ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 40

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Sergente maggiore Mosè Candeago
17ª Batteria, Gruppo Udine, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina

… Essendo stato assegnato al comando di una autocolonna del 3^ Reggimento Artiglieria, in quei giorni di tristi eventi ebbi occasione, il 15 gennaio 1943, di incontrare alle porte di Rossosch alcuni carri armati. Pensandoli nostri amici, spostai il più possibile l’autocolonna per dare strada, poiché avevano la croce uncinata al fianco. Poco dopo hanno aperto il fuoco, ci siamo accorti di essere ingannati, un inferno da non dimenticare mai!

Di lì cominciai la famosa ritirata lenta e dura, dopo giorni incontrai il maggiore Oddo della nostra base di Popowka; io lo conoscevo bene. Mi fermò e disse solo poche parole: “Candeago, ho bisogno di te, lascia la tua colonna e prendi la guida di quest’auto (una Fiat 1100 berlina nera del colonnello Gay), il mio autista è congelato”.

Lasciai il camion e presi la guida dell’autovettura, all’oscuro di ogni cosa. Vidi altri due ufficiali nell’interno, il capitano Bruno Marcello Moro, e un altro ufficiale che non conoscevo. Mi dettero l’ordine di correre il più possibile. Con quelle piste, mi sembrava di andare sull’altalena, ghiaccio e neve e freddo a non finire. Dopo lunghe ore di percorso troviamo un bivio, ci imbattiamo nel caporal maggiore Leone Zandanel di Cibiana di Cadore che ci indicò la via per Scheljakino, dove la notte stessa i russi ci hanno attaccato, i bengala illuminavano a giorno, e ormai eravamo nella sacca.

Il mattino dopo, tentiamo di riprendere la marcia, ma fummo subito attaccati, la mia macchina fu crivellata di colpi, il maggiore Oddo rimase ferito, subito dette ordine di metterci in salvo a piedi, io mi affiancai al maggiore Oddo per aiutarlo. Sennonché dopo un’ora di cammino il maggiore mi disse: “Candeago, dove hai messo la bandiera?”. Lo guardai e gli risposi: “Quale bandiera?”. E lui: “La bandiera del reggimento”. Io purtroppo non ero a conoscenza, poiché nessuno me ne aveva parlato. Lui mi dette l’ordine di ritornare indietro immediatamente, mi disse: “Vai a prenderla subito!”. Gli chiesi: “Dov’è?”. “Nel cofano” rispose.

Non esitai un istante a riflettere sul pericolo a cui andavo incontro, arrivai dopo tempo alla- macchina, sembrava tutto un silenzio; appena mi accostai al cofano per estrarre la bandiera vidi nell’interno il capitano Moro e l’altro ufficiale morti crivellati dai parabellum dei partigiani. Anche un carro armato sparava ancora. Diedi uno sguardo attorno per mettermi in salvo, vidi poco lontano una bicicletta con un soldato morto sopra, con due borse attaccate (forse un portaordini); lo spostai, saltai a cavallo della bicicletta e con lena pedalai proprio contro il nemico per portarmi fuori tiro.

Dopo poco lasciai la bicicletta e mi incamminai tra valli e colline, freddo e neve ma non riuscii più a incontrare il maggiore Oddo. Incontrai invece molti della mia stessa colonna, dopo giorni e giorni di duro cammino, affiancato da soldati e colleghi, i sergenti maggiori Valentino Chittaro, Piero Comusso, Vittorio Sonda e gli autieri Ernesto Turello, Daniele Presacco, Paolino Marchiol, Osvaldo Parigi, il sergente Fausto Vielmo; questi mi hanno aiutato per giorni a portare la bandiera; la sua medaglia d’oro col nastrino la posi nel taschino della camicia.

Rimasi preso dai partigiani con soldati sbandati, lottando la notte per fuggire, così durante
la battaglia di Nikolajewka, mi trovai solo per tutta la giornata, poi mi misi dentro una slitta autoambulanza ungherese trainata da cavalli; quando lungo un ponte fu colpita rimasi di nuovo a piedi, dopo giorni di cammino incontrai dei miei amici, il capitano Scabardi, e proprio con l’aiuto mio e del-‘ l’autiere Turello abbiamo messo in moto una macchina.

Quindi giorni di macchina attraverso piste impraticabili, senza cristallo nella cabina, a turno io e Turello alla guida, rubando di notte la benzina ad altre macchine lungo il percorso. Incontrammo a Nowyi Oskol i tedeschi che ci portarono via la macchina, e così benché il capitano Scabardi parlasse il tedesco siamo rimasti a piedi. E così fino nei pressi di Gomel, dove era il nostro concentramento, e dove consegnai la bandiera al colonnello Moro, nostro comandante di reggimento, e con lui rimpatriai ed ebbi l’onore di sfilare con la bandiera a Gorizia.

Caporale Edoardo Peritti
17ª Batteria, Gruppo Udine, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina

Ricordo benissimo la giornata del 26 gennaio ’43, trascorsa in ore di angoscia nella piana di Nikolajewka. Già nelle ore del mattino, la lunga colonna dei superstiti non dava l’impressione di avanzare, ed io trovandomi circa a metà colonna ho saputo che le nostre avanguardie, cioè reparti della Tridentina, erano impegnati ad aprire un varco contro forti reparti nemici.

Due ufficiali degli alpini ed alcuni carabinieri reclutavano lungo la colonna tutti gli uomini in possesso di armi, poiché il combattimento era assai duro per i reparti di avanguardia. Notai un alpino, ferito alla gola, il cui sangue si congelava sul bavero del cappotto, chiedere un’arma ai compagni per porsi fine alla sua sofferenza senza speranza ormai di salvezza. Io non presi parte al combattimento perché privo di armi, e la sera potei entrare in Nikolajewka dove pernottai in uno stabile bruciato.

Artigliere alpino Vittorio Sanda
Comando 3^ Reggimento Artiglieria Alpina

Non so con esattezza, ma verso il 22 gennaio mi trovavo assieme al capitano Scabardi ed altri otto o nove artiglieri alpini del mio reparto, verso sera, ad un mulino. Non era di quelli a vento con le spatole grandi, che già avevamo incontrato per la steppa, ma andava a motore a scoppio. Saranno state le otto di sera, faceva tanto freddo, il mulino non funzionava. C’erano tanti sacchi di farina e parecchi bidoni grandi da benzina, ma pieni di miele ghiacciato; avevamo fame ma metterlo in bocca faceva rabbrividire; comunque ne abbiamo infilato qualche grosso pezzo nello zaino; sarebbe poi stato prezioso.

