ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 25

a cura di Cornelio Galas

Fonte: Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Scienze Politiche. Titolo Tesi: “La campagna di Russia (C.S.I.R.- A.R.M.I.R. 1941-1943) nella memorialistica italiana del dopoguerra”. Anno accademico 1999-2000.

Solidarietà ed Egoismo

Nel paragrafo precedente sono state analizzate le ripercussioni fisiche e psicologiche, provocate dalla pressione dell’ambiente circostante e dalla drammaticità della situazione, sugli individui ad essa sottoposti. In questa seconda parte invece l’analisi si sposta dall’interiorità del singolo individuo al momento collettivo, alle dinamiche relazionali, alle
caratteristiche e alla percezione del gruppo.

Le scelte ed i comportamenti dei singoli, nel loro modo di interagire con l’altro, con la moltitudine, appaiono decisamente influenzate dallo stato d’animo e dalla condizione psico-fisica che l’eccezionalità della situazione comportava. Gli uomini che vissero la tragedia della ritirata si trovarono “soli nella massa”, vissero cioè un’esperienza che era certamente collettiva, ma condizionata dalla spinta individualistica determinata dall’istinto di sopravvivenza.

Diviene interessante allora analizzare le dinamiche di comportamento dell’individuo, tutto teso al soddisfacimento delle proprie improrogabili esigenze vitali, ma tuttavia inserito in un contesto collettivo, del quale non può fare a meno, e con il quale deve necessariamente entrare in relazione.

La scelta delle modalità relazionali, tramite le quali mantenere in equilibrio la necessità del vitale contatto con l’altro da una parte, e la spinta individualistica dall’altra, è varia e mutevole a seconda degli individui e delle situazioni. Bisogna però rifarsi al concetto di gruppo, inteso in questo caso come unione di più individui finalizzata al raggiungimento di uno scopo, per ben comprendere tali dinamiche relazionali.

La necessità della collaborazione con gli altri per sopravvivere in quelle condizioni spingeva inevitabilmente gli individui a mantenersi in gruppo tra loro. D’altro canto però il gruppo, per sua natura, esige, come prezzo del farne parte, che gli individui siano solidali tra loro, e ben presto il peso della fatica e delle privazioni rese pericoloso e difficile sopportare un dolore che non fosse il proprio: ecco quindi che i vantaggi apportati dalla comunione con l’altro dovevano essere bilanciati dalla disponibilità a farsi carico delle altrui necessità, cosa che spesso entrava in contrasto con le motivazioni proprie dell’istinto di sopravvivenza.

Questa esigenza di equilibrio faceva in modo che si potesse passare da coloro che vissero la ritirata in maniera solitaria, a stretto contatto con pochi altri, ad interi reparti che mantennero la compattezza omogenea propria delle unità combattenti dall’inizio alla fine e nonostante tutto, ad altri ancora che vissero tale esperienza passando dall’una all’altra delle condizioni, a seconda del proprio stato d’animo o della propria condizione fisica.

Fin quasi da subito, quella che doveva essere una ritirata ordinata, si trasformò nella disperata ricerca di una via di fuga che permettesse di raggiungere le linee amiche il più velocemente possibile. I reparti si confondevano tra loro continuamente, i soldati perdevano il contatto con le loro unità, bastava un attimo di distrazione per perdere i propri compagni e ritrovarsi fra sconosciuti. In questo stato di confusione generalizzata gli individui andavano alla ricerca di certezze, sentivano il bisogno di aggrapparsi a qualcosa di solido.

“Inutile prodigarsi oltre: non eravamo più un esercito. Non avevo più a che fare con soldati, ma con esseri incapaci di dominarsi, che obbedivano ormai a un solo istinto: quello della conservazione”.

Crollato l’esercito come forma istituzionale, sparita ogni forma di solidarietà tra camerati, le uniche certezze che si potevano ritrovare in quella situazione, erano il reparto di appartenenza e l’amicizia, che difatti corrispondono alle due tipologie principali di gruppi. Anche se le motivazioni intime di quella guerra non erano condivise da tutti, lo spirito di corpo, il senso del dovere, la disciplina in genere erano caratteristiche sentite tra i soldati italiani in Russia.

Il crollo dell’apparato direttivo e organizzativo dell’esercito italiano produsse nei soldati un senso di abbandono, con il conseguente spostamento del senso di appartenenza dall’istituzione esercito, responsabile e assente, al reparto di provenienza, conosciuto in maniera diretta e consolidato dall’esperienza.

