ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA – 6

a cura di Cornelio Galas

Il Trattato di non proliferazione nucleare prevedeva, ai sensi dell’art. 10, una durata venticinquennale, a seguito della quale le parti erano libere di renderlo definitivo oppure di estenderlo per un ulteriore periodo. Nel 1995, al termine della Conferenza degli Stati parte venne deciso di estendere indefinitamente la durata del trattato. Era un altro importante segnale della consapevolezza che la comunità internazionale aveva conseguito riguardo all’importanza del disarmo, pur mantenendo in vita il “doppio binario” di paesi nucleari e non: al momento grande attenzione è riservata alla conferenza internazionale che si terrà nel maggio del 2010.

Come riporta la Commissione sulle armi di distruzione di massa (La Weapons of mass destruction Commission, WMDC): “l’armamento nucleare di alcuni stati, per quanto non sottoscrittori del trattato, rappresenta comunque un vulnus nell’impianto di sicurezza collettivo, ed un potenziale minaccia alla pace mondiale. I paesi che al momento sono dotati di armamento nucleare e che non sono parti del trattato sono, come noto, paesi al centro di difficili scenari regionali, e sono, più o meno, caratterizzati da instabilità interne accompagnate da situazioni locali delicate e incerte”.

Sicuramente il possesso di armi nucleari non aiuta a raffreddare i toni dello scontro, ma rischia solamente di alzarli allontanando nel contempo le delicate trattative o i tentativi che si fanno per rendere le aree più stabili. Nel caso pakistano, poi, il rischio che lo stato sta correndo e, secondo molti, lo sta trasformando in un failed state, rende ancora più pericoloso il possesso di armi nucleari.

La WMDC nel suo rapporto del 2006 identifica quattro tipi di problematiche che toccano da vicino il trattato di non proliferazione:

  • 1) La mancanza di progressi in direzione del disarmo nucleare;
  • 2) La violazione del trattato o delle prescrizioni dell’IAEA compiute da Iraq, Libia, Corea del Nord e Iran, che hanno messo a repentaglio la credibilità del trattato, e che potrebbero generare un pericoloso “effetto domino” che porterebbe altri stati ad acquisire capacità nucleari militari;
  • 3) Il meccanismo del ritiro dal trattato, che va sempre notificato al Consiglio di Sicurezza del’Onu, ma, se non seguito da idonee azoni, rischia di essere un mero elemento formale;
  • 4) La mancanza di un segretariato tecnico che supporti le parti per rafforzare il trattato, cosa che lo rende il più debole dei trattati sulle armi di distruzione di massa.

Noto anche con il nome di Seabed Treaty, questo accordo venne firmato nel 1971 ed entrò in vigore nel 1972. Come i trattati sull’Antartico e l’Outer Space Treaty, lo scopo del trattato sul fondale del mare era quello di evitare ed impedire la militarizzazione del suolo marino e del relativo sottosuolo, riconoscendo l’interesse comune dell’umanità in un uso del fondale marino per fini pacifici (preambolo del trattato) e prevenendo una corsa alle armi in un settore finora libero da esse.

Nel corso degli anni lo sviluppo tecnologico aveva permesso uno sviluppo dell’oceanografia ed una conseguente scoperta delle risorse e delle potenzialità del fondale marino; la mancanza di regolamentazione poteva essere scatenante per le rivalità. L’Assemblea Generale istituì una commissione a dicembre del 1967, con l’obiettivo di assicurare “that the exploration and use of the seabed and the ocean floor should be conducted in accordance with the principles and purposes of the Charter of the United Nations, in the interests of maintaining international peace and security and for the benefit of all mankind”.

Il trattato consta di undici articoli, ed all’art. 1 comma 1 prevede che “the States Parties to this Treaty undertake not to emplant or emplace on the seabed and the ocean floor and in the subsoil thereof beyond the outer limit of a sea-bed zone, as defined in article II, any nuclear weapons or any other types of weapons of mass destruction as well as structures, launching installations or any other facilities specifically designed for storing, testing or using such weapons”, mentre all’art. 1 comma 3 prevede che “the States Parties to this Treaty undertake not to assist, encourage or induce any State to carry out activities referred to in paragraph 1 of this article and not to participate in any other way in such actions”.

I trattati Strategic Arms Limitation Talks (SALT) e il trattato ABM

Il risultato conseguito con il trattato di non proliferazione nucleare rappresentava un avvenimento storico nell’ambito della guerra fredda, destinato tuttavia ad avere ulteriori conseguenze sui periodi storici futuri. Il periodo della guerra fredda che va sotto il nome di “distensione” “fu tanto un processo quanto una serie di trattati. Essa scaturì dalla natura competitiva di relazioni fra le superpotenze e la competizione rimase una caratteristica di quelle relazioni anche quando la detente si radicò […] la chiave della detente è tutta nell’intersezione fra sviluppi globali, bilaterali ed interni”.

Tale periodo, identificabile nell’intervallo di anni che va fra gli anni sessanta ed i primi anni ottanta fu determinante per la ratifica di alcuni importantissimi trattati inerenti le armi di distruzione di massa, ed in particolare quelle nucleari, che costituivano lo strumento militare finale degli arsenali delle superpotenze e dei loro sistemi di alleanza. Dal positivo clima instauratosi nel corso delle negoziazioni di alcuni trattati e, soprattutto, di quello sulla non proliferazione nucleare, emersero alcune intese che avrebbero prodotto importanti effetti nella competizione nucleare.

Uno di questi trattati fu lo Strategic Arms Limitation Talks (SALT), traducibile come “discussione sulla limitazione delle armi strategiche”. Sotto questo nome vanno ricordate le discussioni sfociate poi in due distinti accordi (SALT I e SALT II) effettuate fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e concretatesi in due trattati per la limitazione ed il controllo delle armi strategiche; questi colloqui sono stati considerati “one of the high points of the détente era”.

Come evidente, la discussione verteva sui sistemi missilistici, veri e propri vettori strategici per il lancio delle testate nucleari. Tali trattati, seppure limitati alle sole relazioni bilaterali fra le superpotenze, erano la conferma della volontà di proseguire sulla strada della negoziazione finalizzata al controllo degli armamenti, più che al disarmo. Nel gennaio del 1967 il presidente Johnson lanciò all’Unione Sovietica l’idea di un trattato che limitasse gli armamenti strategici, per il momento ancora non disciplinati.

La firma del trattato di non proliferazione fu idonea a far superare i primi dubbi sovietici in materia, ma la successiva invasione di Praga (1968) congelò i dialoghi accennati da Johnson nel luglio del 1968. I colloqui ripresero durante la presidenza Nixon, durante il 1969. In ottobre venne annunciato l’inizio dei colloqui nel novembre del 1969, a Helsinki; alla prima sessione di colloqui ne fecero seguito diverse altre finché le trattative culminarono nella firma del trattato il ventisei maggio 1972, durante la visita di Johnson in Unione Sovietica.

