ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 20

a cura di Cornelio Galas

Fonte: Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Scienze Politiche. Titolo Tesi: “La campagna di Russia (C.S.I.R.- A.R.M.I.R. 1941-1943) nella memorialistica italiana del dopoguerra”. Anno accademico 1999-2000.

L’idea del nemico

Lo scontro tra potenze dell’Asse e Unione Sovietica rappresenta senza dubbio il nodo centrale di tutta la seconda guerra mondiale. Milioni di uomini coinvolti da entrambe le parti, un dispiegamento di mezzi che, per quantità e modernità, non si era mai visto in nessun teatro bellico, un intero continente sconvolto dalle operazioni militari, la presentazione fortemente ideologicizzata del confronto tra i totalitarismi, decine di milioni di vittime, tra civili e militari, alla fine del conflitto.

Tutti questi aspetti rendono cruciale, per le sorti della seconda guerra mondiale, la battaglia che per quattro anni vide a confronto le due più temibili potenze militari del tempo. Il risultato dello scontro avrebbe sancito la fine inappellabile del regime sconfitto e il primato mondiale per quello vincente. Queste considerazioni, frutto di analisi a posteriori degli eventi, erano in realtà già evidenti alle classi dirigenti dei paesi coinvolti, che impostarono conseguentemente il conflitto come uno scontro per la vita nel quale ogni legge, civile o morale, era subordinata a quella della sopravvivenza.

Il caos primitivo e feroce nel quale questa guerra venne a combattersi, rende quindi molto difficile riscontrare una linea di condotta generalizzabile per le parti in causa, e tende invece a porre l’esperienza individuale come metro unico di giudizio. E’ anche per questo motivo, oltre a considerazioni di natura politica che saranno affrontate più avanti, che le testimonianze delle memorie, per quanto concerne il rapporto con il nemico, presentano degli aspetti a volte contraddittori.

“Uno spettacolo tremendo si offre ai miei occhi increduli: un gruppo di corpi denudati e insanguinati giace a terra, le braccia spalancate, poveri cristi deposti dalla croce, un foro in fronte, la bocca e gli occhi deformati. Sono i nostri amici bersaglieri motociclisti che abbiamo salutato ieri e, orrore, al centro della piazza c’è un secchio con dentro gli occhi e le lingue di quei poveretti.

Nell’agosto del 1942 sul campo di battaglia… dovevo imbattermi in una soldatessa russa, una giovane infermiera, che amorevolmente aveva curato uno dei nostri feriti prima che morisse. Ecco gli episodi di ferocia e di bontà mescolati insieme in quella tremenda carneficina chiamata guerra”.

La maniera con la quale veniva percepito il nemico, se cioè fosse odiato, temuto, rispettato, costituisce uno degli aspetti che la memorialistica non trascura, e che, più di altri, rispecchia la soggettività delle esperienze. Gli eccessi di crudeltà e brutalità ai quali arrivavano a volte i soldati sovietici, motivati o meno da una reazione a quelli perpetrati dai nazisti, emergono spesso dall’analisi delle memorie.

La presa di coscienza con l’asprezza del modo con cui veniva combattuta questa guerra produceva nell’animo dei combattenti di entrambe le parti il terrore, spesso giustificato, di finire nelle mani del nemico. In questo clima la propaganda militare aveva buon gioco nell’enfatizzare la crudeltà delle gesta dell’avversario.

“E se anche io fossi caduto… per le mani… nelle mani di quella gente… Dio… Dio… non mi far cadere nelle mani degli empi, mi sgorgò spontanea, dall’animo, la preghiera, proveniente dal senso di ribellione e di ripulsa a quello stato di assoluto abbrutimento, di schifo a quello stato di imbestimento, a cui arrivavano – piuttosto facilmente, nei momenti particolari – quelli che non sentono Dio”.

La lotta tra tedeschi e russi presentava aspetti di tragicità e di violenza tali da differenziarla notevolmente anche dagli altri scontri della seconda guerra mondiale. Non c’era rispetto per città e opere d’arte, la popolazione civile veniva coinvolta senza nessuno scrupolo, i prigionieri erano spesso trucidati senza pietà nonostante accordi internazionali che erano invece rispettati su altri fronti.

