ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 41

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Caporale Mario Frusto
9^ Battaglione Misto Genio per Corpo d’Armata Alpino

Intorno era spaventoso per le fiamme, i relitti che ostacolavano la via anche per i pedoni. La presenza del maggiore Sassi, del capitano Piazzi e molti altri assiepati, uniti nell’animo come una famiglia che ha lottato disperatamente per la sopravvivenza, ma purtroppo si deve soccombere di fronte a tanta avversità. Malgrado ciò reciprocamente ci si dava ancora la forza di lottare più che per la salvezza per il senso del dovere.

Gli ordini furono di alleggerirsi di tutto, lasciai tutto tenendomi come indispensabile la coperta e le tasche del cappotto. I non addetti al collegamento radio furono avviati in una direzione ove un gran ammassamento si stava preparando ad un evento straordinario, andarono Remo Bracaccini, Cesare Vorbeni e tutti gli altri amici. Mi riferirono poi che Don Gnocchi aveva impartito la benedizione, designando ognuno al proprio destino; era il mattino del 20 gennaio.

L’ordine di eseguire un collegamento radio mi ridiede la fiducia, non potendo proseguire con l’autocarro ci mettemmo i cofani in spalla per raggiungere con difficoltà il luogo indicato. Il percorso non lungo ma difficoltoso per i relitti, le fiamme infine non spaventano essendo queste benefiche di fronte a tanto freddo. Arrivammo in una piazzetta, delineata dalle solite isbe. Installammo l’antenna con il dipolo della stazione RF3 matricola 0175, le pile erano efficienti, la termocoppia segnava una ottima intensità d’aereo.

I cuori di tutti pieni di gioia quando un ufficiale di stato maggiore mi forniva dal codice i nominativi per chiamare ad intervalli il Comando della Tridentina prima e quello della Cuneense poi. La figura imponente del generale Nasci e quella snella del generale Martinat i quali per la prima volta ebbi l’onore di averli vicino in quel trepido momento, mi infondevano energie per insistere reiterati richiami radiotelegrafici. Non ricordo bene chi era con me ad avvicendarsi, perché la sensibilità delle dita mancava ed il tasto non si poteva azionare con tanta facilità, ma potrebbe essere stato il tenente Mengotto e il caporal maggiore D’Andrea.

Durò molti minuti questa angosciosa attesa, però degli scoppi circostanti incominciarono a turbare quella affannosa attesa della stazione corrispondente non captata, e un’ondata di sfiducia divenne sgomento quando negli occhi del generale Nasci notai la sensazione della fine a causa delle esplosioni che ci stringevano sempre più e all’istante avevano centrato la piazzetta. Obiettivo facile per i carri armati russi che scendevano dalle alture circostanti. Attimi di indecisione, ma il continuare delle esplosioni intorno a noi indusse il generale Nasci a dire con voce energica: “Lasciate tutto, salvatevi come potete”.

Rendemmo inservibile il trasmettitore, ci guardammo con il maggiore Sassi che mi consegnò due bombe a mano dicendomi: “Ti potrà servire”. E via tra gli scoppi, senza studiare la situazione, il nostro compito dopo una perseverante insistenza non dette nessun risultato e ci trovammo completamente sbandati. Attraversai una palude di fitte canne incominciando l’erta attaccato ad una slitta trascinata da un furibondo cavallo spaventato anche lui per la battaglia furente; non resistevo all’impazzata corsa, mi accasciai, e con la lingua lambivo la neve perché in essa sentivo il bisogno di rinfrescarmi anche se la temperatura era venti gradi sotto zero.

Stordito e impaurito dalla fine imminente per le esplosioni che ci seguivano in quel lungo pendio bianco, ove il grigioverde era ormai disseminato, sconvolto e lacerato alla disperata mi affannavo di uscire da quella maledetta distesa di neve. Quando il sole volgeva ad occidente mi trovai sull’altura, incoraggiandomi nel notare che la sconfitta non era totale. Riunendomi in quella marea di grigioverde riudii i toccanti comandi degli ufficiali dei Battaglioni Edolo e Morbegno che ancora in vigoroso assetto si dirigevano in avanti con direzioni divergenti, a tre colonne.