Con il SALT 1 le superpotenze disciplinavano pertanto due diversi tipi di armi, cioè quelle offensive (i missili strategici ICBM) e le armi difensive, i missili ABM, in due documenti separati: un’attenzione particolare venne anche riservata ai missili che potevano essere lanciati dai sommergibili (SLBM).

L’accordo SALT I si componeva di otto articoli, di un protocollo e di alcune disposizioni comuni: in sostanza dopo aver richiamato nel preambolo l’articolo del trattato di non proliferazione, il primo articolo affermava l’intenzione delle parti di non cominciare a costruire ulteriori siti a terra di ICBM a partire dal primo luglio 1972, e allo stesso modo, l’articolo tre impegnava le parti a limitare gli SLBM e i sottomarini capaci di lanciare missili balistici. All’articolo sette le parti si impegnavano a proseguire le negoziazioni per la riduzione delle armi strategiche offensive; il periodo della durata dell’accordo era di cinque anni, suscettibile di essere implementato successivamente (art. 8, comma 2).

Il protocollo aggiuntivo (“Protocol to the interim agreement between the United States of America and the Union of Soviet Socialist Republics on certain measures with respect to the limitation of strategic offence arms”) fissava nel dettaglio i numeri degli arsenali: gli Stati Uniti limitavano il loro arsenale a 1054 missili balistici, 656 missili per sottomarini e 455 bombardieri strategici, mentre i russi rispettivamente si limitavano a 1618 missili, 740 SLBM e 140 bombardieri.

L’apparente difformità nei numeri era compensata dalla superiorità americana in merito ai missili a testata multipla MIRV, i quali sostanzialmente davano la superiorità agli americani. Il secondo trattato che venne firmato fu quello riguardante gli ABM, cioè gli Anti-Ballistic Missiles, i sistemi antimissili balistici. Essi erano idonei di vanificare un attacco portato con vettori missilistici, e pertanto erano in grado di alterare l’equilibrio che faticosamente le superpotenze stavano ricercando.

I sistemi ABM si basavano sulla capacità di intercettare i missili ICBM avversari, e gli americani stavano compiendo notevoli esperimenti per incrementare i propri programmi quali il “Progetto Nike” o il “Sentinel”. L’arrivo della tecnologia MIRV sembrò inizialmente idonea a sopravanzare le difese antimissile, e ciò fu in grado di assicurare, nonostante i sistemi difensivi, la fine sicura del nemico: questa tecnologia fu quella su cui si basava la MAD. Il miglioramento delle relazioni fra Stati Uniti ed Unione Sovietica fu decisivo per permettere l’inizio della discussione del trattato ABM nel 1967: alla fine, come il trattato SALT I, l’ABM Treaty fu firmato nel 1972.

Sostanzialmente esso prevedeva la possibilità per ogni nazione di avere solamente due aree protette da ABM, una per proteggere la capitale e l’altra per garantire la protezione del principale sito di lancio fisso di ICBM. Il trattato è composto da sedici articoli, caratterizzati da un notevole tecnicismo in materia missilistica: dopo il riconoscimento nel preambolo della pericolosità della guerra nucleare, dell’intendimento di cui all’art. 6 del trattato NPT e dell’anelito verso il disarmo “generale e completo” in materia nucleare, le parti si impegnavano a limitare gli ABM e a non difendere l’intera nazione con gli stessi (art. 1).

Il terzo articolo limitava il dispiegamento dei sistemi ABM a due sole zone: la prima presso la capitale, con un raggio di 150 km e dotata di non più di cento lanciatori di ABM e cento missili intercettori, la seconda presso il sito di lancio ICBM con le stesse caratteristiche di prima, seppure con alcune modifiche riguardo al numero dei radar. I successivi articoli disciplinavano i test, le evoluzioni e il posizionamento dei sistemi antimissile in aria, nel mare, nello spazio o a terra su supporti mobili (art. 5), il divieto di trasformazione di altri sistemi in sistemi ABM e la limitazione dei radar “di avvistamento” ai confini nazionali (art. 6), la distruzione di sistemi antimissile e componenti in eccesso rispetto al numero concordato o nelle aree diverse da quelle specificate (art. 8) e, per assicurare l’efficacia del trattato, l’impegno a non trasferire o schierare in stati terzi i sistemi previsti.

L’articolo tredici prevedeva poi l’istituzione di una “standing consultative Commission”, con una serie di compiti (lett. a-g) riassumibili nel controllo degli obblighi assunti, nella fornitura di informazioni, nel considerare eventuali cambiamenti nella situazione strategica, nell’accordarsi su procedure e tempi di distruzione o smantellamento di ABM e relativi componenti, e infine, nel considerare ulteriori proposte nell’ambito del trattato o altre comunque finalizzate a limitare le armi strategiche.

Veniva salvaguardata la possibilità di modernizzare e ridislocare gli ABM, sempre nel rispetto del trattato (art. 7) e veniva ribadito l’impegno a continuare le negoziazioni per limitare la armi offensive strategiche (art. 11); veniva inoltre fissata una durata illimitata del trattato (art. 15, comma 1). Ma dopo il summit del 1974, le parti formarono un protocollo aggiuntivo che ulteriormente limitò il posizionamento degli ABM, limitando a un solo posto l’area in cui dislocare i sistemi antimissile (art. 1).

Le relazioni russo-americane sembravano aver preso una nuova strada: in pochi anni erano stati conclusi importantissimi accordi sia multilaterali che bilaterali in merito a tematiche delicate quali quelle nucleari: oltre a ciò la visita di Nixon a Mosca e quella di Breznev negli Stati Uniti (giugno 1973) davano dei segnali positivi sull’efficacia della distensione. Gli accordi intercorsi fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica nei primi anni settanta riguardavano tre argomenti, cioè il disarmo, la cooperazione medica, scientifica e tecnologica ed infine un accordo sui “principi fondamentali delle relazioni fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica”.

Tutto sembrava far sperare in un positivo esito anche del successivo trattato, il SALT II. Tuttavia alcuni delicati cambiamenti nello scenario mondiale furono tali da compromettere il secondo accordo, il quale, alla fine, venne sottoscritto ma mai ratificato dagli Stati Uniti. Diversi elementi erano cambiati nel panorama internazionale, alterando in modo radicale il delicato equilibrio che si era formato negli anni della distensione. La crisi nella leadership americana, culminata nello scandalo del Watergate, si sommava a un infelice e scottante insuccesso nel Vietnam; in parallelo la fine della dittatura portoghese e la conseguente rivoluzione dei Garofani (1975) apriva le porte alle ultime sanguinose rivoluzioni conseguenti la decolonizzazione.

Allo stesso tempo il fenomeno della CSCE, le conseguenze della guerra del Kippur, l’impatto dello “shock petrolifero” del 1973 e la creazione di legami fra Stati Uniti e Cina preoccupava l’Unione Sovietica, la quale però poteva contare su una solidissima guida, almeno fino al 1982 (morte di Breznev). Nel corso degli anni settanta sorsero diversi conflitti in ambiti regionali distanti, uno dei quali fu l’Africa. Qui l’attività sovietica diretta ed indiretta (mediata dai cubani) fu particolarmente rilevante. Il culmine della proiezione sovietica degli anni settanta fu l’invasione dell’Afghanistan, evento che allertò in misura forte le amministrazioni americane.