I soldati erano sottoposti oltre che alle fatiche fisiche, ad un continuo stress emotivo prodotto dal confronto con una realtà fortemente logorante anche per essere un teatro di guerra. I soldati sovietici catturati dagli italiani raccontano spesso le loro condizioni di vita: marce estenuanti per decine di chilometri al giorno, notti all’addiaccio, incuranza delle perdite da parte di ufficiali e commissari politici.

Andavano all’assalto ubriachi di vodka e se questo non fosse bastato a renderli sprezzanti del pericolo dietro di loro erano appostati i commissari politici pronti a sparare su chi si ritirava. Anche i soldati italiani, sebbene la disciplina non fosse così ferrea, vivevano in condizioni di vita quasi primitive, senza dormire, senza mangiare, bersagliati dai parassiti, continuamente impegnati in azioni di guerra. Questa vita di privazioni indeboliva il fisico, ma ancor di più il morale, e poteva spingere il gruppo e l’individuo verso comportamenti ferocemente istintivi.

“Nell’ultimo carro troviamo un ufficiale russo, lo facciamo prigioniero. Ci troviamo più tardi sotto il fuoco nemico e chiedo con furore al mio prigioniero di starmi vicino e di portarmi una cassetta di munizioni. C’è diniego. Lo chiamo ancora, quel tenente russo. Nessuna risposta. Un impeto di rabbia mi assale, poi lo colpisco con una pugnalata alla schiena. Non so se sarà scampato… ora a distanza di tempo provo vergogna, rimorso ma non so cosa può balenare nella mente di un soldato in quei tragici frangenti dove la vita e la morte si intrecciano in un baleno”.

Per quanto nemici in una guerra feroce, italiani e russi non provavano solamente odio e disprezzo reciproco. Il soldato russo viene spesso dipinto come valoroso e combattivo, degno comunque del rispetto dell’avversario. Si è già sottolineato come non fosse una guerra fortemente sentita dai soldati italiani, e, anche per i russi, il vero nemico da sconfiggere era il nazista, che aveva invaso la loro patria. Questo non significa naturalmente che gli scontri non fossero accaniti, tutt’altro, ma spesso nei limiti di quell’onore militare tante volte calpestato.

Era dunque ancora possibile che si sentisse la necessità di rendere gli onori militari alle salme di nemici caduti in combattimento.

“ Non conosciamo il suo nome […] sappiamo ch’è una vittima del dovere, un Eroe. E perciò gli presentiamo le armi, muti e commossi dinanzi la sua salma”.

Era ancora possibile che si riuscisse a scorgere l’uomo sotto la divisa nemica. L’alpino Mario Tognato era riuscito ad individuare un russo che, mimetizzato nella sua trincea distante duecento metri, osservava da qualche minuto le postazioni italiane per individuarne un punto debole. Imbracciato il fucile da cecchino prese la mira con calma. Il russo ebbe un tremito improvviso e cadde al primo colpo.

“Rimasi agghiacciato. Sembrerà assurdo: avevo sparato per ucciderlo, ciò nonostante il vederlo morire quando meno se lo aspettava, mi colpì come un pugno nello stomaco, mentre la testa mi si svuotava. E’ stata una visione che mi ha ossessionato per molti anni, molto più dei tremendi combattimenti che dovemmo sostenere poi”.

Il tenente russo non era caduto in combattimento, non era un soldato tra i tanti che vengono all’assalto, era lì inoffensivo e ignaro del pericolo, e l’alpino aveva avuto il tempo di osservarlo bene prima di colpirlo, non era più un estraneo.

“Martinuzzi nella sua ora di vedetta siede sulla sponda e conversa pacificamente con una vedetta russa . I due si incontrano nell’ora di vedetta. Hanno lo stesso turno. Quando il russo deve andare, raccomanda Martinuzzi di nascondersi; quello che lo sostituisce è un “partisan” e “kaputt”.

Quando le circostanze lo rendevano possibile avveniva che gli avversari potessero entrare in più stretto contatto anche in situazioni non strettamente legate al combattimento. La guerra nelle immense steppe russe, prive di centri abitati, costringeva i soldati di entrambi gli schieramenti a fare riferimento ai pochi villaggi presenti per l’accantonamento. Sopratutto quando diventavano necessari continui spostamenti, il poter sostare al chiuso, anche una sola notte, era considerata una esigenza vitale.