… Non disponevo più di energia per battere i piedi nelle forzate soste per evitare che i piedi appena protetti da un paio di calze rotte si attaccassero alle suole delle indurite scarpe. Mi accasciai come per riposare nel bordo rialzato della pista guardando le stelle ad occidente sforzandomi di pensare alla mamma, al tepore delle sue carezze e cadere in un dolce sonno; in quell’abbandono riuscii a capire che anche per me era la fine. Una voce fioca mi invitò ad alzarmi stendendomi la mano, così ripresi per seguire tremolante e ridare vigore al mio fisico. Con sforzo gridavo: “Nonooo… Nonooo Battaglioneee…”. Che gioia, che gioia quando ho sentito ripetersi “Nonooo…”.

Erano le voci di Remo, di Cesare e Guerrini, questa unione ci diede la forza di camminare e sopraggiunse l’alba del 21 gennaio. Volava di bocca in bocca che la battaglia sostenuta nella notte dai Battaglioni Edolo e Morbegno avesse spezzato l’accerchiamento: nessuno sapeva niente di esatto. Sopraggiunse in anticipo la sera del 21 con una formidabile tormenta di neve; erano già sette notti passate in bianco in quella travagliata odissea bianca. Si cercava disperatamente di distenderci, e fu impossibile.

La voce “Nono Battaglione” era diventata ormai la nostra forza per ritrovarci e passammo la notte bivaccando appoggiati alla parete esterna di una casa per ripararci dal tormentoso vento del nord stendendo le mani in uno sparutissimo fuoco neanche sufficiente per sciogliere un poco di neve nei barattoli vuoti per ristorarci. In quell’inumano sacrificio era facile delirare, imprecando, sbraitando contro coloro che hanno voluto portarci in quell’immane tragedia.

Mi rifugiai a stento in un’isba gremita e dormii bene in piedi in stretta dondolante con gli altri. Con sgomento ci accorgemmo che le pareti di terra e paglia erano troppo calde, le avevano incendiate coloro che non potevano entrare ed avevano estremo bisogno di sedersi. Simili rimedi sembrano incredibili! Ma purtroppo era un rimedio per evitare l’assideramento per l’estremo obbligo di sopravvivere… Di nuovo senza amici percorrendo una pista fiancheggiata da pali telegrafici; ciò era incoraggiante pensando all’attraversamento della steppa dei giorni passati.

Mi capitò un mulo senza conducente, mi sentivo riposato sopra la sua groppa anche se avevo i piedi che si irrigidivano. All’alba del 23, con l’ausilio del mulo, risalendo la lenta martoriata e assottigliata colonna, lieto di essere sfuggito alla prigionia raggiunsi un centro abitato. Preoccupato degli amici, andai avanti e indietro con quel pacifico e stanco muletto avvicendandoci quando lui mi teneva in groppa e quando io lo tiravo con le briglie evitandogli di annusare la neve. Mai come in quell’alba limpida mi sentivo il bisogno di una bevanda calda, con neve sciolta magari.

Le isbe erano tutte chiuse, ciò dimostrava che gli alpini combattenti non erano ivi passati, dovetti lasciare la compagnia del mulo, non camminava più. …Si doveva cambiar direzione, ma quale? Ognuno si sentiva di aver ragione. Mi demoralizzai in quel caos senza amici senza più fiducia, e piansi per la prima volta, ma disperatamente piansi! Pensando alla prigionia, di ripercorrere quella maledetta steppa senza più scopo di vivere, meglio la morte in quell’istante.

Toccai le bombe a mano che mi consegnò il maggiore Sassi (“ti può servire”). Ma fede cristiana e l’amore della mamma forse in quell’attimo mi diedero la forza d’insistere. Incontrai per la terza volta un amico di slitta (in quelle circostanze per dividere l’amicizia è sufficiente un istante) nelle mie stesse condizioni, il sole più che la temperatura scaldò il nostro animo.

