ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 37

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Caporal maggiore Mario Pellarin
Artigliere Giobatta Zanuttini
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina

(Dialogo registrato):

ZANUTTINI. La 13ª Batteria assieme alla 15ª e ad altri gruppi di artiglieria alpina era arrivata a Ssolowjew – Nowo Postojalowka nel pomeriggio del 19 gennaio. Immediatamente venne incaricato i il sergente Pellegrino Bellina da Moggio Udinese di portarsi con il 4^ pezzo della 13ª in posizione avanzata verso un paese situato a ovest di Ssolowjew, nei pressi del quale gli alpini dell’8^ avevano organizzato una linea di difesa. Il 4^ pezzo al comando del caporal maggiore Pellarin si spostò prima di sera in quella direzione.

Erano circa le 22, quando i russi ci attaccarono con carri armati che sbucarono improvvisamente fuori del paese. La luna splendeva e ci permise di scorgerli e di prevedere l’attacco. I carri si precipitarono verso la nostra linea sparando in tutte le direzioni. Un carro veniva giusto verso di noi: lo inquadrammo e attendemmo che si avvicinasse di più. Quando fu a poche decine di metri di distanza però il carro ci vide, girò bruscamente e ci venne sopra.

Sparammo a distanza ravvicinatissima: al chiarore della vampa mi parve che l’enorme T 34 fosse stato colpito in pieno; ma il carro non si fermò: il proietto certamente era scivolato su di lui senza neppure graffiarlo. In un baleno fu su di noi: il sergente Bellina mi urlò di buttarmi da parte e balzò via a sinistra del pezzo; io cercai di fare altrettanto alla destra, ma mi impigliai un “valenki” (lo stivale di feltro che portavamo ai piedi) nella manovella di direzione del pezzo.

Per liberarmi perdetti alcuni istanti preziosi: il carro fu sul pezzo, lo schiacciò come una noce e continuò la sua corsa: io fui colpito di striscio da un cingolo. Fui buttato da parte nella neve, ma mi rialzai subito cercando di allontanarmi. In quel momento il mio amico Pellarin si precipitò a cercarmi: mi credeva maciullato dal carro armato e mi chiamava forte per nome.

Grande fu la sua sorpresa e la sua gioia nel trovarmi in piedi vivo e vegeto come non mai! Il 4^ pezzo della 13ª però non esisteva più! Intanto l’attacco era cessato e noi ripiegammo rapidamente verso la linea delle batterie dove rimanemmo quella notte.

PELLARIN. Arrivati alla linea pezzi incontro il capitano D’Amico. Era stanco mortalmente. Mi chiede una sigaretta. “Ho solo delle milit, io, capitano” gli rispondo. “Magari” dice lui. Così gli offro alcune sigarette che lui fuma avidamente. Dopo si prepara con una coperta e della paglia un buco per dormire accanto ad un enorme pagliaio che stava bruciando: il calore del fuoco ci rendeva possibile resistere al tremendo freddo che faceva.

Io mi stesi a pochi passi da lui. Improvvisamente dall’alto del pagliaio cade una massa di fieno ardente che investe il capitano. Balzo verso di lui e lo aiuto a liberarsi: benché avessi fatto questo alla massima velocità il capitano non riuscì a salvare la sua barba che uscì dall’incendio tutta bruciacchiata. Il capitano mi ringrazia e mi dice: “Eh, Pellarin, quante cose ci tocca sopportare prima di morire! Ad ogni modo, se torneremo in Italia, mi ricorderò di te”.

Il resto della notte passò senza altri incidenti. Allo spuntare dell’alba del 20 gennaio, andammo a recuperare le nostre cose abbandonate nella nostra slitta vicino al pezzo distrutto: era tutto quello che ci rimaneva: un po’ di viveri e delle munizioni per i pezzi. Mentre ripiegavamo i russi ripresero a sparare contro di noi: io venni colpito. Portato a Ssolowjew, venni medicato, ma i miei compagni non vollero lasciarmi nell’isba trasformata in ospedale: mi caricarono invece sulla slitta che misero al riparo dell’isba pronta a partire.  Con quella slitta io feci quasi tutto il ripiegamento e arrivai a salvamento fuori della sacca.

ZANUTTINI. La successiva giornata del 20 gennaio fu tutta un inferno: attacchi e contrattacchi, incursioni di carri armati, assalto nostro contro le fanterie russe, morti e feriti da tutte le parti, tanto che le poche isbe di Ssolowjew erano letteralmente piene di feriti. Durante il giorno le nostre batterie fecero continuamente fuoco fino al quasi esaurimento delle munizioni. La 13ª perse un pezzo, inutilizzato da un colpo nella culla.