Durante la ritirata, ad esempio, le varie colonne impostavano le loro marce forzate in relazione alla posizione degli abitati, e i russi, dal canto loro, conoscendo bene questa necessità, più che accerchiare in senso stretto si limitavano a costituire dei posti di blocco, più o meno consistenti, presso le tappe obbligatorie, i villaggi.

Poteva così accadere che, nella fluidità della situazione, si ritrovassero a sostare nello stesso paese, perfino nella stessa isba, soldati italiani e soldati o partigiani russi. Con i partigiani, in particolare, era possibile che si facessero questi incontri, dato che essi operavano nelle retrovie ed erano spesso tra i civili a stretto contatto con le truppe occupanti.

“Andiamo ed entriamo nelle isbe e con nostra sorpresa ci troviamo assieme a partigiani russi che ci accolgono abbastanza volentieri e ci danno anche della borsch (zuppa). Riposiamo alla notte tutti assieme e al mattino di buon’ora noi dobbiamo partire sempre per il nostro solito cicai, cioè fuga. Ci salutano e ci fanno gli auguri per il ritorno alle nostre case. Dobbiamo ringraziare ed essere grati per il loro comportamento”.

Il rapporto con i partigiani riveste un ruolo importante per comprendere l’idea del nemico che avevano tra loro soldati italiani e russi.  Anche Carlo Chiavazza, trovò nella sua isba dei partigiani che avrebbe potuto denunciare essendo la zona sotto il controllo italiano:

“Mi guardavano sbalorditi. Allargai le mani. Dissi: – Io, pope, non porto armi, porto pace a tutti – […] feci cenno a tutti di sedere come prima. Ripresero a mangiare patate lesse, diffidenti, preoccupati. Non riuscivano a vincere la paura e il terrore di cadere in qualche trappola. Conversammo un po’, diedi loro pane e cioccolato, parlai dell’Italia molto bella e degli italiani che non erano cattivi.

I partigiani facevano grandi segni affermativi con la testa. Mi ritirai nella stanza a me riservata invitandoli a rimanere quanto desideravano: anche per noi italiani l’ospitalità era sacra. Se ne andarono poco dopo, in punta di piedi, così mi disse la madre di Sura e Malenko. Mi disse anche: – La ringraziano, non le faranno più imboscate, porti sempre al collo la sciarpa nera, così la riconosceranno”.

La guerriglia partigiana per sua natura viene condotta oltre le linee del proprio esercito, in pieno territorio nemico, consentendo quindi ai combattenti di avere una precisa conoscenza delle caratteristiche del nemico che si ha di fronte e del suo comportamento con i civili del luogo, spesso loro parenti e concittadini.

In questo senso si potrebbe dire che il grado di violenza della guerra partigiana è strettamente legato alla capacità dell’esercito occupante di mantenere rapporti di rispetto e correttezza con la popolazione, procurandosene la stima. Gli italiani furono naturalmente soggetti ad azioni partigiane, era nella natura delle esigenze di guerra, ma emerge dalle memorie come queste fossero assai più limitate che nelle zone amministrate dagli altri alleati, e come le reciproche rappresaglie raramente raggiungessero toni particolarmente crudi.

“Con altri sette militari, venni mandato a pattugliare il paese borgata per borgata; il freddo era intensissimo e così per scaldarci un pochino, bussammo ad una casa russa […] ci venne offerta della vodka che loro stessi distillavano… alcune ragazze che abitavano nelle vicinanze vennero a farci compagnia, quando ad un tratto entrarono improvvisamente in casa tre giovanotti armati. Ci allarmammo non poco, ma i tre giovani, battendoci le mani sulle spalle, ci rassicurarono, dicendoci che loro erano partigiani russi e che il loro odio era soltanto rivolto ai tedeschi ed ai fascisti e non ai componenti l’esercito italiano”.

Non era poi così raro che accadessero episodi del genere, nei quali improvvisamente e senza nessuna preparazione si trovavano di fronte nemici che fino a qualche istante prima si sarebbero presi a fucilate. Eppure quando ciò succedeva era difficile che si facesse ricorso all’uso delle armi. In questi momenti nei quali, spinti dalle stesse necessità, ci si trovava faccia a faccia in un contesto non propriamente guerriero, si poteva riconoscere negli occhi del nemico le proprie sofferenze, e ritrovare quel senso di rispetto per l’uomo che non può emergere in chi prova un odio profondo.

“Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola […] Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto… e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più… Nessuno fiata…

Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, ne alcun desiderio di difendermi o di offendere […] Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’un per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini”.

Anche tramite i prigionieri, data la loro condizione, era possibile familiarizzare con il nemico. I soldati sovietici catturati potevano restare in consegna agli italiani anche per lunghi periodi di tempo, svolgendo lavori pesanti o con il ruolo di interprete o di guida. Superata la paura iniziale per la cattura e per la propria sorte, i prigionieri lentamente entravano in confidenza con i propri carcerieri che da parte loro tendevano a compatire la condizione di quegli sventurati.

L’episodio che visse il tenente d’artiglieria Gustavo Guasconi non fu certamente isolato: dalla cabina del suo mezzo osservava i suoi artiglieri riuniti in fraterna conversazione con alcuni soldati tedeschi attorno ad un grande falò. Poco distante alcuni prigionieri russi, che avevano finito di lavorare, attendevano con rassegnata pazienza.

“A un dato momento sei nostri soldati ci avvicinano: – Signor tenente quei poveri prigionieri russi stanno morendo dal freddo e dalla fame, vorremmo che si unissero a noi, ce lo consente? -. Lo confesso: l’umana richiesta dei miei soldati mi commosse, e naturalmente ebbero tutta la mia approvazione. Corsero così verso i prigionieri russi, e con amichevoli incoraggiamenti e sorrisi li condussero al falò”.

I prigionieri divisero lo stesso rancio con italiani e tedeschi, mentre qualcuno già lacrimava per l’insperata fraternità dimostratagli dagli italiani.

“In quel momento non vi furono nemici, e ne vinti e vincitori, ma solo uomini che si erano ritrovati al di sopra di tutto e di tutti”.

Quando la vicinanza si protraeva nel tempo potevano crearsi delle vere e proprie amicizie individuali basate sul rispetto dell’uomo più che dello status di prigioniero nel quale si trovavano i soldati russi. Ci si scambiava informazioni sulla vita privata e sulle condizioni nelle quali si combatteva dall’altra parte, si condividono fatiche e rancio, si possono apprezzare i gesti di quotidiana cortesia.

“Dapprima gli alpini li consideravano con grande curiosità, poi allungavano qualche sigaretta, regalavano una gavetta, qualche indumento e un bonario sorriso. Trasecolati, i prigionieri ricambiavano facendo piccoli servizi, spaccando la legna e andando a prendere l’acqua […] In capo a una settimana i prigionieri erano perfettamente ambientati nei reparti alpini, cantavano strigliando il mulo […]

Andavano e venivano in piena libertà, secondo le incombenze. A sera si ritiravano sotto le loro tende e ricomparivano all’indomani, soddisfatti e puntuali. Ciò che appariva più strano era che nessuno di loro, pur avendo ogni possibilità di confondersi fra la popolazione russa…rinunciò mai alla propria condizione di prigioniero”.

Anche Dario Lo Sordo, parla di un particolare rapporto con i prigionieri:

“Un soldato è sbarcato sulla nostra sponda. Viene avanti con le mani in alto lentamente. La sua divisa è zuppa d’acqua […] Trema nei panni zuppi. Martinuzzi gli offre una sigaretta. De Luca lo invita a spogliarsi e Pierlorenzi gli offre il pastrano. Rascazzi gli fa scolare le ultime gocce di vodka che sono nella borraccia. Nel buio del camminamento vediamo schiarirsi il volto del prigioniero, anche il suo respiro è tornato calmo e il cuore non batte più precipitosamente per paura. Gli siamo intorno come se fosse un nostro fratello. Siamo fatti così noi italiani davanti ai nemici”.

I prigionieri

E’ stato già sottolineato come la guerra sul fronte russo fosse combattuta con una violenza ed una esasperazione particolari anche confronto agli altri teatri di guerra. La crudezza degli scontri e l’accanimento con il quale i due contendenti si affrontavano andavano aumentando con il trascorrere del tempo e con il diffondersi delle notizie sulle crudeltà commesse da entrambe le parti.