… Regalai la scorta di patate a un magiaro sperando che in compenso mi facesse appoggiare le mani sulla sponda della sua slitta, ma non si commosse, malgrado le pietose invocazioni, anzi dovetti essere energico per non farmi mozzare le dita dai violenti colpi di bastone sulle mani che si appoggiavano. La carità umana era assolutamente perduta.

Feci uno sforzo sovrumano per farmi passare quel momento di abbandono e la vista di un mulino a vento mi ridiede la forza di continuare, pensando che alle prime isbe potevo riprendere gli amici. Nella grande confusione, già del tardo pomeriggio, rimediai dei ritagli della gabbia toracica di una mucca e in un braciere li scaldai per ristorarmi in fretta e continuare la marcia forzata.

… Così si incominciò la giornata del 26 gennaio 1943. Rimediando pezzi di coperte per rifasciarmi i piedi ho notato con spavento che le unghie dell’indice e del medio del piede destro non c’erano più, le falangelle erano ben spolpate per il congelamento. Nella parte opposta della balka c’erano circa una ventina di alpini sciatori con la divisa bianca semicoperti dalla neve ove spiccavano le cinghie, la barba, gli scarponi. Per come erano disposti lasciava capire che furono uccisi di primo mattino da un’imboscata dietro la fratta.

Mi venne l’idea di prendergli le belle scarpe. Quando provai di toglierle a uno mi è sembrato di rompere il ghiaccio in uno specchio d’acqua e quello scricchiolio mi spaventò, accontentandomi delle coperte sgualcite. Erano circa le 12 del 26 gennaio, lentamente si procedeva in un ampio pendio asserragliandoci sempre più. Quanti pensieri in quelle lunghe pause di attese. Nella valle gli scoppi erano più insistenti e giungevano con maggior intensità al nostro orecchio.

Uniti nel nostro piccolo nucleo del battaglione, il maggiore Sassi ci diede l’ordine di tenere il moschetto sotto controllo. Nel timore che fosse ghiacciato si strofinava con le pennazza del cappotto e con l’alito: leccando la canna con la lingua era difficile staccarla. Quando vedemmo da quella selva di uomini uscire dei razzi contemporaneamente agli scoppi, entrammo nella convinzione di una cruenta battaglia. Erano le katiusce azionate da reparti tedeschi, con alcune autoblinde che dirigevano il fuoco in basso nella valle.

Gli alpini da molte ore si prodigavano per impossessarsi della città affinché la colonna vi potesse entrare per sfuggire ai rigori della notte. Anche i quadrupedi che in mezzo a noi soffrivano, non era più possibile tenerli fermi e i conducenti con i loro modi ancora docili cercavano di non agitarli per non offendere, non colpire i fitti e fitti gruppi adiacenti. I feriti nelle slitte imploravano immobili con lamenti toccanti strazianti di non abbandonarli, perché ascoltavano e capivano che da un momento all’altro il freddo ci avrebbe portati all’esasperazione.

Per quietare, per incoraggiare, finalmente circolava da bocca in bocca che in basso la città era Nikolajewka, capace di ospitare tutti i 50.000 fermi lì, nell’orlo dell’assideramento, la temperatura si poteva considerare su 35 sotto zero. Quei momenti densi di riflessioni, di fronte a quella tragedia che minuto per minuto andava maturandosi distruggendo l’esistenza fisica di noi che ci affrontavamo con gente altrettanto come noi umani e generosi, solo al pensiero: per chi, per che cosa? Come un baleno si notò della rianimazione, dei fermenti, le prime voci secche autoritarie imperative: Avanti. Avanti.

Ci tenevamo più uniti possibile al proprio gruppo, la imponente massa si mosse aumentando l’andatura istintivamente, rendendosi come una carica funesta che precipita a valle investe, travolge, distrugge ciò che incontra, bramosi di giungere a tutti i costi a quel luogo ove il calore delle isbe in fiamme ed il fumo acre riscaldasse i nostri intorpiditi corpi.
A discesa terminata, erano circa le 22, superammo una strada ferrata e nella scarpata i segni dei duri combattimenti erano molto evidenti.