Tale azione era anche il primo intervento russo all’esterno dell’area di controllo affidatagli, cioè gli stati satellite dell’Est. L’incontenibilità dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati fu il motivo principale che progressivamente convinse gli Stati Uniti ad affrontare con animo differente le discussioni sul trattato SALT II. Le trattative per questo accordo cominciarono già nel 1972 a Ginevra, e continuarono durante i vertici di Mosca e della Crimea nel 1974, nonostante Nixon fosse ormai definitivamente compromesso dallo scandalo Watergate.

Di seguito “l’ultimo vertice degli anni della distensione” si tenne a Vladivostok, fra Breznev e Ford (che aveva sostituito Nixon) sempre nel 1974. Il testo definitivo fu stabilito il 18 giugno 1979 a Vienna, quando Breznev incontrò il nuovo presidente americano, Carter, ma “il clima era profondamente cambiato e l’intesa era orami un guscio quasi vuoto […] nessuno dei due ebbe la volontà di dichiarare che la distensione era finita”.

Il trattato doveva durare fino al 1985, ma il Senato americano non lo ratificò, in segno di protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1979), la quale “fornì l’argomento ufficiale per la chiusura di un dialogo sui massimi sistemi nucleari al quale molte speranze erano state affidate, ma la portata del quale era stata radicalmente modificata da quanto frattanto era accaduto in tutto il mondo”.

Il trattato SALT II prevedeva, ai sensi dell’art. 3, che le parti limitassero gli ICBM, gli SLBM, i bombardieri e gli ASBM (Anti-ship ballistic missiles) in un numero massimo di 2400 ordigni, a prescindere dalla tipologia, da ridurre a 2250 a partire dal primo gennaio del 1981 (art. 3, 2° comma), e una serie di limiti per le varie tipologie di missili, soprattutto i MIRV. Il trattato, di notevole complessità, elencava minuziosamente le varie tipologie di armamenti ed i loro limiti.

Il tre gennaio del 1980 Carter chiese al Senato americano di rinviare la ratifica del trattato: la distensione era ormai definitivamente tramontata. Con essa si chiudeva la serie di promettenti trattati SALT, e si apriva una nuova ma breve fase di confronto bipolare, definita “seconda guerra fredda”. Se i mezzi diplomatici e la straordinaria sequenza di accordi sulla armi nucleari erano state lo sfondo degli anni settanta, occorrerà attendere l’arrivo del nuovo corso in Unione Sovietica con Gorbacev per vedere rifiorire iniziative bilaterali della stessa importanza.

Prevention of nuclear war agreement

Il 22 giugno del 1973 Stati Uniti ed Unione Sovietica firmarono un breve accordo destinato a vincolare i loro comportamenti in caso di confronto nucleare o di pericolo di tal senso. Il trattato, finalizzato a regolare soprattutto le dinamiche del confronto fra le superpotenze, aveva evidenti ricadute sull’intera collettività mondiale. Tale aspetto non sfuggiva alle due superpotenze, e, come tale, venne debitamente sottolineato nel primo articolo del trattato.

Il resto del trattato impegnava le superpotenze ad astenersi dalla minaccia di usare la forza contro l’altra parte, contro i relativi alleati o contro gli altri stati, in circostanze che possano mettere a repentaglio la pace e la sicurezza internazionali; allo stesso modo le superpotenze convenivano di gestire le relazioni internazionali sulla base di questi impegni (art. 2), e, più in generale, di sviluppare le relazioni reciproche e quelle con gli altri stati (senza distinzione) secondo gli scopi dell’accordo.

Il trattato, di durata illimitata (art. 7) faceva comunque salvi i diritti di autodifesa di cui all’art. 51 dello Statuto dell’Onu e le sue clausole (art. 6, lett. a-b), e gli obblighi nei confronti di alleati ed altri stati. Curiosamente, l’articolo finale prevedeva l’immediata vigenza dell’accordo, all’atto della firma (art. 8).

Treaty on the limitation of underground nuclear weapon tests

Il Trattato sulla limitazione delle esplosioni nucleari sotterranee è un accordo firmato da Stati Uniti e Unione Sovietica nel luglio del 1974. Conosciuto anche come “Threshold test ban treaty” (TTBT) stabilisce una soglia al di sopra della quale è proibito effettuare esplosioni di armi nucleari: questa soglia venne fissata in 150 kilotoni. Nel corso degli anni sessanta erano già stati conclusi diversi esperimenti superiori a 150 kilotoni in entrambe le superpotenze; le esplosioni sotterranee rimanevano esplicitamente escluse dal trattato del 1963.

Durante l’incontro di Mosca del 1974 venne raggiunto l’accordo sul trattato, e venne contestualmente sottoscritto un protocollo tecnico fra le parti. L’accordo prevedeva uno scambio di informazioni fra le parti, con riguardo soprattutto ai dati geologici, idonei a comprendere la forza di un esperimento nucleare. Un accordo di questo tipo segnava un punto importante nelle relazioni bilaterali.

Nonostante la firma del trattato nel 1974, esso non fu inviato al Senato Americano fino al luglio del 1976, in quanto il trattato era legato all’entrata in vigore di un altro accordo, il “Peaceful nuclear explosions treaty” (detto anche PNE treaty). Per diversi anni i due trattati non vennero ratificati, anche se Stati Uniti e Unione Sovietica dichiararono di voler comunque rispettare il limite dei 150 kilotoni; dopo ulteriori negoziati nel 1987, contenuti in alcuni nuovi protocolli, i trattati entrarono in vigore nel 1990.

Nel trattato TTBT all’articolo uno vengono indicati i divieti di usare o effettuare armi nucleari di più di 150 kilotoni (comma 1), di limitare al minimo i test sotterranei (comma 2) e di impegnarsi a continuare le negoziazioni. All’articolo tre venivano citate le esplosioni sotterranee per fini pacifici, le quali avrebbero dovuto essere regolate al più presto possibile da un accordo da negoziare fra le parti.Il trattato, a detta dell’articolo cinque, doveva rimanere in vigore per cinque anni, ed era seguito da un lungo protocollo aggiuntivo di carattere tecnico.

Intermediate-range nuclear force treaty

Il trattato sulle armi nucleari a medio raggio, abbreviato solitamente con il nome “trattato INF”, è un accordo bilaterale fra Unione Sovietica e Stati Uniti che venne concluso a Washington l’otto dicembre del 1987, da Ronald Reagan e Mikhail Gorbacev. Quest’ultimo in politica estera “aveva abbandonato l’obiettivo della parità strategico-militare con gli Stati Uniti, cercando di fondare la sicurezza del paese sugli accordi politici e sul disarmo: Gorbacev si rendeva infatti conto che per l’Urss la competizione militare, oltre che perdente, era insostenibile sul piano economico”.