A sera, seguendo il Conegliano, ripiegammo con i due pezzi rimasti, con le slitte che ci rimanevano e con i feriti che potevano essere trasportati. Noi in particolare caricammo sulla nostra il caporal maggiore Pellarin che non poteva camminare a causa della sua ferita alla schiena. Furono durissime le marce dei due giorni seguenti: freddo intenso, cammino
estenuante a causa della neve perché noi seguivamo piste non battute…

Finalmente due giorni dopo ci arrestiamo in un paese (io credo fosse Nowo Georgiewka) per poter preparare e prendere un rancio caldo – erano ormai sei giorni che non prendevamo nulla di caldo! – I cucinieri, con quel che era rimasto stavano accendendo i fuochi e si arrabattavano intorno ai “bidoni”. Quando fu pronto e ormai tutti in fila, soldati e ufficiali con le gavette stavamo per ricevere la nostra razione: allarme! autoblinde e carri armati circondano il paese sparando all’impazzata bruciando e sfondando le isbe.

Fu allora che i fratelli gemelli Cagno, Bruno e Carlo, della 13ª per nulla spaventati, balzarono al nostro 3^ pezzo e risposero al fuoco fino all’esaurimento completo delle munizioni. Poi buttato via l’otturatore i due gemelli abbandonarono il paese: questa fu la fine del 3^ pezzo della 13ª Batteria. Ma anche l’ultimo pezzo rimase a Nowo Georgiewka…
La 13ª era finita come batteria… Gli uomini, quelli che poterono, ripiegarono sulle piste innevate seguendo dopo d’allora la sorte della Tridentina.

Alpino Angelo Dorigo
72ª Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini

Mi piacerebbe ricordare tutti, soprattutto i comandanti, a cominciare dal maggiore Talamo che ora abita a Trieste. Fui ferito sui roccioni alla sinistra del ponte Colico, in Albania, fui fatto prigioniero, assieme al tenente medico Fontana il 17 marzo 1941 e fui liberato dopo 80 giorni dal Battaglione San Marco. Rimpatriato, fui mandato in Russia. Qui, feci tutta la ritirata, fino a che fui ferito, il 24 gennaio 1943, da una sventagliata di parabellum alla schiena; sembra una cosa impossibile, ma subito dopo fui colpito da un colpo di mortaio sullo zaino, colpo che finì con lo sfracellarmi la schiena.

Da allora mi portarono in slitta. Fui ferito assieme al sergente maggiore Vilson tuttora a Udine, impiegato in prefettura; ricordo che ero in un lungo paese che stava bruciando (Candotti dice che forse era Scheljakino). Il fatto avvenne perché sulla slitta che era assieme a noi c’era il maggiore Talamo congelato (particolare che dovrebbe ricordare anche il sergente Toffolon); fu per difendere lui da un attacco di partigiani russi armati di armi automatiche, che ci esponemmo io e Vilson. Ora porto le mie ferite con vari dolori; ho la schiena che sembra un “crivello”, ma insomma non mi lagno perché la pelle l’ho portata a casa; lavoro e faccio lo stradino comunale.

Alpino Basilio Celant
13ª Batteria Artiglieria Alpina (Grecia) – 8^ Reparto Salmerie Divisionali
(Russia)

Partito il 10 agosto per il fronte russo, fui a Isjum e quindi tutto il trasferimento fino al Don. Ricordo Semejki, con i campi di patate e quelli di orzo ed avena che erano più in alto; allora si facevano le uscite notturne per procurarci da mangiare: l’orzo veniva macinato con macinini a mano. E così si era spesso in riva al Don.

Quindi si aveva sempre polenta, spesso patate e roba buona. Artico da Motta di Livenza, me lo ricordo bene, era il mio compagno favorito e con lui si andava nel bosco a prendere i tronchi per metterci bene il luogo dove svernare. Era tutto fatto veramente bello, ma ci toccò lasciare ogni ben di Dio. Ho lasciato la 13ª Batteria e sono stato aggregato alle salmerie ancora prima di Natale.

Fummo mandati verso Rossosch dove c’erano delle fabbriche di cemento. Il capitano, un piemontese, mi manda sulla strada e mi da l’ordine di non lasciare passare nessuno. Dico: “E se vengono i carri armati, come mi regolo?”. “Fesso, nasconditi” e ci ridemmo su, convinti entrambi che fosse una barzelletta. Invece…

A metà gennaio 1943, assieme al capitano ed al tenente Giardino, altro piemontese, iniziammo il ripiegamento con una lunga marcia ed un largo giro per evitare i pericoli dei russi. Quindi su Podgornoje. Sempre con i muli, ai quali avevamo cavato il basto per non stancarli. Si arriva ad un bivio e lì si trovano delle macchine nostre: smontano quelli che sono su, ci dicono che siamo accerchiati e che sarà difficile salvarsi a cavarsela. Praticamente era come se ci avessero detto: si salvi chi può; i russi ci sono tutti attorno.