“No, non era possibile! C’erano, ci dovevano essere ancora, sicuro, reparti ancora forti, ancora nella possibilità e in condizioni di combattere, da farsi ancora sentire e temere… io , con l’ansia e la volontà disperata di ritrovare gli uomini miei, i sempre magnifici e superbi del mio XX , che, ci avrei giurato con assoluta fede, non erano confusi tra quelle miriadi di uomini – non più soldati – formicolanti, brulicanti, in quella immensa distesa”.

Coloro che ne ebbero la forza e la possibilità scelsero di rimanere all’interno della forma organizzata propria delle unità militari, con i vantaggi derivati dalla sua solidità e gli svantaggi scaturiti dalla faticosa collaborazione necessaria alla vita di un gruppo. Altri soldati invece, sia per volontà che per necessità, cercarono un punto di riferimento nell’amicizia, nella solidarietà di pochi ma fidati compagni.

A volte questa era una conseguenza del caso, come coloro che involontariamente perdevano il contatto con la loro unità, altre volte di una scelta consapevole e ragionata, per la quale si riteneva più sicura e veloce la ritirata di un piccolo gruppo più autonomo nelle decisioni rispetto agli altri.

“Non si distinguono più i reparti ne i corpi. Come una mandria senza pastori e senza cani. Alcuni ufficiali tentano di darsi da fare ma nessuno li ascolta…spontaneamente gli uomini si incolonnano […] Mezz’ora di tempo in più può essere decisiva per la vita di tutti […] Gli uomini che si conoscono fanno di tutto per rimanere uniti. E quando la colonna s’incammina velocemente nella notte, si prendono per mano o sottobraccio, per sentirsi meno soli e meno deboli”.

Dall’essere un piccolo gruppo isolato dagli altri, allo sbandarsi, il passo era breve. Gli sbandati erano coloro che fin dall’inizio avevano deciso di abbandonare ogni forma di organizzazione e disciplina, avevano gettato tutte le armi, non combattevano, restavano nelle retrovie della colonna seguendo la sua corrente trascinatrice. Il loro unico obiettivo era di rimanere agganciati alla colonna, ma non si adoperavano per permettere a questa, e quindi anche a loro, di arrivare in salvo.

Questa era la forma più individualistica tra le dinamiche relazionali analizzate finora, la solidarietà in questo caso si esprimeva solamente verso pochi altri compagni di sventura, spesso anche uno o due solamente, e unicamente finché se ne riscontrava un vantaggio. Questo tipo di gruppo era caratterizzato dalla spontaneità e dall’estemporaneità.

“Nella lunga colonna di gente che non combatte più e che spera di farcela a seguire la nave pilota della Tridentina, nascono amicizie, cameratismi nuovi, si formano gruppi di tre, di dieci, di quindici persone. Nel gruppo tutto viene messo in comune, dalla carne di mulo ai semi di girasole, dal coltello al bastone, dal pezzo di pane alla galletta, dalla slitta al cavallo […] L’unione dà coraggio, rende più agguerriti gli sbandati contro i pericoli, contro lo sfinimento, li aiuta a farsi temere nel contestare o nel prendere possesso di una isba e a difendere il diritto di preda sulla carogna di un animale”.

Il luogo dove tutte queste differenti tipologie di gruppi entravano in contatto ed al quale facevano riferimento era la colonna. La colonna era il centro intorno al quale gravitavano tutti gli individui, riuscire a rimanerne parte significava mantenere una speranza di salvezza, o comunque condividere la propria sorte con tutti gli altri, restarne fuori o ai margini significava essere catturati o, nella peggiore delle ipotesi, essere ucciso dal nemico, dalla fatica o dal clima.

La colonna non costituiva un gruppo omogeneo, solidale, ma si configurava più che altro come la somma, la concentrazione, di più sottogruppi, spesso anche in contrasto tra loro per l’utilizzo delle limitate risorse vitali, ma comunque ad essa legati. Dalla lettura delle memorie traspare il fatto che all’interno della colonna di soldati in ritirata, si manifestarono una serie di rapporti fra gruppi differenti che non di rado erano di aperta ostilità.