Con il termine “intermediate range nuclear forces” si intendono due categorie diverse di missili, quelli a raggio intermedio IRBM e quelli a medio raggio MRBM, ma anche i bombardieri a medio raggio ed i missili da crociera: tutti questi sono capaci di operare in un solo teatro e non a livello intercontinentale, stante la loro gittata più breve.

Le armi a medio raggio, in quanto non strategiche, erano escluse dal trattato SALT; ma quando l’Unione Sovietica schierò i missili SS-20 in Europa, garantendosi la superiorità nel teatro europeo ciò alterò i governi occidentali, in quanto tali missili non potevano raggiungere il Nuovo continente. La risposta americana non si fece attendere, e nel 1979 alla Nato Carter poteva annunciare il dispiegamento di missili da crociera e di missili “Pershing II” in Europa, cercando al contempo un negoziato con l’Unione Sovietica per arrivare ad un ritiro totale dei missili (la cosiddetta strategia “dual track”).

Il dispiegamento di queste armi generò una vera e propria ondata di proteste di movimenti pacifisti, che temevano che tali armi facilitassero un conflitto nucleare piuttosto che impedirlo. I colloqui cominciarono a Ginevra nel 1981, ma la situazione fin dal principio non si dimostrava semplice. Soprattutto la posizione americana era molto radicale, i quanto Reagan (intanto subentrato a Carter) focalizzava la priorità dell’amministrazione americana sulla cosiddetta “opzione zero”, cioè il ritiro completo di tutte le armi a medio raggio.

La proposta venne respinta dai sovietici in quanto sarebbe toccato solo a loro ritirare i propri missili; essi rilanciarono chiedendo il ritiro anche di quelli inglesi e francesi. Gli occidentali non accettarono, e la situazione rimase in stallo; intanto nel 1983, fra grandi proteste, cominciarono ad essere dispiegati gli INF americani. La difficile transizione postbrezneviana e le incertezze nelle condotte dei suoi due successori Andropov e Cernienko permisero una ripresa dei colloqui solo nel 1985, con l’elezione di Gorbacev.

Dopo alcune serie di proposte russe, all’incontro di Reykjavik del 1986 la situazione cominciò a sbloccarsi, e Gorbacev accettò la presenza del sistema SDI; nel febbraio del 1987 l’Unione Sovietica annunciò che era disponibile ad un accordo separato sugli INF. Nei mesi successivi si completò l’accordo con la riduzione anche dei missili a breve raggio, e fece concludere l’accordo nel corso della visita di Gorbacev a Washington a dicembre del 1987.

Il trattato si compone di 17 articoli, e specifica all’art. 1 che “each Party shall eliminate its intermediate-range and shorter-range missiles, not have such systems thereafter, and carry out the other obligations set forth in this treaty”. L’art. 2 specificava le definizioni di missile a breve ed a medio raggio, diversificando anche le categorie fra quelli fissi, detti GLCM (“ground launched criuse missile”) e quelli mobili, detti GLBM (“ground launched ballistic missile”).

I missili intermedi erano indicati come GLBM o GLCM con un raggio d’azione fra i 1.000 ed i 5.000 chilometri (art. 2 comma 5) mentre i missili a corto raggio erano quelli con un raggio d’azione fra i 500 ed i 1.000 chilometri (art. 2, comma 6). Al successivo articolo tre le parti indicavano analiticamente i missili da eliminare.

Gli articoli quattro e cinque specificavano poi i modi di eliminazione delle due categorie di missili, l’articolo sei vietava di produrre o testare alcuna delle due categorie e nemmeno delle parti o dei sistemi di lancio. L’articolo undici prevedeva per ciascuna parte la possibilità di condurre ispezioni e di impegnarsi a metterle in atto (art. 11 comma 1) sia nel territorio dell’altra parte sia in quello degli altri stati in cui erano poste (art. 11, comma 2).

L’articolo tredici, infine, creava una “Special verification commission”, pensata come una “cornice” nella quale le parti potevano risolvere i problemi riguardanti le obbligazioni del trattato e accordarsi sui provvedimenti da intraprendere per migliorare l’attuazione e l’effettività del trattato. Era la prima volta in cui le due superpotenze accettavano di eliminare completamente un’intera categoria di armi.

I trattati START

Sotto il nome di START (Strategic Arms Reduction Treaty) vanno indicati alcuni trattati che hanno trovato origine nel clima della “seconda guerra fredda” e che hanno rappresentato gli ultimi accordi bilaterali del mondo bipolare e i primi del mondo post-bipolare. Come indica direttamente il nome, a differenza degli accordi SALT, che ponevano delle limitazioni, gli accordi START vennero negoziati con il preciso impegno di ridurre le armi atomiche.

Dopo il periodo di tensione fra est ed ovest dei primi anni ottanta, i colloqui che avrebbero portato alla firma del primo trattato START ripresero nel 1985 con Gorbacev, pur essendo cominciati nel 1981. Inizialmente il leader sovietico propose di diminuire del 50% le armi strategiche, ma alla fine gli arsenali vennero ridotti del 30%.

Il limite che venne proposto alla fine era di 6.000 testate nucleari e di un massimo di 1.600 “Strategic nuclear delivery vehicles”(SNDV) cioè mezzi (aerei, missili da crociera e balistici). Il documento che ne venne fuori è particolarmente lungo e complesso, e si compone di diciannove articoli, affiancati da trentotto dichiarazioni, sette protocolli ed altri documenti.

Il trattato START, conosciuto poi come START I quando venne firmato il secondo, venne concluso il 31 luglio del 1991. In esso, come indicato nel preambolo, le parti riconoscevano le devastanti conseguenze di una guerra nucleare e rimarcando il ruolo della stabilità strategica come prioritario per la sicurezza internazionale, concordavano che ogni parte “shall reduce and limit its strategic offensive arms in accordance with the provisions of this Treaty, and shall carry out the other obligations set forth in this Treaty and its Annexes, Protocols, and Memorandum of Understanding” (art. 1).

Nel preambolo venivano anche citati i precedenti trattati di non proliferazione nucleare, il trattato anti-Abm, e si faceva un generico riferimento alle “strategic offensive arms”. A contrario rispetto al trattato INF, e secondo la dottrina militare corrente, si può desumere che le armi “strategiche” siano quelle non disciplinate nel trattato INF, e pertanto quelle che per la loro distanza sono idonee all`attacco su distanze intercontinentali.