Ho pensato spesso a quel pendio a sud di Nikolajewka, che cosa potremmo aver lasciato; e quanti sono rimasti, lì immersi nella neve, quanti avranno teso la mano e fissati gli occhi in quelle agitate fiamme dei fuochi perché in esse vedevano ancora il filo della speranza.

Sottotenente Alberto Palazzo
3^ Battaglione Misto Genio

Rientrata in Italia la Divisione Julia nella primavera del 1942, il 3^ Battaglione genieri alpini ricomposto nei quadri, al comando maggiore Adalberto Ilari veniva mobilitato ed avviato al fronte seguendo le sorti della divisione. Sul fronte vennero posti in atto tutti i collegamenti radio divisionali, stese decine e decine di chilometri di linee telefoniche, compiute opere di fortificazione campale.

Il rilevamento di campi minati di fronte alle linee (lasciati da informazioni ungheresi cui la divisione dette il cambio), causò perdite in vite umane poiché mancavano carte ed indicazioni dell’ubicazione delle mine stesse, che comunque bisognava individuare. In queste operazioni devesi ricordare la coraggiosissima opera del tenente Petti, che alla testa di una squadra di genieri saltò su una mina restando gravemente mutilato e ferito in più parti: recuperato morente in un telo da tenda, miracolosamente riuscì a scampare alla morte poiché il sangue, con temperature inferiori a 40^ sotto zero, si coagulava istantaneamente.

Verso metà dicembre, per tamponare una falla aperta a sud dello schieramento del Corpo d’Armata Alpino, veniva formato d’urgenza un “gruppo di pronto intervento” con elementi prelevati da vari reparti della Divisione Julia. Anche il battaglione genieri fornì a tale gruppo la forza di una compagnia (artieri) che si prodigò in settimane di combattimenti nel gelo più inaudito, allo scoperto, su un fronte fluido e privo di qualsiasi ricovero.

Caddero combattendo in quei giorni molti valorosi genieri a fianco degli alpini e degli artiglieri della divisione. Da ricordare il giovanissimo sottotenente Zavattaro, fratello dell’attuale comandante della Scuola di Guerra generale Zavattaro, immolatosi nell’assalto di un carro armato nemico che voleva fermare gettando nella torretta una bomba a mano. Altri valorosissimi ufficiali e genieri alpini furono feriti nei combattimenti e negli scontri contro i carri armati russi: alcuni riuscirono poi ad essere sommariamente curati ed avviati al rimpatrio prima dell’immane tragedia che stava per iniziare. Fra questi, cito il capitano Succi ed il tenente Vici.

Sono l’unico ufficiale superstite del battaglione genieri alpini della Julia in Russia. Ritengo doveroso dire che non tutti i componenti del mio battaglione sono finiti ingoiati nel vortice crudele di Podgornoje o subito dopo, abbandonatisi sfiniti nelle isbe o andando ormai svuotati di ogni volontà incontro alla morte bianca dopo decine di ore di marcia forzata a 40^ sottozero. Intuendo l’immane imminente disastro, quando i comandi di divisione e di battaglione erano introvabili nel caos, quella notte infernale chiamai a raccolta tutte le mie residue forze, ed insieme a tutti coloro che bene o male erano ancora in grado di reggersi in piedi proseguii la marciacalvario.

Andammo per giorni e notti aiutandoci l’un l’altro marciando insieme a reparti della Tridentina, combattendo con tutta la residua disperazione per non cadere in mano al nemico. Incontrammo i resti de L’Aquila con Prisco e Fossati, coi quali proseguimmo e terminammo l’odissea. Rientrai in Italia con 103 uomini (su 753 + 25 ufficiali).