Artigliere alpino Guglielmo Pilot
15ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina

La ritirata con tutto quello che segue e che ognuno di noi può raccontare: fame, sete, paura, combattimenti e… gambe. Prima notte a Popowka, siamo stati attaccati; due giorni dopo eravamo appena fuori da un bosco, c’erano molti pagliai e delle isbe; lì siamo stati attaccati dai carri armati. La linea pezzi è stata travolta, ma tre carri armati sono stati immobilizzati.

Certo non c’era proporzione tra le forze nostre e quelle russe; ricordo un sergente maggiore attaccato al pezzo che fu travolto da un carro armato contro il quale era inutile sparare, perché sembrava invulnerabile. Il sergente e il pezzo sono stati schiacciati come giocattoli. Lo stesso giorno fu ferito il capitano Monzani.

Abbiamo quindi camminato ancora altri giorni e notti, sfuggendo sempre a tutti i pericoli del freddo, dei combattimenti, dei partigiani: non ricordo assolutamente i nomi delle località che ho passato, perché non c’erano indicazioni di nessun genere e meno che meno la voglia di informarsi dove si era. Bastava andare verso l’Italia e la salvezza.

Tenente Mario Candotti
15ª e 13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 72ª Batteria Anticarro
Sergente Bruno Zanni
13ª e 14ª Batteria, Gruppo Conegliano
Tenente medico Guido Scaramuzza
633º Ospedale da Campo

(Dialogo registrato):

CANDOTTI. Per cominciare a smuovere i ricordi, devo provocare il sergente Zanni a raccontare un fatto accaduto il 20 gennaio 1943. Io incontro il Gruppo Conegliano dopo una giornata passata in un bosco sotto l’attacco dei russi; trovo il colonnello Rossotto, il quale, vedendomi ancora in gamba, mi manda a vedere che cosa stanno facendo alcuni nostri uomini vicino a tre carri armati. Anche se stanco, vado e vedo ancora da lontano un tipo su un carro armato che si sbraccia e sta urlando: “Vigni qua che ve fasso fora tuti!”.

ZANNI. Appunto; ero proprio io. Avevo trovato sei o sette alpini seduti sulla neve con una gavetta di cognac in mezzo; ho chiesto loro di poter approfittare. “Bevi pure, alpino” mi risponde uno ed io ho bevuto a garganella. Questo mi ha messo vigore e allora avanti. Mi sono precipitato contro chi voleva sbarrarci il passo gridando: “Li femo fora tuti”. Trovo un carro armato già distrutto dai nostri, pezzi, vi salgo su: a sinistra c’è la 13ª; mi passano la mitragliatrice e sul carro armato passo tre o quattro ore gridando sempre: “Avanti che li femo fora tuti!”, “Avanti che li magnemo tuti!” e fuoco accelerato.

CANDOTTI. Questo è vero e il fatto mi è rimasto tanto impresso che ritrovando qui, a Meduna di Livenza, lo Zanni ben vent’anni dopo, lo apostrofo: “Zanni, l’ultima volta che ti ho visto eri ubriaco!” e Zanni mi ha risposto: “Sì, sior tenente, ma li gavemo magnai tuti!”. Questo episodio è successo a sudovest del bivio di Postojalyi, dove il giorno dopo è stato fatto prigioniero tutto il Gruppo Udine. Da lì, noi superstiti, durante la notte, siamo scesi a sud e, fatto un lungo giro, siamo risaliti verso nord e quindi sorpassato il bivio di Postojalyi.

Dopo una tremenda marcia di un’altra giornata siamo arrivati a Nowo Georgiewka, dove è stato duramente colpito il Conegliano e caduto prigioniero il comando dell’8^ Alpini, tanti ufficiali fra cui il capitano Magnani… Qui volevamo mangiare e, per la prima volta dopo tanti giorni, stavamo per ricevere il rancio caldo ed eravamo in fila con le gavette, quando appunto improvvisamente siamo stati attaccati…

CAVASIN. Erano già tre giorni che non assaggiavamo nulla, tranne qualche rara patata trovata in qualche isba. Ci siamo riparati sotto una grande tettoia perché c’era la bufera; abbiamo preparato il rancio caldo. Sono uscito un momento per un bisogno quando ho scorto i russi che ci accerchiavano; sono lentamente retrocesso, sempre col fucile spianato; ho quindi sparato contro un russo che è caduto ed ho dato l’allarme. Quindi fuga… ed abbiamo rimandato il rancio caldo ad occasione più favorevole.

Ho poi trovato quattro alpini congelati su una slitta, che mi hanno pregato di aiutarli: ho promesso il mio aiuto fino a quando fossimo in salvo, fuori della sacca. Abbiamo così camminato solleciti e senza fermarci, tanto che arrivammo a Nowyi Oskol. Qui un altoparlante annuncia che feriti e congelati, di qualsiasi nazionalità, si fermino perché c’è l’ospedale: con dei camion verranno evacuati su Karkow.

