ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA – 5

a cura di Cornelio Galas

Three Miles Island

La centrale nucleare di Three Miles Island si trova presso Harrisburg, in Pennsylvania (Stati Uniti), e venne costruita nel 1974. Il 28 marzo del 1979 alle quattro del mattino si verificò “the largest nuclear incident in US history” ed il primo incidente nucleare della storia, con il rilascio nell’atmosfera di gas radioattivo. L’avvenimento si manifestò nel secondo reattore, in quel momento impegnato al 97% della sua capacità. Un iniziale problema al secondo sistema di raffreddamento causò un aumento di pressione nel primo sistema (quello vicino al nocciolo) causando l’apertura di una valvola che fece così diminuire la pressione del refrigerante.

Tuttavia ristabilita la pressione ottimale la valvola non si richiuse, ma permise al refrigerante di defluire ancora, abbassandone il livello rispetto a quanto previsto. I dipendenti non si accorsero che il refrigerante stesse diminuendo, mentre il nocciolo si andava surriscaldando, e, conseguentemente, danneggiandosi. Parte del refrigerante entrò in contatto con il nocciolo, generando così vapore radioattivo. Al termine di complesse procedure per smaltire il gas prodottosi e per ristabilire l’equilibrio nel reattore, si verificò una perdita di gas radioattivi nell’atmosfera.

L’iniziale sgomento e preoccupazione per l’incidente convinse le autorità a far allontanare dalle zone vicine alla centrale le donne incinte ed i bambini, e a mettere in stato di allerta la popolazione locale. La mancanza di vento fortunatamente impedì il diffondersi dei gas, i quali, in ogni modo, non si rivelarono particolarmente dannosi per la popolazione.

In definitiva l’incidente di Three Miles Island non manifesto sostanziali pericoli per la salute dei cittadini vicini alla centrale. Tuttavia l’impatto che si generò nell’opinione pubblica fu fortissimo, e le polemiche furono concentrate sulla sicurezza degli impianti nucleari. In ogni caso l’incidente in Pennsylvania fu il primo “campanello d’allarme” del nucleare civile sulle sue conseguenze per la popolazione.

Nonostante l’alto livello nella scala INES il ricordo degli effetti dell’incidente americano venne velocemente dimenticato quando, solo sette anni dopo, si verificò il disastro di Chernobyl.

Chernobyl

La centrale di Chernobyl si trova in Ucraina, a centoventi chilometri dalla capitale Kiev, ed è molto vicina al confine con la Bielorussia. Venne scelta come sede per un reattore nucleare civile in quanto abbastanza vicina alla capitale ucraina e grazie alla posizione geografica ideale per servire le due (ex) repubbliche sovietiche. La presenza del fiume Pripiat vicino era inoltre un’ottima fonte di acqua. Presso la centrale nucleare venne edificata la cittadina di Pripiat, destinata ad accogliere i lavoratori del reattore, che sorgeva a soli tre chilometri dall’insediamento.

Il reattore di Chernobyl era uno dei più avanzati dell’epoca (per la tecnologia sovietica) e si articolava in quattro diverse unità. Il vanto e l’orgoglio della potenza nucleare sovietica, però, ebbe un tragico incidente nella notte fra il 25 ed il 26 aprile 1986.

In quella notte di aprile una serie di errori umani durante la conduzione di un test di sicurezza notturno portarono la temperatura del reattore dell’unità quattro della centrale oltre tutti i livelli di guardia: in piena notte, intorno all’una, la combinazione di calore raggiunta dal reattore fece si che il combustibile nucleare e le barre moderatrici esplodessero a causa della temperatura. In pochi istanti una massa di materiale radioattivo fuoriuscì violentemente dal tetto, creando un’immensa colonna di fuoco e scagliando in aria materiale radioattivo pesantemente contaminato sotto forma di polveri ed elementi metallici e non.

I soccorsi, immediatamente allertati, si precipitarono sul posto pochi minuti dopo, ma senza la precisa cognizione di ciò che era successo: i pompieri che intervennero per domare quello che era stato descritto come un normale incendio morirono tutti nell’arco di mezz’ora a causa dell’esposizione ad una dose massiccia di radiazioni, centinaia di volte superiore ai livelli tollerabili dal corpo umano.

Le autorità sovietiche, dopo l’iniziale sbigottimento, tennero tutto sotto silenzio, ma fecero arrivare nella zona una grande quantità di forze armate per domare l’incendio e coprire il buco creatosi nel tetto del reattore, che intanto continuava a sprigionare pulviscolo fortemente radioattivo. Il giorno dopo, in Svezia, gli ordinari controlli sui livelli di radioattività segnalarono una notevolissima ed anomala dose di radiazioni; dopo i primi rilevamenti che coinvolsero la rete svedese, si identificò che la provenienza era localizzabile in Unione Sovietica, da dove era giunto il pulviscolo radioattivo.

Inizialmente si pensò ad un esperimento nucleare militare, ma il governo sovietico negava le responsabilità. Nell’arco di pochissimo tempo i dati sulla radioattività vennero rilevati in tutti gli altri stati europei. Dopo le schiaccianti prove addotte dalla comunità internazionale, l’Unione Sovietica fu costretta ad ammettere l’incidente. Di particolare interesse furono le immagini satellitari dell’intelligence americana, che mostrarono chiaramente in colore rosso (segno di calore) la zona esplosa della centrale di Chernobyl.

Intanto la nuvola radioattiva era già arrivata a coprire tutta l’Europa orientale e centrale, e si dilatava sempre di più. La situazione a Chernobyl non era migliorata, anzi: nessuno a Pripiat sapeva cos’era successo. Le autorità sovietiche, desiderose di non divulgare la notizia, si videro comunque costrette ad ordinare l’evacuazione della cittadina qualche giorno dopo il disasto: ormai erano passate ben settantadue ore, ed i livelli di radioattività erano mortali per la vita umana. Intanto sul reattore continuavano a pieno ritmo le operazioni per coprire con sabbia e cemento lo squarcio creato dall’esplosione.

Gli elicotteri dell’esercito sovietico e i volontari a terra si alternavano senza sosta per coprire il buco creatosi, per poter finalmente far diminuire la radioattività emessa. Con grande abnegazione e molti sforzi, in poco tempo venne realizzata una prima struttura di contenimento (detta “sarcofago”) attorno al reattore quattro. Nell’arco di pochi giorni moltissimi volontari, consapevolmente espostisi ad alti livelli di radiazioni durante le operazioni di contenimento, morirono o comunque accusarono i sintomi delle radiazioni. Nel contempo molti altri abitanti vennero ricoverati in condizioni critiche in ospedali e strutture sanitarie totalmente incapaci ed impreparate ad affrontare un tale tipo di emergenza.

L’aumento dei fenomeni tumorali e delle mutazioni fu notevole, così come delle patologie collegate alla sovraesposizione a radiazioni. Nel reattore non si era verificata una fissione nucleare, ma solo un violento rilascio di materiale radioattivo, il quale aveva contaminato anche elementi che radioattivi non erano, come gli elementi del tetto o le barre moderatrici. Il caso di Chernobyl fece emergere “tutta la fragilità dell’apparato produttivo sovietico, la cui inefficienza sfuggiva al controllo delle autorità con conseguenze che andavano ben al di là dei confini statuali dell’Urss e che suscitavano l’apprensione dell’opinione pubblica mondiale”.