Le gesta dei miei non sono ricordate da nessuno, benché i genieri avessero condiviso cogli alpini dei vari battaglioni tutti i sacrifici in Albania e in Russia. Certo non furono considerati, forse perché sempre “aggregati” a nuclei operativi dei vari reparti della divisione. Il ricordarli renderà giustizia a tanti formidabili e prodi soldati friulani e vicentini che mi furono accanto in tante battaglie.

Tenente Gilberto Gilibert
8^ Reparto Salmerie

L’artigliere alpino Schena, classe 1910, distretto militare di Belluno, era la macchietta dell’8^ Reparto Salmerie della Divisione Julia. Magro, lungo ed allampanato portava nelle carni il marchio delle privazioni e delle fatiche sopportate da sempre. Le gote smunte ed incorniciate da una barbetta caprigna gli conferivano un’aria grottesca, maggiormente accentuata dal peso della grande testa schiacciata fra le spalle cadenti.

Le braccia lunghe e magre, anche quando camminava, gli ciondolavano inerti lungo i fianchi e terminavano in due manone spesse e callose dello stesso colore del cuoio. L’uniforme metteva ancor più in evidenza i difetti della sua andatura sgraziata e del suo corpo denutrito ed inselvatichito. La giacca scolorita ed unta, troppo larga per la sua magrezza e con le maniche troppo corte per le sue braccia rinsecchite, gravava sulla sua persona incurvandola leggermente in avanti. Le mollettiere avvolte senza cura attorno alle gambe nodose e scheletriche pareva fossero sempre sul punto di afflosciarsi ai suoi piedi.

Al centro del capo, che portava pelato, spiccavano due lunghi ciuffi di capelli simili ai due ciuffetti di peli lasciati sulla criniera rasata dei muli della sua sezione (la 2^) per distinguerli. Schena era, infatti, un conducente della 2^ sezione e questo era la sua grande
ambizione, il suo orgoglio. Nino, il mulo che gli era stato assegnato, per una bizzarria del caso aveva più di un punto in comune con il suo conducente, il modo stesso come era bardato (non erano serviti insegnamenti, consigli, ammonizioni) conferiva alla povera bestia una somiglianza quasi fisica con l’alpino. Affinità elettive…?

Certo è che l’uno era fatto per l’altro; un affetto quasi umano li legava. Schena faceva interminabili discorsi nell’orecchio del suo “musso” e nessuno riuscì mai a sentire cosa gli dicesse: ne era geloso come di un segreto. Fu sorpreso più volte mentre sottraeva la biada dalle “musette” dei compagni per darla alla sua “creatura”, alla quale riservava cure commoventi anche, parrebbe strano, con “razioni” supplementari di brusca e striglia. La “sconcio” Schena!

Un montanaro contadino e pastore nel quale oltre alla rozzezza ed all’apparente ingenua semplicità si ritrovava anche l’essenza di una educazione oggigiorno molto rara, un rispetto verso gli altri, verso le cose, verso il destino stesso, un rispetto anche nel chiedere, con un po’ di vergogna, ma con la sicurezza di pretendere un diritto dovutogli. Uno dei tanti che non sanno perché vanno a morire, ma che per la loro naturale disciplina sono pronti anche all’estremo sacrificio.

Dopo il mulo, Schena nutriva una devozione particolare per il tenente, il “suo” tenente, perché lui l’aveva capito! Il tenente aveva capito la sua fame atavica e gli passava i supplementi rancio e gli permetteva, cosa a cui ambiva in sommo grado, di intrufolarsi in cucina a pulire le marmitte (ci scappava sempre qualcosa per calmare la sua fame insaziabile). Il “suo” tenente gli leggeva le lettere della morosa e lo aiutava a sbrigare la rara corrispondenza che lo legava alla vecchia madre lasciata ad intristire in una baita del lontano villaggio di montagna.

Perché il “suo” tenente chiudeva un occhio su tante cose della “naia” che il povero Schena, nella sua ingenua bonomia, non riusciva a capire e che gli avrebbero potuto causare anche qualche grattacapo. Questo era il conducente Schena e questa che racconto la sua ultima avventura. In sèguito all’offensiva sovietica scatenatasi in quei giorni e che si estendeva a macchia d’olio, la città di Rossosch, sede del comando del Corpo d’Armata Alpino, era stata attaccata da alcune unità corazzate sovietiche.