I miei compagni non hanno voluto però che io li lasciassi e sono rimasto con loro lì fino al 30 gennaio: in quel giorno i russi mi hanno fatto prigioniero e sono tornato in Italia dopo 42 mesi, tanto che mia moglie ha avuto per 27 mesi la pensione di vedova di guerra, perché creduto morto.

CANDOTTI. 22 gennaio 1943, piazza di Nowo Georgiewka con un freddo feroce e molta neve. Le batterie sono raccolte dopo due giorni e tre notti di cammino; finalmente si prepara qualcosa di caldo. Con me c’è il tenente Emett di Ancona. Avevo accompagnato poco prima una pattuglia di mitraglieri formata da miei soldati verso il nord del paese, sopra le ultime isbe.

Improvvisamente parte un colpo ed un’isba si incendia. Prego Emett di prendere il brodo per me e vado a vedere della mia pattuglia. Da nord sono apparse delle autoblindo recanti segni tedeschi e sparano su di noi; alla nostra sinistra dei soldati tedeschi ci gridano di non rispondere al fuoco. Poco dopo però arrivano i carri armati T 34 che circondano e investono il paese.

Spariamo qualche raffica, ma non c’è nulla da fare. Do ordine di scendere in paese. Saranno passati dieci minuti… la piazza è deserta, i bidoni del brodo sono rovesciati, slitte con feriti ribaltate per ogni dove; di uomini nessuna traccia… Non trovo neppure il mio amico Emett: lo rivedrò solo dopo quattro anni… da lui passati in prigionia.

NEMOLI. Dopo il famoso brodo, abbiamo trovato carri armati e partigiani che sparavano con pallottole traccianti per tutta la notte. Al mattino, dopo aver riposato un po’ in un’isba, siamo accolti da quattro carri armati. Scappando un alpino ad un certo punto mi dice: “Ma, sono ferito” vedendosi tutto sporco di sangue: in realtà si trattava di un colpo che aveva ferito un altro ed aveva imbrattato il mio momentaneo compagno.

Ci inoltrammo in un boschetto. I carri armati, nel loro continuo andare, hanno travolto quanti passavano e scappavano. Girai dietro l’isba e continuai a scappare; fu lì che perdetti di vista il tenente medico della 15ª di cui non ricordo il nome. Me ne resi conto, però, solo nel pomeriggio: allora tornai indietro di circa 5 chilometri. Ad un certo punto mi fermai dietro un pagliaio, dove c’erano muli abbandonati e lì rividi il tenente il quale era stanchissimo e fu felice di rivedermi: lo aiutai a salire su un mulo, alla cui coda mi attaccai e spronando a tutto spiàno la bestia marciammo fino a che, verso sera, raggiungemmo i nostri compagni.

Camminammo tutta la notte: al mattino ci fermammo in un’isba, solo poco tempo, ma poi, nel rimetterci in cammino ci perdemmo nuovamente e definitivamente di vista. I miei compagni mi dissero, dopo, che egli era tornato sui suoi passi per cercare me, quasi a ricambiare quanto io avevo fatto il giorno prima.

PASIANOTTO. Io ricordo benissimo Ssolowjew, il 20 gennaio: si era come su un altipiano; il comando della Cuneense gridava di andare avanti. Si scese lentamente e a lungo; c’erano moltissimi caduti di combattimenti appena avvenuti. Le poche isbe erano in fiamme. In una, ancora intatta, entro, per ripararmi dalla bufera ed uno mi dice: “Qui dentro c’è anche il caporal maggiore Maronese purtroppo è ormai in agonia”. Difatti, egli stava tanto male, pallido, sfatto, che stentavo a riconoscerlo; era tutto sangue e ghiaccio, con qualche fasciatura sommaria. Lì, quel giorno, ci fu grande battaglia fra la Cuneense e la Julia contro i russi, con una strage da una parte e dall’altra.

CANDOTTI. Ricordo che c’era anche un ospedale da campo in un boschetto…

SCARAMUZZA. Era il 633º Ospedale da campo della Julia, ove facevo servizio anch’io; quel giorno fu un vero macello e ben poco potemmo fare, perché avevamo mezzi assai scarsi. La battaglia infuriò fino a sera: sembrò perfino che ci dovessimo arrendere. A notte si ricominciò a ripiegare. Io, giorni dopo, uscii a sud di Nikolajewka perché mi trovai accodato ad una pattuglia tedesca che riceveva rifornimenti ed informazioni da una cicogna. Il 28 sera arrivai difatti ad un caposaldo tedesco.

TOFFOLON. Anch’io sono uscito con quella colonna. Il paese nel quale arrivammo era Protokolnoje (almeno mi pare questo il nome) e difatti, il 29 mattino ci trovammo appunto io e lei, dottore.