L’odio, abilmente attizzato dalla propaganda, finì per riversarsi inevitabilmente anche sui prigionieri, per i quali la cattura spesso significava condanna a morte. Una guerra per il totale annientamento, fisico e politico, del nemico, non lasciava spazio al rispetto dei diritti umani tutelati dalla morale prima ancora che dagli accordi internazionali.

“Correvano voci secondo le quali tutti i prigionieri russi erano stati fucilati dai tedeschi. I soli italiani ne avevano fatti oltre duecento negli attacchi alla baionetta del giorno precedente […] I prigionieri venivano dai tedeschi messi in file di dieci, poi un soldato li abbatteva con la pistola-mitragliatrice, colpendoli di preferenza alla testa… Alcuni ne trovammo cadaveri nella triste passeggiata che stavamo facendo. Ricordo un ragazzo russo in divisa da soldato, dell’apparente età di quindici o sedici anni […] In lui mi parve di vedere tutto il popolo russo, che da tanti anni geme e soffre di dolori per noi inimmaginabili […]

Nel profondo del mio cuore l’avversione per i tedeschi crebbe, e cominciò a trasformarsi in un’ ira sorda e costante […] Và però detto che i soldati dell’armata rossa si comportavano in quei giorni con i prigionieri allo stesso modo: non un tedesco veniva da loro tenuto vivo, e anche gli italiani subivano a volte la stessa sorte. Era quanto mai penoso per noi – uomini in fin dei conti civili – essere coinvolti in quel selvaggio scontro di barbari”.

Anche la sorte dei soldati italiani presi prigionieri era a volte comune a quella degli alleati tedeschi, e non mancarono episodi nei quali anche loro furono oggetto di trattamenti violenti e inumani da parte delle truppe e dei partigiani sovietici. Le croniche insufficienze logistiche dell’ armata rossa non possono fornire una motivazione plausibile per giustificare marce forzate a piedi con temperature rigidissime o la mancata distribuzione di viveri ai prigionieri che morivano letteralmente di fame.

Durante la ritirata, per esempio, i feriti più gravi nell’impossibilità di essere trasportati dovevano essere abbandonati, in compagnia di un medico, e restare in terribile attesa dell’arrivo del nemico, nella speranza, spesso vana, di essere da questo curati.

“Quando chiudiamo alle nostre spalle l’uscio delle isbe dopo avere dato l’estremo addio a quegli alpini abbandonati, distesi sulla paglia o nei letti, con i corpi disfatti sappiamo quale sarà la loro sorte. Verranno eliminati uno ad uno […] Come bestie immonde, uno ad uno, li getteranno nei fossi, sui letamai, nelle macchie nere dei boschi […] Li butteranno all’addiaccio perché nella notte i cadaveri siano preda dei lupi e di giorno servano di pasto ai corvi. La guerra ha distrutto ogni cosa, anche la pietà”.

Negri Mosconi racconta l’episodio della cattura di alcuni prigionieri:

“Dovrei fucilarli perché ci sono in giro tante armi abbandonate che, se li lascio, si armano di nuovo e ricominciano ad uccidere. Ma non me la sento e gli alpini nemmeno a pensarlo […] Arrivano intanto di corsa alcuni tedeschi urlandomi da lontano di non sparare sui russi: – Kamerad nicht schiessen! – ma nessuno pensa a sparare. Hanno con loro un interprete ucraino e cominciano ad interrogarli […] L’interrogatorio è finito e subito due tedeschi aprono il fuoco con le pistole mitragliatrici massacrandoli tutti. Poi se ne vanno. Gli alpini bestemmiano e dicono che quello non è il modo di ammazzare la gente”

Anche se tali comportamenti dell’esercito russo, nei confronti degli italiani, non erano nella norma, come per i nazisti, questi eccessi influenzarono fortemente il modo di percepire il nemico. Numerosi sono i testi della memorialistica che trattano in maniera specifica e approfondita della questione della prigionia: delle spoliazioni subite dopo la cattura, dei terribili trasferimenti a piedi per chilometri senza cibo ne acqua, delle terribili condizioni igienico-sanitarie dei campi di prigionia che favorirono la diffusione di epidemie mortali.