La catastrofe oltre ad indebolire la già delicata situazione politica sovietica fu la vera prova di cosa significasse la potenza dell’atomo, anche se non concentrata in un’esplosione nucleare. La quantità di radiazioni rilasciata era comunque superiore agli attacchi di Hiroshima e Nagasaki, ed in pochi giorni venne avvertita fino in Giappone e Nord America. L’area attorno alla centrale venne evacuata e non ripopolata per un raggio di una trentina di chilometri, ma le superfici contaminate rimarranno tali per migliaia di anni, stante il tempo di decadimento di certi elementi rilasciati.

Ad oggi non si è ancora riusciti a fare una somma completa delle vittime, ma comunque i dati statistici inerenti le malattie della popolazione, e soprattutto quelle legate all’esposizione a radiazioni, sono illuminanti. La città di Pripiat è completamente abbandonata, anche se negli ultimi anni sono ricomparsi alcuni animali: i postumi del disastro hanno provocato nelle popolazioni evacuate grandi problemi sociali e psicologici, non da ultimo l’alcolismo. Nel caso di Chernobyl si è trattato di un incidente: ma cosa potrebbe succedere se qualcuno facesse esplodere in un porto di qualsiasi grande città una nave contente materiale radioattivo?

I trattati internazionali in materia di armi di distruzione di massa

Nonostante la definizione “armi di distruzione di massa” sia stata coniata nel 1937, già alla fine della prima guerra mondiale era cominciata una profonda fase di riflessione sulle implicazioni delle armi non convenzionali. La forza dell’atomo era ancora una prospettiva lontana, ma l’impatto delle armi chimiche nelle trincee dei fronti orientale ed occidentale fu sufficiente per spingere diversi stati a firmare a Ginevra, nel 1925, un trattato internazionale che proibiva l’uso dei gas tossici e delle armi batteriologiche, lasciando però non normata la possibilità di svilupparle o produrle.

L’impatto successivo alla seconda guerra mondiale e la “corsa nucleare” intrapresa da Stati Uniti e Unione Sovietica spinsero sempre più la comunità internazionale a riflettere sulla necessità di limitare o possibilmente estinguere a livello mondiale la minaccia delle armi di distruzione di massa; a seconda dei diversi ambiti (nucleare, chimico, biologico) nel corso dell’ultima metà del secolo sono sorti diversi trattati ed alcune organizzazioni che si occupano direttamente del problema.

Anche qui, come nel caso dello sviluppo delle armi, lo spazio principale lo ha avuto – e lo conserva ancora – l’arma nucleare, al momento al centro dell’attenzione per i recentissimi lanci di missili balistici nordcoreani e per il tanto declamato programma nucleare iraniano. Questi ultimi episodi hanno riportato al centro dell’agenda politica mondiale la necessità di rendere i trattati internazionali in materia di armi di distruzione di massa sempre più condivisi e diffusi, soprattutto in quelle aree e fra quegli stati che più sono sensibili ai comportamenti aggressivi dei vicini.

Sostanzialmente ridurre le armi di distruzione di massa è una forma di diffusione della sicurezza che nessuno ne faccia uso: a tale scopo puntano le politiche di disarmo manifestatesi nei trattati internazionali che di seguito verranno esaminati.

Con le successive evoluzioni della Guerra fredda e la diffusione delle armi di distruzione di massa anche in stati ed in contesti geopolitici molto delicati (area indiana, Medio Oriente, Nord Africa) le preoccupazioni della comunità mondiale, e delle superpotenze in primis, hanno spinto l’ONU a interessarsi dell’argomento mediante una complessa serie di trattati dedicati a tutti i tipi di armi di distruzione di massa. Gli esiti sono stati differenti, e hanno conseguito risultati nel complesso positivi, anche se molto c’è ancora da fare, soprattutto a causa di alcune vistose assenze nella sottoscrizione o nella ratifica dei trattati.

Inoltre la fine dell’equilibrio bipolare ha posto al centro dell’interesse della comunità internazionale anche il ruolo di gruppi terroristi in grado di impossessarsi e di maneggiare armi di distruzione di massa, con le prevedibili conseguenze: tali soggetti sono ormai minacciosi quanto alcune recenti manifestazioni di potenza fatte da stati tradizionali.

Resta infine da sottolineare la difficoltà tecnica ad affrontare i controlli in materia, in quanto molte delle tecnologie idonee alla fabbricazione delle armi di distruzione di massa altro non sono che infrastrutture per usi civili: è il problema del cosiddetto dual use, cioè la capacità sia militare che civile in capo al medesimo bene (in questo caso impianto di produzione).

Distinguere, per esempio, impianti di arricchimento dell’uranio per fini militari da quelli per fini civili alle volte può essere impossibile; da qui la necessità, alla base di tutto il substrato giuridico, della reciproca confidenza fra gli stati e della riduzione o eliminazione, per quanto possibile, delle stesse possibilità di creazione di armi di distruzione di massa.

I passi intrapresi in termini giuridici sono molto rilevanti, e si sono concretizzati in diversi trattati internazionali più o meno condivisi a livello mondiale: la prevalenza, comunque, è stata data ai trattati sulle armi nucleari, che detengono ormai un posto di primissimo piano anche nei media e nelle agende politiche di moltissimi stati, gruppi di pensiero, associazioni e movimenti politici.

L’attività “volta alla limitazione e/o all’abolizione degli armamenti di una determinata nazione […] come risultato di reciproche trattative fra stati”  è detta disarmo multilaterale, bilaterale, unilaterale, a seconda che sia adottato da più stati, da due o solamente da un singolo stato. Nel corso degli ultimi cento anni un parziale disarmo è avvenuto grazie ai trattati che di seguito sono esaminati, ed oggi questo processo è visto dalla comunità internazionale e da quella scientifica come un necessario mezzo per promuovere pace e stabilità, evitando il ripetersi di azioni militari compiute con armi di distruzione di massa, foriere di disgrazie e, come ovvio, di spaventose perdite militari ma soprattutto civili.

Oggi il tema del disarmo è centrale nell’agenda politica dell’Onu, e riguarda tanto i settori delle armi non convenzionali quanto di quelle convenzionali; inoltre alcuni trattati sottoscritti sono importanti fonti e riferimenti anche per il diritto umanitario, tanto da far sostenere da alcuni l’esistenza di una vera e propria “convergenza fra diritto bellico e tutela dei diritti umani”.

I trattati prima della Seconda guerra mondiale

La prima Convenzione che accenna alle armi classificabili come “di distruzione di massa” (ma all’epoca non definite in questo modo) è la Convenzione dell’Aja, tenutasi fra maggio e luglio del 1899. Gli scopi che si prefiggeva erano il mantenimento della pace e la regolamentazione della guerra: per questo è il primo necessario riferimento in materia di mezzi di combattimento fra belligeranti.

Il regolamento allegato alla “convenzione internazionale concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre” all’articolo 22 stabiliva l’importante principio che “i belligeranti non hanno un diritto illimitato quanto alla scelta dei mezzi con cui nuocere al nemico”, specificando, nel successivo articolo 23, ulteriori proibizioni rispetto a quelle già in atto, quali:

  • a. far uso di veleni o di armi avvelenate;
  • b. uccidere o di ferire a tradimento individui appartenenti alla nazione o all’armata nemica;
  • c. uccidere o di ferire un nemico che avendo deposte le armi o non essendo più in grado di difendersi, si è reso a discrezione;
  • d. dichiarare che non sarà dato quartiere;
  • e. far uso di armi, proiettili o materie atti a cagionare inutili sofferenze;
  • f. abusare della bandiera parlamentare, della bandiera nazionale, delle insegne militari;
  • e dell’uniforme del nemico, nonché dei segni distintivi della Convenzione di Ginevra;
  • g. distruggere o di sequestrare proprietà nemiche, salvochè tali distruzioni e sequestri fossero imperiosamente richiesti dalle necessità della guerra.