PASIANOTTO. In un paesello sconosciuto, sempre il 20 gennaio; ho lasciato Attilio Biasutto, altro compagno della 13ª Batteria, pure di Brische di Meduna di Livenza: il paese era tutto in fiamme, tutti gridavano e urlavano dalle ferite; pure il Biasutto, appoggiato ad una slitta, era ferito ad una coscia. Lui, che era del 1917, diceva a me, che sono del ’21: “Bocia scappa; qui ci sono carri armati; se hai la fortuna di tornare a Meduna racconta ai miei come mi hai lasciato”.

Sono costretto a scappare, inseguito dai carri armati che travolgevano quanto e quanti incontravano sul loro cammino. Finalmente mi butto giù in una balka dove c’era un buon metro di neve. Da questo canalone ho camminato fino al mattino successivo: vedo una luce e mi oriento. C’erano militari italiani e tedeschi che stavano scaldando qualcosa. Chiedo dov’è la colonna e mi rispondono che è a qualche centinaio di metri: arranco a tutta forza, cercando anche di correre, fino a che mi sono accodato alla lunga colonna.

CITTON. Ho cominciato la ritirata nella notte del 15-16 gennaio; il 16 fu a Olichowatka dove avvenne il primo accerchiamento; il 17 attaccati dai partigiani, non vidi più un amico di Padova, certo Emilio Bonato. Il 18 ancora attaccati dai partigiani; nella notte accerchiati a Waluiki. Il 20 ero già a Karkow: arrivai alle 14 circa. Dopo due ore mi incontrai coi compagni di reparto, con grande sorpresa del capitano Bosi di Torino, che non mi aveva neppure riconosciuto.

CANDOTTI. Il 25 gennaio siamo passati per quel lungo paese dai tanti alveari…

ZANNI. Sì, là abbiamo portato i feriti; abbiamo passata la notte in un’isba, senza accorgerci che c’erano le api. Però hanno pensato loro a farsi riconoscere: durante il sonno si sono intrufolate tra di noi e ci hanno svegliato facendoci gridare dalle punzecchiature. Stavamo bene al caldo, tutti stretti l’uno all’altro, ma purtroppo ci dovemmo subire il loro incomodo e tutti tiravamo calci contro queste intruse; l’unico che non poteva muoversi perché con una gamba rotta, un certo Bottos di Azzano, si prendeva così, disgraziato, anche i nostri calci…

Artigliere alpino Pietro Cavasin
Gruppo Conegliano
Alpino Luigi Citton
8^ Reparto Salmerie
Artigliere alpino Luigi Nemoli
15ª batteria
Artigliere alpino Isaia Pasianotto
13ª Batteria
Sergente Alessandro Toffolon
Battaglione Tolmezzo

(Dialogo registrato):

BOTTOS. Il 20 gennaio 1943, terzo giorno di ritirata dal fronte del Don ci fu un violentissimo combattimento, a Nowo Postojalowka e ricordo che portai un paio di slitte di feriti all’ospedaletto del dottor Scaramuzza, ora qui presente, in un’isba in mezzo ad un boschetto; fu una vera carneficina ed una giornata campale. Il giorno dopo, ricordo bene un’isba con un’unica porta; al di fuori i nostri feriti ed i resti dell’artiglieria alpina sulla sinistra e sulla destra i carri armati russi che rappresentavano un gravissimo pericolo e non ci permettevano di proseguire per metterci in salvo.

Dissi a Tesolin di spostarsi sulla sinistra con il suo cavallino ed io cercai di scappare sulla destra; sennonché fatti pochi metri ebbi la gamba sinistra colpita da una raffica. Saltando solo sulla gamba destra mi portai fuori tiro una decina di metri e saltai al di là di un muro. Uno dei soldati del carro armato poggiò la pistola sulla fronte di uno dei nostri come se fosse una carezza e sparò; mi coprii gli occhi con le mani ed ebbi come una visione angelica e difatti nel togliermi le mani dagli occhi vidi il Tesolin con uno slittino tirato dal cavallino rosso che mi offriva di salvarmi…

TESOLIN. Cercai di caricare Bottos sullo slittino, ma si teneva tanto stretto al mio collo che quasi non ce la facevo a muovermi; finalmente mi lasciò fare e riuscii a sistemarlo. Sullo slittino c’era, anzi, tutto il materiale del mio capitano, sacco a pelo, zaino, lettino, ecc.; e chiesi al capitano cosa dovevo fare di tutta questa roba. Mi rispose di arrangiarmi e di salvare il compagno ferito. Buttai perciò via tutto e sistemai Bottos alla meno peggio, poiché la slitta era corta, circa ottanta centimetri e la sua gamba ferita non stava neppure dentro tutta. Mi incamminai lungo una balka (quella specie di piccoli burroni caratteristici
della Russia).

Prendere quella strada fu la nostra salvezza perché purtroppo gli ufficiali e sottufficiali che si erano messi a riposare un poco più avanti furono tutti distrutti e lì fu proprio la loro morte. Il cammino fu lungo. Il giorno dopo vedemmo la Tridentina sfilare intatta e poderosa sulla nostra sinistra. Così per una dozzina di giorni, fino a che, il due o tre febbraio lo consegnai alla Croce Rossa, essendo già in salvo e fuori della sacca.