Proprio per l’importanza e la completezza delle testimonianze, e per le conseguenze politiche che da queste scaturirono, la memorialistica sulla prigionia non rientra in questa analisi. Naturalmente, anche nei testi non specificatamente dedicati all’argomento, sono presenti numerosissimi riferimenti alla questione del trattamento riservato ai prigionieri di guerra, sia italiani che russi. Per una maggior comprensione del problema è necessario quindi soffermarsi, seppure brevemente e in maniera non esaustiva, sugli aspetti politici della questione dei prigionieri dopo la fine della guerra.

Quando la guerra finì e fu possibile riallacciare i rapporti diplomatici, venne il momento di affrontare direttamente la questione dei prigionieri italiani ancora nelle mani delle autorità sovietiche. Gli eventi trascorsi tra lo sfondamento del fronte, con la conseguente tragica ritirata in diverse colonne, e l’arrivo dei superstiti dietro le linee alleate, erano stati caotici e di difficile ricostruzione. Non era facile stabilire quanti, tra gli assenti all’appello, fossero nella realtà i caduti, i dispersi, i prigionieri.

Una prima stima pervenne direttamente dalla propaganda sovietica che in un bollettino ufficiale parlò di circa ottantamila italiani catturati solamente nelle operazioni seguenti alla rottura del fronte del Don. Ad una cifra simile sono arrivate anche le autorità italiane dopo aver potuto esaminare più attentamente i fatti ed aver potuto interpellare gli scampati.

Quale che sia il numero preciso dei prigionieri che erano detenuti in Unione Sovietica, il dato che sconcertò l’incredule opinione pubblica e diede vita ad un vivacissimo dibattito politico, è quello dei prigionieri restituiti: a quattro anni dalla fine della guerra erano stati riconsegnati dalle autorità sovietiche solamente poco più di diecimila italiani prigionieri.

Di fronte ad una disparità così evidente tra i soldati verosimilmente catturati e quelli effettivamente restituiti, le autorità italiane interrogarono sempre più pressantemente il governo sovietico, ottenendo sempre risposte inconcludenti ed evasive. Tale questione doveva trascinarsi, senza risoluzione, ancora per decine di anni.

Nel 1959 l’allora capo del Soviet supremo Khrusciov, in visita a Tirana, rispose a coloro che lo interrogavano sulla sorte dei prigionieri italiani: “La guerra è come il fuoco: è facile saltarci dentro, ma non agevole uscirne. Ebbene, gli italiani si sono bruciati nella guerra di Russia. Ecco tutto”.

Nel frattempo, in pieno clima di guerra fredda, anche in Italia il dibattito si accendeva tra le parti politiche. Da una parte le forze di destra che accusavano di crudeltà il regime sovietico e di partigianeria i comunisti italiani; dall’altra le forze della sinistra comunista che imputavano le cause della tragica disfatta al passato regime, che si era legato indissolubilmente alla ferocia nazista, e condannavano le responsabilità dei comandanti il contingente italiano.

I toni del dibattito si fecero presto aspri, coinvolgendo anche alcuni tra gli autori delle memorie come ad esempio Messe, Salvatores, Carloni da una parte e Tolloy dall’altra, che
nei loro scritti polemizzano duramente tra loro. Anche il ruolo dei fuoriusciti italiani all’interno dell’armata rossa divenne oggetto di animate discussioni tra chi li considerava dei veri e propri traditori della patria e chi, invece, li ergeva a paladini della lotta antifascista.

“Una partigiana, una donna, da sopra il suo cavallo continuava a sparare sugli alpini […] E gioiva mentre quei poveretti cadevano intorno a lei, che tendevano le mani davanti agli occhi quasi a volersi riparare da quell’odio, da quella barbarie, poveri alpini […] E bastardi italiani ( fra questi mi sovviene un sardo, Polano, che non appena rientrò in Italia i comunisti lo elessero senatore della repubblica ) che sparavano sugli alpini e gioivano con quella serpe che aveva sembianze di donna. Non è che la guerra potesse giustificare certe atrocità, ne che queste potessero essere giustificate dalla brutalità dei tedeschi”.

