comando del Ceva.

La protezione offerta dalla nostra trincea è nulla, ma basta per nascondere gli uomini sdraiati ai russi, che ora si intravedono abbastanza distintamente tra gli alberi del folto bosco situato a poco più di un chilometro di fronte a noi e sulla nostra destra. Tra noi e il bosco c’è una bianca radura lievemente ondulata. Cannoni anticarro, mortai ed obici sparano con puntamento diretto nel bosco contro i russi e i loro mezzi corazzati nascosti. Il nemico risponde ai nostri colpi, infliggendoci perdite. Il comando compagnia manda ad intervalli staffettesciatori, per mantenere il collegamento. Esse cadono colpite prima di arrivare fino a noi o mentre tentano di risalire il corto pendio per fare ritorno al comando compagnia.

Di fronte a noi, oltre il bosco, si snoda una rotabile, forse quella proveniente da Rossosch, già sede del comando del Corpo d’Armata Alpino. Improvvisamente giunge dalla sinistra della rotabile una colonna di artiglieria autotrainata; forse arriva da Rossosch. Quando è di fronte a noi, si ferma. I pezzi vengono staccati e puntati verso la nostra parte, le bocche da fuoco dalla rotabile scatenano salve di proiettili sulle nostre teste, seminando distruzione e morte.

Alcuni dei nostri pezzi, cannoni anticarro e obici, vengono colpiti in pieno con i serventi. Cade ucciso il tenente Mario Patrone che aveva diretto con grande maestria e con intrepido coraggio il tiro dei cannoni anticarro della nostra compagnia; cade ucciso il capitano Mario Sibona, che spostandosi da un obice all’altro della sua batteria da 75/13, per dirigerne il tiro, era stato di esempio ai suoi artiglieri alpini e a tutti noi per l’energia e lo sprezzo del pericolo dimostrati. Le perdite tra i reparti schierati sulla esile linea non si contano più, ma i superstiti rimangono ai loro posti. Nel frattempo la situazione è peggiorata. Favorita dal tiro della sua artiglieria, la fanteria russa è uscita dal bosco e avanza strisciando; lentamente, ma, inesorabilmente lo spazio tra essa e noi si assottiglia.

Un avamposto russo è riuscito a raggiungere con una mitragliatrice montata su slittino un grosso pagliaio situato a poca distanza sulla sinistra del nostro schieramento, non più di 200 metri. A quella distanza e di fianco essa è pericolosissima per tutti noi, privi come siamo di armi automatiche; i mortai sono impegnati contro la fanteria antistante, che preme sempre di più. Si tenta di colpire l’avamposto con i fucili, ma lo scopo non è raggiunto.

Il compito di eliminare dal nostro fianco quella grave minaccia è direttamente assunto dal tenente colonnello Avenanti, comandante del Battaglione Ceva. Mentre osservo il comandante di battaglione, che avanza verso il pagliaio seguito da un pugno di uomini della Compagnia Comando, comprendo che la sua presenza ed il suo gesto devono avere per noi un solo significato: resistere sul posto fino all’ultimo. Partecipa al colpo di mano anche il tenente Francesco Bruzzone, della 2^ Compagnia del Battaglione Pieve di Teco del 1^ Reggimento; che guida una squadra fucilieri.

La mitragliatrice appostata dietro il pagliaio viene spazzata via con le bombe a mano, ma il tenente colonnello Avenanti è ferito mortalmente. Trova ancora la forza di passare accanto alla posizione tenuta dal mio plotone, per gridarci l’ultimo incitamento a resistere. Morirà poco dopo. La fanteria russa, carponi, avanza sempre e le sue prime file sono vicinissime. Essendo pressoché esaurita la scorta di bombe per i mortai, imbracciamo tutti il fucile. Tra poco serviranno solo le bombe a mano e le pistole d’ordinanza. Ma la fanteria russa resta ferma, forse aspetta rinforzi prima di fare l’ultimo balzo. Infatti dai margini del bosco escono le sagome grigie dei carri armati. Sono i T 34, enormi.

Gli ultimi nostri proiettili anticarro schizzano sulle loro corazze senza scalfirle, ma quando i carri sono più vicini i cingoli diventano bersaglio facile ed alcuni di quei mostri vengono fermati. Gli altri in pochi attimi superano la radura e ci sono addosso, tutto stritolando, uomini e cose, proseguono, lasciandoci alle prese con i fanti saltati giù dal loro dorso e con quelli giunti sulla loro scia. Premuti da ogni parte, cerchiamo di opporci ancora, ma contro la superiorità numerica schiacciante, contro i “parabellum” che sgranano centinaia di colpi in pochissimo tempo, i fucili, le bombe a mano e le pistole sono inefficaci.