BOTTOS. Io restavo sempre sulla slitta anche quando capitava di trovare un’isba nella quale riposare; mi facevo legare le redini alla gamba ferita in modo da essere svegliato nel caso che qualcuno volesse rubare il cavallino. Una notte, appunto per questo, mi lasciano fuori di un’isba e mi coprono con un mucchio di fieno per non farmi sentire troppo il freddo che era sempre tanto tanto. C’erano vicini dei muli i quali si sono messi a mangiare il fieno che mi copriva – povere bestie avevano tanta di quella fame! non certo meno della nostra… – e ad un certo punto mi morsicarono anche calzoni e relativa gamba che c’era dentro…

Poco dopo passò un tenente medico (giurerei che era Bedeschi!) e lo pregai di sistemarmi alla meglio la gamba ferita; purtroppo non poté farmi gran che perché anch’egli era senza nulla, né pacchetti di medicazione od altro e mi disse che era meglio non smuovere la fasciatura, per non andare incontro a pericolo di emorragie. Mi avevano dato dei semi di girasole ed avevo tutto il tempo di nutrirmi con quelli. Ebbi anche l’occasione di farmi portare dentro un’isba e lì l’amico Zanni di Meduna mi offrì del miele, sennonché in esso c’erano delle api vive che mi ferirono tutte le labbra e restai gonfio per vari giorni.

Le api uscirono poi in tale quantità che mordevano i miei compagni che tiravano calci per difendersi, e una gran parte di quei calci finivano sulla mia gamba ferita, poiché non riuscivo a spostarla… La mattina successiva, per non farmi soffrire e trasportarmi meglio, mi coricarono su mezza porta; così, distesa su quella la gamba stava bene, poiché altrimenti ballonzolava troppo con grandi dolori e soprattutto pericolo che si rompesse del tutto ed andasse in cancrena.

Da quel giorno rimasi sempre disteso sulla porta, sennonché il catenaccio mi batteva proprio sulla colonna vertebrale e sui reni, tanto che ne porto tuttora le conseguenze… Difatti, smontato dallo slittino di Tesolin, fui caricato su un camion sempre con la mia famosa porta. Così andai fino a Varsavia: difatti la prima medicazione la ebbi proprio là e fui liberato dal tormentoso catenaccio alla schiena…

TESOLIN. Ci fermammo, un giorno per un po’”di riposo, sennonché un fante mi portò via il cavallino e mi lasciò al posto un mulo che non ce la faceva neppure a stare in piedi; tutto questo approfittando del fatto che eravamo entrati un momento in una casa. Ad ogni modo proseguimmo lo stesso come Dio volle. Ma dopo sette giorni trovammo una slitta col nostro cavallino e, dopo una baruffa, che per fortuna non raggiunse toni troppo elevati, riebbimo il nostro cavallino e demmo al ladro il suo mulo in restituzione.

Così, sistemati un po’ meglio, potemmo in tanti usufruire dell’aiuto del prezioso cavallino rosso e ci facemmo tirare, un po’”sulla slitta ed un po’ sulle briglie: Umberto Pacca, Marson, Ugozzi, Renzo De Marchi, Martin da Chions, ecc. Quando eravamo quasi fuori, trovai anche Furlan di Torre il quale non voleva proseguire convinto di essere già in salvo e ci beffeggiava perché noi avevamo fretta di camminare. Invece egli rimase lì: fu fatto prigioniero e risulta disperso.

Ci fu anche un ufficiale che voleva che gli cedessi la slitta ed ebbimo una forte discussione poiché io insistetti che quella mi serviva per portare in salvo il ferito che la occupava, il caro amico Bottos che adesso è qui con noi.

BOTTOS. Dunque ebbi la prima medicazione a Varsavia, poi fui; fatto proseguire per l’Italia ed ai primi di marzo del 1943 fui a Pavia, poi a Pordenone, quindi al Lido di Venezia. Sia i medici tedeschi sia quelli italiani furono spesso sul punto di tagliarmi la gamba; chi diceva sopra il ginocchio, chi sotto; chi voleva tanto e chi poco. Fatto sta che un bel giorno decisi di tenermi la gamba come stava e come sta tuttora. E’  tutta bucherellata, è più corta ma mi serve, bene o male a camminare ed a tirare avanti.

Artigliere alpino Romualdo Fachiri
14ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina

Delle giornate di Nikolajewka ricordo alcuni episodi se non degni di cronaca, tuttavia assai importanti per me e per la mia sopravvivenza. La sera prima della battaglia ero al sèguito di una colonna tedesca. Fummo attaccati dai russi che si trovavano appostati lungo i pendii delle colline. Stavamo attraversando con le slitte una palude gelata. Molti caddero colpiti dalle raffiche delle armi automatiche. La notte ci fermammo in un villaggio non molto distante da quella tragica conca.