Innanzitutto le differenti nazionalità dei soldati erano, sopratutto per quanto riguarda i tedeschi, fonte di rivalità e competizione; il rapporto con i tedeschi si era trasformato da alleanza a malcelato disprezzo reciproco: i soldati delle due nazionalità raramente si aiutavano a vicenda, e quando questo avveniva era sempre per un interesse comune.

La divisione alpina Tridentina era stata tra le unità meno impegnate durante gli scontri precedenti alla ritirata, ed era riuscita pertanto a mantenere un’efficienza tale da permettergli di sopportare quasi da sola il peso dei combattimenti necessari ad uscire dalla sacca sovietica. Fu la guida ed il traino di tutta la colonna in ritirata.

Ancora più forte era la differenziazione tra reparti omogenei e sbandati. A costituire tale differenza in questo caso non era più la nazionalità di appartenenza, ma il grado di consapevolezza della necessità di uno sforzo comune per la salvezza, la volontà di rischiare ancora la propria vita, se non più per convinzione politica o per amor patrio, almeno per quel senso di solidarietà e cameratismo assai sentito tra i soldati delle varie unità.

In questo senso gli sbandati erano all’opposto dei soldati che erano rimasti inquadrati in unità organizzate, anzi erano percepiti da queste come un intralcio alle loro azioni. Da una parte gli sbandati, l’Armata Barbona, come ebbero a definirla gli alpini della Valtellina, oramai senza armi ne equipaggiamento e senza la volontà di procurarsele, interessati esclusivamente al cibo e ai ripari, sempre alle spalle delle unità combattenti per sfruttarne il successo senza rischiare nulla, ma assai veloci a raggiungere la testa della colonna quando si avvicinava un villaggio.

“Si gettarono avanti, spingendo, trascinando, vociando, arrancando, calpestando senza pietà i malati e i più deboli […] Larve umane retrocesse ai primordi della vita animale”.

Dall’altra parte invece coloro che ancora avevano la volontà di combattere, che non si arrendevano di fronte ad una situazione che sembrava disperata, che si occupavano dei feriti e dei congelati, che riuscivano ancora a mantenere la propria dignità. Era come se lo
sfaldamento dell’organizzazione militare, la percezione dell’assenza di gerarchia e autorità, avessero lasciato al singolo uomo una possibilità di scelta tra l’ordine ed il disordine, tra l’indifferente egoismo individuale e la solidarietà collettiva, una scelta che metteva alla prova la moralità dell’individuo.

“Riprese il movimento dei reparti ancora in efficienza, sempre difficoltati, anzi ora più sfacciatamente e furiosamente… da quegli sbandati della malora […] Che gente, però! […] e la loro insistenza, e la loro petulanza…. e la loro arroganza, anche! […] Superstiti di reparti distrutti, gente che si era lasciata andare, gente che volutamente e deliberatamente, al primo sentore di pericolo, avevano piantato tutto”.

Le memorie forniscono un quadro assai negativo degli sbandati, attribuendo tale condizione ad una scelta volontaria di egoismo, ad un calcolo ponderato delle proprie possibilità di salvezza. Certamente molti scelsero di occuparsi principalmente di se stessi e delle proprie esclusive esigenze, ma per molti altri questa non fu una scelta, bensì una necessaria conseguenza imposta dal proprio stato emotivo e fisico: le residue energie non potevano essere impegnate se non per la propria salvezza.

Si assiste quindi nelle memorie ad uno slittamento di significato e di percezione degli aspetti comportamentali nel gruppo, con l’attribuzione di un giudizio morale sulle scelte operate, quasi senza considerare le motivazioni di tali scelte. L’essersi sbandato diviene sinonimo di scelleratezza, di sopraffazione dell’altro, di incuranza per la sorte dei compagni, diviene insomma una condizione di cui vergognarsi, perché non casuale, ma volontaria scelta di egoismo.

Lo sbandato non solo viene dipinto come inoperoso e incurante della sorte comune, ma anche come un impedimento all’azione degli altri, come uno sfruttatore che consuma le risorse che sarebbero moralmente destinate a chi si prodiga per la salvezza.