Come chiarificato dalla Convenzione, i gas tossici (“veleni o armi avvelenate”) erano palesemente esclusi dai mezzi di combattimento. La vaghezza della Convenzione dell’Aja è stata spesso criticata, soprattutto perché, come noto, è stata largamente disattesa negli anni successivi; tuttavia costituisce il primo necessario riferimento che iniziò a far riflettere la comunità internazione sul progressivo divieto d’uso delle armi di distruzione di massa.

La successiva Conferenza dell’Aja del 1907 ribadì esattamente le disposizioni statuite in materia di armi chimiche, così come anche i divieti per i bombardamenti aerei. La tecnologia bellica, però, si stava orientando in direzioni diametralmente opposte, e puntualmente si verificò il contrario di quanto statuito nel corso del primo conflitto mondiale. Al termine della Grande Guerra ripresero i contatti fra le diplomazie e le nazioni per trovare soluzioni  per la risoluzione delle controversie internazionali: “la convinzione che l’ordine internazionale prebellico fosse inadeguato alle nuove esigenze messe in evidenza dal conflitto si era fatta largamente strada nelle opinioni pubbliche come nelle cancellerie”.

Il testo definitivo del Patto della Società delle Nazioni (in inglese Covenant of the League of Nations) fu approvato dalla Conferenza di Pace di Parigi il 28 aprile del 1919, e la Società cominciò a funzionare nel 1920. Lo Statuto prevedeva alcune disposizioni in materia di riduzione degli armamenti, fra le quali spiccavano alcuni articoli, come il numero 8 che affermava:

“That the maintenance of peace requires the reduction of national armaments to the lowest point consistent with national safety and the enforcement by common action of international obligations. The Council, taking account of the geographical situation and circumstances of each State, shall formulate plans for such reduction for the consideration and action of the several Governments. Such plans shall be subject to reconsideration and revision at least every ten years.

After these plans shall have been adopted by the several Governments, the limits of armaments therein fixed shall not be exceeded without the concurrence of the Council. The Members of the League agree that the manufacture by private enterprise of munitions and implements of war is open to grave objections. The Council shall advise how the evil effects attendant upon such manufacture can be prevented, due regard being had to the necessities of those Members of the League which are not able to manufacture the munitions and implements of war necessary for their safety.

The Members of the League undertake to interchange full and frank information as to the scale of their armaments, their military, naval and air programmes and the condition of such of their industries as are adaptable to war-like purposes”.

Altri articoli, come il 9 o il 23d integravano la volontà della Società delle nazioni di procedure alacremente sulla via del disarmo come mezzo per promuovere la sicurezza internazionale. Durante il periodo fra le due guerre vennero inoltre firmate alcune Convenzioni che confermavano la linea di evoluzione delle politiche di disarmo, come ad esempio la “Convenzione sul controllo del commercio internazionale di armi, munizioni e dei materiali di guerra” del 1925, oppure il Protocollo che proibiva le armi chimiche e batteriologiche.

La Carta delle Nazioni Unite

La Carta delle Nazioni Unite, pur non riferendosi esplicitamente al tema delle armi nucleari, affronta le questioni del disarmo in diversi articoli, come nel caso dell’art. 11, 1° comma (“per tutelare la pace e la sicurezza internazionale, l’Assemblea Generale si riferirà ai principi generali di cooperazione, compresi i principi che regolano il disarmo e le norme sugli armamenti e può, relativamente a tali principi, formulare raccomandazioni ai propri Stati Membri oppure al Consiglio di Sicurezza o ad entrambi”) oppure all’articolo 26, nel quale si specifica che “al fine di instaurare e mantenere la pace attraverso la drastica riduzione delle risorse umane ed economiche mondiali da destinare agli armamenti, il Consiglio di Sicurezza, con l’ausilio del Consiglio di Stato Maggiore previsto dall’Articolo 47, avrà il compito di formulare e sottoporre all’attenzione degli Stati Membri delle Nazioni Unite, i piani necessari alla realizzazione di un sistema per il controllo degli armamenti”.

È da notare anche la formulazione dell’art. 47, sebbene la sua sostanziale desuetudine lo renda poco più che una mera indicazione. Era insomma ben chiaro ai fondatori delle Nazioni Unite che per mantenere e tutelare la pace fosse necessario, a fianco degli strumenti coercitivi e non coercitivi previsti, anche la riduzione o quantomeno il controllo degli armamenti, di qualunque sorta essi fossero. E’ comunque opinione autorevole della dottrina che la Carta “non stabilisce un vero e proprio obbligo di disarmo, né un tale obbligo è stabilito dal diritto internazionale consuetudinario” come, d’altro canto, è stato precisato nella sentenza della Corte Internazionale di Giustizia “Stati Uniti contro Nicaragua”.

L’evoluzione giuridica in materia di armi di distruzione di massa è avvenuta nel corso degli anni in forma soprattutto convenzionale, cioè mediante intese realizzatesi fra più stati, con tutti i problemi e le conseguenze che questi tipi di atti comportano: tuttavia con il trascorrere del tempo le conferenze internazionali con i relativi trattati e gli accordi bilaterali o multilaterali si sono susseguiti ed evoluti, e costituiscono oggi il corpus normativo in materia di disarmo.

Infine, ha giocato un ruolo non indifferente in questa materia la Conferenza del Disarmo, con sede a Ginevra: quest’organo “enstablished in 1979 as the single multilateral disarmament negotiating forum of the International community, was a result of the first special Session on Disarmament of the United Nation General Assembly held in 1978”. La Conferenza sul disarmo è il frutto di un’evoluzione avvenuta a livello internazionale in materia, cominciata con il Ten Nation Commitee on Disarmament (1960), seguito dall’Eigthteen Nation Commitee on Disarmament (1962-1968) ed infine la Conference of the Commitee on Disarmament (1969-1978).

La Conferenza si occupa di diverse questioni di disarmo, non solo legate alle armi di distruzione di massa: l’alto numero di partecipanti e il grande numero di accordi negoziati nell’ambito della Conferenza stessa costituiscono la miglior prova che certi passi avanti in materia sono stati compiuti, pur essendo ancora lunga la strada da fare. Ronzitti cita i seguenti accordi come dovuti all’azione della Conferenza sul Disarmo:

  • – Trattato di interdizione parziale degli esperimenti nucleari (1963);
  • – Trattato sullo spazio extra-atmosferico (1967);
  • – Trattato sulla non proliferazione nucleare (1968);
  • – Trattato sulla proibizione del collocamento di armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa sul suolo o sul sottosuolo marino (1971);
  • – Convenzione sull’interdizione della messa a punto, fabbricazione e stoccaggio delle armi atteriologiche e sulla loro distruzione (1972);
  • – Convenzione sulla proibizione dell’uso ai fini militari o ogni altro uso ostile delle tecniche di modifica ambientali (1977);
  • – Convenzione per l’interdizione della messa a punto, fabbricazione e stoccaggio delle armi chimiche e della loro distruzione (1993);
  • – Trattato per la cessazione completa degli esperimenti nucleari (Ctbt) (1996).