Era notte; la colonna tedesca era ferma con i feriti immobilizzati sulle slitte che facevano udire i loro gemiti e le loro implorazioni, mentre i compagni erano dentro le isbe a scaldarsi. Era una notte limpida, fredda, buia; la scena era quella di tutte le notti precedenti: allucinante, tesa, piena di incognite, grave di oscuri presagi. Stanchezza, fame, sonno e l’irrazionalità degli eventi che tenevano gli animi in pena. Il sonno ci inchiodò l’intera notte nel tepore di un’isba.

Al mattino i soldati russi erano appena fuori delle ultime case del villaggio che ci aspettavano per incolonnarci separandoci dagli infermi e dagli inabili. La colonna tedesca s’era volatilizzata ed eravamo rimasti soltanto noi. italiani (qualche centinaio). Ci fecero attraversare un villaggio tutto pavesato di rosso; in una specie di capannone o di grande stallone, lì rimanemmo rinchiusi, guardati da alcuni partigiani armati. Attraversando il villaggio fummo in parte spogliati delle poche coperte che stentatamente ci portavamo addosso.

Erano per lo più le donne che ce le strappavano o le chiedevano ai nostri accompagnatori i quali a loro volta ce le toglievano di dosso o ci ordinavano di lasciarcele portar via. Intanto nel cielo di Nikolajewka un apparecchio compiva evoluzioni, mitragliando o lanciando spezzoni. Si udivano raffiche e sparatorie da terra, e queste durarono tutta la giornata.

Con un partigiano potei scambiare alcune cose personali con cibarie; questi erano molto arrendevoli e molto diversi dai soldati. Restarono in pochi, e alla sera tardi c’era uno solo a farci la guardia. Intanto noi uno alla volta alla spicciolata uscivamo da un pertugio praticato in una parete di quello stallone, ma intanto anche l’ultima guardia aveva pensato bene di svignarsela, così potemmo rifugiarci nelle case di un vicino villaggio. Diversi si sistemarono in quelle, io e un gruppetto (due tre) ritenemmo più sicuro dirigersi verso Nikolajewka.

Purtroppo dovemmo lasciare in una casa, con nostro sincero rammarico un compagno ferito la sera innanzi. Non volle saperne di lasciarsi accompagnare da due di noi. Cercammo anche di recuperare una slitta o qualcosa del genere. Non ne trovammo. Era molto sofferente e comunque non ce l’avrebbe fatta in ogni caso a seguirci fino alla città distante un paio di chilometri, e la possibilità di raggiungere tale località, era anche per noi aleatoria. La pallottola l’aveva colpito nella parte superiore della coscia. Partii con un amico; lo perdei però lungo la strada. Era buio, sparavano; mucchi di cadaveri accatastati come ceppi pronti per qualche allucinante rogo, si ergevano a tratti lungo il cammino che percorrevo.

Alcuni spari nella notte mi avvertivano della presenza del nemico. Sorgeva sempre il sospetto di venire scoperti per essere riacciuffati nuovamente e ciò mi dava vigore alle gambe le quali trovavano ancora qualche residuo di energia per portarmi a Nikolajewka. Vi giunsi nella notte, ovviamente non saprei certo descriverla. So soltanto che c’erano vie larghe e colonne di slitte, uno strano esercito senza distintivi o contrassegni, gli uomini si riparavano dietro gli animali o le slitte, altri nelle case. I franchi tiratori colpivano sempre qualcuno e l’isba dove mi trovavo era ormai piena di feriti. Alle volte colpivano anche dentro le case e bisognava stare molto all’erta.

Alla mattina potei vedere tutto quello che rimaneva della Tridentina, raggruppata in testa alla colonna. Era stata questa divisione, a quanto si sentiva dire, che aveva rotto l’ennesimo accerchiamento. C’erano alcuni comandanti che confabulavano con alcuni capi tedeschi; c’era un apparecchio leggero coi pattini in cima a quella specie di pendio e al di là
tutta un’estesa pianura bianca limitata ad un certo punto da basse colline. Rivedendo in quel momento le posizioni mi accorsi di quanto eravamo andati lontano la sera innanzi, ci eravamo scostati di almeno un tre quattro chilometri.

Ora vedevamo l’orizzonte aprirsi libero davanti a noi. I russi sembravano spariti, almeno questa era la nostra impressione. Tuttavia alcuni cenni abbastanza eloquenti facevano capire che bisognava affrettarsi. Già in precedenti situazioni ci eravamo accorti ad esempio della presenza di elementi nemici, camuffati comunque in qualche modo, che cercavano di creare scompiglio e panico fra le truppe.