Tale approccio è condiviso dal trattato, che in effetti si riferisce sempre a ICBM, SLBM e bombardieri. Infine le armi essendo “offensive” escludono riferimenti a quelle difensive, come ad esempio gli Abm o l`iniziativa SDI, che dagli americani era ritenuta come un argomento fuori dalla trattativa. All`articolo due le parti decidevano di limitare i propri ICBM ed i relativi sistemi di lancio, gli SLBM ed i relativi sistemi di lancio, i bombardieri strategici, le testate degli ICBM e le testate degli SLBM, in modo che dopo sette anni essi (aggregatamente) non avessero ecceduto (art. 2, comma 1):

  • – 1.600 per gli ICBM schierati ed i sistemi di lancio, gli SLBM ed i sistemi di lancio ed i bombardieri, di cui 154 per i c.d. “ICBM pesanti”;
  • – 6.000 per le testate attribuite agli ICBM, SLBM e bombardieri schierati, includendo:
  • – 4.900 per testate su ICBM e SLBM;
  • – 1.100 per testate su ICBM lanciabili da postazioni mobili;
  • – 1.540 per testate su ICBM “pesanti”.

All`art. 2, comma 2 si prevedevano tre fasi diverse in cui completare la riduzione dei propri arsenali, articolate nel seguente modo: –

  • a) La prima fase, di trentasei mesi, avrebbe dovuto portare a:
    – 2.100 per ICBM, SLBM schierati e relativi sistemi di lancio, e bombardieri schierati;
    – 9.150 per testate attribuite a ICBM e SLBM e bombardieri schierati;
    – 8.050 per testate attribuite a ICBM e SLBM schierati.
  • b) La seconda fase, di non più di sessanta mesi, avrebbe dovuto portare a:
    – 1.900 per ICBM, SLBM schierati e relativi sistemi di lancio, e bombardieri schierati;
    – 7.950 per testate attribuite a ICBM e SLBM e bombardieri schierati;
    – 6.750 per testate attribuite a ICBM e SLBM schierati.
  • c) Per la fine della terza fase, in non più di ottantaquattro mesi, si sarebbero dovuti raggiungere i numeri di cui all`art. 2, comma 1. Infine ogni parte si impegnava a limitare il peso totale dei missili ICBM e SLBM, con ovvie conseguenze sul carico di testata o testate che potevano portare.

Gli articoli tre e quattro prevedevano poi dei complessi parametri per “contare” le testate montate sui singoli sistemi di lancio, mentre l`articolo cinque permetteva l`ammodernamento ed il rimpiazzo delle armi strategiche, purché nei limiti del trattato (art. 5, comma 1), ma impegnava le parti comunque a non produrre, testare o schierare ICBM “pesanti” di nuova generazione (cioè con caratteristiche diverse da quelle disciplinate) o ad aumentarne il carico di lancio.

Allo stesso modo veniva vietata la produzione, il test o il dispiegamento di lanciatori mobili di ICBM e SLBM “pesanti” , dei silos degli ICBM “pesanti”, e di non convertire sistemi di lancio degli ICBM in sistemi di lancio di ICBM “pesanti”. L`articolo sei poneva dei limiti per gli ICBM mobili, i quali sono più difficili da controllare: veniva fatta distinzione fra quelli sistemati su ferrovia e quelli no. L`articolo sette esaminava i modi di conversione ed eliminazione delle armi strategiche.

Di grande importanza sono gli articoli undici e dodici, i quali prevedevano delle possibilità di ispezione reciproca regolate da un annesso “Inspection protocol”. Soprattutto l`articolo dodici indicava le modalità di cooperazione fra le parti. Infine, l`articolo quindici prevedeva la creazione di una Joint Compliance and Inspection Commission (JCIC), con le funzioni di risolvere dubbi riguardo all`osservanza delle decisioni prese, migliorare l`attuazione e l`effettività del trattato e risolvere i dubbi che possano riguardare l`applicazione delle condizioni irrilevanti del trattato ai nuovi tipi di armi strategiche offensive.

Le previsioni di questo articolo sostanzialmente ricalcano quelle del trattato INF. Gli effetti del trattato furono molteplici, e vennero a prodursi in una fase di grossi cambiamenti nello scenario mondiale. Per gli Stati Uniti il trattato START I permetteva di mantenere la superiorità nel settore SLBM, mentre per i russi essa era riservata agli ICBM posti a terra. Il trattato era previsto che durasse per quindici anni. Ciò che invece non era stato considerato era la disgregazione politica cui stava andando incontro l`Unione sovietica.

Il collasso economico, politico ed istituzionale dell`impero sovietico aveva visto prima l`insorgere di tentatavi di liberazione nell`Europa dell`est, e poi il risveglio
del nazionalismo nelle altre Repubbliche sovietiche. Nel giro di pochissimo tempo molte repubbliche socialiste sovietiche votarono praticamente all`unanimità risoluzioni in cui chiedevano l`indipendenza dall`Unione Sovietica.

Il collasso istituzionale in cui si trovava l`amministrazione centrale impedi sostanzialmente di replicare a questa serie di moti d`indipendenza. La Russia vide perciò sbucare ai propri confini quelle nuove identità politiche che sessant`anni di comunismo non erano riusciti a sopprimere. Il ritiro della non più Unione Sovietica dalle frontiere comportava un grave problema strategico: la presenza di arsenali nucleari rilevanti nelle nuove repubbliche di Ucraina, Kazakistan, Bielorussia e, ovviamente, Russia (la quale ereditò le funzioni dell`Unione Sovietica).

Nel maggio del 1992 venne firmato in Portogallo il “Protocollo di Lisbona” con il quale i vari nuovi stati si assumevano li stessi obblighi del trattato START (art. 1 del Protocollo) e si impegnavano ad aderire al trattato di non proliferazione nucleare il prima possibile (art. 5). Per la fine degli anni novanta le parti avevano aderito al trattato e smantellato i propri depositi di materiale nucleare bellico. Il trattato START I terminerà i suoi effetti, come previsto, il cinque dicembre del 2009.

Come annunciato congiuntamente dai presidenti Medvedev e Obama a Londra il primo aprile 2009 è stata presa la comune decisione di lavorare ad un nuovo trattato che sostituisca START I. Di conseguenza il sei luglio è stato firmato un accordo comune il quale “commits the United States and Russia to reduce their strategic warheads to a range of 1500-1675, and their strategic delivery vehicles to a range of 500-1100. Under the expiring START and the Moscow treaties the maximum allowable levels of warheads is 2200 and the maximum allowable level of launch vehicles is 1600”, riporta in un comunicato ufficiale la Casa Bianca.

La diminuzione ulteriore delle armi strategiche si rivelerà determinante sia per la sicurezza di entrambe le parti e per la stabilità nelle armi strategiche offensive (anche qui indicate come “strategic offensive forces”) ha concluso il comunicato.

Una storia meno felice la ebbero i due successivi trattati START, rispettivamente START II e START III. Il trattato START II fu negoziato in tempi brevissimi rispetto al primo trattato. Se START I aveva impiegato quasi una decina di anni per essere ultimato, START II ebbe brevissimi tempi di negoziazione. Esso impegnava le parti a eliminare dal proprio arsenale i missili MIRV, e tutti gli ICBM basati a terra, salvo quelli per finalità spaziali (art. 2).