Gli alpini cadono senza un lamento, anche il mio vice comandante di plotone sergente maggiore Paolo Chiarlone stramazza al mio fianco. Dobbiamo soccombere. Del plotone mortai da 81 entrato in combattimento con cinquanta uomini solo una dozzina resta in piedi. La resistenza sulla posizione assegnata è durata dall’alba fino alle prime ore del pomeriggio. Per la maggior parte dei superstiti la morte è rinviata di pochi giorni, di poche settimane, forse di qualche mese; è rinviata fino a quando stramazzeranno nella neve prostrati dalle marce del davai o soccomberanno agli stenti e alle malattie in una prigionia più feroce e micidiale dei combattimenti di quel giorno.

Così il Battaglione Ceva del 1^ Reggimento, che per quattro mesi ininterrotti non aveva ceduto un palmo di terreno affidatogli sulla riva destra del fiume Don, sul kolkhoz Nowo Postojalowka sacrificava la maggior parte dei suoi effettivi nell’assolvimento dell’arduo compito di avanguardia della Divisione Cuneense. L’11ª Batteria del Gruppo Mondovì del 4^ Reggimento Artiglieria Alpina ne condivise le sorti con lo stesso valore e con la stessa generosità.

Alpino Renzo Arduino
21º Reparto Salmerie, 1^ Reggimento Alpini

Appartenevo a un piccolo reparto di salmerie facente parte del 1^ Reggimento Alpini della Divisione Cuneense. Raggiungemmo la città di Rossosch sul finire dell’estate, mentre i reggimenti proseguivano per il Don. Ci rimettemmo in marcia raggiungendo dopo quasi due giorni un paese chiamato Aidar; ci accantonammo in un ospedale vuoto per passarvi l’inverno, in attesa di riprendere il servizio di rifornimento alla prima linea.

Ben presto ci raggiunsero buona parte delle salmerie del Battaglione Mondovì e con essi passammo parecchio tempo alternando giorni trascorsi in servizi vari a viaggi di colonna con slitte fino a Rossosch, affrontando i rigori di quel freddo sinistro, come a fare un piccolo spuntino di quel grosso pasto che ci attendeva. Fu questo contatto con il mondo esterno dal quale eravamo completamente tagliati fuori, che ci permise di venire a conoscenza come la Julia fosse duramente impegnata a contenere la dilagante offensiva invernale sovietica, che grazie alle poderose forze corazzate minacciava di spazzarci via tutti; solo gli uomini di quella valorosa divisione con armi inadeguate ma con tanto eroismo seppero opporsi con enormi sacrifici, ripetendosi ancora come sul fronte greco.

Fu proprio in quel periodo di mutevole situazione che si giunse al pomeriggio del 15 gennaio 1943. Durante il quale davanti a noi cominciarono a passare, prima poche poi via via aumentando slitte di ucraini collaboranti con tedeschi, incitando i loro cavalli alla celerità. Il nostro comandante, Giuseppe Verrina di Genova, incuriosito chiese a qualcuno di loro il perché del frettoloso andare; risposero che i russi erano arrivati a Rossosch, e il loro arrivo in quella zona poteva avvenire presto.

Il tenente, allarmato, mandò una slitta con tre uomini al più vicino posto di un nostro presidio che si trovava a Rowenki a 15 km circa, qui arrivavano ancora in tempo per vedere gli incendi dei depositi di quanto era intrasportabile. Parlando coi soldati della Cosseria che stavano evacuando ricevettero la conferma dell’incombente minaccia che ci sovrastava. La mattina del 16 con un freddo tremendo ci incamminammo per Wendilenka, lontana una cinquantina di km, che raggiungemmo sull’imbrunire, senza esserci concessi un attimo di sosta, anche se già qualche sintorno di congelamento fra di noi faceva capolino.