In quella località c’erano degli ungheresi con le loro slitte; già avevamo notato un loro certo nervosismo, quasi volessero scappare lì per lì. Alcuni soldati italiani sopraggiunti con le slitte trainate da muli erano entrati ed avevano lasciato i muli fuori; quando dopo le undici siamo usciti perché gli ungheresi stavano partendo, abbiamo trovato quei poveri muli stecchiti dal gelo, morti in piedi; ed i conducenti, increduli, spingendoli con i piedi ribaltavano le povere bestie che rimanevano con le quattro gambe stecchite per aria.

Assieme a Camozzi, lungo un viottolo che sembrava una pista da bob, dall’alto della riva ci buttammo entro la seconda slitta ungherese dove c’erano due soldati infagottati con cappotto e coperta sulle spalle. Uno era giovane e l’altro, che teneva le redini era anziano. Non volevano che entrassimo nella slitta, ma noi alzando la voce abbiamo resistito alle loro dimostrazioni.

Avevo notato che il conducente non reggeva con forza le redini, con uno strattone gliele presi dalle mani; mi lasciò fare, di cavalli qualche cosa me ne intendevo, e via per la steppa. Era una notte meravigliosa, una luna che inondava di luce e con il bianco della neve, rendeva fantastico il paesaggio. Due cavalli a pariglia che andavano come un treno. Il freddo era intenso ma non lo sentivo, tanto era il nervosismo e il piacere di correre su quella neve. Finchè poi entrammo in una marea di tedeschi ed ungheresi in ripiegamento, e la corsa finì.

Sottotenente Antonio Baruffi
Comando 3^ Reggimento Artiglieria Alpina

“Ragazzi” era andato dicendo nella notte un ufficiale medico nelle camerate dove giacevamo “i russi sono qua, chi appena può partire, vada.” Distribuiva bende, cotone idrofilo. Quell’ufficiale – unico, mi dissero – rimase all’ospedale e vi morì. Sia benedetta la sua memoria! E non ne ricordo il nome.

Si era a Podgornoje dalla mattina in un ospedale rimediato in un edificio: eravamo stati ricoverati in una ventina del mio reparto. Quando uscii insieme ai miei che vi avevo trovato ancora in grado di muoversi, stava sfilando la Tridentina, perfettamente inquadrata, con armi efficienti, gli zaini affardellati. La Tridentina, eh? doveva incoronarsi di gloria a Nikolajewka, aveva potuto fino allora, per forza di circostanze, mantenere intatta, o quasi, la sua capacità di combattimento.

In mezzo vi scorsi (o mi scorse) Gino Ferroni del Val Chiese-^ ci conoscevamo perché entrambi veronesi ed era fratello di Marcello tenente medico del mio reparto. Gino Ferroni morì a Nikolajewka, Marcello morì invece in prigionia, durante la marcia del davai, hanno detto, trucidato perché non gli era possibile restare in piedi

Così mi trovai con Gino Ferroni, bello e forte: inappuntabile nella divisa, con il mitra Beretta a tracolla. Quanto era audace e coraggioso, tanto era pignolo nella preparazione e nell’addestramento. Entusiasta sempre. “Intrùppati con i miei” mi disse, dopo che ci fummo salutati e che lo assicurai sulla buona salute di Marcello con il quale ero stato insieme fino a due giorni prima, quando aveva voluto che fossi ricoverato in ospedale “non
posso garantirti né vitto né alloggio, ti arrangerai”.

Chi non ha vissuto quella ritirata (penso che così sia avvenuto in tutte le ritirate) non può concepire quale sia stato il ricambio continuo tra quelli che erano in testa e quelli che si trovavano in coda, tra quelli che erano a destra e quelli che erano a sinistra. Se tanto avveniva in reparti organizzati ed efficienti, si immagini che cosa poteva succedere tra gli sbandati, come me, tra questi dovendosi annoverare, oltre agli italiani e ai tedeschi, ungheresi e romeni e ausiliari russi per la maggior parte provenienti da reparti sfasciatisi, molti già prigionieri successivamente liberati dalla colonna in ritirata.

I soldati che erano stati con me, ad un certo momento mi camminavano accanto, in un altro scomparivano; io stesso mi trovavo ora in testa alla colonna, ora in coda; mangiare era rimasto un desiderio, dormire una fatica; si poteva trovare un posto in un’isba oppure ci si doveva arrangiare a vegliare all’aperto intorno ad un fuoco. Potrei raccontare di gente che, affranta soprattutto nello spirito e con le estremità congelate, conquistato la sera un posto sopra la stufa, la mattina si rifiutava di levarsi e proseguire, destinata a morire di cancrena; di alcuni, che, restati in coda e vistisi ormai soli, disperando la salvezza, si sparavano.

Non mancava qualcuno che deliberatamente restava al caldo di qualche isba per darsi, illuso della cessazione delle sue sofferenze, prigioniero. Passarono così i giorni in cui la Tridentina fu sempre impegnatissima: ogni giorno ai morti si succedevano altri morti, alla perdita di armi altre perdite, di muli quasi non se ne vedevano più, gli uomini si esaurivano, fisicamente e psicologicamente, sempre un po’ di più giorno dopo giorno.

Una battaglia ogni sera, una fatica all’alba, per radunare gli uomini superstiti, contarli, rianimarli, per andare avanti, avanti. Una mattina, ecco apparire un luogo abitato, un grosso paese, forse una cittadina. Nikolajewka! Io non riesco a ricordarla che con tenerezza, con il sentimento che si prova nei confronti dell’ospedale in cui fummo operati ma che ci ridiede la sanità; altri non la ricordano che nel paradiso di Cantore, e sono i migliori di noi.

Nikolajewka ci apparve in una conca formata da piccole alture, preceduta da un terrapieno sopra il quale correva una linea ferroviaria: attraversava il terrapieno un sottopassaggio. Sicché vi si sarebbe arrivati o scavalcando il terrapieno o sottopassandolo attraverso quel passaggio. Le eravamo sopra sì e no di cento metri lontani due o tre chilometri: pareva che a raggiungerla bastasse una corsa sul pendio innevato, una corsa facile. Non fu così invece.