Come si vede, nel corso della Guerra fredda l’escalation prima atomica e poi termonucleare spinse gli stati, dopo la “crisi dei missili” di Cuba, a negoziare sempre più intensamente per scongiurare il manifestarsi del pericolo chimico, biologico e, sopra tutti, quello nucleare, motivo per il quale la maggioranza degli accordi sono dedicati a questo tema.

Tutti questi trattati presentano delle somiglianze, a cominciare dalle discipline di recesso, che garantiscono agli Stati membri abbastanza discrezionalità nell’esercitare il proprio diritto, con la previsione di un certo periodo dopo il quale il recesso sarà effettivo; allo stesso modo presentano analogie per quanto riguarda le varie conferenze “di riesame” dell’argomento, cioè incontri periodici nei quali si “aggiornano” i trattati. Infine, occorre distinguere fra disarmo e non proliferazione, in quanto “mentre gli accordi di disarmo proibiscono a tutti gli Stati il possesso dell’arma oggetto dell’accordo, gli accordi di non proliferazione hanno lo scopo di evitare che determinate armi siano possedute da un numero consistente di Stati, aumentando il rischio del loro uso”.

La struttura dei trattati internazionali

I trattati internazionali conclusi in materia di armi di distruzione di massa risentono, come tutti gli atti normativi, delle contingenze in cui sono stati redatti. Come insegna un brocardo latino, ex facto oritur ius, dal fatto nasce il diritto: ogni trattato è figlio del suo tempo, nelle sue parole e nella sua struttura si possono leggere chiaramente le intenzioni politiche delle parti che lo hanno stipulato.

A maggior ragione queste considerazioni valgono per i trattati bilaterali, che soprattutto in materia di armi nucleari hanno avuto un ruolo importante nei confronti della comunità mondiale. Per esempio, nei trattati fra Stati Uniti e Russia stipulati dopo la Guerra fredda si è cominciato a parlare di reciproca “amicizia” e “collaborazione”, termini che difficilmente prima avrebbero trovato posto nei trattati fra le due superpotenze. I trattati presentano poi lunghezze diverse a seconda della complessità o della natura della materia trattata.

Concretamente un trattato internazionale, partendo dal principio, presenta un preambolo. Esso è di natura più politica, e può richiamare altri atti normativi, risoluzioni internazionali, precedenti accordi fra le parti o, più in generale, eventi o documenti che hanno portato alla formulazione di quel trattato. Vi possono pure essere riferimenti a valori che intendono essere tutelati, o richiami a generali principi di umanità o difesa del mondo o dell’uomo.

In altre parole il preambolo fornisce una vetrina utile per comprendere le posizioni delle parti riguardo all’argomento in oggetto, e capire quali sono i motivi e i riferimenti che hanno portato le parti a concludere il trattato. Il preambolo può essere più o meno lungo, e comincia ogni capoverso con verbi quali “considerando”, “notando”, “preso atto” e altri verbi che ribadiscono o richiamano quanto espresso in altra sede. Possono anche essere presenti dei verbi volitivi, che esprimono auspici o particolari desideri.

Al preambolo segue l’articolato del trattato. Esso costituisce il vero e proprio elemento normativo, le regole che le parti hanno concordato e che dovranno essere seguite. Gli articoli, numerati progressivamente, potranno essere più o meno lunghi e più o meno complessi: non è raro che siano strutturati in commi e sottocommi, soprattutto quando dettano regole dettagliate. Tipicamente i primi articoli esplicitano il significato delle parole chiave usate nel trattato; quando c’è questa esplicitazione, di solito si trova al primo articolo.

Le spiegazioni della terminologia ivi fornite saranno quelle rilevanti solamente per quel trattato. Se il primo articolo presenta questo tipo di dichiarazione, solitamente il secondo illustra gli obblighi e gli scopi del trattato, di solito con una formula come “le parti si impegnano a” o “le parti si impegnano a non”, seguite dal comportamento da seguire o dal contenuto del divieto. Lo stesso articolo o quelli seguenti possono stabilire dei limiti temporali agli obblighi sopra espressi: impegni da adempiere entro una certa data o impegni a cessare di operare a partire da un’altra data.

I successivi articoli possono limitare i divieti facendo salvi alcuni comportamenti: per esempio nei trattati in materia di zone denuclearizzate la possibilità di uso pacifico dell’energia atomica è sempre fatta salva da un apposito articolo. Il testo può proseguire indicando dei mezzi di verifica o controllo che le parti possono porre in essere, disciplinandone la modalità. In questi casi di solito viene sempre riportato l’obbligo di interferire il meno possibile con le attività dello stato che subisce l’ispezione, il quale a sua volta deve essere collaborativo o quanto meno non ostacolare l’attività di controllo.

Certi trattati prevedono degli articoli nei quali si creano dei soggetti internazionali appositi, preposti al controllo od alla verifica della materia in questione: a volte possono essere anche abbastanza dettagliati riguardo all’organizzazione del nascente soggetto internazionale, altre possono demandare la struttura a degli allegati al trattato. Seguono poi degli articoli che sono specifici dell’argomento in questione: qui ogni trattato si diversifica a seconda del contenuto.

Essi possono essere più o meno, sempre a seconda della complessità della materia normata. Verso gli ultimi articoli dei trattati vi sono dei riferimenti alla soluzione delle controversie che possano insorgere, degli articoli che disciplinano la possibilità di proporre emendamenti e al ruolo del trattato rispetto agli altri: di solito viene fatto salvo quanto statuito da trattati diversi, o magari dagli obblighi che derivano da alleanze in cui le parti erano inserite (spesso questo articolo era presente nei trattati bilaterali).

Proseguendo nella parte finale vi sono articoli dedicati alla durata del trattato, che può essere senza limite o con una durata limitata; in questo secondo caso sono previsti modi per estenderne la durata o la possibilità di rinegoziarlo. Un articolo riguarda sempre i casi di ritiro dal trattato, prevedendo modalità più o meno complesse per compiere questa attività, che di solito va notificata per tempo alle altre parti prima di essere intrapresa. Una causa sempre presente è quella di pericolo per lo stato, che imponga la necessità di non adempiere, attuale interpretazione dell’antico brocardo necessitas non habet legem.

Gli articoli finali possono riguardare la sottoscrizione e la ratifica, imponendo che il trattato entri in vigore solo dopo un certo numero di ratifiche o dopo che alcuni stati piuttosto che altri abbiano ratificato; alle volte un articolo specifica che il trattato entrerà in vigore non dalla ratifica richiesta, ma un certo numero di giorni dopo. Se i trattati sono multilaterali, allora sono previsti degli articoli che regolano come terze parti possano accedervi.

Tipicamente vi è un articolo che riguarda le riserve che le parti possono porre rispetto al trattato: di norma esse sono tassativamente vietate. Infine, di solito in posizione finale, c’è un articolo che stabilisce le lingue in cui è redatto il trattato e che nonostante i diversi idiomi il significato è uguale in tutte le diverse copie: i trattati bilaterali fra Stati Uniti e Unione Sovietica prevedevano solo russo e inglese, i trattati internazionali (come le Convenzioni sulle armi chimiche e quella sulle armi biologiche) di norma prevedono che i testi siano redatti in inglese, francese, russo, cinese, arabo e spagnolo. La conclusione del trattato è data dalle firme dei sottoscrittori in rappresentanza degli Stati.