Eravamo in stato di preallarme, in attesa di ordini che tardavano ad arrivare. Tutto era già stato preparato per un ripiegamento. La confusione generale cresceva di minuto in minuto; l’impazienza ci rodeva e ci debilitava. Il capitano Bosi, comandante del reparto, un vero gentiluomo torinese di vecchio stampo, con la sua imperturbabile serenità cercava di infondere in tutti noi la calma e la fiducia.

Le prime ombre della notte erano rotte dai bagliori di un immane incendio che, stava distruggendo un grande deposito di carburante situato in paese e dagli scoppi intermittenti che provenivano dalla vicina ferrovia dove squadre di genieri si affrettavano a far saltare i binari. Un via vai sempre più caotico di automezzi italiani e tedeschi rendeva ancor più allucinante lo scenario.

Finalmente a notte inoltrata arrivò l’ordine di ripiegare su Mariewka in direzione ovest verso Waluiki. Si camminò senza soste tutta la notte. L’alba ci sorprese impegnati in una marcia durissima, resa lenta dalle piste gelate e dal sovraccarico dei muli e delle slitte. Un vento gelido e tagliente soffiava da tramontana e mozzava il fiato; già si contavano i primi congelamenti. Ad Olichowatka fummo presi di mira dal cannoneggiamento di alcuni grossi carri armati russi. Nella lunga colonna avvenne uno sbandamento che divise il reparto in marcia in due tronconi.

Il sottotenente Giardino, il più giovane ufficiale del reparto, che si trovava in coda con la sua sezione venne tagliato fuori. (Ci ricongiungeremo solo a Karkow dove, benchè sofferente e febbricitante riuscirà a guidare, grazie alla sua calma al suo sangue freddo ed alla sua capacità, la sua sezione quasi al completo.) Giungemmo a Mariewka verso l’imbrunire. Il freddo, la fame, la stanchezza ci avevano spossati. Si distribuì un po’ di rancio caldo approntato alla meno peggio e poi si ripartirono gli uomini, sfiniti dal freddo e dalla fatica, suddivisi per squadre nelle varie isbe del villaggio affinché potessero rinfrancarsi per affrontare le avversità che ancora li attendevano.

Sentinelle venivano accuratamente disposte nei punti nevralgici del paese. Lo sfinimento ci faceva piombare in un sonno profondo e pieno di incubi. Quanto avremmo dormito? Un’eternità? Alcune ore? Pochi minuti? Non si sapeva nulla. La voce concitata dell’alpino Cerruti, attendente del tenente Gilibert ci fece sobbalzare dai nostri improvvisati giacigli e ci richiamò alla realtà. Eravamo stati attaccati di sorpresa da preponderanti forze avversarie guidate da partigiani locali.

Ci giunse dall’esterno il crepitio rabbioso di alcune mitragliatrici. La notte era fonda; nell’aria gelida sfrecciavano le scie luminose tracciate dai proiettili. Di corsa ci raggruppammo in un punto precedentemente convenuto. Anche i nostri incominciarono a sparare; imbastimmo una debole difesa e ci riordinammo per proseguire verso ovest. Contammo le prime perdite; alcuni uomini della squadra comando, infatti, mancavano all’appello.

Oramai bisognava abbandonare l’itinerario prefissato; l’essenziale per noi delle salmerie, poco e male armati, impacciati ed impediti dal gravoso materiale che dovevamo trasportare, era di sfuggire alla distruzione, alla cattura. Abbandonammo piste, villaggi, centri abitati; bastava proseguire, raggiungere ad ogni costo la meta che ci era stata fissata.