La testa della colonna si fermò, vidi a conciliabolo nostri ufficiali superiori con altri germanici dei pochi carri corazzati che ci avevano accompagnati fin lì. I russi a presidio della città erano ben intenzionati ad impedircene l’accesso, sparavano colpi d’artiglieria, di katiuscia, di fucili anticarro: si vedeva il clivo punteggiato di piccoli o grandi sbuffi di neve alzata dai proiettili. Fecero vittime tra coloro che dalla massa dei sopravvenienti si spingevano oltre la testa, isolati qua e là come se credessero ormai facile l’approccio.

Poi venne l’ordine di accingersi a battaglia, furono disposti i reparti che a ventaglio avanzassero protetti dall’artiglieria, oltre qualche mortaio da 81. Intanto laggiù vedevo gli alpini attaccare, cercare di scavalcare il terrapieno: questo e il sottopassaggio erano tempestati di proiettili nemici.  Domandai di Gino Ferroni a qualcuno vicino: era laggiù al terrapieno, mi dissero, comandava il reparto destinato a sfondare la difesa. “Ferroni ce la fa” disse qualcuno.

I proiettili nemici quasi più non ci raggiungevano, ma pur sempre colpivano qualcuno che cadeva con un urlo; il fuoco nemico però si concentrava sulle nostre avanguardie. Corse a un tratto fino al punto in cui mi trovavo, rimandato dall’uno all’altro all’indietro un comando: “Avanti, avanti”: da noi! che abbastanza avanti eravamo, a quelli che ancora sostavano indietro, la gente avanzò frammezzo ai proiettili che ancora venivano. Fra i corpi morti che via via si facevano sempre più frequenti, incalzato dai sopravvenienti, arrivai in una piazzetta: c’era una casa ad un piano verso la quale in tanti si dirigevano.

Vi entrai, vidi delle marmitte ancora fumanti, il rancio che i russi avevano abbandonato: non ricordo come, ma mi trovai un mestolo in mano e ne mangiai, pressato dai tanti che, anche loro, avevano trovato da sfamarsi. Già annottava, cercavo un luogo dove dormire: intanto chiedevo di Gino Ferroni. “E” stato ferito” mi dissero “l’hanno portato lì – là – più in là – non lo so.” Smisi di cercare; ero affranto. Mi ricoverai in un luogo qualsiasi. Dormii fino al mattino.

Seppi poi – anni dopo – di un fatto singolare: alcuni della Tridentina e di altri reparti avevano visto la battaglia dall’alto del campanile della chiesa di Nikolajewka. Fatti prigionieri alcuni giorni prima, erano stati rinchiusi nel campanile, e al sorgere della battaglia in parte avevano raggiunto la cella campanaria superiore, paventando che la nostra artiglieria li raggiungesse, ma sperando nel contempo che arrivassimo a liberarli.

La mattina ripartimmo, avendo modo di vedere le postazioni nemiche con le armi, ancora efficienti, che tanto ci avevano tormentato il giorno prima: Gino Ferroni era morto nella notte, mi dissero. Anche la Tridentina mi parve dissolta, come esausta dallo sforzo enorme: non vidi più reparti organizzati, ma gruppi di amici che negli stenti cercavano di ritrovarsi. Nikolajewka fu una vittoria: due giorni dopo la passione di Russia finì.

Capitano Spartaco Martinengo
comandante del Reparto Comando Reggimento, 3^ Artiglieria Alpina

Quella mattina, mi veniva fatto di pensare che, per la prima volta, la notte era trascorsa senza sentire sopra la testa il sibilo continuo causato dai proiettili che una batteria di pesanti pezzi tedeschi scagliava contro le linee russe per contrastarne i pressanti attacchi; mi sembrava logico concludere che la situazione dovesse essere migliorata. Mentre facevo queste considerazioni, mi avviavo verso l’isba ove era alloggiato il comandante del reggimento, quando sulla porta incontro il maggiore Dal Fabbro, al quale faccio presente le mie osservazioni.

Con l’aria sorniona, come era sua abitudine, mi dice: “C’è proprio da stare allegri! Sai perché stanotte non hai sentito i proiettili fischiare sulla tua testa? Perché la batteria ha cambiato direzione di tiro di 180 gradi”. “Che vuol dire?” chiesi. “Vuol dire che i russi in qualche parte del fronte hanno sfondato e ora sono alle nostre spalle di diversi chilometri. C’è di più;” continuò “senza dire niente sembra che la batteria stia preparandosi ad andarsene, inoltre per mezzogiorno il comando tedesco ha convocato il nostro comando per istruzioni, probabilmente dovremo spostarci ancora una volta. Eventualmente, mi chiese, quanto tempo ti occorre per poterti spostare con la batteria?” “In questi ultimi tempi siamo ormai abituati ai cambiamenti improvvisi” risposi “in un’ora siamo pronti a partire.”

All’ora stabilita accompagnai il colonnello Moro, comandante del reggimento al comando tedesco, diversi chilometri dietro le nostre linee. Lo lasciai sulla porta e rimasi ad attenderlo. Pochi minuti dopo usciva sconvolto. Poche parole! Questa notte lasciamo la linea! Appuntamento a Podgornoje! E i tedeschi?, chiesi. Mi guardò senza rispondermi. Così quella notte ebbe inizio la nostra ritirata. Appuntamento a Podgornoje! Appuntamento con la morte per migliaia di ragazzi! Da quanti giorni stiamo marciando sulla neve? Due, tre, non ricordo. Quanti attacchi abbiamo subìto? Non ricordo. Quanti caduti morti combattendo o sfiniti sulla neve? Tanti! Basta guardarsi attorno, la fila si assottiglia sempre più. Abbiamo scaricato tutto dalle slitte che sono state caricate di feriti; quelli più stanchi, fra i sani, cerchiamo di trascinarli avanti legandoli a noi.

Con quella temperatura e i pochi stracci che ormai ci ricoprono, fermarsi, anche pochi istanti sulla neve, vuol dire la morte. Ad un tratto incontriamo un paese di poche isbe, sulla strada. Dal comando arriva un ordine. Alt per riposare e riorganizzarsi. Come possiamo ci ricoveriamo, ammassandoci, nella prima isba che incontriamo. Entriamo in ogni isba, più di quanti pare possibile starci. Cerchiamo di mangiare quel poco che abbiamo con noi, ma soprattutto cerchiamo un po’ di caldo. Non ricordo quanto siamo rimasti così, certo non molto.