Al trattato possono poi seguire degli ulteriori documenti. Se presenti, un articolo del trattato disciplina lo status di questi documenti, che di solito ne sono parte integrante. Essi possono essere allegati o protocolli, e a volte il numero di questi è rilevante (come nel caso del trattato START I). Il contenuto di questi elementi accessori può essere il più vasto: da specificare certi termini, a indicare certi confini, a stabilire ulteriori obblighi che discendono dal trattato. In ogni caso la presenza e la vigenza di questi accessori, comunque si chiamino, trova il suo fondamento nel testo del trattato, senza il quale essi non avrebbero motivo di esistere.

I trattati multilaterali permettono agli stati terzi di partecipare, sottoscrivendo il trattato e ratificandolo (cioè dandogli esecuzione nel proprio ordinamento). Se una parte non ha sottoscritto il trattato, le disposizioni in esso contenuto sono tamquam non esset. Non sono rari i casi di nazioni che hanno firmato ma non hanno ratificato un trattato: in questo caso la volontà politica dello Stato è chiara, anche se finchè non vi è la ratifica il trattato per quello Stato non è vincolante.

Molto spesso le ratifiche sono rimandate per motivi politici: è questo il caso del trattato SALT II (mai ratificato) o i rinvii che la Duma russa fece per il trattato START II. Ad oggi diversi trattati internazionali sono in una fase di sospensione, finchè lo stato non acconsente a ratificare. È chiaro che la sottoscrizione dimostra la propensione politica dello stato firmatario a condividere i contenuti del trattato, e lo impegna, almeno moralmente, a ratificarlo.

Vi sono anche dei casi di trattati internazionali che sono sottoscritti da decine di stati ma non sono ancora entrati in vigore o perché mancano il numero adeguato di ratifiche o perché mancano alcuni stati la cui ratifica è necessaria per la vigenza del trattato. A livello sistematico, va notato che gli stati che non sottoscrivono certi trattati importanti in materia di armi convenzionali tipicamente non sottoscrivono gli altri: se si incrociano le mancate ratifiche o, peggio, le mancate sottoscrizioni, si scopre che alcuni Stati spesso si comportano in questo modo, e solitamente sono Stati che presentano difficoltà politiche interne o un contesto geopolitico circostante particolarmente instabile.

I trattati in materia di armi nucleari

Se i primi trattati in materia di armi di distruzione di massa riguardavano la armi chimiche, dal 1945 la prevalenza dell’attenzione venne, comprensibilmente, affidata alle armi atomiche in tutti i loro aspetti. La supremazia occidentale, articolata sulle armi nucleari americane, inglesi e francesi, ben presto venne raggiunta dall’Unione Sovietica e poi dalla Cina; infine nuovi stati come India, Libia, Corea del Nord, Pakistan, Sudafrica e Israele si interessarono all’armamento nucleare con esiti diversi. La tecnologia, inoltre, fu determinante per la stesura di alcuni trattati, i quali necessariamente riflettevano il cambiamento della tecnica in merito.

Le origini

Come noto, il tema dell’energia atomica e delle sue applicazioni militari era divenuto un punto politicamente e militarmente prioritario nelle agende di tutti i governi vincitori: oltre alla citata richiesta di Stimson a Truman del settembre del 1945, nelle diplomazie e nei governi alleati si faceva un gran parlare delle implicazioni che si sarebbero originate a seguito della diffusione dell’arma nucleare. Oltre a ciò, il nuovo forum delle Nazioni Unite era diventato un riferimento anche per le grandi potenze: in altre parole gli sforzi iniziali per evitare il diffondersi della bomba atomica si svilupparono velocemente nel nuovo contesto delle Nazioni Unite.

Per citare le parole del presidente Truman durante il suo ritorno dalla conferenza di Potsdam “the atomic bomb is too dangerous to be loose in a lawless world. This is why Great Britain and the United States, who have the secret of its production, do not intend to reveal the secret until means have been found to control the bomb so as to protect ourselves and the rest of the world from the danger of total destruction”.

Il 15 novembre del 1945 vi fu a Washington un incontro congiunto fra Attlee, il primo ministro inglese, Truman e Mackenzie King, il primo ministro canadese, dedicato ai nascenti problemi nucleari. I tre esponenti vergarono un documento, detto “Three Nation Agreed Declaration on Atomic Energy” nel quale esplicitavano un punto di vista comune sull’energia nucleare, articolato in due parti.

Nella prima veniva riconosciuta la spaventosa potenza delle armi nucleari (art. 1) e ritenuto negativo il monopolio delle stesse da parte di una sola nazione, ma, inoltre, venivano sviluppate alcune riflessioni (artt. 2 e 3) che furono decisive per tutto il processo di disarmo futuro. Successivamente l’articolo 3 richiamava l’attenzione delle nazioni sul mantenimento della pace nucleare.

La seconda parte della dichiarazione riguardava invece il desiderio di creare una Commissione in grado di controllare e regolare le tematiche nucleari. La finalità era chiara: l’opzione nucleare, per quanto terribile, dipendeva comunque dai singoli stati possessori: la creazione di una Commissione di controllo, in grado comunque di favorire la ricerca nucleare tecnica e scientifica, era il mezzo migliore per eliminare completamente l’uso dell’energia atomica da finalità di distruzione.

Già il 27 dicembre 1945 venne approvata a Mosca la costituzione dell’UNAEC, (United Nations Atomic Energy Commission), che venne messa, come da richiesta sovietica, sotto controllo del Consiglio di sicurezza. Il 24 gennaio del 1946 la prima sessione dell’Assemblea dell’Onu dedicò la prima risoluzione all’istituzione di una Commissione che affrontasse i problemi dell’energia atomica e le materie correlate: era un chiaro segno di come la comunità internazionale sentisse anch’essa l’urgenza di controllare gli sviluppi militari dell’atomo.

Tuttavia la UNAEC ebbe vita breve: veti e diffidenze americane e sovietiche si contrapposero (l’americano “piano Baruch” contro le tesi del ministro russo Gromyko) trascinando per lungo tempo le attività dell’UNAEC la quale, dopo il 1949, cessò di riunirsi. Nel 1949, in mezzo allo stupore mondiale, l’Unione Sovietica fece esplodere il suo primo ordigno atomico. Venne seguita nel 1952 dalla Gran Bretagna.

La situazione cominciò a sbloccarsi solo dopo il 1953. In questo anno cruciale Eisenhower successe a Truman (gennaio 1953) e Stalin morì (marzo 1953). I leader della seconda guerra mondiale uscivano di scena, e con essi le relazioni tenute fino a quel momento fra Stati Uniti e Unione Sovietica: “in poco meno di due mesi i personaggi che si erano così aspramente contrapposti per quasi otto anni lasciavano il campo a nuovi attori”.

Il mondo del 1953 era ormai nettamente bipolare, e vedeva palesemente contrapposti i due blocchi, di cui uno già dotato di un’organizzazione regionale di sicurezza, la NATO. Il pericolo nucleare, tuttavia, incombeva più minaccioso di prima. Eisenhower, deciso a “rilanciare un dialogo per l’uso pacifico dell’energia atomica”, dopo essersi visto con Churchill, presentò l’8 dicembre 1953, in un discorso alle Nazioni Unite denominato “Atoms for peace” un progetto destinato a far riprendere i colloqui cessati verso la fine degli anni Quaranta con un nulla di fatto.