Ricordo che guardandoci in viso ci suggerivamo a vicenda di strofinarci il naso, la fronte, le orecchie, che pure con il passamontagna subivano i rigori di quel paralizzante e pericoloso gelo. Raggiunto il grosso del paese ci infilammo nelle isbe notando come qualcuno dei miei compagni che ci avevano preceduto fosse già di guardia alle slitte cariche, fuori sulla neve. Con la visione di quell’alpino all’aperto, a sfidare per servizio i rigori di quella glaciale temperatura, entrai al tiepido di quella calda e ristoratrice dimora speranzoso di riposarmi al suo tepore dopo tanta sofferenza, con la convinzione che i tedeschi avrebbero fermato i russi e ritornare ad Aidar.

Per me fu una beffarda delusione perché dopo circa un paio di ore, giunse improvviso l’ordine di rimetterci in marcia: i russi stavano avanzando. Siccome la prigionia era il terrore di tutti, nessuno si fermò, ed anche io non feci eccezione e nel pieno della notte mi incamminai con gli altri scivolando per terra con frequenza, data la strada lastricata di ghiaccio, cercando di coprirmi con una spessa coperta da mulo, ma che nulla faceva per ripararmi da quel freddo polare. Mi pareva di essere trapassato da tanti spilli. Come mi sono rimasti impressi quei terribili momenti nei quali vi era da impazzire.

A noi si era aggiunta una buona aliquota di conducenti e muli del Battaglione Pieve di Teco al comando del tenente Cadenasso anch’egli genovese, già mia vecchia conoscenza di simpatica quanto energica figura. Pure loro sorpresi dal nostro arrivo e dagli eventi che precipitavano, così uniti a noi, da formare una considerevole colonna; come tante ombre vaganti nella notte gelida. Ci dirigemmo verso Waluiki, che nella oscurità vedevamo da lontano fatta segno ad un bombardamento aereo udendone gli scoppi delle bombe nel lampeggiante chiarore della vampata, mentre il freddo più intenso che mai non ci dava tregua e ci rendeva come sonnolenti; dolori lancinanti ci avvisavano che il congelamento, specialmente agli arti inferiori ci stava aggredendo.

La visione di come apparissimo fantasmi incappucciati a quel modo, con coperte bianche non l’ho mai dimenticato e ricordo pure bene come sull’albeggiare riuscii a gettarmi abbrutito dalla stanchezza, ma più ancora dal freddo bestiale sopra una slitta; non potei approfittarne a lungo: sentivo che il sonno insidioso mi avrebbe gettato in pasto al congelamento. Che terribili conseguenze, dato che i piedi stavano diventando insensibili, ed allora mi rimisi in piedi, ma con sgomento mi accorsi di non riuscire ad allungare una gamba, perché il freddo mi aveva colpito all’inguine, forse aveva colpito i nervi e camminare diventava un trascinarsi.

Ma per fortuna non tardammo a raggiungere Waluiki. Si era di primo mattino e passavamo fra i segni delle esplosioni delle bombe udite nella notte, che avevano annerito la neve. Ci sistemammo momentaneamente in certi capannoni vuoti, già depositi, aspettando ordini che non arrivavano, sperando con una certa fiducia che i tedeschi avrebbero respinto l’offensiva sovietica.

Ben presto questa fallace speranza si dileguò, perché le poche frammentarie notizie che si potevano avere dai soldati in arrivo, consigliarono i nostri ufficiali a proseguire; così sulla sera riprendemmo la strada verso ovest, incamminandoci per un lungo tratto di strada pianeggiante, mentre il freddo si faceva più feroce aumentando le nostre sofferenze, per i congelamenti che si facevano più gravi e più numerosi.

Il dolore all’inguine che si era attenuato durante la sosta del giorno, aveva ripreso ad impedirmi la marcia; lo feci presente al tenente Verrina; mi rispose di arrangiarmi. In quella dura notte aveva perso la pacata compostezza di signorilità che lo distingueva e, per la quale tutti nutrivamo profondo rispetto; la sua umanità cementava il reparto in una comunità di fraterna giovialità; forse per questo le sue moltiplicate responsabilità del momento lo rendevano più sbrigativo; ciò non sminuiva affatto tutta la fiducia che riponevo in lui, aumentata ancora di più dal trovarci tutti sopra una barca in balia delle onde, bisognosi di una mente direttiva capace di fugare quei momenti di caotico smarrimento che possono sorgere in situazioni come quella…

Ognuno di noi aveva i suoi problemi da risolvere ed avanti era l’imperativo; così ad un certo punto del quale ho vivo il ricordo, si giunse ad un bivio; una freccia scritta in tedesco indicava la direzione di Kiew verso cui si era diretti; noi invece si deviò a sinistra; qui, su un altopiano, la colonna si trovò divisa in due tronconi per la presenza di due villaggi distanziati di un po’ di strada e sentendoci in un certo senso fuori dell’immediato pericolo.