Ad un tratto nel silenzio della nostra stanchezza, sentiamo, prima sommesso, poi sempre più preciso, il rumore noto della ferraglia in movimento. Il primo grido, che da giorni teniamo in noi come l’unica speranza di vita, erompe: sono i carri armati tedeschi che vengono ad aiutarci. Ci precipitiamo fuori. E’ un attimo! Le sagome che cominciano a delinearsi sono impressionanti, ma soprattutto ci levano le illusioni i colpi che arrivano e che ormai ben conosciamo.

Sono quelli dei parabellum, impugnati dai soldati che a decine si trovano sui carri. Decine e decine di altri caduti, chi può cerca di defilarsi dietro un qualsiasi ostacolo, sulle slitte i feriti urlano, chi ha sotto mano un’arma cerca di sparare, ma è più un istinto, che un tentativo. Bisogna abbandonare al più presto il luogo perché fra pochi attimi cominceranno le artiglierie dei carri.

Via con le slitte, come è possibile, più presto che sia possibile. Ci dirigiamo d’istinto verso il fondo del paese, dalla parte opposta a quella dove sono apparsi i carri armati. In fondo al paese, che sta su un cocuzzolo, c’è un profondo e lungo canalone, una balka. Ci buttiamo verso il basso per defilarci al tiro delle artiglierie che stanno cominciando a centrare il paese. La colonna scende per qualche centinaio di metri, con la neve a mezza gamba. Le slitte, le poche rimaste, faticano anche in discesa ma occorre andare, andare.

Dopo un po’, forse una mezz’ora, ci fermiamo perché siamo di fronte ad un problema. Le tracce sulla neve, di chi ci ha preceduto, si biforcano. Una pista continua seguendo il canalone, l’altra piega sulla destra risalendo il fianco della balka, puntando verso ovest: sto pensando di continuare ancora per un po’ lungo il canalone e di portarmi più tardi verso ovest. Informo quelli che mi sono vicini, del mio progetto, decidiamo di riposare un istante e poi andare.

Stiamo per riprendere la marcia, se ancora tale poteva chiamarsi quel supplizio, quando alle mie spalle sento una voce chiamarmi: “Martino, Martino”, e vedo il maggiore Dal Fabbro che mi fa cenno di aspettarlo. E’  subito lì e mi domanda: “Tu da che parte pensi di andare?” “Per ora lungo il canalone” risposi. “Io andrei a destra”, dice lui. “Per me fa lo stesso, l’importante è stare più uniti che si può” rispondo. Mi rivolgo agli altri e dico: “Tutti a destra”.

Dopo qualche ora di marcia, quando già è notte, troviamo qualche isba e decidiamo di fermarci. Nel mezzo della notte siamo raggiunti da qualche sbandato proveniente dalla colonna che io avevo pensato di seguire; ci racconta che qualche ora prima, gli stessi carri armati che ci avevano attaccato in paese, avevano raggiunto la colonna decimandola. Un solo pensiero: grazie, Dal Fabbro.

Ce l’hanno fatta! Un urlo si propaga per tutta la colonna: i russi stanno andandosene, la strada è aperta. Nella notte che sta scendendo è tutto un correre verso le isbe, verso la salvezza. La salvezza. La discesa che porta a Nikolajewka è disseminata di morti. Per i vivi non c’è che una salvezza, raggiungere un’isba prima che sopraggiunga la notte, soltanto là, almeno per ora esiste la salvezza. Ormai ognuno di noi lo sa, o l’isba o la morte dentro un manto di ghiaccio. Siamo stanchi, avviliti, se non era per quei bravi ragazzi della Tridentina, ancora in gamba, nessuno avrebbe potuto salvarsi dalla fine.

Da quando abbiamo iniziato la ritirata ci hanno sempre detto avanti, resistere, lottare, domani arrivano i carri armati tedeschi e siamo salvi. Finora questo pensiero ha rincuorato tutti, ma ormai siamo certi che anche questa è una delle tante storie che ci siamo sentiti raccontare sinora. Ora nessuno sa più cosa dire e siamo diventati una colonna di esseri striscianti in mezzo alla steppa, dal sorgere del sole al cader della notte. Dopo un cercare posto affannosamente, verso il fondo del paese (tutti si accalcano nella prima isba che trovano, temendo di non trovarne una seconda) troviamo due isbe vicine.

Nella prima ricoveriamo i pochi muli rimasti e i cavallini russi che tanto ci sono serviti, nell’altra ci stipiamo fino a che è possibile, i feriti sdraiati e gli altri accovacciati con la testa sulle ginocchia per occupare meno posto possibile. In un angolo c’è anche un povero letto ma nell’isba c’è anche una povera vecchia donna, forse una nonna, con tanti bambini piccoli; appena siamo entrati la donna ha messo legna sul fuoco, dell’acqua a scaldare e qualche patata a bollire. Il letto è per loro!

Mangiamo qualche cosa e ci mettiamo a riposare, come è possibile; domani si ricomincia. La donna e i bambini salgono sul letto. Non so da quanto tempo sto dormendo, quando sento, più che un lamento, una sorta di imprecazioni venire da uno dei feriti sdraiati per terra a fianco del letto; mi sveglio meglio, mi ricordo che lì ci deve essere un tenente degli alpini che portiamo con noi fino dal primo giorno. Tante sono le ferite che ha, che è quasi completamente immobile.

Pensando che abbia bisogno di qualcosa, vedo di avvicinarmi e solo allora mi rendo conto. Uno dei bambini, in piedi sul letto, sta facendo la pipì e il poveretto immobilizzato non ha altra difesa che quella di brontolare, perché se la sta prendendo tutta addosso. Se non ci fosse da piangere, verrebbe voglia di ridere. Siamo veramente ridotti a larve di uomini, non so quanto ormai vicini ai confini con la morte…

Alpino Pietro Schiro
83ª Compagnia Cannoni Anticarro

Dopo tutti i combattimenti sulla lama del Don più volte andammo in soccorso, perché eravamo una compagnia autonoma. Inaspettatamente costretti a iniziare la famosa ritirata, dove posso dire che il giorno 26 gennaio ’43 mi trovavo su una altura circa 400 metri da Nikolajewka fra la Divisione Tridentina. Lì i russi hanno aperto il fuoco contro di noi. A due passi da me c’era un ufficiale italiano che io non lo conoscevo e disse chi ha ancora una cartuccia passi là, e noi già esauriti di munizioni tutti fermi.