Altro aspetto cruciale fu l’accusa di coinvolgimento dell’esercito italiano nelle atrocità commesse dal nazismo nei confronti dei civili e dei prigionieri russi. La volontà di prendere le distanze da un alleato divenuto assai scomodo dopo la fine della guerra traspare innegabilmente dalla lettura delle memorie, che rilevano spesso come sia l’amministrazione del territorio, sia la custodia dei prigionieri fosse sotto la giurisdizione tedesca.

Il desiderio di dissociarsi, legittimato dagli avvenimenti e dal dibattito del dopoguerra ha così probabilmente inciso sulla memoria e sui filtri con cui gli autori elaboravano i propri testi. Anche gli autori più critici sul comportamento italiano in Russia evidenziano come la brutalità tedesca avesse degli effetti controproducenti sui soldati italiani.

L’ex ministro per il Commercio con l’Estero, Giusto Tolloy, dopo aver rimarcato che “le autorità militari italiane evitavano le esecuzioni dirette e consegnavano ipocritamente le loro prede ai tedeschi”, ricorda più volte come la brutalità nazista “rinnovava sempre un sentimento di ribellione nei nostri giovani ufficiali e nei soldati”.

Verosimilmente non si può affermare che gli italiani siano stati sempre estranei a comportamenti eccessivamente violenti o ingiustificati dalle circostanze. A tal proposito è interessante l’episodio vissuto da Mario Bellini nel quale si manifestano contemporaneamente sentimenti di pietà e odio nei confronti di un prigioniero russo catturato durante uno scontro.

“Capii in quel momento che non c’è tristezza più profonda di quella nella quale un uomo piomba quando è fatto prigioniero. Dentro si spezza tutto; si produce l’emorragia inarrestabile di tutta l’energia vitale che si è accumulata. Mi sentii commosso da quella tristezza […] Mi accorsi che per terra erano distesi i corpi senza vita di due ufficiali. Notarono la presenza del prigioniero russo. – Ammazziamolo! Vendichiamoli! – Sentii queste grida ripetute più volte.

Recuperai freddezza e durezza. Arrestai il drappello […] – se vi do l’ordine sparate –. Anch’io imbracciai il mio mitra Beretta, pronto ad usarlo. Il tenente russo, muto e pallido, non mi toglieva gli occhi di dosso. Ancora quelle grida: – Lasciatecelo! Lo ammazziamo! – Prima di riprendere la marcia, parlai a quelle camicie nere: – I vostri ufficiali sono caduti con onore. Voi li state disonorando. Il nemico si uccide in combattimento; non lo si ammazza quando è prigioniero inerme! –”.

La minaccia delle armi e il discorso, seguito dal presentat’arm ai due caduti, sconcertò quegli uomini esasperati che lasciarono passare il prigioniero con la sua scorta. Giunti al caposaldo il prigioniero stava per essere consegnato quando uno degli ufficiali presenti lo aggredì:

“In un attimo il corpo del tenente russo fu proiettato contro la parete del rifugio, inchiodato in una posa da crocefisso; un rivolo di sangue gli scendeva da un angolo della bocca… Il russo era impietrito . Il suo sguardo mi penetrò come una lama. Profondamente umiliato, estrassi dalla tasca il fazzoletto e asciugai quel rivolo di sangue. – Andiamo via – dissi a bassa voce […] Al momento del commiato, detti al russo l’ultima tavoletta di cioccolata e un pacchetto di sigarette. – Buona fortuna! – gli augurai. – Spassiba (grazie)! – rispose. I suoi occhi erano umidi”.

Queste considerazioni sulle questioni politiche scaturite da eventi posteriori e parzialmente estranei alla vicenda bellica in senso stretto, evidenziano quanta importanza abbiano, per una corretta interpretazione della memorialistica, il luogo ed il tempo della memoria. Raramente questi testi furono scritti a breve tempo dalle vicende narrate, anzi sono spesso il frutto di una riflessione prolungata nel tempo e segnata, anche inconsapevolmente, dagli sviluppi posteriori.

Ciò non significa che le memorie siano sempre il frutto di una consapevole e volontaria reinterpretazione della realtà: spesso però gli occhi che ripercorrono le vicende vissute non sono più quelli dei ventenni d’allora, ma quelli di uomini maturi, che hanno avuto il tempo e il modo di rileggere e considerare a posteriori l’epoca della loro giovinezza.

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