Una volta poi quattro mongoli scesi da un carro armato volevano (questo ci sembrava dai loro gesti) che, ci arrendessimo. La nostra reazione tutt’altro che rassicurante li fece sparire dietro ad alcune piante. Li trovammo poi stesi a terra. La fretta non ci permise naturalmente di accertarci se fossero stati colpiti dai loro compagni oppure fingessero di essere morti. Allora ci preoccupammo soltanto di alleggerirli dei sacchetti di commestibili.

Alpino Giuseppe Bottos

Nikolajewka ritengo sia stata per noi come il passaggio del Mar Rosso per gli ebrei: dietro c’erano le… piaghe d’Egitto. Questo ha fatto si che in sèguito ogni vicissitudine era posta in second’ordine nei confronti della necessità di metterci in salvo di porre un margine di distacco dalle truppe che ci seguivano, tale da garantirci la più assoluta sicurezza. Tutti coloro infatti che dopo Nikolajewka non si; attennero a questo principio giacquero succubi di quel bianco sterminato dove molti altri nostri compagni incontrarono una tragica fine, i

Molti fatti a distanza di anni restano sfuocati e l’ombra del ricordo si attenua, rimane però un’impressione profonda che certamente non; scomparirà mai dalla nostra vita. A mio giudizio, proprio in Russia più che altrove, si trovò, in quest’ultima guerra, in frizione acuta la civiltà contemporanea più che certe ideologie o mentalità di destra o di sinistra che dir si voglia.

Artigliere alpino Ernesto Felice
14ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina

Forse non era ancora la metà del giorno 26 gennaio 1943, ero da poco arrivato sulla piana che precedeva la conca dell’omonima cittadella di Nikolajewka entro la quale si trovava fortificata (secondo le voci correnti) una divisione di regolari russi. Da essa giungeva un infernale bombardamento di cannoni e di armi automatiche che massacrava e distruggeva le forze di avanguardia della divisione Tridentina che fin dalle prime ore del mattino combattevano con grande accanimento per aprire a tutti la strada della salvezza.

Siamo alle ore del primo pomeriggio quando giunsero sopra di noi due o tre apparecchi russi che iniziarono subito un feroce spezzonamento e mitragliamento. Noi eravamo sulla neve completamente allo scoperto senza alcun riparo all’infuori di quello di poter nascondere la testa sotto qualche slitta o sotto la pancia di qualche mulo. Mantengo tutt’oggi un chiaro ricordo di questa orrenda scena: decine e centinaia di teste e vari pezzi di membra umane e di muli mescolati a frammenti di slitte volavano per l’aria. La calca era tale che neppure un solo proiettile poteva considerarsi perduto.

Da oltre 3 giorni io stavo conducendo una slitta sulla quale avevo posto infagottato di paglia, un mio compagno ferito alla gamba con l’intendimento di portarlo fuori dalla sacca in salvo, per cui decisi di separarmi dalla massa sulla quale si accaniva maggiormente l’offesa degli aerei indirizzandomi verso un pagliaio che scorgevo a circa duecento metri. Dopo un centinaio di metri una bomba cadde proprio sulla slitta e tutto saltò a pezzi per aria; io venni scaraventato sulla neve senza subire alcuna conseguenza, continuai di corsa raggiungendo il pagliaio dietro il quale potei ripararmi e salvarmi.

Cessato il bombardamento ritornai indietro, avvicinai insieme i pezzi più grossi del mio caro amico morto coprendoli con una coperta. Poco distante erano alcuni cannoni e una katiuscia tedesca che sparavano sulla città. Notai anche il comandante della Tridentina che si agitava con le braccia brandendo una pistola, stava discutendo con ufficiali nostri e tedeschi, pare avessero detto che non si poteva fermarsi lì ad aspettare la notte per morire di freddo. La nostra massa era tale che anche con le scarse armi disponibili avremmo avuto ragione dei russi.

Il sole era già tramontato, un movimento insolito fa comprendere che qualche cosa di nuovo c’è per l’aria; infatti subito dopo la massa completa si precipitò sulla cittadina ove i russi dopo aver fatto di noi un macello furono costretti a cedere e fuggire. Io mi trovo nell’abitato assieme a tre miei compagni ed altri sconosciuti.

Dopo due ore di riposo vicino al fuoco ripresi il cammino, passai vicino ad un gruppetto di alpini che stavano completando di medicare e fasciare due loro compagni feriti, li vidi piangere e salutarsi, furono deposti sotto una piccola tettoia e lasciati lì nella vana speranza che i russi li avrebbero salvati.

Seppi più tardi che morì appena arrivato al villaggio. Io entrai quando ormai era buio, non mi fermai perché le case erano in fiamme, andai a pernottare in un gruppetto di isbe oltre Nikolajewka. La mia ragione allora non funzionava più, non potevo proprio più andare avanti, avevo i piedi completamente congelati e mi cominciavano a congelarsi anche le mani, morivo di fame, in due giorni avevo messo in bocca solo un pugno di semi di girasole.

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