Così quell’ufficiale coraggioso disse: “Mettetevi per nazione e al comando del mio fischietto vi raccomando di urlare con tutta voce: Italiani Savoia, Tedeschi Urà, Ungheresi e via via la sua lingua”. E così fu, fra 20 minuti si sentì il fischietto e una valanga di voce si sentì e giù di corsa entrando a Nikolajewka lasciando molti dei nostri compagni. Altro non mi alungo, prego di volermi scusare del mio semplice e sincero scritto.

Sergente Bortolo Guerrino
303ª Sezione Sanità

Il tenente medico Francini da Siena sempre si lagnava con il capitano Ortolani da Palermo perché gli alpini non lo salutavano militarmente. Il capitano Ortolani gli diceva: “Non farci caso, questi alpini se dovesse venire l’occasione saranno quelli che ti salvano la vita. Basta che sappiano che noi ufficiali gli vogliamo bene”. “Però questo non è disciplina” rispondeva il tenente. “La disciplina come la immagini tu che sei nuovo del fronte, non esiste. Se per il passato ti hanno salutato, e ora non lo fanno più è perché loro hanno sulle spalle il fronte della Grecia, della Francia, e della Spagna, qualcuno anche dell’Etiopia; ora tu sei nuovo, però impara a vederli come fanno il loro dovere e se capitasse di andare al fronte allora li conoscerai chi sono…”

E venne che si dovette andare il 23 dicembre a liberare Rossosch e il 17 gennaio a Podgornoje quando all’arrivo dei carri armati russi noi con i feriti eravamo per essere circondati dai russi, e l’unico ufficiale medico era con me, più i quattro conducenti con le slitte di feriti e otto alpini della sezione.

Francini si meravigliava e sperava nel coraggio alpino, mentre il grosso della sezione era oltre il centro del paese in attesa di mandarci a chiamare. Vedendo che non ci si sarebbe potuto più sganciare dai russi, dicemmo al tenente Francini: “Vada con il suo attendente dal capitano e dal resto della sezione, che noi dobbiamo restare qui per tenere a bada i russi”.

Noi con fucili, i russi con carri armati; e così fu che il tenente Francini arrivò a Nikolajewka con il resto della sezione e poi in Italia. Ma io no! Sparammo come matti. Ma quello che ci impedì di retrocedere fu un fronte dietro le spalle di partigiani, che ci strinsero fra due fuochi. Morirono in tanti, feriti che si tenevano la ferita con le mani.

Soldati russi e partigiani ci fermarono e obbligarono ad alzar le mani, perché se no era la morte. E da quel momento incominciò la vita della prigionia. Tenente Alberto Croci Comando Tattico Ritengo che solo la forza della disperazione, oltre l’eroismo della Tridentina, abbia permesso lo sfondamento di Nikolajewka. Il comando russo sapeva certamente che lo sbarramento costituiva l’ultima possibilità di annientare i resti del Corpo d’Armata Alpino.

Già alle prime luci del 26 gennaio la colonna rallentava la marcia: segno evidente che qualche ostacolo già ritardava il nostro penoso cammino. Il reparto mitraglieri del comando tattico Julia, da me dipendente, era stato più volte decimato. Non eravamo che una ventina di uomini, più qualche ferito su una grossa slitta recuperata durante la ritirata. Neppure più una delle nostre 12 mitragliatrici che tanto ci avevano sostenuto durante i numerosi combattimenti di quei giorni; venti volti trasfigurati dal gelo, dalla fame, dagli sforzi, dalla disperazione.

In quei giorni mi erano stati validamente vicini il tenente Fùchsel del quartiere generale Julia, il mio attendente Gigio Grotto di Schio, l’aiutante furiere Schiatti, di Parma, e qualche altro. Il freddo era intenso; i feriti sulla slitta si lamentavano continuamente. Non era più possibile attendere che la colonna si muovesse. Del resto già da diversi giorni avevo convinto i miei uomini che era inutile arrestarsi; se il destino nostro era deciso, inutile attendere! Ordinai pertanto di cercare una pista che ci permettesse di raggiungere la testa della colonna.

I sordi boati delle artiglierie si facevano sempre più nitidi; poco dopo si udì netto il caratteristico crepitio delle mitragliatrici. Non eravamo molto lontani dal costone che nessuno di noi sapeva essere quello di Nikolajewka. La marcia di avvicinamento si faceva sempre più difficoltosa. Gli eroici battaglioni della Tridentina si stavano approntando per l’attacco.

Ci consultammo un momento e prendemmo la decisione di non intralciare oltre gli alpini della Tridentina che si apprestavano ad un combattimento che l’arrivo imprevisto di aerei russi faceva presumere più violento che mai. I subalterni chiamavano per nome i loro alpini; gli ufficiali superiori difendevano anche con la pistola in pugno lo schieramento dall’infiltramento degli sbandati.

Gli sbandati eravamo noi; i pochi superstiti del mese di combattimenti sostenuti dalla Julia sul Don. Come già mi era successo altre volte mi prese un singhiozzo terribile. Fùchsel ed i miei uomini mi rincuorarono. Forse sarebbe stato meglio restare là sul Don se ora non potevamo servire a nulla! Il pianto mi calmò, ricordai una volta ancora il volto di mia madre e decisi di compiere un largo semicerchio. Non potevo resistere attendendo.

Del resto anche i pochi alpini rimasti accusavano un inizio di congelamento; non vi era ormai da alcuni giorni un briciolo di pane. Se entro sera non si fosse trovata un’isba, sarebbe stata la fine per tutti: Fùchsel condivise il mio punto di vista. Uscimmo dalla colonna per superarla; lessi negli occhi di tutti il lampo di terrore. Tutti ormai sapevamo che se qualcuno di noi fosse caduto perché sfinito o ferito, nessuno l’avrebbe raccolto. Io pregavo e con me pregavano i miei alpini: era una sola preghiera di dolore. Convinsi altri sbandati a seguirci. La lenta piccola colonna si avviò. Forse non era giunto il nostro momento, perché dopo qualche ora un aereo russo ci mitragliò a bassa quota due volte senza colpirci, le pallottole entravano silenziose a zigza  nel ghiaccio.