Concretamente il Presidente americano lanciò l’idea di una autorità atomica in grado di affrontare le questioni internazionali in materia; l’idea, nonostante le iniziali diffidenze sovietiche, venne ben presto accettata, e lo Statuto dell’International Atomic Energy Agency (IAEA) venne approvato a ottobre del 1956.

Nel 1957 i russi riuscivano a mandare in orbita il primo satellite, seguito dal primo animale e dal primo cosmonauta: la sfide e i vettori delle armi nucleari si stavano spostando e “il quadro strategico mutò significativamente solo quando divenne operativa la sperimentazione della tecnologia missilistica”. Si era aperta l’era spaziale, una stagione di ricerca e di scoperta scientifica ma anche un nuovo mezzo per colpire l’avversario.

L’iniziale ritardo americano allarmò notevolmente le amministrazioni statunitensi, che fino a quel momento avevano confidato nella propria superiorità aerea: “per la prima volta l’Unione Sovietica poteva colpire direttamente il suolo americano. La costruzione di missili balistici intercontinentali (ICBM) era quindi la via con cui l’Urss riempì definitivamente il gap con gli Stati Uniti nel potenziale distruttivo nucleare”.

Gli sviluppi tecnologici, come la nascita dei MIRV, e la successiva crisi del 1962 a Cuba fecero tornare alla ribalta le tematiche del controllo dell’armamento nucleare. In particolare la “Crisi dei missili” cubana fece giungere il mondo ad un passo dalla guerra, la cui potenziale escalation destava paura e terrore nei governi e nelle opinioni pubbliche mondiali. Era giunto il tempo del primo accordo, poiché “la crisi dei missili aveva portato Mosca e Washington a riconoscere che il pericolo nucleare richiedeva uno sforzo aggiuntivo rispetto alla rituale ostentazione delle loro differenze”.

La rivoluzione cubana aveva permesso ai russi di installare “nel giardino di casa” americano alcuni missili nucleari: la crisi che ne scaturì fu essenziale non solo per marcare gli effetti destabilizzanti della decolonizzazione, ma anche per il terribile rischio che aveva fatto correre alla comunità mondiale. Il risultato della crisi fu l’inizio di un periodo di distensione, che permise all’Unione Sovietica ed agli Stati Uniti di iniziare la negoziazione di importanti trattati che oggi sono alla base del processo di progressiva riduzione delle armi atomiche.

Nel corso del periodo successivo i molti trattati firmati sono divisibili in due grandi partizioni: quelli aperti a tutte gli Stati e quelli bilaterali, destinati in primis a regolare i rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma comunque rilevanti per l’intero pianeta.

Nuclear Test Ban Treaty

A partire dall’attacco a Hiroshima, ma soprattutto negli anni successivi la “diplomazia atomica […] diventava il passaggio obbligato nelle relazioni bipolari”. La corsa alle armi nucleari ed all’aumento della loro potenza aveva addirittura portato i russi a dichiarare di essere in grado di possedere ordigni da 100 megatoni: “gli arsenali di entrambe le potenze erano così ricchi da assicurare, in caso di guerra, l’estinzione della vita civile nel mondo industrializzato”.

Un esempio concreto della potenza delle testate russe vi fu quando nell’isola di Nova Zemlja l’Unione Sovietica fece esplodere la “Tsar Bomb” (bomba “zar”), la più grossa mai detonata sulla Terra: erano ben cinquantasette megatoni in un ordigno pesante ventisette tonnellate, che esplosero sulla disabitata isola russa alle 11.30 del trenta ottobre 1961. L’ordigno richiese addirittura un allestimento speciale dell’aereo che lo sganciò.

L’esplosione della Tsar Bomb creò un fungo atomico di sessantaquattro chilometri visibile a migliaia di chilometri di distanza. Si era raggiunto il limite, e le due superpotenze si decisero a trovare un modo di ristabilire l’equilibrio fra loro. Il primo trattato in materia nucleare fu il frutto delle riflessioni successive alla crisi di Cuba che Kennedy scambiò con Chruscev tramite una serie di lettere riservate e mediante azioni diplomatiche: alla fine il “Treaty banning nuclear weapon tests in the atmosphere, in outer space and under water” venne firmato a Mosca il 5 agosto del 1963 da Stati Uniti, Russia e Regno Unito.

Anche conosciuto come “Nuclear test ban treaty” o “Partial (o “limited”) test ban treaty”, questo breve accordo internazionale (sono cinque articoli) si poneva due fini: il primo quello di limitare la corsa agli armamenti nucleari, il secondo quello di evitare il rilascio nell’atmosfera di elementi radioattivi derivanti dalle esplosioni nucleari, i quali, come noto, travalicavano le frontiere e pertanto danneggiavano tutta la comunità internazionale.

Pur nella sua essenzialità, il trattato costituiva la prima riflessione e presa di coscienza della pericolosità dei residui delle esplosioni nell’atmosfera o nel mare: pertanto gli esperimenti nucleari venivano limitati al solo sottosuolo, purché non danneggiassero gli altri stati, e venivano vietati indefinitamente negli altri ambiti. Il primo passo era stato compiuto, anche se l’assenza della Cina e della Francia indeboliva il trattato, così come la mancanza di previsione di un organo di sorveglianza e la sostanziale mancanza di misure e previsioni anti-proliferazione.

Nel preambolo, tuttavia, le nazioni partecipanti si impegnavano a proseguire sulla linea del disarmo, evidenziandone l’importanza e citandolo ripetutamente. La fase dell’inevitabile confronto Stati Uniti-Unione Sovietica giungeva ad una svolta. Le aperture
dell’amministrazione Kennedy e, da parte russa, la dottrina della “coesistenza pacifica” annunciata da Chruscev nel 1956 e la necessità di dirottare meno risorse al complesso militare-industriale sovietico per dirigerle verso ambiti più produttivi, furono gli elementi decisivi per permettere la conclusione del trattato.

Pur essendo breve e coinciso, esso rappresentava un deciso passo in avanti nel quadro delle relazioni est-ovest, e creò quel clima politico positivo che fu determinante per la conclusione di ulteriori trattati.

Il trattato sullo “spazio extra-atmosferico”, più noto in inglese come “Outer Space treaty” è, per la dottrina, il primo trattato in materia di diritto cosmico. Sulla scia del precedente trattato sull’Antartico (1959) l’Outer Space treaty venne concepito in modo da evitare una nuova corsa alla colonizzazione spaziale, nonché una militarizzazione dello spazio stesso.

Il trattato divenne necessario a seguito di due eventi che colpirono profondamente gli Stati Uniti, quali il lancio del primo ICBM russo (ventisei agosto 1957) seguito, pochi mesi dopo, dal del lancio del satellite Sputnik (quattro ottobre 1957): questi eventi scossero la fiducia americana e permisero all’Unione Sovietica di cominciare una “rocketrattling nuclear diplomacy”. Era ormai chiaro che la nuova frontiera della rivalità bipolare, oltre alla Terra, era lo spazio. La space rush, la corsa allo spazio condizionò le azioni e le politiche delle sue
superpotenze, e divenne un campo privilegiato per ostentare capacità e superiorità tecnologica.