Chiavazza Carlo considera meno duramente la condizione degli sbandati, e sottolinea come il passaggio dall’una all’altra condizione fosse assai semplice:

“Questa strana ritirata ha due atteggiamenti: il primo è di chi combatte, un atteggiamento deciso, forte, entusiasta, segnato di speranza; il secondo è di chi segue: un atteggiamento crucciato, sgomento, sofferente, inerme, disperato, vigliacco ed eroico […]

Tutto ciò è espresso in due parole: combattenti e sbandati. Sono vicino ai primi, li seguo e cerco di rendermi utile nei momenti più gravi e impegnativi […] Appartengo alla categoria degli sbandati in mezzo ai quali mi ritrovo, con i quali vivo ed ho in comune la psicologia. Si sono dette tante cose sugli sbandati, frasi che rivelano spesso il disprezzo o una eccessiva sufficienza oppure una retorica e sdolcinata compassione”.

“Una massa di sbandati, vociante, disperata, famelica, pronta a tutto, pur di salvarsi, meno che a combattere, andava ingrossando rapidamente attorno ai reparti alpini ancora  efficienti, organici, rispettosi delle gerarchie, decisi ad usare le armi. In quella folla di – autosmobilitati – , nella quale migliaia di egoismi si mescolavano e farneticavano, senza sommarsi in uno sforzo comune, vi erano i resti senza nome, senza patria, senza dignità, del gruppo d’armate”.

In realtà alla scelta di appartenenza ad un gruppo non corrispondeva necessariamente una scelta comportamentale ben definita e, sopratutto, durevole nel tempo. Solidarietà ed egoismi individuali erano sentimenti dettati dalla situazione contingente che appartenevano al singolo individuo e prescindevano dal legame che si era instaurato con i compagni e dalle proprie convinzioni.

La pressione esercitata dall’ambiente sugli animi e sui corpi dei soldati era difficilmente sopportabile, e le reazioni emotive erano suscettibili al cambiamento in relazione alle proprie condizioni. Coloro che avevano dimostrato coraggio e iniziativa solamente pochi attimi dopo potevano palesare paura e sconforto, e ugualmente si poteva rischiare la propria vita per aiutare un compagno in difficoltà per poi restare sordi alle pietose richieste d’aiuto di un ferito ai bordi della pista.

Tutto era possibile in quei momenti, tutti potevano passare da un comportamento al suo estremo opposto senza soluzione di continuità, senza rinnegare nulla; anzi questo era proprio quello che accadeva, e che contribuiva a turbare ed a confondere gli uomini.

Soldati che dopo aver a lungo pregato per ottenere un posto su di un autocarro si affannavano, non appena a bordo, a respingere gli altri che si trovavano nella loro stessa condizione di pochi istanti prima; uomini dal provato coraggio che si rifiutavano di combattere oramai convinti dell’inutilità dei loro sforzi; compagni d’arme pronti ad azzannarsi per un pezzo di pane o per il possesso di una isba, capaci poco dopo di trasportare per chilometri un compagno ferito a rischio della propria vita.

“Entrai poi nella terza stanza, per prendere la coperta del morto. Ma quando cominciai a tirargliela di sotto, l’uomo emise un lieve gemito. Era ancora vivo!… Mormorai – Toh, è ancora vivo! – e gli lasciai la coperta. Ma non tentai di parlargli, non rimasi a confortare i suoi ultimi momenti. Davanti a questo nuovo, inatteso orrore, l’egoismo da cui ero faticosamente emerso neanche un’ora prima, mi soverchiò di nuovo… io non intendevo, in un massacro generalizzato come questo, consumarmi più oltre nell’aiutare gli altri, mettendo così a repentaglio le mie possibilità di resistenza futura. Ogni spirito di carità si andava nuovamente spegnendo: la mia anima stava ridiventando atona, insensibile”.

Difficilmente in quelle condizioni si potevano evitare momenti di debolezza, momenti nei quali si percepiva che null’altro sforzo era concesso al proprio fisico che non fosse indirizzato alla propria salvezza, per poi tornare ad essere, recuperate un pò di energie, quelli che si voleva essere.

Una vicenda simile è narrata anche nelle “Memorie del colonnello Sukov” della Grande Armata di Napoleone in Russia:

“Mi raccontano la storia di quel granatiere francese in Russia, che, vedendo un generale dell’armata disteso sul lato della strada, agonizzante, s’avvicina e cerca di sfilare le scarpe all’ufficiale. – Lasciatemi, dunque -, grida il generale, – io non sono ancora morto!- . Per tutta risposta il soldato replica: – Mio generale, attenderò… !-“

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