In due o tre ore aggirammo i battaglioni della Tridentina per non più di qualche migliaio di metri. Continuavano i combattimenti sempre più intensi ed arrivammo finalmente al costone. Impossibile scendere. E poi, dove saremmo finiti? Ci avvicinammo ai reparti della Tridentina. Il crepuscolo era ormai prossimo; il gelo aumentava. Le katiusce laceravano l’aria; due o tre semoventi tedeschi e la nostra artiglieria da montagna cercavano di individuare le postazioni nemiche.

Le mitragliatrici crepitavano continuamente; sembrava fosse la fine per tutti. Ogni tanto una voce urlava: Tiràno avanti! Avanti l’Edolo! I battaglioni della Tridentina si alternavano all’attacco. Gli aerei non davano tregua. Le urla erano disumane. Ormai tutta la Tridentina era schierata all’attacco e perciò il resto della colonna sia pure lentamente avanzava con il suo carico pietoso di morti e feriti. Ripeto, non so se più contò l’eroismo della Tridentina o la forza della disperazione nostra.

Sta di fatto che quando ormai sembrava tutto perduto, quando forse ormai la maggior parte di noi non aveva più alcuna speranza, un urlo disumano ci scosse. La marea avanzò, ridiede forza. Abbandonammo amici feriti e morenti e seguimmo la marea giù per il costone sino alla ferrovia e poi su sino alle isbe di Nikolajewka. Tutto venne travolto, anche ogni senso di umana solidarietà, tutto sino a che le katiusce non tacquero.

Ormai calava la sera. Solo gli ultimi feriti vennero raccolti; gli altri, i veri martiri di Nikolajewka, raggiunsero in cielo Cantore Col tempo i ricordi si sono affievoliti; rimane però un fondo) amaro, qualcosa che forse porteremo con noi nella tomba perché difficilmente un uomo riconosce in sé i suoi istinti disumani ed il suo egoismo.

Tenente cappellano don Ambrogio Piami
813º Ospedale da Campo

I giorni più intensi di avvenimenti, di atti di eroismo e di episodi che rivelano il vero carattere dell’alpino si può dire siano stati quelli fra il 17 gennaio (da quando cioè si ha la certezza di essere chiusi in un cerchio dai russi) e il 7 febbraio 1943. Ho ancora negli occhi la visione di tutti quei morti, a migliaia purtroppo, rimasti insepolti sulla neve: a ben pochi ho potuto portare l’ultimo conforto. L’unico che siamo riusciti a seppellire sotto terra è stato il mio conducente Claudio Lori.

Il 20 gennaio altra battaglia contro formazioni regolari russe sostenute da carri armati. Siamo tra due fuochi: infatti alle nostre spalle da un costone lontano circa mille metri si vede una lunga schiera di russi che scendono sparando rabbiosamente col parabellum. Ci si domanda ansiosamente: “Quanti saranno? Riusciremo a cavarcela?”. Un ricognitore russo ci sorvola: c’è un silenzio di tomba; nessuno parla, siamo a colloquio con noi stessi ed in quel momento tutti i nostri cari lontani si affollano alla nostra mente.

Ed ecco che un canto solenne di preghiera a Dio e di sfida al nemico si alza da un gruppo di alpini della indomita Julia: Stelutis Alpinis. Quel canto ci solleva il morale e ci infonde coraggio e la speranza di uscire dal cerchio di fuoco. Si riparte incolonnati verso nuovi paesi e verso nuove incognite continuando quelle marce in mezzo alla neve in un continuo saliscendi sulle montagne russe che raddoppiano la nostra fatica. Il 24 gennaio ci sorprende una spaventosa bufera di neve che taglia la faccia e le gambe. Tutto sembra accanirsi contro di noi.

Il 26 gennaio a Nikitowka siamo attaccati da partigiani: c’è una sparatoria generale; al debole chiarore della luna non si distingue più l’italiano dal russo: tutti sparano alla cieca. Si sentono grida, urla, imprecazioni. Si caricano i feriti ed i congelati sulle slitte. Da ogni casa, si può dire, partono raffiche di parabellum: molti alpini ed artiglieri hanno trovato gloriosa morte in questa nera giornata che vide fin dal mattino i battaglioni della Tridentina combattere per conquistare Nikolajewka.

A sera Nikolajewka è caduta ed entriamo per passare la notte. Occupiamo un’isba e vi sistemiamo i feriti. La notte passa senza incidenti. Si parte di buon mattino con la speranza di arrivare a caposaldo tedesco. Nella strada a tutte le ore, salvo la notte, passa sempre la lunga ed interminabile colonna composta da italiani, tedeschi, ungheresi e romeni. Non ravviseresti più quei soldati alpini che in undici battaglie sanguinose hanno infranto il cerchio di fuoco e di ferro che i russi avevano serrato, ma dei pezzenti accattoni che stentatamente si trascinavano per non cadere sfiniti.

Tenente veterinario Raffaele Costanze
3^ Reggimento Artiglieria Alpina

Il 14 gennaio 1943, di ritorno da Rossosch, dove mi ero recato a rapporto dal capo servizio veterinario del Corpo d’Armata Alpino, nell’attraversare il campo degli Stukas, situato nei pressi di Rossosch osservavo che non c’erano più aerei, e neppure i tedeschi che avevamo notato il giorno prima, di guardia al mucchio di grosse bombe accatastate nei pressi del tratto di terreno spianato a pista d’involo.

Ciò mi sbalordiva. Cominciò, così, a farsi strada un sottile senso d’allarme; vago, in principio, e poi, sempre più attanagliante, per la nostra sorte futura. E dire, che a Rossosch avevamo fiutato che si prospettava la possibilità di poter rimanere a caposaldo sul Don; addirittura sino a primavera! Col ripiegamento di tutti i reparti della Julia verso Popowka, tre ‘ giorni dopo cominciò la tragica ritirata. Si partì alle prime ore pomeridiane dalla zona di Seleny Jafil e Mesonki. Un freddo agghiacciante, che incarognì in modo atroce durante la notte.