Il trattato venne firmato il tre gennaio 1993 da Bush e Yeltsin e secondo l`Oxford dictionary of politics, “START II marked the end of the nuclear arms race between the superpowers”, ma successivamente incontrò diverse difficoltà ad essere ratificato.

Il Senato americano ratificò il trattato nel 1996, mentre la Duma russa rinviò l`approvazione fino al 2000, motivandola con le critiche per l`espansione ad est della Nato e la guerra in Kosovo. Ma nonostante sia stato ratificato, il trattato START II non è mai entrato in vigore, in quanto gli Stati Uniti non ratificarono un protocollo parallelo al trattato. Pertanto, è come se il trattato completo non fosse stato ratificato.

Comunque il trattato START II è stato superato dai fatti e soprattutto dal ritiro americano dal trattato anti-ABM avvenuto il tredici giugno 2002. Il quattordici giugno il governo russo replicò sostenendo che egli “sees no grounds for giving force to START II and no longer considers itself bound by the undertaking, stipulated by international law, to refrain from steps which could strip the Treaty of aim and objective”.

Il successivo trattato SORT fu il definitivo sorpasso del trattato START II. Vi fu poi il tentativo di negoziare il trattato START III, che avrebbe dovuto prevedere un`ulteriore riduzione delle testate nucleari per arrivare a circa 2.000. La negoziazione del trattato venne iniziata da Clinton e da Yeltsin nel 1997, ma ben presto si arenò per l`opposizione russa all`espansione della Nato e la previsione americana di creare un sistema di difesa antimissile.

Una proposta russa di ulteriore abbassamento del numero delle testate venne respinto dall`amministrazione americana: il ritiro dal trattato anti ABM del 2002 fece finire le stantie discussioni del trattato START III, mentre intanto stavano avvenendo le discussioni per il trattato SORT.

Mutual detargeting treaty

Nel 1994 fra Clinton e Yeltsin venne raggiunto un accordo (ma la letteratura lo chiama “trattato”) sulla rispettiva non puntabilità degli obiettivi: il Mutual detargeting treaty. In altre parole, i diversi missili erano costantemente puntati sui bersagli presenti nello stato avversario, pronti a dirigersi in caso di risposta ad un attacco, che, come noto, non avrebbe lasciato molto tempo per reagire. Questo accordo si applicava sia ai missili ICBM che agli SLBM.

Visto che alcuni di questi non potevano non essere preorientati su un bersaglio, si decise di puntarli nell`oceano. In ogni caso i missili potevano essere riprogrammati in caso di attacco: ma l`impatto politico dell`accordo era molto rilevante. Alla fine della guerra fredda le due superpotenze pur riconoscendo l`importanza della regolamentazione nucleare per i propri equilibri politici, non sentivano più la necessità di tenere costantemente “sotto tiro” i propri obiettivi.

Dopo questo trattato anche la Gran Bretagna provvide unilateralmente a non tenere sotto tiro i propri obiettivi.

Comprehensive test ban treaty

Il Comprehensive test ban treaty è un trattato internazionale che vieta ogni tipo di esplosione nucleare. Fin dal principio dell`era atomica, le esplosioni di ordigni nucleari erano test importanti che coinvolgevano simultaneamente diversi aspetti delle strategie delle nazioni. Erano innanzi tutto un segnale politico, un segno di appartenenza di “essere nel gruppo” nucleare.

I comportamenti tenuti dagli stati nucleari sono stati proprio questi: quando la tecnologia atomica militare era sviluppata occorreva dare il segnale politico della acquisita capacità: un’esplosione nucleare. In questo modo l`arma atomica fece la sua apparizione sul campo di battaglia in Giappone: allo stesso modo in Kazakistan nel 1949 e via di seguito.

Ma le esplosioni di ordigni nucleari sono anche segnali militari, in grado di indicare la forza delle armi possedute e la loro tecnologia. Infine servono per verificare tecnicamente l`operato dei materiali disponibili, e valutare gli effetti dell`arma. Inizialmente non veniva attribuita eccessiva importanza alle esplosioni nucleari: esse venivano effettuate con abbastanza disinvoltura dalle grandi potenze, a volte anche con ordigni di grandi dimensioni.

Ben presto ci si rese conto che tali esperimenti, soprattutto se compiuti all`aria aperta e con armi di grande potenza, si rivelavano dannosi per l`ambiente e la salute umana. Come noto, dopo ogni esplosione nucleare viene rilasciata radioattività e detriti carichi radioattivamente. Tutte queste riflessioni, e anche la volontà di impedire il test di ordigni sempre più potenti, portarono nel 1963 alla conclusione del Partial test ban treaty, il quale limitava le esplosioni nucleari alle sole aree sotterranee, in quanto vietava esplosioni nell`atmosfera, nello spazio e nell`acqua.

Questo trattato era l`antesignano del Comprehensive test ban treaty, che, come indica il nome, riguarda ogni tipo di esperimento. Un altro trattato analogo fu il Threshold Test Ban Treaty del 1974 che poneva un tetto anche per gli esperimenti
sotterranei a 150 chilotoni. La situazione più distesa seguente la fine della guerra fredda e la pressione crescente delle opinioni pubbliche portò l`Unione Sovietica a dichiarare una moratoria agli esperimenti nucleari, che venne seguita dagli Stati Uniti nel 1993.

I tempi erano maturi per proporre un divieto complessivo di tutti i test nucleari: le consultazioni ed i colloqui cominciarono cosi` nell`ambito della Conferenza sul disarmo, e terminarono con l`adozione del testo da parte dell`Assemblea generale il dieci settembre del 1996. Il testo in sè non sarebbe troppo lungo, in quanto sono diciassette articoli; tuttavia alcuni di questi sono molto complessi e divisi in moltissimi commi, il che rende alla fine il trattato un documento abbastanza articolato.

Il trattato, senza limiti di durata (art. 9, comma 1) si apre con un preambolo che riconosce positivamente le iniziative di disarmo nucleare e il contrasto alla proliferazione e l’importanza delle iniziative in questo senso, specificando che insistere sulla cessazione di tutti i test nucleari, con l`obiettivo di eliminare definitivamente le armi nucleari, è un modo per proseguire sul cammino del disarmo. Vi è inoltre un esplicito richiamo al trattato sul parziale divieto di esperimenti nucleari del 1963.

Il primo articolo, rubricato come “basic obligations” afferma l`impegno di ogni stato a non compiere alcun test nucleare né alcuna esplosione e a proibire e prevenire tali eventi sul proprio territorio (art. 1, comma 1). Allo stesso modo gli stati devono impedire di incoraggiare, causare o prendere parte ad ogni test nucleare ed ad ogni esplosione.

L’articolo due è particolarmente lungo (contiene ben cinquantasette commi) e disciplina la cerazione e l`organizzazione della “Comprehensive Nuclear Ban Treaty Organization”, “to achieve the object and purpose of this Treaty, to ensure the implementation of its provisions, including those for international verification of compliance with it, and to provide a forum for consultation and cooperation among States Parties” (art. 2, comma 1), in cui tutte le parti saranno rappresentate (art.2, comma 2).