Il lancio dello Sputnik venne presto seguito dalla creazione (già nel 1958) della commissione “United Nations Committee on the peaceful uses of Outer Space” (COPUOS). Stabilita formalmente nel 1959, con la risoluzione 1472 delle Nazioni Unite, la commissione ha lo scopo di favorire la cooperazione internazionale in materia di uso pacifico dello spazio extra-atmosferico, far si che i programmi in materia siano presi concordemente con le indicazioni delle Nazioni Unite, e, più in generale, incoraggiare la ricerca e lo studio anche in materia di diritto cosmico.

Il COPUOS si articola in due sottocommissioni, quella scientifico-tecnologica e quella legale. Fu proprio quest’ultima che sovrintese alla redazione del trattato, nel frattempo sollecitato anche da alcune risoluzioni dell’Assemblea generale; l’Outer Space treaty venne adottato nel 1967, e “stabilì la fondazione dell’ordinamento giuridico nello spazio extra-atmosferico”.

Il trattato si occupava di regolamentare e disciplinare alcuni aspetti delicati riguardanti lo spazio extra-atmosferico, come la libertà di esplorazione e di ricerca scientifica (art. 1) l’impossibilità di occupazione dello spazio, della luna e degli altri corpi celesti da parte di alcuno, attribuendo pertanto ad essi lo status giuridico di res communis (art. 2), ma soprattutto dettava una esplicita disciplina in fatto di armamenti e militarizzazione.

Ad esempio all’art. 3 agli stati membri veniva richiesto di condurre attività di esplorazione e di sfruttamento dello spazio, della luna e degli altri corpi celesti non solo in osservanza del diritto internazionale. Successivamente, l’art. 4 si riferiva direttamente alle armi nucleari e, per la prima volta, alle armi di distruzione di massa, affermando che gli Stati membri dovevano evitare di mettere in orbita “around the Earth any objects carrying nuclear weapons or any other kinds of weapons of mass destruction, install such weapons on celestial bodies or station such weapons in outer space in any manner”.

La seconda parte dell’articolo 4 stabilisce che la luna e gli altri corpi celesti debbano essere utilizzati dagli stati contraenti solo per finalità pacifiche. Per questo la costruzione di basi, installazioni e fortificazioni, il test di ogni tipo di arma e la conduzione di manovre militari è proibita, così come veniva ribadito il concetto di permettere strumentazione e ricerca per usi pacifici. La svolta era decisiva: il confronto fra le superpotenze (è da considerare che il trattato venne sottoscritto congiuntamente da Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna) veniva regolamentato vietando, per la prima volta, la proliferazione di armi di distruzione di massa nello spazio.

Già rispetto al trattato del 1963, l’Outer Space treaty distingueva chiaramente due pericoli: le armi nucleari e “any other kinds of weapons of mass destruction”, ormai definitivamente divenute una materia da normare onde evitare una diffusione e di conseguenza un potenziale uso, capace di sfuggire dal controllo. I tempi erano ormai maturi per il passaggio ad un accordo sulle armi nucleari vere e proprie.

Non Proliferation Treaty

Il Trattato di non proliferazione nucleare (“Non proliferation treaty”), concluso il primo luglio del 1968, rappresentò e rappresenta tutt’oggi una pietra miliare nel lungo cammino del disarmo. Come ricorda Di Nolfo “il trattato era il risultato di un lungo negoziato promosso dalle Nazioni Unite e che le due principali potenze nucleari avevano fatto proprio solo in quanto esse avevano percepito l’utilità di un accordo di quella natura per risolvere problemi obiettivi e problemi interni ai rispettivi schieramenti”.

Dall’inizio degli anni sessanta l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, su proposta irlandese, aveva approvato una risoluzione “in cui veniva auspicata la conclusione di un accordo in base al quale gli stati nucleari si impegnassero a non rinunciare al controllo delle armi nucleari e gli Stati non nucleari a non acquisire il controllo di tali armi”. Successive proposte della seconda metà degli anni sessanta e alcune ipotesi di accordo portarono a concludere il Non proliferation treaty il primo di luglio del 1968, giorno dal quale fu possibile sottoscrivere il trattato.

Diverse furono le versioni proposte prima della stesura definitiva, la quale, alla fine, trovò ampi consensi nella comunità internazionale, seppure con la rilevante assenza di alcuni importanti Stati. Molte furono le ragioni che spinsero le superpotenze a firmare un trattato di tale importanza, tutt’oggi in vigore ed al quale mancano solamente le adesioni di qualche paese. Nell’ambito di un’analisi del periodo, il trattato di non proliferazione rappresenta comunque uno strumento di equilibrio nel confronto bipolare: erano gli anni della distensione.

Perciò “nella misura in cui la détente ebbe successo, essa trovò le sue basi nel reciproco riconoscimento che ognuno dei due campi aveva molto da guadagnare dall’istituzionalizzazione del controllo degli armamenti e di iniziative per l’aumento della
fiducia reciproca (confidence-building measures)”.

Nel corso degli anni nuovi attori nucleari erano emersi: in primis erano stati effettuati esplosioni nucleari dal Regno Unito (1952), dalla Francia (1957) e dalla Cina nel 1967; successivamente gli stessi stati avevano sperimentato anche la bomba all’idrogeno, rispettivamente nel 1957, 1968 e 1967. Diversi erano i problemi che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avevano da affrontare nei propri ambiti. Innanzi tutto gli americani erano profondamente coinvolti nel conflitto in Vietnam, e avevano assistito da poco (1966) all’uscita di uno stato importante come la Francia dalla Nato.

Oltre a ciò guardavano con diffidenza le avvisaglie dell’Ostpolitik del cancelliere tedesco Brandt. D’altro canto l’Urss, pur non avendo problemi a livello di leadership (Breznev era saldamente al potere dal 1964) doveva affrontare una situazione economica interna delicata, affiancata a qualche “scossa d’assestamento” nei territori dell’impero (tanto che la famosa “dottina Breznev” venne enunciata nel 1968) ed infine assistere alla brusca rottura delle relazioni con il comunismo cinese, con il quale i rapporti ristagnarono già verso la fine degli anni cinquanta per poi terminare nel 1960 con il ritiro dei consulenti sovietici.

Al pari degli Stati Uniti, “l’Unione Sovietica si mostrò quindi sempre più disponibile a stabilizzare il confronto bipolare, secondo le norme delle cosiddetta distensione”. Pertanto nel corso degli anni Sessanta il mondo avvertì “una percezione di crisi complessiva dell’ordine apparentemente stabilizzatosi nel dopoguerra”. Nuove potenze regionali stavano emergendo, e le superpotenze cominciavano ad avere delle crepe nei loro disegni globali e nelle alleanze militari e politiche.

Da qui il desiderio di impedire l’ingresso nel “club nucleare” di nuovi attori, capaci di destabilizzare un equilibrio politico e di potenza che così lentamente stava venendo disegnato: “in un certo senso la détente fra le superpotenze fu un tentativo di interrompere sviluppi che minacciavano di scalzare il dominio di entrambe nonché il sistema della guerra fredda che ne era alla base dalla sua posizione di centralità nella politica mondiale”.

Nel 1961 l’Assemblea generale decise di creare un comitato di diciotto nazioni con lo scopo di preparare un trattato che limitasse la proliferazione delle armi nucleari. I primi anni di lavoro furono alquanto sterili, in quanto mancava un interesse concreto delle due superpotenze: tuttavia il primo esperimento nucleare cinese del 1964 fu idoneo a convincere Mosca dell’importanza di accelerare il processo negoziale.