Seguivo come un’ombra l’amico capitano Musitelli, comandante del RMV dell’Udine, che frusciando avanti e indietro lungo il reparto gridava di restare in colonna agli uomini arrancanti e curvi in avanti, per meglio ripararsi dal vento che da nord c’investiva, mozzandoci il respiro Si scarpinò, passo dopo passo, pena dopo pena, ininterrottamente, per oltre venti ore. Molti i congelati quella notte. Anche il sottotenente Baruffi subì un grave congelamento ai piedi, nel nobilissimo, lungo tentativo di recuperare il prezioso carico dell’ultima slitta del reparto rovinata in una balka.

A mezzogiorno del giorno dopo si giunse a Popowka, dove sostammo qualche ora in attesa delle batterie del nostro reggimento e dei reparti della Julia, che vi affluiscono nel pomeriggio e in serata. Quando si ripartì per Kopanki, verso le ore più cupe della notte, mi sentii svuotato e sperduto, come se fossi solo, in quella gelida e allucinante immensità di balke e conche, dove si affondava nella neve sino al ventre.

Alle prime brume dell’alba del 19 gennaio, la colonna, di cui ero un piccolo granello, il 9^ Alpini, il Gruppo Udine e il Gruppo Val Piave, venne bloccata a Kopanki. Era il dramma. Passare dove si poteva. All’attacco dei carri e dei mortai russi si rispose rabbiosamente con il fuoco dei piccoli pezzi da montagna prodigiosamente manovrati dai nostri artiglieri e con lo slancio ancora indomito e irriducibile degli alpini dei gloriosi battaglioni L’Aquila, Vicenza e Val Cismon; anche se già ridotti al 50 per cento dei propri effettivi dai durissimi precedenti combattimenti di un mese allo scoperto, nel settore KalitwaIvanowkaSeleny Jar, a protezione del fianco destro del Corpo d’Armata Alpino.

Molti i feriti e morenti, che affluirono al piccolo pagliaio dove il bravissimo e caro Cieri, tenente medico della gloriosa 17ª Batteria dell’Udine, aveva approntato all’aperto un posto di medicazione di fortuna. Qui diedi una mano a detergere ferite, flittene e bolle di mani e piedi piagati dai congelamenti. “Sior dottore, il mulo Stizzoso”, così chiamato per il suo temperamento, e sempre unto di pomata contro la rogna, rimediata in ottobre a Sergejewka “… si sta ingrassando!” “Ma va…” “No, no… Venga a vedere” mi fa il maniscalco. “E’ stato colpito alla spalla sinistra e ha cominciato a gonfiarsi.” Mi porto subito al boschetto di betulle, dove erano state riunite la maggior parte delle salmerie del gruppo e mi avvicino con la dovuta precauzione al bizzoso testone che vedo occupato a scortecciare la betulla alla quale è legato.

Un lungo sbrego rossastro e non più sanguinante segna la zona sterno ascellare offesa da una scheggia. Attraverso la breccia slabbrata, ad ogni atto respiratorio e a ogni movimento dell’animale, l’aria esterna, infiltrandosi nel sottocute della spalla, sino al torace, all’addome, alla groppa e alle cosce, gli ha conferito l’aspetto grottesco e mostruoso di una botte tenuta su trespoli. Niente di grave, a parte la vistosità dello sbrego, ma solo un abnorme teorismo sottocutaneo che in un paio di giorni si sarebbe riassorbito.

Provvedo a suturare la breccia con una quindicina di punti “Va là, povero can, anca a ti la Russia la xe marégna! Te te grassi con l’aria invece che col fien e la biada, adesso; ma prima te ga già regala la rogna!” lo saluta con una pacca sul collo, il suo conducente. Nel pomeriggio, un pezzo della 17ª viene saggiamente messo a retroguardia dal tenente Moroni, il valoroso comandante della batteria, per controbattere e contrastare il fuoco di altri reparti russi che seguendoci da Popowka, tentano di stringere ancora più saldamente il cerchio alle nostre spalle.

Gli effetti del tiro preciso allentano la stretta che ci premeva anche alle spalle. Al morir del giorno, a fatica, quanta fatica, i feriti e invalidi vengono trasportati a dorso di mulo o accompagnati, a seconda della gravità del loro stato, sino alle prime isbe di un villaggio. Il doppio solco che gambe trascinate segnano nella neve testimonia la dura fatica dei cirenei portatori e accompagnatori che, sotto lo sforzo, come i muli, fumano vapore che presto si rapprende in gelidi pendagli, sulle ciglia, sulla barba e sui baffi.

Nell’isba, dove i morenti, gli intrasportabili, i congelati gravi saranno lasciati più tardi alla pietà dei russi, distribuisco qualche pacchetto di medicazione, anche i miei personali. Esco intontito dall’isba e con i polmoni grevi del lezzo dell’ambiente. Vado dal comandante del Gruppo Udine tenente colonnello Cocuzza, un vero galantuomo, per il rapporto agli ufficiali tenuto dal comandante della colonna il colonnello Lavizzari. Bisogna abbandonare tutto; pezzi, salmerie, feriti e congelati, per tentare di passarci alla spicciolata, con le sole armi individuali, col favore della notte.

I pezzi vengono inutilizzati. Un ufficiale medico, il più giovane e celibe, condividerà, povero ragazzo, la sorte dei feriti, malati e morenti ammucchiati in poche isbe! E all’imbrunire, quando oramai si cominciava a disperare di poter passare anche alla spicciolata, Musitelli da l’ordine di distribuire al reparto, a tutti in uguale misura la cosiddetta razione di ferro. Due scatolette di carne, qualche galletta e qualche bomba a mano, quelle rossastre e cilindriche di lamierino. “Prima di lanciarle” mi venne raccomandato, quando ne assegnarono due anche a me, oltre a tre caricatori per il moschetto “bisogna tirare con i denti la coppiglia che tiene il fermo della sicura”.

Intascai nel cappottone quella doppia razione alimentareesplosiva e via, in marcia, tutta la notte in un trepidante silenzio; rotto solo dall’ossessivo, gracidante scoppiettio di vecchia motocicletta, del Rata (aereo ricognitore russo) che ci accompagnò sino all’alba, per segnalare ai propri comandi il nostro cammino. La colonna (9^ Alpini, Gruppo Udine e Val Piave), la mattina dopo sostò in un piccolo villaggio e, poi, dopo altre tre ore di dura marcia, in un altro prossimo al quadrivio per Olikhowatka.