La sede venne fissata a Vienna (art. 2, comma 3), e la CTBTO (come è abbreviata) venne riconosciuta come organismo indipendente (art. 2, comma 7). Il resto dell’articolo due disciplina l’organizzazione della CTBTO, articolata su una Conferenza di Stati parte (art. 2, commi 12-26), un Consiglio esecutivo (art. 2, commi 27-41) nel quale vi è una ripartizione geografica dei membri a seconda dei continenti (art. 2, comma 28), un segretariato tecnico (art. 2, commi 42-53), e le immunità per i membri (art. 2, commi 54-57).

L’articolo tre si occupa delle misure di attuazione del trattato su scala nazionale, imponendo agli stati di prendere provvedimenti per (art. 3, comma 1):

  • a) Proibire nel proprio territorio a persone fisiche o giuridiche di porre in essere attività proibite a ogni Stato parte dal trattato;
  • b) Proibire alle persone fisiche e giuridiche di intraprendere tali attività ovunque vi sia il proprio controllo;
  • c) Proibire, d’intesa con il diritto internazionale, che persone della propria nazionalità ovunque intraprendano tali attività.

Ogni stato parte si impegnava poi a fornire collaborazione e cooperazione agli altri stati (art. 3, comma 2) e ad informare la CTBTO dei provvedimenti presi conformemente a queste attività (art. 3, comma 3). Al fine di verificare l’attuazione del trattato, l’articolo quattro (“verification”) regola la verifica degli obblighi in modo dettagliato (si compone di sessantotto commi), articolandola su quattro azioni diverse (art. 4, comma 1):

  • a) Un sistema internazionale di controllo;
  • b) Consultazioni e chiarimenti;
  • c) Ispezioni in loco;
  • d) Provvedimenti di “confidence-building”.

Queste diverse forme di verifica venivano poi specificamente analizzate nell’articolo quattro, e rispettivamente il sistema di controllo internazionale (art. 4, commi 16-28), il sistema di consultazioni e chiarimenti (art. 4, commi 29-33), le ispezioni sui luoghi (art. 4, commi 34-67) ed infine le misure di “confidence-building” (art. 4, comma 68). Il successivo articolo sei si occupava delle controversie mentre gli articoli sette e otto rispettivamente degli emendamenti e del riesame del trattato.

Di particolare interesse è poi l`articolo quattordici, che disciplina l`entrata in vigore del trattato. A norma del primo comma, “this Treaty shall enter into force 180 days after the date of deposit of the instruments of ratification by all States listed in Annex 2 to this Treaty, but in no case earlier than two years after its opening for signature”. L’“annex 2” è la lista degli Stati membri della Conferenza sul disarmo che hanno partecipato alla negoziazione del trattato, e sono quarantaquattro: il trattato potrà entrare in vigore solo tre mesi dopo la ratifica del trattato da parte di tutti gli stati.

La CTBTO monitora costantemente gli stati che hanno firmato e quelli che hanno ratificato la convenzione: al momento la situazione è la seguente: l’ultimo stato che ha firmato il trattato è Saint Vincent e Grenadine e l’ultimo stato che ha ratificato è la Liberia. Al momento il trattato non è ancora entrato in vigore, in quanto non tutti gli stati di cui all’“annesso due” hanno ratificato il CTBT. Mancano ad oggi importanti adesioni, come la Corea del Nord, l’India e il Pakistan e anche decisive ratifiche: in primis gli Stati Uniti, ma anche la Cina, Israele, l’Iran, l’Indonesia e l’Egitto.

Il trattato Strategic Offensive Reduction Treaty

Il trattato Strategic Offensive Reduction Treaty, conosciuto anche come SORT o “Moscow Treaty” è un trattato bilaterale firmato a Mosca il ventiquattro maggio 2002 fra i presidenti Putin e Bush. Esso al momento è l’ultimo della lunga serie di trattati che riguardano il disarmo nucleare: in particolare poi, la sua ratifica ha sostanzialmente svuotato di contenuti il trattato START II e resa superflua la negoziazione del suo successore, lo START III.

Già dall’incontro del G8 di Genova del 2001 vi erano state delle avvisaglie riguardo alla volontà di Stati Uniti e Russia di cominciare dei nuovi colloqui sul controllo delle armi nucleari. Nel corsi di un incontro con Putin nel novembre 2001, Bush sostenne che gli Stati Uniti avrebbero unilateralmente ridotto il proprio arsenale nucleare. Putin replicò sostenendo che anche la Russia si sarebbe comportata nello stesso modo, e propose agli Stati Uniti la sottoscrizione di un impegno formale in tale senso.

Le negoziazioni cominciarono a gennaio del 2002, anche se le posizioni di partenza erano diverse. La Russia cercava un impegno vincolante, mentre invece gli Stati Uniti proponevano soluzioni più flessibili. Altri motivi di difficoltà erano il calcolo delle testate, se occorreva seguire o meno il sistema usato per la formulazione del trattato START I, ed infine la volontà russa di non vedere compromessa la sua deterrenza da parte di un sistema difensivo americano.

Alla fine il trattato venne firmato pochi mesi dopo, e si concretò in un documento breve (solo cinque articoli). Il preambolo è interessante in quanto si richiamavano il rafforzamento delle proprie relazioni mediante cooperazione ed amicizia, la consapevolezza “that new global challenges and threats require the building of a qualitatively new foundation for strategic relations between the Parties” e l’intenzione di migliorare la riduzione nel campo delle armi offensive strategiche.

Il breve trattato comincia con il primo articolo, che è il fulcro dell`accordo. Esso impegna ogni parte a ridurre e limitare le proprie “testate strategiche nucleari” in modo che da dicembre 2012 esse siano non più di 1700-2200 per ogni parte. Veniva inoltre lasciata a ogni parte un’autonoma capacità di determinare composizione e struttura delle proprie armi offensive strategiche.

L’articolo due ribadiva la vigenza del trattato START I, e l’articolo tre affermava l`impegno delle parti ad organizzare almeno due volte all’anno un incontro di una commissione bilaterale di attuazione dell’accordo. La struttura semplice e la mancanza di previsioni precise ha fatto sorgere molte critiche riguardo al trattato. Innanzi tutto il termine “testate strategiche nucleari” (in inglese “strategic nuclear warheads”) non specifica a quale tipo ci si riferisca.

Inoltre non viene indicato, come ad esempio in START I, alcun tipo di progressiva riduzione delle testate: anche qui ogni parte è libera di organizzarsi a proprio piacimento entro il termine del 2012. La libertà concessa alle parti nella determinazione delle proprie armi offensive strategiche è un altro allontanamento dalla stringente limitazione contenuta nel trattato START I.

Il trattato, a norma dell’articolo quattro, durerà fino al 2012, e successivamente potrà essere rinnovato o esteso (art. 4, comma 2), ed ogni parte può decidere di ritirarsi tre mesi dopo aver dato comunicazione scritta alla controparte (art. 4, comma 2). Infine “because the Treaty does not contain any interim limits or schedule for reductions, either party can exceed the limits in the Treaty at any time leading up to December 31, 2012”.