Non dimentico quella notte; vidi un alpino che pur avendo i guanti con la pelliccia per aver tenuto la catena del mulo si trovò con le dita congelate; in simili situazioni erano tanti che non riuscivano più ad articolare le mani. Quest’invisibile nemico fu il più forte perché lui ci inseguiva con spietata insistenza; ci fermammo così ove ci trovavamo, infilandoci nelle isbe senza troppe formalità, tanto se ne aveva bisogno; al mattino ci guardammo attorno facendo i primi bilanci dei congelati; lì rimanemmo tutto il giorno sperando sempre di ritornare indietro; qualcuno che era di guardia ad un deposito di cereali a Waluiki, fuggito con noi, ritornò davvero indietro in quel giorno ingannevole.

Intanto, prestavamo le cure più essenziali ai congelati impossibilitati a camminare e a dare cibo ed acqua ai muli, che tanto aiuto ci davano, ma che male ricompensavamo perché al momento di ripararci al tepore delle isbe li dimenticavamo imbastati ove si erano fermati, infilandoli nelle stalle così, o lasciandoli all’aperto. Loro pazienti ed anche a stomaco vuoto
erano pronti al nostro servizio.

Passammo quel giorno e tutta la notte tranquilli per svegliarci al mattino al rumore che fa il crepitio delle armi automatiche, lo sferragliamento di mezzi cingolati, le cannonate frammiste al frastuono dei motori che annunciavano (oltre il costone che ci separava dalla strada dalla quale si aveva deviato), l’arrivo in forze dei russi, diretti ad occupare Waluiki con il suo nodo ferroviario.

Mi trovavo con altri due compagni in una confortevole isba; uno dei due non poteva camminare, e ricordo la bontà di quella gente semplice, che ci diede dei panini fatti in casa alla buona, che accettammo con tanto piacere; al momento di andarcene quindi dopo aver caricato quello con gli arti congelati, da buoni ultimi raggiungemmo la colonna, che in quella neve cercava di guadagnare terreno con andatura sostenuta, cercando di distanziare presto quei luoghi, diventati minacciosi per noi: stavamo per ritornare sotto la sovranità dei russi, i quali raggiunta Waluiki vi installarono ingenti forze; contro di esse, nei giorni che seguirono, oltre ad altri reparti, venne a cozzare il Battaglione Pieve di Teco, il quale combattè invano contro quelle forze preponderanti.

Il suo sacrificio fu inutile e quelli che non caddero in combattimento dovettero sottostare alla terribile prigionia dalla quale ben pochi sarebbero ritornati. La fine di questo battaglione composto di tutti liguri mi ha sempre impressionato particolarmente perché fu proprio in esso che da recluta ricevetti sulle Alpi il battesimo del fuoco, battaglione nel quale avevo molti amici e compagni di gioventù; quasi tutti non fecero più ritorno e fu proprio in esso ricostituito, che anch’io in sèguito caddi a mia volta prigioniero dei tedeschi, dopo uno scontro a fuoco avvenuto di notte, con caduti da ambo le parti.

A sera ci rifugiammo in un’isba, vi era una povera donna ammalata stesa sopra un giaciglio, che fra l’altro ci disse come suo marito fosse italiano e che si trovava sul fronte di Leningrado, facendone anche il nome, al che un mio compagno della zona di Finale Marina allibì perché il menzionato era delle sue parti, rimasto in Russia dalla prima guerra mondiale, lasciando un figlio che in quel momento era anche lui in Russia, nei ranghi del Battaglione Pieve di Teco…

Ricordo anche quell’altro alpino del Battaglione Pieve di Teco cui domandai la sorte dei due fratelli, miei amici e vicini di casa, che erano della sua compagnia e precisamente la 102ª Anticarro; mi rispose come uno fosse caduto, colpito da una granata, mentre l’altro ferito alla gola, venisse poi abbandonato su di una slitta carica di feriti e congelati, impossibilitato a proseguire. Quell’alpino che mi raccontò questi fatti ebbe in sèguito la mia stessa sorte nel rimanere prigioniero dei tedeschi, ma non tornò più a casa; la mamma dei due fratelli invece sul finire della guerra rimase uccisa da una cannonata francese, senza conoscere la vera fine dei suoi unici figli.

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