Qui, parte già ammucchiati nelle isbe e parte ancora all’addiaccio e in penosa ricerca di un buco al caldo, siamo agganciati e serrati da presso dai russi affluiti con carri, autoblinde e autocarri dalla poco lontana Rossosch, che rimane a sinistra della nostra direttrice di marcia. Una piccola sacca nella grande sacca. Io esco a tempo dall’isba come uno spiritato, fermamente deciso a vender cara la pelle, assieme ai pochi che decidono di seguirmi. La pelle, ai russi, non ho nessuna intenzione di lasciargliela; non voglio finire i miei giorni per consunzione in un campo di prigionia.

Meglio piuttosto essere sdruciti e bucherellati, o lì, sul bianco della neve, stroncati! Come il giorno prima a Kopanki, il caro Meneghin, valoroso caporal maggiore della 17ª, la cui fine gloriosa strappò tanti singulti dolorosi al cuore di Moroni, suo comandante di batteria. Meglio ancora, infinitamente meglio, se posso poi portarmela a casa integra. E così, quella tempestiva decisione mi porta fuori della tenaglia, appena in tempo, con pochi artiglieri e alpini.

Agli spari e al parapiglia che seguono penosamente mi affanno a distanziarmi il più possibile da quel rogo dove si sta consumando la colonna e tirarmi a salvamento con lo sparuto gruppo che mi ha seguito. Sennonché, dal colmo del mammellone che ci permetterebbe di buttarci al di là e fuori del tiro diretto dei carri, alcuni russi, acquattati sul costone presero a irrorarci coi parabellum. Si risponde con i moschetti, ma si rimanse lì. “A terra, a terra. Stai giù.” “Ma bisogna far qualcosa, signor tenente…” “Cosa? Beh, se lanciamo qualche bomba e subito scarponiamo di lato, forse… E va bene, tiriamole. Ma tutti insieme, e subito di corsa… là, a destra… a quella balka. E che Dio ce la mandi buona!” Lo scoppio di alcune bombe e via.

Ma, aggirato il mammellone e superato senza danni per nessuno il difficile passo, affondo la mano nella tasca ed… eccole lì:… una ballerina e… una scatoletta; ai russi avevo lanciato una bomba, si, ma anche una scatoletta? Naturalmente tolgo subito dal primo alloggiamento la scatoletta rimastami e l’affosso fuori tiro in una tasca dei calzoni. Mi libero, poi, della seconda bomba uscendo da Nikitowka, per non farmi incocciare dai partigiani lungo la cittadina, mentre alle prime luci dell’alba tento di raggiungere il grosso che già si è mosso.

Raggiungiamo la colonna che sta lentamente serpeggiando verso la saga di Nikolajewka, dove gli alpini della Tridentina con il loro generosissimo sangue hanno aperto a tutti la strada di casa. Rimane solo, insoluto per me, come io abbia fatto a salvarmi dai pericoli superati durante quest’altra tremenda giornata.

Coraggio?… O è stata la paura di rimanere colpito dal mitragliamento aereo, restando fermo sul ciglione della balka che degrada a conca verso la cittadina (e brulicante di umanità allucinata, soldati tedeschi, rumeni, ungheresi, italiani) che mi ha spinto avanti. Oppure il rimorso di coscienza per la pavida inazione di semplice spettatore, mentre sangue generoso viene abbondantemente versato anche per la mia salvezza, ha spento in me ogni cautela di opportunistica attesa, proiettandomi, così, al di là del terrapieno della ferrovia, oltre la quale intravediamo la salvezza? e col solito gruppetto entrare, al fine, a Nikolajewka alle prime ore del pomeriggio, armato della sola e pressoché inutile Beretta e di tanta tanta, buona sorte?

Mi era rimasta, così, soltanto una scatoletta. Ne pregustavo il sapore. Ogni tanto la palpavo per assicurarmi che fosse sempre là. L’avrei difesa con tutti i mezzi poiché mi ero ripromesso che dovesse essere l’ultimo boccone, prima di allungarmi definitivamente nella neve, se un qualche accidente mi ci avesse steso. Per tutto quell’arco di tempo divenne ossessione e speranza, quella maledetta scatoletta. Una tentazione macerante che s’ingigantiva ogni giorno di più assieme con i crampi lancinanti dello stomaco.

Dopo Nikolajewka, proprio non ce la facevo più a resistere. Dopo Nikolajewka cominciò a farsi strada in me la balzana idea che, forse, la scatoletta mi portava fortuna… Che la torturante pena del tira e molla… la mangio e non la mangio… fosse la salvezza, nel senso che, sino a tanto che la lasciavo in tasca, io ce l’avrei fatta a salvarmi. Questo pensiero divenne convinzione assoluta, fede che così sarebbe dovuto accadere. E la lasciai là, al calduccio, presso il femore destro, ancora per qualche tempo. Sino a Bolsche Troitzskoje.

Qui giunto, stremato e al lumicino, ma finalmente felice, come lo eravamo tutti, per averla scampata, grazie anche alla illuminata decisione del maggiore Dal Fabbro aiutante maggiore del comando del 3^ il quale, prima di Nowyi Oskol, indusse a farci dirottare a qualche distanza dal paese che venne lasciato alla nostra destra, càpito in un’isba di quelle assegnate al Val Piave. Ti ritrovo: Aurili, che si lavava in un grosso catino approntatogli dalla mamuska padrona di casa e, attorno, Grazioli, Quarti, Picecco, Ferrazzi e altri che si davano da fare per scaldare sulla stufa poche fette di pane nero, da poco distribuiteci assieme a qualche cucchiaiata di poltiglia marronerossiccia, che la sussistenza germanica aveva stabilito essere marmelade.

Tirai allora fuori, quella dannata scatoletta diventata stralucida a furia di palparla durante gli innumerevoli prendi e riponi di tanti giorni. Attonita maraviglia degli astanti. Sbalordimento e incredulità. Bocche aperte a forno. Ooohhh!!! e, subito, un profluvio di male parole, d’improperi al mio indirizzo. Sporco accaparratore. Affamatore degli alpini. Noi a dannare e lui a sbafare. Non crauti marci e verminosi, ma scatolette. Tale la reazione della barbuta e pidocchiosa ufficialeria che mi fece bellamente fuori in un battibaleno quella che era stata per me una ragione di vita e, in quanto tale, era rimasta sino all’ultimo, ma solo per me,… la razione di ferro! Mi fecero assaggiare solo un grumino di gelatina rimasta in fondo al barattolo…

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