Nuclear weapons free zones

Le aree denuclearizzate sono certe aree della superficie terrestre dichiarate tali in virtù di accordi internazionali intercorsi fra più parti, le quali “concordano di non produrre, acquisire o testare armi nucleari, proibendone anche il deposito, la consegna, l’installazione o l’impiego a qualsiasi altro paese”. La prima area denuclearizzata fu l’Antartico, dichiarata tale col trattato del 1959. Le aree denuclearizzate rappresentano un altro modo di favorire il disarmo e rafforzare il divieto di diffusione delle armi nucleari.

Inevitabilmente la presenza di armi nucleari può portare ad usarle, o comunque può generare una spiacevole “corsa all’armamento” da parte dei paesi vicini. A maggior ragione questo può capitare se il contesto geopolitico locale è poco stabile, o minato da gravi inimicizie se non proprio veri confronti o rivalità. In altri termini “the ratio behind NWFZ is that there is a direct correlation between denuclearization and peace”.

L’assemblea delle Nazioni Unite ha definito le Nuclear Weapons Free Zones (NWFZ) nella risoluzione 3472 B del 1975. La medesima risoluzione all’articolo due riportava gli obblighi principali degli stati con armi nucleari nei confonti delle NWFZ Nel caso in cui la stessa fosse stata riconosciuta come tale dall’Assemblea generale. Gli stati con armi nucleari si sarebbero dovuti impegnare a rispettare il trattato che creava la zona, astenersi in quei territori dal compimento di atti che violino il trattato e astenersi dall’usare o dal minacciare l’uso delle armi in quei teatri.

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Al momento esistono cinque NWFZ disciplinate con altrettanti trattati, che qui seguiranno l’ordine cronologico. Alcuni di questi trattati riguardano alcune aree del pianeta, uno riguarda un singolo stato ed infine altri intere aree geografiche.

Trattato di Tlatelolco

Il trattato di Taltelolco è un trattato internazionale che fu concluso nel 1967 con il nome completo di “Treaty for the Prohibition of Nuclear Weapons in Latin America and the Caribbean”. Venne firmato nella cittadina messicana di Tlatelolco, da cui il nome, e fu il primo trattato che riguardava delle aree abitate da cui venivano bandite le armi nucleari.

Il trattato aveva come scopo quello di rendere l’America Latina ed i Caraibi una zona priva di armi nucleari (art. 4 e cartina allegata la trattato), ed entrò in vigore nel 1969. Ad oggi conta le ratifiche di tutte le nazioni dell’America Latina e inoltre nel primo protocollo annesso le firme degli Stati stranieri che hanno dei possedimenti (Stati Uniti, Olanda, Francia, Regno Unito). Nel secondo protocollo annesso le potenze nucleari che lo sottoscrissero (Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia, Gran Bretagna, Cina) si impegnarono a non violare la neutralità nucleare dei paesi latinoamericani e caraibici (secondo protocollo, art. 2) nonchè a non usare nè minacciare di usare armi nucleari contro I paesi firmatari (secondo protocollo, art. 3).

Gli stati membri inoltre davano il loro assenso alla creazione dell’OPANAL, cioè “Organismo para la Proscripción de las Armas Nucleares en la América Latina y el Caribe”, un’agenzia intergovernativa che si occupa di far rispettare gli obblighi del trattato.

Trattato di Rarotonga

Il trattato di Rarotonga, il cui nome ufficiale è “South Pacific Nuclear Free Zone Treaty”, è un trattato internazionale che riguarda l’Oceania. Esso venne sottoscritto nel 1985 e creò nell’area del Pacifico del sud una vasta zona libera dalle armi atomiche, le cui coordinate geografiche sono indicate nell’allegato uno.

In tutta l’area, ai sensi dell’articolo tre, ogni parte si impegna a non creare, acquisire, possedere o controllare qualsiasi genere di arma nucleare di ogni tipo, a non ricevere alcuna assistenza nella creazione o nell`acquisizione di alcuno strumento nucleare nè infine ad intraprendere alcuna azione per assistere o incoraggiare la creazione o l’acquisizione di alcuna arma nucleare da parte di alcuno stato.

Il trattato si riferisce a “nuclear explosive devices”, facendo quindi salvi gli usi nucleari pacifici, cui è rivolto l`articolo quattro. Il Trattato è stato firmato da tutte le nazioni dell`area, e sono stati previsti tre protocolli aggiuntivi, nei quali si richiede rispettivamente agli stati che hanno territori nell’area di non fabbricare, mantenere o sperimentare armi nucleari (protocollo uno), alle potenze atomiche di non usare o minacciare di usare armi nucleari contro alcuna parte del trattato o contro i territori degli stati che hanno firmato il primo protocollo (protocollo due) ed infine sempre alle potenze atomiche di non sperimentare alcun tipo di arma nucleare nell’area.

Mentre il primo protocollo è stato sottoscritto da Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia (Russia e Cina non hanno territori nell’area) gli altri due protocolli sono stati sottoscritti da tutte e cinque le potenze atomiche. Il trattato di Ratatonga non
ha creato un’organizzazione internazionale come nel caso del trattato di Tlatelolco.

Trattato di Bangkok

Il trattato di Bangkok, noto anche come Treaty on the Southeast Asia Nuclear Weapon-Free Zone, è un trattato internazionale che istituisce una zona libera dale armi nucleari nell`Asia del sudest (SEANFWZ). Esso è stato concluso nel 1995 fra dieci stati asiatici membri dell’ASEAN e riguarda “land territory, internal waters, territorial sea, archipelagic waters, the seabed and the sub-soil thereof and the airspace above them” (art. 1, let. “b”) e le zone economiche esclusive (art. 1, let. “a”).

Come gli altri trattati in materia, vieta alle parti di sviluppare, fabbricare, acquisire, possedere o controllare armi nucleari, trasportarle, testarle o usarle (art. 3, comma 1)e impegna gli Stati a non permettere, nel proprio territorio, a nessuno Stato terzo di sviluppare, costruire, acquisire, possedere o controllare armi nucleari, trasportarle, testarle o usarle (art. 3, comma 2).

Infine, all’interno dei “basic undertakings” vi è anche l’impegno a non scaricare nel mare o nell`atmosfera all’interno della SEANFWZ alcun tipo di materiale o rifiuto radioattivo, disfarsi degli stessi o permettere nei propri territori che uno Stato terzo compia questi comportamenti (art. 3, comma 3). Anche in quest`area viene comunque fatta salva la possibilità di usare pacificamente l`energia nucleare, “in particolare per lo sviluppo economico ed il progresso sociale” (art. 4).

Vi sono anche un protocollo ed un allegato aggiuntivo al Trattato, che non è stato ancora sottoscritto dalle cinque potenze nucleari. Il trattato, come quello di Ratatonga, non ha creato alcuna struttura simile all`OPANAL.

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