Tutti questi elementi “fornirono le motivazioni sufficienti perché le due potenze guidassero le Nazioni Unite verso la stipulazione, il primo luglio 1968, del Trattato di non proliferazione nucleare”, dopo un voto largamente favorevole dell’Assemblea generale. Il trattato creava uno status distinto fra gli stati nucleari e quelli non; “gli americani rinunciavano per sempre al riarmo atomico della Germania in cambio della condanna sovietica del riarmo atomico cinese”.

Era insomma un modo per “congelare” la corsa agli armamenti salvaguardando però le posizioni di superiorità di chi già li possedeva. Il trattato fa distinzione fra gli stati nucleari, cioè Cina, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Unione Sovietica (ora Russia) per i quali “il possesso dell’arma nucleare è lecito” e gli altri stati che hanno ratificato il trattato per cui, ai sensi dello stesso, non è consentito creare né produrre o costruire alcun
tipo di arma nucleare (stati non nucleari).

Il trattato consta di undici articoli, preceduti da un ampio preambolo nel quale gli stati contraenti riconoscevano alcuni punti fermi importanti quali:

  • – La distruzione causata dalle armi nucleari e il suo impatto sull’umanità intera;
  • – La proliferazione delle armi nucleari poteva seriamente accrescere il rischio di una guerra nucleare;
  • – Il ruolo dell’IAEA e l’importanza delle applicazioni pacifiche dell’energia nucleare e dello scambio scientifico riguardo al nucleare;
  • – L’intenzione di porre termine il prima possibile alla corsa agli armamenti nucleari e di
    impegnarsi in concreti passi per il disarmo;
  • – La volontà di ridurre le tensioni internazionali e il rafforzamento della fiducia fra gli stati in modo da facilitare la fine della creazione di armi nucleari e la conseguente riduzione delle riserve nucleari e dei mezzi di trasporto delle stesse.

Il trattato seguiva poi con gli articoli. I primi due, che sono reciprocamente complementari, rappresentano chiaramente la volontà politica dei contraenti: il primo articolo è dedicato agli stati nucleari, ed afferma che “each nuclear-weapon State Party to the Treaty undertakes not to transfer to any recipient whatsoever nuclear weapons or other nuclear explosive devices or control over such weapons or explosive devices directly, or indirectly; and not in any way to assist, encourage, or induce any non-nuclear-weapon State to manufacture or otherwise acquire nuclear weapons or other nuclear explosive devices, or control over such weapons or explosive devices”.

Il secondo articolo, che riguarda i paesi non nucleari (definiti “non-nuclear-weapon State”, cioè “Stati non nucleari”), recita che “each non-nuclear-weapon State Party to the Treaty undertakes not to receive the transfer from any transferor whatsoever of nuclear weapons or other nuclear explosive devices or of control over such weapons or explosive devices directly, or indirectly; not to manufacture or otherwise acquire nuclear weapons or other nuclear explosive devices; and not to seek or receive any assistance in the manufacture of nuclear weapons or other nuclear explosive devices”.

Il terzo articolo introduce per la prima volta nelle dinamiche nucleari l’IAEA, stabilendo che ogni stato non nucleare deve accettare di sottoporsi al sistema di controlli dell’IAEA “for the exclusive purpose of verification of the fulfilment of its obligations assumed under this Treaty with a view to preventing diversion of nuclear energy from peaceful uses to nuclear weapons or other nuclear explosive devices”; allo stesso modo ogni stato membro deve astenersi dal fornire materiali fissili (art. 3, comma 2, lett. a) oppure equipaggiamento o materiale preparato per il processo, la produzione o l’uso di materiali fissili speciali (art. 3, comma 2, lett. b) a qualsiasi stato non nucleare per finalità pacifiche qualora tali materie non siano soggette alle garanzie richieste dal medesimo articolo.

Gli articoli quattro e cinque si concentravano sull’uso pacifico dell’energia nucleare, sancendo un importante principio, cioè che “nothing in this Treaty shall be interpreted as affecting the inalienable right of all the Parties to the Treaty to develop research, production and use of nuclear energy for peaceful purposes without discrimination and in conformity with Articles I and II of this Treaty”.

Veniva ribadito così il diritto al pieno e inalienabile godimento dell’energia atomica, al suo studio ed alla ricerca purché nell’ambito di scopi pacifici, confermato dalle previsioni della seconda parte dell’articolo quattro che invitavano gli stati membri a facilitare lo scambio di attrezzature, materiali e mezzi per scopi pacifici, e di collaborare, più in generale, per incrementare gli usi pacifici dell’arma nucleare.

Anche l’articolo cinque rimarcava l’importanza di condividere anche con i paesi non nucleari i potenziali benefici derivanti da qualsiasi impiego pacifico delle esplosioni nucleari. Infine, l’articolo sei poneva nuovamente l’attenzione sulla corsa agli armamenti nucleari, impegnando le parti ad adoperarsi per una cessazione rapida della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo, come pure per un trattato sul disarmo “general and complete” da mettere sotto controllo internazionale.

Il trattato veniva ad articolarsi in due livelli, cioè la limitazione degli stati in possesso di armi atomiche (artt. 1 e 2) e una vaga prospettiva di disarmo (art. 4), affiancata da un terzo livello, cioè il pieno riconoscimento dell’uso pacifico dell’energia nucleare. In questo modo le grandi potenze, e comunque quelle in possesso di armi nucleari prima del primo gennaio 1967, si cautelavano dalla potenziale crescita di rivali nucleari. Come immediatamente visibile (e ben sottolineato anche da certa dottrina) non è un caso vedere nell’elitaria categoria degli stati nucleari i medesimi membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Il NPT entrò in vigore nel 1970: tuttavia mancava – e manca a tutt’oggi – di alcune importanti adesioni. Oltre a questo, nonostante il divieto del trattato, non sono stati pochi gli stati che dopo il 1970 hanno tentato di sviluppare capacità atomica: alcuni di questi vi hanno successivamente rinunciato (come il Sudafrica, la Libia, il Brasile o l’Argentina), altri invece hanno raggiunto una completa capacità nucleare, come il Pakistan (1998), l’India (1974) e la Corea del Nord (2006, ritiratasi dall’NPT nel 2003). Rimane in dubbio la posizione di Israele, che non ha mai ammesso di possedere armi nucleari ma nemmeno lo ha smentito: è opinione diffusa che Israele abbia una effettiva capacità nucleare.

Oggi il NPT è sottoscritto da quasi tutti gli stati del mondo: la mancanza di sottoscrizioni di alcuni importanti membri è però oggetto di imbarazzo e di preoccupazione nella comunità mondiale. Diversi tentativi di dissuadere stati dal dotarsi di armi nucleari sono andati a buon fine, come nel caso del Sudafrica o delle ex-repubbliche sovietiche dell’Ucraina, della Bielorussia e del Kazakistan; il ritiro della Corea del Nord è stato, invece, un pericoloso precedente, sebbene non seguito da nessun altro membro. Allo stesso modo le recenti dichiarazioni iraniane destano sospetti nella comunità internazionale sulla volontà di perseguire una capacità atomica militare sfruttando le tecnologie civili, cosa che sarebbe preoccupante in quanto l’Iran è membro del trattato.

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