Verso l’alba si presentarono al tenente Gilibert un ufficiale ed un caporale di sanità. Facevano parte di un ospedaletto da campo che operava nelle retrovie del fronte. Ci misero al corrente della loro situazione e quasi implorarono che venisse loro assegnata una slitta per trasportare due feriti gravi che la sera precedente avevano dovuto abbandonare in un’isba, affidandoli alle sole cure di un loro commilitone. Umanamente non si poteva abbandonare dei fratelli in pericolo rifiutando la nostra solidarietà ed il nostro contributo. Per un conducente si trattava di abbandonare i compagni e di ritornare indietro verso una incognita fatta di duri combattimenti, di imboscate, forse di morte.

L’ufficiale comandante la sezione avrebbe potuto scegliere a caso ed ordinare a l’uno o a l’altro dei conducenti di invertire la marcia. Il tenente Gilibert preferì invece parlare ai suoi alpini: a loro prospettò la necessità, il dovere di soccorrere due commilitoni feriti che chiedevano, imploravano il nostro aiuto. “Chi si sente di offrirsi volontariamente si faccia avanti.” Ci fu un attimo di incertezza, poi, ecco con il suo passo ciondolante avanzare il nostro Schena seguito dal suo inseparabile mulo. “Agli ordini, sior tenente, se è solo per questo ghe vado mi. Mi go niente da perder…” e rivolto al mulo: “Elo vero, Nino?” “Mandi”. Schena, povero “vecio” Schena, umile e rozzo alpino del Cadere, ancora ti vediamo mentre sul bianco immacolato della neve ti allontanasti tenendo per la cavezza la tua “creatura”.

Nei nostri occhi è rimasta impressa la tua goffa e sgraziata immagine che rimpiccioliva allontanandosi verso l’orizzonte. Eri divenuto un nero puntino che si perdeva nella candida e sconfinata desolazione della steppa gelata, fino a scomparire per sempre.

Geniere alpino Amilcare Miconi
Radiotelegrafista, 9^ Battaglione, Corpo d’Armata Alpino

E’  passato oltre un quarto di secolo, certamente la memoria non è più come dovrebbe ma certi ricordi e certi momenti particolarmente terribili non si possono dimenticare. Noi sopravvissuti vorremmo cancellarli poiché la tragedia che abbiamo vissuto è stata troppo grande. Purtroppo siamo un poco anche messi in parte e dimenticati. Cercherò di ricollegarmi a quelle funeste giornate; piene di incertezze dolorosissime (lì, a Nikolajewka io c’ero), i fulminei scontri di Nikitowka, Arnautowo e altri scontri che li precedettero, mancava la nozione del tempo, ma penso fosse il 26 gennaio; fui inquadrato a Nikitowka; albeggiava, con un freddo siderale forse meno 45 centigradi.

Eravamo di tutte le armi ma quasi tutti alpini della Tridentina, Julia, Cuneense, e piccole aliquote di tedeschi, c’erano della Vicenza e dei servizi di Corpo d’Armata Alpino dei quali faccio parte. Fummo impiegati subito in scontri terribili, e già reparti della Tridentina combattevano a Nikolajewka; là la battaglia fu decisiva. Ricordo confusamente la marea di soldati, le slitte stracariche di moribondi, feriti, congelati.

Il costone mi rimarrà sempre impresso, tutti fermi, fu un attimo: ci precipitammo giù sotto il fuoco che sembrava il finimondo; la neve era fonda, crateri che si aprivano per gli scoppi delle terribili e temibili katiusce che aprivano vuoti spaventosi. Una ecatombe di morti; vedevo la neve tingersi di rosso sangue; mi trovai al terrapieno della ferrovia, lo oltrepassai e mi trovai di nuovo a scontrarmi coi partigiani, vicino alla stazione.

Non so chi mi diede tanto coraggio, tanta forza; ero congelato ad un piede; ancora oggi a tanta distanza mi da seri fastidi, avevo; uno stivaletto di feltro a un piede e sull’altro avevo fasciato alla meglio degli stracci; piangevo piangevo e sparavo, ma avevo anche, tanta paura, paura del resto giustificata. Dopo aver percorso tutta la ritirata trascinandomi e combattendo; dover lasciarci la pelle proprio allora mi dispiaceva…

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